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Doc. XXIII n. 50


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PARTE TERZA
Le indagini della magistratura.

L'analisi prenderà ora in esame l'atteggiamento della magistratura inquirente, co-protagonista anch'essa, della vicenda processuale scaturita dalla morte di Giuseppe Impastato. L'esame è apparso doveroso, oltreché inevitabile, poiché proprio all'autorità giudiziaria vanno ricondotti, comunque, i risultati dell'attività della polizia giudiziaria, prima esaminata, atteso il principio di dipendenza funzionale stabilito dall'articolo109 della Costituzione.
Va subito precisato che all'analisi e alla ricostruzione dei fatti si procederà distinguendo le varie fasi processuali e l'opera dei diversi magistrati che si sono succeduti nell'esercizio delle funzioni di pubblico ministero, giudice istruttore prima e giudice per le indagini preliminari poi nel lungo corso delle varie indagini.
Dalla compiuta istruttoria svolta, infatti, si appalesa diverso il quadro della sensibilità, dell'impegno e della professionalità che ha caratterizzato l'attività di ciascuno degli organi giudiziari che si sono occupati della vicenda. Ovviamente le valutazioni che seguono, in ossequio al principio della separazione dei poteri, si attengono al doveroso rispetto dell'autonomia e dell'indipendenza della magistratura.
L'inchiesta parlamentare e la presente relazione conclusiva non hanno ad oggetto, infatti, la responsabilità personale degli imputati, bensì le ragioni e le cause dei ritardi e delle omissioni, del depistaggio - per usare il termine adoperato dal giudice Caponnetto - verificatisi nell'accertamento della realtà processuale oggi acclarata e posta al giudizio di una Corte di Assise della Repubblica Italiana. La realtà processuale finalmente emersa e, ancor più i risultati di quest'inchiesta parlamentare, impongono il dovere di riconoscere anche formalmente l'importanza storica del ruolo avuto da Giuseppe Impastato nella lotta alla mafia.
Egli aveva lucidamente individuato un percorso di contrasto alla mafia fondato sulla pubblica denuncia, coraggiosa e originale, di persone e fatti concreti, denuncia calata nel più generale contesto di un lavoro politico e culturale, ricco, approfondito e impegnato, volto a far nascere e consolidare, soprattutto tra le nuove generazioni, una coscienza antimafia. Ma, soprattutto, Giuseppe Impastato aveva compreso che la forza del gruppo di giovani che in lui si riconoscevano, avrebbe potuto dispiegarsi utilmente in favore della legalità e della giustizia, utilizzando anche la postazione del Consiglio Comunale di


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Cinisi al quale era candidato nelle liste di Democrazia Proletaria (172). Troppe cose aveva capito Giuseppe Impastato e troppo lucida e determinata era la sua battaglia, perché la mafia potesse tollerarne l'azione instancabile e, nella prospettiva del Consiglio comunale, ancor più efficace e documentata. Con le sue battaglie egli poneva in pericolo gli interessi mafiosi della speculazione edilizia e quelli del traffico di eroina che avevano nell'aeroporto di Cinisi uno snodo fondamentale, come dimostreranno le indagini giudiziarie degli anni successivi e le sentenze definitive di condanna, proprio per quei reati denunciati a Radio Aut da Giuseppe Impastato.

Il ruolo della magistratura.

Il primo magistrato ad intervenire sul posto verso l'alba del 9 maggio 1978, avvisato dai Carabinieri della stazioni di Cinisi, è il pretore di Carini, Giancarlo Trizzino. Egli, come si è già visto, effettua il sopralluogo e procede alla ricerca dei resti del cadavere di Impastato ai fini del riconoscimento.
Il lavoro specificamente giudiziario di questa prima fase, si presta ai seguenti rilievi:
1. nell'attività di raccolta delle tracce del reato non avere colto la fondamentale importanza del vicino casolare abbandonato, la cui doverosa ispezione avrebbe potuto, da subito, indirizzare correttamente la ricostruzione degli accadimenti che portarono a morte Giuseppe Impastato.
2. avere consentito l'immediato ripristino della linea ferroviaria, senza adeguati rilievi tecnici e accurata descrizione e documentazione fotografica dei luoghi, attività tutte rientranti nella categoria degli atti urgenti esperibili dal Pretore intervenuto sul posto.
3. mancata ispezione del casolare posto nelle immediate vicinanze della ferrovia e del luogo dove avvenne lo scoppio.

Il pretore Trizzino, nel corso della ricognizione dei luoghi, contrariamente a quanto ha ricordato dinanzi a questa Commissione si avvide - e non poteva essere diversamente - di quel casolare.
La circostanza è stata oggetto di uno specifico approfondimento:

RUSSO SPENA COORDINATORE. Risulta dagli atti che nei pressi, forse a circa 150 metri dal tratto di binario divelto dall'esplosione, vi era una casa rurale diroccata o, comunque, delle mura in piedi. Vorrei sapere se lei ha fatto delle ispezioni all'interno di tale casa.

TRIZZINO. Non l'ho né vista né mi fu segnalata.


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FIGURELLI. Vorrei riprendere la questione sollevata dal senatore Russo Spena in merito al casolare. Nel verbale di ricognizione da lei firmato in quella circostanza c'è scritto che: «Nello spiazzale antistante una casa rurale abbandonata nei pressi della strada ferrata si rinviene una autovettura targata Palermo 142453, Fiat 850» e via dicendo.

La vicinanza della vettura della vittima al casolare, in relazione alla particolari modalità del fatto, avrebbe dovuto suggerire una visita all'interno del manufatto.
E tuttavia va dato atto al dott. Trizzino che, nel fonogramma trasmesso alle ore 9,45 alla Procura della Repubblica di Palermo, si limita ad una notizia che fotografa la situazione senza affacciare alcuna ipotesi (..il ventaglio delle ipotesi era aperto....ha detto nel corso della sua audizione il dott. Trizzino (173)) sulla natura del fatto e sulle causali di esso, ciò che spettava alla Procura della Repubblica di Palermo.

L'intervento dei magistrati della Procura.

Sul luogo dei fatti, in contrada «Feudo», quella stessa mattina, intervenne anche il Sostituto di turno della Procura della repubblica di Palermo, dottor Domenico Signorino (174). Dopo di lui, anche il Procuratore aggiunto dott. G. Martorana, si recò sul posto, perché il fatto, evidentemente, fu ritenuto di particolare rilevanza (175). Il dott. Martorana, peraltro, non solo visita il teatro del fatto, ma si ferma nella Stazione dei Carabinieri di Cinisi, dove presiede una riunione con il sostituto Domenico Signorino, il maggiore Subranni e gli altri ufficiali dei carabinieri sopraggiunti sul posto (176).
Può osservarsi, sulla base di questi dati di fatto, accertati nel corso della inchiesta parlamentare, che dal punto di vista delle risorse umane impiegate, vi erano tutte le condizioni per una corretta e completa ricerca delle tracce del reato e di ogni altro elemento utile alla ricostruzione del fatto e per una compiuta valutazione di tutte risultanze emerse già quella mattina. Sulle caratteristiche dell'attività di ricerca delle tracce del reato si è ampiamente detto. Quanto alla


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valutazione dei materiali raccolti va osservato che a Cinisi, vi fu una riunione cui parteciparono ben due esperti e qualificati pubblici ministeri, vari ufficiali dei carabinieri, anch'essi capaci e competenti, e con loro il comandante della stazione di Cinisi, sicuro conoscitore di Peppino Impastato, della sua storia, degli obiettivi delle sue battaglie, specie delle ultime.
Il risultato di quest'incontro, verosimilmente, è contenuto nel fonogramma che il procuratore Martorana, ex articolo 233 cpp. del 1930, invia quella stessa mattina del 9 maggio 1978, al procuratore generale di Palermo, e nel quale si afferma che le «indagini del caso vengono espletate tenendo presente sia l'ipotesi del suicidio che quella dell'attentato dinamitardo» (177).
Sulla scorta di quanto evidenziato nella disamina della prima attività di indagine, pare difficile giustificare e comprendere come investigatori e magistrati abbiano potuto evitare accuratamente di prendere in esame l'ipotesi mafiosa.
Vero è che non fu evidenziata la circostanza decisiva del rilevamento da parte del maresciallo Travali, all'interno del casolare durante il primissimo sopralluogo, di pietre macchiate di sangue (178). Ma a parte l'osservazione che è inspiegabile ed ingiustificabile la mancata ispezione del casolare da parte del dott. Signorino, pubblico ministero titolare dell'indagine, presente sul posto, occorre sottolineare che si trattava di magistrati conoscitori del territorio e delle dinamiche criminali in esso presenti e ben consapevoli, dunque, della signoria mafiosa ivi esercitata.
L'ingiustificabilità della scelta risulta confermata dal fatto che gli elementi acquisiti non avevano dato e non potevano dare, ai magistrati e ai carabinieri che indagavano, certezze e determinazioni univoche circa la natura del fatto. Il fonogramma al procuratore generale, che apoditticamente esclude l'ipotesi omicidiaria, parla, infatti, di due soluzioni, peraltro tra loro alternative: suicidio o attentato fallito.
Dunque permaneva una incertezza.
E allora, sulla base di quali evidenze furono escluse altre ipotesi? Perché fu evitato lo scrutinio di altre causali, prima fra tutte quella dell'omicidio? Perché ciò avveniva senza che neppure una parola fosse spesa per spiegare le ragioni di quella esclusione?
E se, forse, non vi era, spazio per attivare accertamenti su una causale di omicidio diversa da quella mafiosa, per quest'ultima, invece, erano del tutto evidenti, già in quella fase, gli elementi che rendevano doveroso lo verifica della possibilità che fosse stata la mafia di Cinisi ad ordinare ed eseguire, con quelle modalità, l'assassinio di Peppino Impastato.
Come mai nessuno degli inquirenti si pose la domanda se per caso Impastato avesse avuto nemici; se per caso qualcuno avesse avuto interesse, e perché alla morte di Peppino?


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L'esclusione aprioristica della pista mafiosa, già nella giornata del 9 maggio 1978, appare dunque difficilmente giustificabile. D'altra parte, va sottolineato come l'esclusione di ogni attenzione verso gli ambienti mafiosi, non sia stata decisa a seguito del ritrovamento della lettera con il proposito suicida.
L'esclusione dell'omicidio e, in particolare, della pista mafiosa avviene in realtà prima: quando sono organizzate e programmate le perquisizioni, nelle prime ore di quelle mattina, quando la lettera, ovviamente, non era stata ancora rinvenuta e, ciononostante, la mafia era stata esclusa.
I carabinieri inquirenti - e con loro il magistrato, necessariamente informato del limitato ventaglio di ipotesi seguite - esclusero la pista mafiosa prima ancora che venisse trovata la lettera ed emergesse, così, un'ipotesi di suicidio.
Ai titolari della indagine, peraltro gli amici e i familiari della vittima illustrarono immediatamente le ragioni della infondatezza della tesi del suicidio. Fu detto, tra gli altri motivi, che quel manoscritto di Impastato, era stato vergato diversi mesi prima del fatto e la circostanza poteva essere immediatamente verificata, grazie ai riferimenti temporali ivi contenuti. Le condizioni psicologiche di Peppino, la sua attività, la programmazione di impegni per i giorni successivi, lo stato d'animo positivo e battagliero che caratterizzava il suo impegno in quella primavera del 1978 e i fatti che lo comprovavano, furono adeguatamente rappresentati e documentati anche nel corso della istruzione sommaria condotta dal dott. Domenico Signorino.
Ma tutto ciò non fu sufficiente neppure a far sorgere dubbi nel magistrato.

La tesi dell'attentato terroristico.

La stessa tesi dell'attentato, pure suggerita dallo scenario che si presentò agli occhi dei primi intervenuti, era immediatamente contrastata dalla circostanza che la condotta di Giuseppe Impastato non aveva mai dato adito ad alcun sospetto di terrorismo, come risulta dai fascicoli e dalle schede personali di lui, tenute dai carabinieri che ne seguivano la vita politica sin dalla più giovane età (179).
Impastato non era un terrorista e neppure i suoi compagni lo erano: ciò era noto ai carabinieri di Cinisi ed anche alla DIGOS di Palermo.
E infatti, in data 16 dicembre 1977, in un rapporto informativo della stazione dei carabinieri di Cinisi, a firma proprio del maresciallo Alfonso Travali, diretto a riferire alla compagnia dei carabinieri di Partinico dei risultati delle indagini relative alle «Attività di movimenti e gruppi eversivi» si afferma esplicitamente che Giuseppe Impastato e il suo gruppo composto da Domenico Di Maggio, Andrea Di Maggio, Vito Lo Duca, Giuseppe Fantucchio, Giovanni Riccobono e Giovanni Pietro La Fata, tutti militanti di Lotta continua appena transitati in


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Democrazia proletaria, «non sono ritenuti capaci di compiere attentati terroristici». Nello stesso documento i carabinieri procedono ad una valutazione di quel gruppo sottolineando come i suoi componenti fossero in grado di svolgere «manifestazioni di piazza» e fossero «capaci di trascinare e sobillare le masse». I carabinieri dimostravano, così, di saper distinguere tra l'area del terrorismo e quella della contestazione praticata da gruppi della sinistra extra parlamentare.
In quella area territoriale, mai era emerso alcun segno di attività terroristiche, o di persone o gruppi implicati in vicende di tal genere: né mai vi erano stati attentati dinamitardi di quella matrice.
Al contrario, come vedremo, l'esplosivo, quel particolare tipo di esplosivo era regolarmente utilizzato dai gruppi mafiosi della zona per realizzare attentati intimidatori finalizzati alle estorsioni.
Neppure sul piano delle idee e delle posizioni politiche espresse dai gruppi della sinistra extraparlamentare della zona, era mai stata ventilata una qualche simpatia per le Brigate rosse o per altre formazioni terroristiche o comunque per la pratica della lotta armata.
Particolarmente significativo, a tal proposito, è un passo della audizione dinanzi al comitato di lavoro della Commissione, in data 25 novembre 1999, del dottor Alfonso Vella, all'epoca dirigente della DIGOS di Palermo (180):

FIGURELLI. Ma in quel periodo, in generale, la DIGOS aveva svolto indagini sul terrorismo, su possibili manifestazioni o organizzazioni terroristiche nel territorio di vostra competenza?

VELLA. Seguivamo anche gli eventi nazionali, di conseguenza stavamo tutti all'erta e cercavamo di capire lo svolgersi degli avvenimenti. Però, dato il vasto campo di nostra competenza, non andavamo anche nei piccoli paesi.

RUSSO SPENA COORDINATORE. Quindi voi non sapevate che a Cinisi ci fosse un nucleo terrorista?

FIGURELLI. Non vi risultava?

VELLA. No, non ci risultava.

FIGURELLI. Neanche che c'erano collegamenti, iniziative, indizi, sospetti?

VELLA. No.

Mai era emerso, dunque, che potesse da qualcuno concepirsi un attentato terroristico a Cinisi o nella zona. La conferma documentale su questo punto si rinviene dalle informazioni e dagli atti acquisiti presso i carabinieri e la questura di Palermo, quindi presso il Ministero dell'Interno: la documentazione acquisita conferma l'assoluta mancanza,


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in quella zona e in quel periodo di attività o posizioni simpatizzanti con il terrorismo (181).
E per dire dell'assoluta infondatezza logica della ipotesi dell'attentato - a tacere di numerose altre considerazioni - fu fatto presente subito che esso, avvenendo nella sperduta contrada Feudo, su una tratta ferroviaria di interesse secondario, prossima a Cinisi, (mentre a due passi vi era l'aeroporto di Palermo), non avrebbe certo avuto un grande richiamo presso l'opinione pubblica nazionale, mentre a livello locale esso poteva solo danneggiare il lavoro politico di Peppino, soprattutto in vista delle imminenti elezioni.
E come non rilevare che il dott. Vella, pure intervenuto subito sui luoghi del fatto con i suoi uomini, venne di fatto allontanato senza che, neppure successivamente, vi fosse l'affiancamento della DIGOS ai Carabinieri.
E la questura non s'interessò più del fatto. La documentazione acquisita dalla Commissione presso la questura di Palermo e presso il ministero dell'Interno conferma che la DIGOS non si interessò più del fatto (182).
Si verifica quindi l'anomalia di una indagine che ipotizza un attentato terroristico, magari finito male per l'imperizia di Impastato, ma fa a meno, nell'immediatezza dei fatti e successivamente dell'attività informativa e investigativa di un organo specializzato quale la DIGOS.

L'esplosivo.

Ma vi era un dato obiettivo, emerso e formalizzato lo stesso giorno del fatto, il 9 maggio 1978, e che non poteva sfuggire all'analisi tecnica dei magistrati e dei carabinieri: il tipo di esplosivo utilizzato sembrò mina da cava.
Ora, gli unici fatti nei quali era utilizzato l'esplosivo, secondo le esperienze investigative locali, erano gli attentati dinamitardi finalizzati alle estorsioni, realizzati anche in quel periodo e in quel territorio, proprio dalle organizzazioni mafiose.
Il punto risulta confermato dalle dichiarazioni rese al Comitato di lavoro della Commissione dall'allora Capitano Ernesto Del Bianco comandante della Compagnia di Terrasini (183).

DEL BIANCO. Si sono verificati diversi atti estorsivi nelle zone di TRAPPETO, Balestrate, Partinico, Borgetto. Ovviamente, per ogni esplosione veniva utilizzato - si presume - esplosivo da cava. Da quali cave provenisse non siamo mai riusciti a saperlo. So che esisteva una cava nelle vicinanze di Cinisi.


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RUSSO SPENA COORDINATORE. C'erano cave a Terrasini?

DEL BIANCO. Tra Cinisi e Terrasini c'era una cava.

RUSSO SPENA COORDINATORE. Non ricorda a chi appartenesse?

DEL BIANCO. Non era di un certo D'Anna?

RUSSO SPENA COORDINATORE. Un certo D'Anna è storicamente presente, da allora. Lei ricorda D'Anna, quindi?

DEL BIANCO. Mi sembra di ricordare D'Anna. Poi collego D'Anna a Finazzo e a Badalamenti che sono stati messi in correlazione tra di loro.

RUSSO SPENA COORDINATORE. In base alla sua esperienza di allora, ricorda la materia di questo nesso tra D'Anna e Badalamenti?

DEL BIANCO. Se non sbaglio erano anche parenti e poi, come fattore comune, erano stati già denunciati per i medesimi reati.

Il capitano Del Bianco conferma esplicitamente, nel corso della sua audizione, che in quella località vi erano estorsioni realizzate a mezzo di attentati dinamitardi (...la consueta bomba...). da parte di «alcuni soggetti mafiosi» puntualmente denunciati quali mandanti, mentre altri erano stati anche arrestati.
Queste circostanze rendevano obbligatorio perquisire le case dei mafiosi e, in ogni caso, dei pregiudicati della zona e, come per prassi, di quelle persone ritenute capaci di usare esplosivi, oltreché controllare le cave e i relativi registri: ma tale linea di indagine, che nulla avrebbe tolto alla verifica di altre ipotesi, non fu affatto coltivata.
E questo indirizzo fu assecondato dal magistrato di turno della procura, il quale, subito avvisato della esplosione e delle immediate iniziative di polizia giudiziaria - dal ripristino del binario al tipo di perquisizioni avviate - non dette alcuna indicazione alternativa né nell'immediatezza e neppure dopo.
Furono invece programmate ed eseguite la perquisizione dell'abitazione della vittima, dei suoi familiari (184) e dei suoi amici, tutte eseguite nella prospettiva che potessero trovarsi elementi di conferma dell'ipotesi dell'attentato.
Tutta questa prima fase delle indagini, dalla mancata ispezione del casolare alle immediate iniziative di polizia giudiziaria, avvenne alla presenza della magistratura inquirente di Palermo, rappresentata dal procuratore della Repubblica e da un sostituto di sicura esperienza.
La responsabilità delle scelte investigative, delle prime scelte investigative, oltreché di quelle successive, come subito vedremo, ricade per intero, dunque, anche sulla magistratura.


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Nella sua audizione, dinanzi al Comitato di questa Commissione l'allora procuratore aggiunto Martorana ha cercato spiegare che le indagini furono orientate su due ipotesi: quella dell'attentato terroristico, in considerazione del clima generale determinato dal caso Moro e quella del suicidio a causa del rinvenimento del biglietto manoscritto.
Ma qui non è in discussione l'inclusione di quelle due ipotesi nel contesto del lavoro investigativo. Può essere comprensibile che la scena in contrada Feudo e il successivo ritrovamento della lettera potessero aver fatto prospettare agli inquirenti quelle ipotesi. Le dichiarazioni di Martorana e Trizzino, sul punto possono anche comprendersi.
Quel che alla Commissione resta non comprensibile e non giustificata è l'esclusione della pista omicida, e in particolare della causale mafiosa.
Già alla data del 9 maggio, nell'immediatezza del fatto, sulla scorta dello scenario di Contrada Feudo sussistevano indizi che militavano per l'ipotesi dell'omicidio di mafia, sicché esclusione di essa appare implausibile. La scelta di escludere la pista mafiosa, compiuta nei primi due giorni permane anche dopo l'articolato esposto degli amici di Peppino, presentato in data 11 maggio (185): gli investigatori, infatti, non esplorarono il percorso indicato dai familiari e dagli amici di Impastato. Dal novero delle possibili strade di ricerca della verità viene di fatto esclusa quella mafiosa.
Nessuno degli auditi, neppure tra i magistrati, ha saputo fornire alla Commissione adeguata e convincente giustificazione al riguardo. Le dichiarazioni rese dal dott. Martorana chiariscono perfettamente quanto limitato fosse l'orizzonte delle indagini nella prima fase.
Il quadro delle valutazioni appena espresse risulta confermato dalle significative dichiarazioni del dott. Martorana (186):

FIGURELLI. Nonostante alcune sottovalutazioni, considero molto importante quanto sta emergendo da questa audizione. Pertanto vorrei sapere, di fronte alla portata dell'esposto Carlotta e degli amici di Impastato, quali indagini vennero effettuate e nei confronti di chi. In sostanza, le sto rivolgendo la stessa domanda di poco fa: quali mafiosi furono sottoposti a perquisizioni e a inchieste? Sono convinto, infatti, che un magistrato del suo scrupolo, che tra l'altro all'epoca dei fatti reggeva la procura di Palermo, possa dirci senz'altro quali fossero gli elementi a disposizione della procura sul clan Badalamenti e sul controllo che esso esercitava sul territorio. Sappiamo anche che la famiglia di Impastato aveva delle connessioni mafiose. Dal momento che lei poc'anzi ha affermato che tutte le tesi potevano andar bene, appare evidente che davanti ad un simile quadro della situazione fosse opportuno fare indagini anche in questa direzione. Tra le varie ipotesi, quindi, doveva esserci anche questa, dal momento che in quel territorio Badalamenti e i boss mafiosi non erano certo dei marziani.


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RUSSO SPENA COORDINATORE. Quanto ha affermato ora il senatore Figurelli è di estrema rilevanza. Le chiedo pertanto di rispondere sinteticamente a queste ultime domande. La prima. Nel corso dei colloqui iniziali si parlò di mafia?

MARTORANA. No, questa ipotesi emerse con l'esposto dei compagni o dei familiari di Impastato quattro o cinque giorni dopo, se la memoria non mi tradisce.

RUSSO SPENA COORDINATORE. Lei è molto preciso e per questo la ringraziamo. La seconda domanda è questa: all'epoca vi erano notizie di una presenza mafiosa a Cinisi? Lei ha ricordato che «Radio Aut» diceva che Badalamenti...

MARTORANA. In tutti i paesi del cosiddetto triangolo mafioso c'era presenza mafiosa. Noi siamo stati accusati, ma in realtà abbiamo fatto molte proposte di misure di prevenzione o di confino.

RUSSO SPENA COORDINATORE. Quindi lei alla prima domanda ha risposto che nel corso dei colloqui iniziali non si parlò di mafia. Alla seconda domanda ha risposto però che a Cinisi...

MARTORANA. Ho detto che non si è parlato di mafia il primo, il secondo o il terzo giorno. Quando poi fu presentato l'esposto... Comunque, vi invito a controllare le carte; credo che gli esposti siano stati presentati quattro giorni dopo.

FIGURELLI. No, due giorni dopo.

RUSSO SPENA COORDINATORE. Vi erano indagini in città sulla presenza mafiosa a Cinisi?

MARTORANA. Allora la lotta alla mafia si estrinsecava prevalentemente, come ho già detto, con misure di prevenzione.

RUSSO SPENA COORDINATORE. Ma vi erano indagini in corso?

MARTORANA. Non lo ricordo. Presumo però che se i carabinieri furono sollecitati dal dottor Signorino ad approfondire le indagini, non dovevano certo approfondire l'ipotesi del suicidio o dell'attentato, ma piuttosto dovevano seguire la tesi dell'omicidio. E la tesi dell'omicidio riguardava tutto... Insomma, quando dico al collega che bisogna fare questo accertamento e il collega incarica i carabinieri, tutto il resto...

FIGURELLI. Vorrei far registrare che l'esposto di Carlotta e degli altri è dell'11 maggio, cioè neanche 48 ore dopo il suo fonogramma.

MARTORANA. Credo che la pietra fu portata il secondo giorno. Del Carpio telefonò e ci informò. Evidentemente il collega Scozzari gli aveva dato l'incarico di fare subito gli accertamenti medico-legali su quella macchia di sangue, sempre che fosse stato possibile.


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RUSSO SPENA COORDINATORE. Nell'immediatezza vi furono perquisizioni presso domicili di mafiosi o intercettazioni? Cioè, il procuratore della Repubblica disse di indagare anche sulla mafia?

MARTORANA. Presidente, gliel'ho detto, chiamai i due colleghi quando spuntarono questi esposti in cui si profilò... E credo che in uno di questi si fece anche il nome di Badalamenti, ma non sono del tutto sicuro. Comunque è pacifico che in questi esposti si sosteneva pienamente la tesi dell'omicidio.

RUSSO SPENA COORDINATORE. Dell'omicidio mafioso?

MARTORANA. Sì, dell'omicidio mafioso.

RUSSO SPENA COORDINATORE. Quindi lei dice che ciò avvenne non prima, ma dopo gli esposti.

MARTORANA. Dopo due o tre giorni. Come ho già detto, allora - sarà stato il quarto o il quinto giorno - convocai i due colleghi. Tra l'altro, era difficile che entrambi riuscissero ad essere presenti contemporaneamente, perché magari uno era in udienza e l'altro in assise. Forse ci saremo riuniti nel pomeriggio, non lo ricordo più. In quell'occasione dissi di invitare i carabinieri a svolgere ulteriori ed approfondite indagini, naturalmente sulla mafia e sull'omicidio che si diceva mafioso. Negli esposti questo fu chiaro. Non mi sento di dire che si parlò subito di Badalamenti, ma questa tesi si accennò nei giorni successivi.

RUSSO SPENA COORDINATORE. Ma quando lei chiese questo supplemento di indagini, in che cosa si concretizzò la sua richiesta di approfondimento?

MARTORANA. Presidente, ma come faccio io...

RUSSO SPENA COORDINATORE. Insomma furono fatte queste indagini?

MARTORANA. Indiscutibilmente. E poi guardi che queste indagini saranno state necessariamente fatte di nuovo dai consiglieri Chinnici e Caponnetto

L'argomento «mafia», entra nel fascicolo processuale solo a seguito delle ricerche, delle pressioni, delle dichiarazioni degli amici e dei familiari di Impastato. Ma quelle dichiarazioni - che saranno premiate da riscontri oggettivi acquisiti dal sostituto Scozzari in data 13 maggio 1978- non sono affatto valutate dai carabinieri - e poi dal magistrato Signorino - nella loro oggettiva consistenza ma, piuttosto, considerate mere allegazioni difensive di chi aveva, al pari di Peppino, commesso un delitto. Si preferisce esaltare talune divergenze, peraltro datate, all'interno del gruppo politico di Impastato per argomentare


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una scelta suicida che, con il ritrovamento del biglietto, consentiva di chiudere tempestivamente il caso.
Il rapporto del reparto operativo dei carabinieri di Palermo del 10 maggio 1978, infatti, conclude subito per «...l'attentato dinamitardo ....perpetrato... in maniera da legare il ricordo della sua morte ad un fatto eclatante».

L'istruzione sommaria del Pubblico ministero.

Rispetto a questa ricostruzione, il Pubblico Ministero non procede ad alcuna valutazione critica delle dichiarazioni degli amici e dei familiari di Peppino Impastato e si adagia sulla ipotesi del rapporto di polizia giudiziaria, senza dare alcuna ulteriore direttiva di indagine o procedere autonomamente ad altre iniziative od accertamenti.
L'articolato esposto presentato l'11 maggio 1978, a due giorni dal fatto, a firma di Francesco Carlotta, Giuseppe Barbera e Paola Bonsangue, in rappresentanza di numerose associazioni, partiti e circoli e organi di stampa, non modifica più di tanto gli orientamenti del magistrato inquirente. Egli si limita a trasmetterne immediatamente copia ai carabinieri già incaricati delle indagini, con la più classica delle richieste .....per indagini e rapporto ..... con la sola ulteriore richiesta - peraltro rimasta inevasa - dell'accertamento della provenienza del materiale esplodente.
La personalità della vittima, l'analisi attenta e non pregiudiziale della sua storia, i nemici pericolosi che aveva combattuto, la ricostruzione degli ultimi giorni e delle ultime ore della vita di Impastato, le concrete modalità di svolgimento del fatto, a partire dall'esplosivo, costituivano aspetti della vicenda che avrebbero consigliato ad ogni magistrato una maggiore attenzione per ipotesi come quella mafiosa, che erano state escluse dal reparto operativo dei Carabinieri addirittura prima che, col ritrovamento del biglietto, prendesse corpo la pista del suicidio.

L'articolo su Lotta continua e la denuncia del maggiore Subranni.

Va peraltro segnalata la forte presa di posizione del quotidiano Lotta Continua che l'11 maggio 1978 pubblica un articolo dal titolo «V'ammazzaru u'capo, ora o'essirich'u'arrissittati canticchia», nel quale viene esplicitamente criticato sia l'indirizzo delle indagini sia la pubblicazione sui giornali del biglietto di Peppino, operazione volta ad accreditare la tesi del suicidio (187). Quell'articolo indica le possibili ragioni della uccisione di Peppino e ripropone i nomi di Finazzo e Badalamenti, ma soprattutto adombra l'ipotesi che gli stessi Carabinieri del Reparto Operativo sapessero quale fosse la causa della morte di Peppino, come si comprende dalla frase asseritamente rivolta ai suoi amici da un carabiniere, durante una pausa degli interrogatori in


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Caserma: «vi hanno ammazzato il capo, adesso speriamo che vi calmiate un po'».
I contenuti dell'articolo portano immediatamente il maggiore Subranni, ad una denuncia per vilipendio e calunnia che il Procuratore aggiunto Martorana assegna al dott. Signorino. Nonostante la riunione tra i due magistrati (188) nessun processo seguì a quella denuncia. Essa confluì nel fascicolo relativo alla morte di Impastato, ma non fu espletato, neppure nell'ambito di quest'ultimo procedimento penale, alcun specifico accertamento.
Così il dott. Martorana, dinnanzi al Comitato, ha ricostruito quella fase delle indagini:

RUSSO SPENA COORDINATORE. Il giorno 11 maggio di quell'anno Lotta Continua pubblicò un articolo su Impastato nel quale si parlava esplicitamente dei mafiosi Badalamenti, Finazzo...

MARTORANA. In base a questo non ci furono querele o denunce dei carabinieri.

RUSSO SPENA COORDINATORE. Fu avanzata denuncia per calunnia e vilipendio dall'allora maggiore Subranni. Lei conferì con il dottor Signorino? Quali indicazioni ebbe da Signorino e quali indicazioni dette?

MARTORANA. In che senso?

RUSSO SPENA COORDINATORE. Vi fu un processo a seguito della denuncia dei carabinieri?

MARTORANA. Come ho già detto, invitai i carabinieri ad approfondire le indagini.

RUSSO SPENA COORDINATORE. Che cosa può dire in relazione alla denuncia per calunnia e vilipendio presentata dal maggiore Subranni?

MARTORANA. Non lo ricordo.

RUSSO SPENA COORDINATORE. Non vi fu un processo?

MARTORANA. Ricordo che ci fu questa denuncia dei carabinieri per vilipendio ma non ricordo altro.

RUSSO SPENA COORDINATORE. Non ricorda che cosa le disse il dottor Signorino a questo proposito e se lei dette indicazioni allo stesso dottor Signorino?


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MARTORANA. Come ho già detto, incaricai i colleghi di operare in modo tale da venire a capo della situazione e soprattutto di approfondire la vicenda a seguito degli esposti e delle denunce presentate dai compagni, dai familiari di Impastato e anche da qualche quotidiano. Inoltre, signor Presidente, lei ricorderà - presumo sia agli atti - che alcuni editoriali di stampa nazionale manifestarono subito la tesi dell'attentato dinamitardo e da questo derivarono - credo - querele e denunce avanzate da Lotta Continua e da altre organizzazioni di sinistra contro questi quotidiani, tra i quali ricordo il Corriere della Sera. Ricordo, comunque, che quattro o cinque quotidiani nazionali parlarono dell'attentato in maniera esplicita. La cosa sembrò assurda, come dicevo, a Lotta Continua o a Democrazia Proletaria e venne presentata una querela contro questi giornali. Non ricordo, però, quale esito abbia avuto tale querela.

FIGURELLI. Dottor Martorana, non ho capito un passaggio. Lei ha detto che i carabinieri si risentirono. Vorrei sapere con chi e come.

MARTORANA. Fu presentata una denuncia dai carabinieri, dal maggiore Subranni, per vilipendio e calunnia in relazione ad articoli di stampa che erano stati pubblicati o a vari proclami - chiamiamoli così - che erano stati fatti, per i quali i carabinieri si risentirono. Ricordo che fu presentata questa denuncia o questo esposto-denuncia (non so come fu formulata tecnicamente).

FIGURELLI. E si procedette per calunnia?

MARTORANA. Non lo ricordo, senatore.

FIGURELLI. Ho qui un documento sul quale sono state apposte delle sigle che forse sarebbe utile che il dottor Martorana identificasse.

(Il dottor Martorana legge il documento consegnato dal senatore Figurelli).

MARTORANA. Fa riferimento al primo rapporto che presentarono i carabinieri, in cui si evidenziava la tesi del suicidio, sulla quale poi tra l'altro insistettero sempre.

FIGURELLI. Vorrei rimanesse agli atti che è stata mostrata al dottor Martorana la nota del maggiore Subranni (fascicolo numero 2596/4, Palermo 11 maggio 1978, diretta alla procura della Repubblica di Palermo, sostituto procuratore dottor Signorino). Vorrei quindi sapere dal dottor Martorana se ricorda se si procedette per calunnia - come il maggiore Subranni chiedeva rispetto a quelle che egli riteneva insinuazioni o affermazioni calunniose - e se è in grado di identificare le sigle apposte a penna sul foglio che le abbiamo mostrato, sul quale è annotata anche la parola: «Conferire».

MARTORANA. Secondo la prassi, quando vi era qualche fatto rilevante, il procuratore - in quel caso ero io - assegnava l'indagine al collega dopo


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avere apposto il visto. Questa lettera era diretta al dottor Signorino; forse la segreteria me l'ha sottoposta prima di consegnarla al dottor Signorino, oppure il dottor Signorino stesso è venuto da me per mostrarmi la nota. In questi casi, egli mi accennava il problema e allora stabilivo se era il caso di assegnare l'indagine a lui o al collega. Poi sul documento scrivevo: «Visto, si assegna al collega Signorino, che ha i precedenti» (in questo caso quelli relativi alla vicenda Impastato). La nota in questione ci pervenne il 12 maggio 1978 (come dimostra, in alto a sinistra, il bollo della procura della Repubblica di Palermo) e lo stesso giorno, presone atto attraverso la segreteria (che provvede ad informare subito il procuratore) o il collega stesso, dopo aver discusso un po' con lui, gli assegnai l'indagine. Inoltre, se si riteneva che si trattasse di una questione di una certa rilevanza, si aggiungeva anche la parola: «Conferire». Qualche volta poteva capitare che si ritenesse opportuno assegnare il caso ad altri colleghi. In quell'occasione, invece, siccome il dottor Signorino aveva iniziato le indagini e quindi aveva seguito tutta la vicenda Impastato, assegnai il caso immediatamente a lui, dopo aver concordato non so più che cosa. Evidentemente gliel'ho detto io di fare degli accertamenti.

RUSSO SPENA COORDINATORE. Volevamo appunto sapere come mai non fu aperto un fascicolo.

MARTORANA. Doveva farlo Signorino. Io mi limitavo ad annotare «si assegna» e «conferire». Questo significava che poi il dottor Signorino doveva riferirmi quali erano le sue idee e cosa intendeva fare.

FIGURELLI. Ricorda cosa disse il dottor Signorino?

PRESIDENTE. Questo è un punto importante.

MARTORANA. Non lo ricordo. Vi prego di credermi sul mio onore, era una situazione difficile, eravamo pochi magistrati e le pratiche che arrivavano...

FIGURELLI. Sì, però questa era una cosa...

MARTORANA. Sì, ma questo, rispetto alla vicenda grossa, era un aspetto...

FIGURELLI. Non era un aspetto secondario, era connesso al grosso della vicenda, perché se era una calunnia...

MARTORANA. Io mi attivai immediatamente. La lettera arrivò il giorno 12, chiamai subito il dottor Signorino e discussi con lui, dicendogli di informarmi su quello che faceva, perché seguivo tutto, guardavo tutto e vedevo tutto. Purtroppo molto spesso non potevo arrivare a controllare tutto, lo dico sinceramente, anche se ero impegnato la mattina, il pomeriggio, la sera e a volte anche la notte.


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Per la magistratura inquirente, la denuncia del maggiore Subranni avrebbe potuto rappresentare un'ulteriore, diversa occasione per avviare accertamenti in una chiave diversa da quella scelta in via esclusiva dai carabinieri di Palermo.
Tutto invece si risolve con una cosiddetta archiviazione di fatto all'interno del fascicolo processuale relativo alla morte di Giuseppe Impastato. Non vi fu alcuna attività istruttoria, e la stessa decisione di non trattare la denuncia non ebbe neppure il vaglio di un giudice nell'ambito di un autonomo procedimento penale.

Il Centro Impastato. Il ruolo degli amici e dei familiari.

Ma se la Procura della Repubblica di Palermo resta inerte nonostante le dichiarazioni, gli esposti, gli interrogativi che doveva suscitare un esame sereno di quello strano caso, ben diverso fu l'atteggiamento degli amici e dei familiari di Impastato, che continuarono nella opera di denuncia e nell'attività di ricerca di tracce obiettive del delitto di mafia.
A fronte delle resistenze dei carabinieri della Stazione di Cinisi, la scelta da parte degli amici di Impastato, di rivolgersi al prof. Ideale Del Carpio, cattedratico di grande autorevolezza morale e professionale, quale tramite con le istituzioni, si rivelò efficace. Il professore infatti avverte l'Ufficio di Procura nella persona del dott. Francesco Scozzari di quanto quei giovani avevano rinvenuto sul luogo del fatto sicché, in data 13 maggio 1978 si procedette a nuovo sopralluogo da parte dello stesso Scozzari, assistito dal magg. Subranni, dal cap. E. Basile e dal mar.Travali, alla presenza dei periti proff. Caruso e Procaccianti, oltreché dello stesso Del Carpio, consulente di parte, e di Pietro La Fata e Vito Lo Duca, cioè dei giovani che avevano trovato i reperti utili alle indagini.
L'atto giudiziario si rivelò di straordinaria importanza perché all'interno del casolare furono trovate macchie di sangue sia su pietre infisse nel pavimento, sia in prossimità della spigolo di un sedile in pietra, il tutto adeguatamente fotografato (189). I risultati della iniziativa degli amici di Peppino costituivano, com'è a tutti evidente, un dato obiettivo che contrastava e poteva azzerare la costruzione investigativa fondata sul binomio attentato-suicidio. Il dato fu però svilito, nell'analisi dei Carabinieri, con la considerazione che poiché la casa era abbandonata, poteva trattarsi di sangue di origine diversa (mestruale o di animali o altro). Ma quel che mette conto qui di osservare è che l'atteggiamento della magistratura inquirente non mutò, neanche a seguito di questa decisiva emergenza investigativa, peraltro direttamente verificata.
L'eccezionalità dei risultati del sopralluogo venne completamente ignorata dal magistrato inquirente. Egli si limitò a mettere a disposizione dei periti il materiale ematico e a chiedere loro la ricostruzione della dinamica della morte e la posizione di Impastato all'atto della


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esplosione oltre agli accertamenti di rito sull'esplosivo adoperato, senza attivare la polizia giudiziaria sulle ipotesi, indicate da quei giovani e dal prof. Del Carpio e, soprattutto, avvalorate dal ritrovamento delle importantissime tracce del delitto nel casolare.
Il rapporto del Reparto Operativo dei Carabinieri in data 30 maggio 1978, presentato a seguito della delega di indagine conferita dal dott. Signorino relativamente all'esposto presentato dagli amici Impastato, sembra invece voler costituire una vera e propria colata di cemento su ogni diversa lettura del fatto.
A seguito della delega non vi furono indagini positivamente indirizzate sugli ambienti e sui fatti indicati nell'esposto: il maggiore Subranni, infatti, si limita ad ascoltare i firmatari dell'esposto e il professor Del Carpio.
Invece di indagare le persone e i fatti segnalati dall'esposto, cioè la mafia di Cinisi e quindi Badalamenti e il suo gruppo, sono le dichiarazioni dei firmatari dell'esposto e lo stesso prof. Del Carpio ad essere oggetto di attenta verifica.
Sul punto va osservato che i Carabinieri del reparto operativo, senza delega specifica procedettero ad un atto, l'esame del consulente di parte della famiglia Impastato già formalmente costituito in tale qualità negli atti giudiziari compiuti dal sostituto Scozzari e già ascoltato nel corso del procedimento dal Pubblico Ministero titolare della istruttoria sommaria, che lo stesso dott. Martorana, nel corso della sua audizione ha definito «uno straripamento» (190).
L'esame del prof. del Carpio, censurabile anche sul piano formale, condotto con veemente pressione inquisitoria, degna di miglior causa, si concentrava sul fatto che egli avesse formulato le sue valutazioni tecniche sulla scorta di quanto descrittogli (in modo assolutamente fedele dai giovani studenti) piuttosto che a seguito di esame diretto dei luoghi. La circostanza, evidentemente non minava la fondatezza delle osservazioni e delle valutazioni dell'illustre cattedratico ma la ingiustificata insistenza su di essa determinava una condizione psicologica difensiva, assolutamente ingiustificabile per un uomo di grande spessore morale e professionale, lealmente e intervenuto a dare un disinteressato contributo di scienza alle indagini.
L'impegno fu rivolto alla sua persona e alla sua condotta, piuttosto che alle cose che diceva, ai fatti di cui dava prova, alla ipotesi dell'omicidio di mafia che doveva cogliersi dalle sue dichiarazioni.
Neppure le dichiarazioni dei compagni e dei familiari di Peppino, sentiti dal dott. Signorino dettero al magistrato inquirente l'impulso indagini nella direzione della mafia di Cinisi posto che si trattò di atti compiuti senza alcuno spunto significativo di un interesse per ipotesi diverse da quelle legate al binomio suicidio-attentato, senza alcuna conseguente iniziativa investigativa,quasi con nell'adempimento burocratico del dovere di dare veste giudiziaria agli compiuti dai Carabinieri.


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L'istruttoria sommaria condotta dal sostituto procuratore dunque non vuole allontanarsi dal tracciato dei carabinieri, nonostante i dati obiettivi delle indagini richiedessero iniziative verso le persone e gli ambienti che erano stati oggetto di denuncia da parte di Peppino Impastato.
Potevano e dovevano adottarsi provvedimenti di prassi quali quelli di perquisizione o, all'esito di queste e ricorrendo i presupposti, richiedersi intercettazione delle conversazioni telefoniche, oppure procedere agli accertamenti sui titolari delle cave che avevano la disponibilità di quell'esplosivo (che erano poi le stesse persone che gravitavano nell'ambiente di mafia protagonista delle speculazioni edilizie contrastate pubblicamente e con forza da Peppino Impastato).
Niente di tutto questo accade nell'istruzione sommaria del dott. Domenico Signorino.
Il tempo scorre in attesa delle relazioni dei periti senza che il Pubblico Ministero adotti alcuna iniziativa, fermo com'era, evidentemente, alla ipotesi dell'attentato-suicidio.
Passano così sei mesi, un tempo prezioso per acquisire decisivi elementi di prova di un delitto di omicidio.
Quando interviene, il risultato degli accertamenti peritali (191) confermerà che le macchie trovate sul sedile di pietra all'interno del casolare erano di sangue umano, dello stesso gruppo del sangue di Giuseppe Impastato, così come sarà confermato che l'esplosivo era costituito da mina da cava. Questi risultati, stando alle carte processuali, impongono al sostituto procuratore Domenico Signorino a modificare l'impostazione del processo e ad ipotizzare, finalmente, a carico di ignoti, il delitto di omicidio premeditato.
Ma i risultati delle perizie non erano novità assolute per l'indagine. Nel frattempo erano comunque trascorsi mesi e mesi dal fatto.
Le relazioni peritali, infatti, hanno solo convalidato gli elementi emersi nella immediatezza dei fatti. Quegli elementi erano già stati fortemente - e anche formalmente - evidenziati agli investigatori e ai magistrati: le tracce di sangue all'interno del casolare, l'uso della mina da cava, l'esistenza di validi e noti motivi a sostegno della causale mafiosa erano dati disponibili per il magistrato già la mattina del 9 maggio 1978.
Nel novembre del 1978,senza che nel corso della sommaria istruzione fosse stato compiuto alcun atto mirato alla verifica della pista dell'omicidio, il Sostituto Signorino «formalizza» l'accusa di omicidio premeditato a carico di ignoti e affida il processo al giudice istruttore Rocco Chinnici.
Solo con l'arrivo nel processo di questo Giudice si cominciò a lavorare seriamente su quella che fin dal primo momento poteva e doveva essere utilmente verificata: la pista dell'omicidio di mafia.
L'esame delle attività sviluppate da questo giudice, il ventaglio degli accertamenti disposti per sviluppare gli originari elementi di prova contro la mafia di Cinisi, costituisce la conferma più autorevole e genuina della fondatezza delle osservazioni formulate da questa Commissione


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alla conduzione degli accertamenti seguiti alla morte di Giuseppe Impastato.
Si è cercato, in questa sede, di proporre una ricostruzione ancorata ai fatti di allora, una valutazione operata dalla medesima angolazione processuale di chi aveva il potere e il dovere di guardare e vedere gli indizi obiettivamente emersi nella direzione mafiosa, per svilupparli tempestivamente nei modi e con tutti gli strumenti propri della investigazione penale.
Con la formalizzazione della inchiesta da parte del Pubblico Ministero Signorino, viene dunque segnata in modo definitivo la strada dell'ipotesi mafiosa. Questo rendeva naturalmente proficuo il rapporto tra l'autorità giudiziaria, nella specie il giudice Rocco Chinnici, e coloro i quali sempre avevano affermato che la chiave del delitto fosse, appunto, quella mafiosa.
I familiari e gli amici di Giuseppe Impastato intervengono con tempestività ed efficacia sulla scena processuale presentando nel novembre 1978 il «Promemoria all'attenzione del giudice Chinnici» e il Documento della redazione di Radio Aut e del Comitato di controinformazione costituitosi presso il centro siciliano di documentazione (192), mentre la madre Bartolotta Fara e il fratello Giovanni si costituiscono parte civile.
Il «promemoria» offre una serie di suggerimenti investigativi che furono in gran parte espletati dal giudice istruttore, mentre altri, pure molto importanti, risultavano purtroppo superati o impossibili da eseguirsi per il lungo tempo trascorso (così per esempio il controllo delle cave di D'Anna o gli accertamenti sulle «strane effrazioni» nelle case dei familiari e degli amici di Peppino).
Ma, soprattutto, venuta meno la diffidenza verso gli amici e i familiari di Impastato (193), vengono offerte al giudice istruttore informazioni su circostanze inedite, prima fra tutte quella concernente l'avviso dato da Amenta Giuseppe al cugino Giovanni Riccobono, compagno di militanza di Peppino, a non recarsi a Cinisi, quella sera, perché sarebbe accaduto qualcosa di grave.
Le dichiarazioni rese a questa Commissione da Giovanni Riccobono, nel corso della missione del Comitato a Palermo del 31 marzo 2000 meritano di essere riportate perché espressione di coraggio civile e di capacità di rottura di un clima omertoso fondato anche sul ricatto degli affetti familiari. Quando il processo approda dinanzi al giudice Chinnici, il giovane Riccobono rompe gli schemi, denuncia un fatto di particolare importanza ai fini delle indagini e lo conferma, poi, anche in sede di confronto con il cugino Amenta, dinanzi al giudice istruttore.


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Nel corso della sua audizione del 31 marzo 2000, così Riccobono ha precisato i fatti:
Innanzi tutto vorrei spiegare il motivo per cui non presentai subito la mia denuncia alla magistratura. All'indomani della morte di Peppino, gli inquirenti portarono me e altri amici di Giuseppe in caserma dove fummo tutti tartassati e trattati da terroristi. [...] All'epoca lavoravo a Palermo da un mio cugino. Il giorno 8, nel pomeriggio, mi prese in disparte e mi disse che quella sera non sarei dovuto andare a Cinisi perché sarebbe accaduto qualcosa di grave. Premetto che quel giorno dovevo necessariamente tornare in paese per riconsegnare la macchina che mi aveva prestato un parente. In seguito a questo «avvertimento» - non so bene se definirlo avvertimento o consiglio - mi preoccupai subito per Peppino che, a mio avviso, era la persona più esposta, proprio per il tipo d'attività politica che svolgeva. Quindi tornai in paese e mi recai direttamente, senza passare per casa, a «Radio Aut» dove arrivai verso le 19,45. Peppino stava andando via perché a casa lo aspettavano dei parenti americani. Poiché alle 21 era in programma un incontro per discutere delle elezioni del giorno 14, ci sedemmo aspettando le 21 e fu durante quell'attesa che parlai dell'avvertimento con due o tre compagni. [...] Durante il confronto con mio cugino alla presenza del dottor Chinnici, all'inizio egli giustificò il consiglio che mi aveva dato con il fatto che mio fratello era candidato nella lista della Democrazia Cristiana e, quindi, bisognava evitare di intralciare la sua campagna elettorale. Tuttavia, quella sera non dovevamo fare alcun comizio e, quindi, non potevamo creare alcun problema. [...] Domenico Di Maggio mi riferì di aver visto mio cugino in piazza, a Cinisi, appartato mentre parlava con Finazzo, che è ben conosciuto. Questo è avvenuto una settimana prima. [...] È chiaro che sono giunto a questa conclusione dopo l'interrogatorio. Ho usato il termine «tartassati» perché una stessa domanda ci fu rivolta frequentemente ed è la seguente: «Perché stavate facendo l'attentato?». Noi dovevamo affermare per forza che avevamo fatto l'attentato, o che lo stavamo facendo e che era andata male avendo Peppino perso la vita. Questo è il senso. La domanda venne rivolta parecchie volte. Ricordo che uno dei carabinieri, ma non so con precisione chi fosse, sbatté forte la mano sul tavolo quando dissi loro che sapevano benissimo chi aveva ucciso Peppino. Mi chiedevano di fare il nome e il cognome del mafioso. Non potevo pronunciare tale nome, perché non sapevo chi avesse ammazzato Peppino. Non sapevo se Badalamenti, Finazzo o altra persona lo aveva fatto saltare per aria. Questo è il senso della frase. Per forza dovevamo dire che avevamo fatto l'attentato o dovevamo fare un nome (194).

Da Chinnici a Caponnetto.

Rocco Chinnici pose al centro del suo lavoro istruttorio gli interessi mafiosi denunciati da Giuseppe Impastato e indagò con rigore e serietà


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professionale in quella direzione. Partendo dall'esame approfondito dei numerosi testimoni dell'ultimo periodo e delle ultime ore di vita di Impastato (195), Chinnici acquisì e approfondì i risultati della inchiesta della Direzione Compartimentale delle Ferrovie dello Stato, dispose il sequestro delle pratiche edilizie relativa al famoso palazzo nel centro di Cinisi e al camping Z 10, con conseguenti perizie tecniche ed invio di comunicazione giudiziaria per interesse privato in atti di ufficio al sindaco, al vice sindaco e alla commissione edilizia di Cinisi.
Si registrarono, in quella istruttoria, gli arresti per falsa testimonianza dei fratelli Amenta e la comunicazione giudiziaria per l'omicidio di Giuseppe Impastato, inviata a quel Finazzo Giuseppe, poi ucciso nella guerra di mafia, proprietario del palazzo abusivo denunciato da Peppino. Queste coordinate di indagine, sviluppate con rigore professionale dal dottor Chinnici, delineano il quadro entro cui poteva emergere la prova della personale responsabilità penale di mandanti ed esecutori dell'omicidio di Impastato.
Rocco Chinnici muore il 29 luglio 1983 per mano della mafia e il fascicolo processuale passa quindi al Consigliere istruttore Antonino Caponnetto.
Senza ulteriori significativi atti istruttori il pubblico ministero dott. Domenico Signorino rassegna le proprie conclusioni in data 7 febbraio e 2 marzo 1984, richiedendo il non doversi procedere per falsa testimonianza nei confronti dei fratelli Amenta, per intervenuta amnistia e, quanto all'omicidio premeditato in danno di Giuseppe Impastato, per essere rimasti ignoti gli autori del reato.
L'atto conclusivo della prima fase di questa tormentata storia processuale, si ha con la sentenza istruttoria del dott. Antonino Caponnetto in data 19 maggio 1984. Essa stigmatizza la valutazione compiuta dal Pubblico Ministero dott. Domenico Signorino nella sua requisitoria finale, laddove afferma che le originarie indagini furono «dubbiose» in ordine alla qualificazione della morte di Impastato. Il giudice istruttore, infatti, è categorico nell'affermare che quelle indagini «furono decisamente e convintamente orientate verso l'ipotesi suicida». La responsabilità del depistaggio delle indagini viene tuttavia ricondotta dal dott. Caponnetto esclusivamente al ritrovamento del manoscritto e al «.... senso di sfiducia che indusse amici, compagni e parenti del giovane ......a rivelare in un momento successivo e soltanto al giudice istruttore circostanze di indubbia rilevanza al fine di accertare modalità e causa del tragico episodio».
La sentenza descrive in modo rigoroso e approfondito le ragioni fondanti della ipotesi omicidiaria e dimostra l'insussistenza delle altre e, in specie, la inconsistenza reale degli indizi militanti per la soluzione terroristico - suicidiaria. In particolare, essa ha il merito fondamentale di avere motivatamente ricondotto all'alveo mafioso l'origine del delitto di Giuseppe Impastato e di avere, quindi individuato la causale del delitto nella sua battaglia contro la mafia e i mafiosi di Cinisi.


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La sentenza ebbe le critiche da parte degli amici e dei familiari di Impastato, soprattutto perché sembrava rendere più difficile la possibilità di pervenire all'accertamento delle responsabilità personali degli autori e dei mandanti, nel momento meno opportuno.
Proprio in quel periodo, infatti, Gaetano Badalamenti, principale sospettato mandante dell'omicidio veniva arrestato in Spagna, perché colpito da mandato di cattura per traffico internazionale di stupefacenti in relazione alla cosiddetta operazione Pizza connection (196).

Nuove indagini nuova archiviazione.

Anche la successiva parentesi della tormentata storia processuale, cioè la riapertura delle indagini disposta dalla Procura di Palermo è avviata, su sollecitazione degli amici e dei familiari di Impastato. Nel giugno del 1986, infatti, Umberto Santino, Salvo Vitale, Nuccio Gaspare e Giovanni Impastato, chiedono formalmente la riapertura del procedimento con una motivata richiesta che, muovendo dai risultati della sentenza Caponnetto, secondo cui la morte di Peppino era stata decisa da quegli stessi gruppi e personaggi mafiosi contro cui aveva concentrato il suo impegno di lotta, introduce un elemento nuovo di conoscenza che si rivelerà significativo per la comprensione delle dinamiche decisionali tra le cosche mafiose.
Con quella richiesta, infatti, vengono evidenziati, accanto ai motivi delle battaglie di Peppino, come ad esempio il famoso volantino in cui attacca Badalamenti definendolo esperto di lupara e di eroina, nuovi fatti specifici, tra i quali la visita a casa Impastato del mafioso Vito Palazzolo che convoca Luigi Impastato, padre di Peppino, presso Gaetano Badalamenti, e, quindi, l'improvviso viaggio di Luigi in America, per località e ragioni taciute ai familiari, alla ricerca di protezione per il figlio presso le cosche mafiose siciliane in America (... prima che uccidono lui devono uccidere me ...disse alla cugina Vincenza Bartolotta, a Los Angeles) e, infine, al ritorno dall'America, l'incontro di Luigi Impastato nella casa del fratello di Gaetano Badalamenti.
Gli elementi illustrati dai familiari dettero luogo ad un'indagine, condotta dal Pubblico Ministero Ignazio De Francisci e dal giudice istruttore Giovanni Falcone, che tuttavia non poté pervenire a concreti risultati perché, scontata la posizione negatoria, di Gaetano Badalamenti, non ebbe dai parenti americani di Luigi Impastato alcun significativo contributo. E peraltro, il Pubblico Ministero, nella richiesta di archiviazione del 27 febbraio 1992, affaccia il sospetto che ad uccidere Impastato fosse stata la frangia mafiosa dei «corleonesi», ricordando che Lipari Giuseppe, comproprietario di quel villaggio turistico Z10 contro la cui realizzazione si era strenuamente battuto Peppino, era ritenuto vicinissimo a Riina Salvatore.
Quest'ipotesi era basata sulle dichiarazioni di Buscetta, secondo il quale Badalamenti era stato «posato», cioè estromesso, dalla «commissione»


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tra la fine del 1977 l'inizio del 1978, sicché la sua posizione di predominio sulla zona di Cinisi era «quanto mai precaria» per il netto contrasto con il gruppo cosiddetta dei «Corleonesi», che di lì a poco avrebbe dato luogo alla guerra di mafia che ha insanguinato Palermo per tutti i primi anni ottanta.
Nel corso di questa indagine viene esclusa la cosiddetta «pista nera», indicata da Angelo Izzo, noto personaggio della destra extra parlamentare. Questi, nel processo per l'omicidio del presidente della Regione Siciliana, Piersanti Mattarella, aveva riferito, de relato, di un coinvolgimento quali esecutori materiali del delitto Impastato di elementi della destra extra parlamentare. Ma da un lato le indagini non avevano consentito di acquisire riscontri e, dall'altro, lo stesso Concutelli non confermava di aver fornito ad Izzo quelle informazioni. La richiesta del Pubblico Ministero viene integralmente accolta dal Giudice per le indagini preliminari, che archivia nuovamente il caso (197).
Anche l'epilogo negativo delle ulteriori indagini viene apertamente criticato dai compagni e dai familiari di Giuseppe, anche sul rilievo che, al di là delle dichiarazioni di Buscetta, la presenza e l'attività in Cinisi di Gaetano Badalamenti «esperto in lupara e traffico di eroina» era stata rilevata e denunciata da Peppino Impastato, proprio nel periodo dell'omicidio (198).
Dinanzi al Comitato di questa Commissione, per la prima volta, Giovanni Impastato, sua moglie Vitale Felicia e la madre di Peppino, Bartolotta Felicia, hanno potuto compiutamente riferire alcuni essenziali passaggi, di grande rilievo probatorio, non ancora adeguatamente evidenziati nella sede processuale propria:

FIGURELLI. Lei non sapeva niente di quello che era successo quando arrivarono i carabinieri per perquisirle la casa?

BARTOLOTTA. Non mi dissero niente, ma lo immaginavo.

Chiesi loro che cosa fosse successo e mi risposero che si trattava solo di fatti di ragazzi. Io avevo immaginato, perché vi erano state delle minacce forti.

RUSSO SPENA COORDINATORE. Vorrei sapere chi fece le minacce forti.

BARTOLOTTA. Badalamenti, il quale chiamò mio marito e gli disse che gli avrebbe ammazzato suo figlio.

MICCICHÈ. A lei risulta questo perché glielo raccontò suo marito?

BARTOLOTTA. Sì. Mio marito gli disse che non gli dovevano toccare il figlio.


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IMPASTATO. Dobbiamo parlare chiaro. Mio padre era un mafioso ed era un amico di Badalamenti, il quale molte volte veniva a casa nostra a chiamarlo. Sicuramente avranno avuto un dialogo in questo senso perché, nell'ultimo periodo, tramite «Radio Aut» o attraverso i volantini, Peppino aveva alzato il tiro nei confronti della mafia di Cinisi e, in particolare, contro Badalamenti. Sicuramente Badalamenti chiamò più volte mio padre per dirgli di far smettere Peppino, altrimenti sarebbe finito male.

RUSSO SPENA COORDINATORE. Chi lo veniva a chiamare?

IMPASTATO. Palazzolo.

VITALE. Dopo uno degli ultimi volantini fatti da Peppino durante la campagna elettorale, assistemmo al solito rito. Eravamo a cena e in quell'occasione era presente anche Peppino. Ho detto che c'era anche Peppino perché egli aveva dei periodi di alti e bassi con suo padre e spesso non stava a casa. Suonarono alla porta e andai io ad aprire: si trattava di Vito Palazzolo, detto «varvazzetta», imputato nel processo e indicato come il mandante del delitto. Mi chiese di far uscire mio suocero da casa. Chiamai mio suocero, il quale uscì da casa e parlò con lui per un po' di tempo. Quando rientrò, si scatenò l'ira di Dio. Mio suocero se la prese con Peppino, dicendogli che doveva smettere la sua attività, che voleva rovinare entrambi e che non ce la faceva più.

MICCICHÈ. Emergeva chiaramente che Palazzolo avesse fatto qualche minaccia precisa a Luigi del tipo: «Se tuo figlio non la smette noi ammazziamo lui o te»?

VITALE. È una delle ultime minacce fatte a mio suocero. Questo fatto è avvenuto subito dopo il volantino, eravamo in campagna elettorale.

MICCICHÈ. Si parlò espressamente di pericolo di vita per qualcuno? Quando lei afferma che è successo il finimondo, al di là dell'arrabbiatura del suocero, del momento particolare della minaccia ricevuta, suo suocero disse qualcosa di preciso che potrebbe essere utile a questa Commissione nel senso: «Mi hanno detto che se non la finisci ti ammazzano»?

BARTOLOTTA. A casa non parlava mai di queste cose.

VITALE. È chiaro che il problema era quello.

IMPASTATO. Il viaggio compiuto da mio padre era importante anche a seguito di questi fatti che sono successi.

RUSSO SPENA COORDINATORE. Oltre a Palazzolo c'erano altri che minacciavano?


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IMPASTATO. Erano state fatte anche dallo zio Giuseppe Impastato detto «sputafuoco».

RUSSO SPENA COORDINATORE. Quello del volantino è un punto da approfondire.

FIGURELLI. Questo «sputafuoco» è stato interrogato dai carabinieri?

IMPASTATO. Per quanto riguarda queste vicende non è stato interrogato dai carabinieri, ma può darsi che mi sbagli.

RUSSO SPENA COORDINATORE. Siccome c'è un problema che riguarda un palazzo appartenente a Finazzo, di cui è stata bloccata la costruzione in seguito alle denunce di Radio Aut, c'era un punto specifico su cui avveniva l'avvertimento? C'era un punto nel volantino che aveva particolarmente colpito la mafia locale nei suoi interessi?

IMPASTATO. Per quanto riguarda il famoso progetto Zeta 10, un progetto turistico a Cinisi, Peppino lo aveva denunciato politicamente ed era stata bloccata una sovvenzione della Cassa per il Mezzogiorno. Questo progetto Zeta 10 è di Giuseppe Lipari che è nel maxi-processo. I proprietari erano tre: Caldara, Cusumano e Lipari; uno di questi tre aveva rapporti con la mafia di Corleone, con Totò Riina ed è indagato nel maxi-processo. Il contenuto del volantino parlava di questo progetto Zeta 10, del palazzo a cinque piani e accusava direttamente Tano Badalamenti di essere esperto in lupara e traffico d'eroina. In quel volantino si denunciavano i rapporti tra le istituzioni (comune, amministrazione comunale) e la mafia. Si denunciava l'amministrazione locale che concedeva molto alla mafia in base a quei progetti. C'è una serie di fotografie che parla chiaro, si tratta di foto diventate famose: l'autostrada, la famosa curva, perché c'erano i terreni dei Di Trapani. Il progetto Zeta 10, il palazzo a cinque piani, tutto il saccheggiamento della costa, su queste cose Peppino colpiva nel segno. Poi, nell'ultimo periodo si era candidato alle elezioni comunali, quindi diventava molto pericolosa la sua presenza in consiglio comunale nelle liste di Democrazia proletaria.

MICCICHÈ. Quelli che suo zio riferiva a suo padre erano minacce o consigli a sua volta ricevuti da Badalamenti?

IMPASTATO. In precedenza ho assistito a qualcosa, ma molti anni prima. L'impegno di Peppino è durato dieci anni, sempre contro Badalamenti, e faceva attacchi concreti con nomi e cognomi. Questo «sputafuoco» veniva a casa con minacce precise del tipo: «Cerca di far smettere tuo figlio, fagli fare politica, può fare il comunista, quello che vuole, ma che non parli dei mafiosi, ci sono tanti argomenti di cui trattare, perché deve parlare proprio di mafia?».

MICCICHÈ. Le risulta che questo suo zio avesse parlato direttamente con Peppino?


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IMPASTATO. Con mio fratello no, perché non lo salutava, ma con mio padre si, che poi buttava Peppino fuori di casa, lo contrastava in questo suo impegno. Poi, man mano che passava il tempo, il tiro si alzava sempre di più.

RUSSO SPENA COORDINATORE. È necessario individuare l'ultimo messaggio pervenuto alla famiglia Impastato da parte di persone vicine a Badalamenti.

IMPASTATO. L'ultimo è stato quello di Palazzolo.

BARTOLOTTA. Vito Palazzolo e suo cugino una mattina, arrivati in macchina, bussano alla porta. Mi chiedono se c'è mio marito e io risposi di no, ma se avevano un appuntamento mio marito sarebbe arrivato. Mi disse che suo cugino voleva parlargli. Quando arrivò mio marito lo avvertii e lui comprò perfino un regalo per la figlia di Palazzolo. Questo è l'ultimo avvertimento, due o tre mesi prima.

MICCICHÈ. È arrivata qualche minaccia negli ultimi giorni prima che Peppino morisse? Quando Vito Palazzolo ha bussato alla porta e ha chiesto di incontrare il padre di Peppino?

VITALE. Mio suocero era ancora vivo.

IMPASTATO. Questo è successo prima della morte di Peppino ma dopo il volantino che era stato redatto un anno prima.

RUSSO SPENA COORDINATORE. Il discorso del viaggio in America merita una trattazione organica separata. Gli auditi hanno osservato che Badalamenti aveva avuto colloqui con il padre di Peppino preceduti da visite di persone che lo convocavano presso Badalamenti stesso. Chi erano le altre persone e dove veniva convocato suo padre?

IMPASTATO. Uno era Palazzolo, un altro Giuseppe Impastato detto «sputafuoco», un altro ancora un cugino di Gaetano Badalamenti, Vito Badalamenti. Gli incontri avvenivano anche a casa di Badalamenti, a Cinisi, a pochi metri da casa mia.

MICCICHÈ. Lei ritiene che finché suo marito era vivo in qualche maniera questi minacciavano ma non facevano niente, ma appena suo marito è morto si sono ritenuti liberi di ammazzare suo figlio?

BARTOLOTTA. Finché era vivo sì.

MICCICHÈ. Quindi lei ritiene che la morte di suo marito sia stata determinante perché tolse ai suoi figli l'unico legame di protezione di cui godevano. In pratica, se l'avessero ucciso con il padre ancora in vita, gli stessi assassini avrebbero rischiato una ritorsione.

BARTOLOTTA. Mio marito chiedeva a mio figlio di smettere e lui rispondeva che se lo avessero ammazzato si sarebbero resi colpevoli. Lui sapeva di correre certi rischi perché gli erano già arrivate delle minacce, ma


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diceva: "Se mi ammazzano confessano la loro colpa". Fu Badalamenti a far ammazzare mio figlio.

IMPASTATO. Il fatto importante è che quando mio padre torna dagli Stati Uniti muore in un incidente stradale. E questo accade circa otto mesi prima della morte di Peppino.

FIGURELLI. Per quale ragione allora si recò negli Stati Uniti?

IMPASTATO. Proprio perché c'era qualcosa che non andava. Dopo essere stato chiamato da Badalamenti tramite Palazzolo e dopo aver parlato con alcuni suoi amici mafiosi decise improvvisamente di partire per gli Stati Uniti. A noi diede una motivazione assurda. Ci disse che dal momento che Peppino attaccava i suoi amici e «faceva casino» sarebbe andato negli Stati Uniti per avere un po' di tranquillità. Probabilmente, invece, andò in America per incontrare alcune persone e convincerle a parlare a Badalamenti. Questa è una mia ipotesi.

RUSSO SPENA COORDINATORE. Probabilmente si trattava di superiori gerarchici nell'ambito dell'organizzazione mafiosa ai quali suo padre chiedeva di convincere Badalamenti a non minacciare suo figlio.

IMPASTATO. Qualcosa in questo senso è accaduto. Infatti, nell'interrogatorio di una mia cugina, Bartolotta Vincenza, risulta che lei lo abbia in qualche modo provocato dicendogli che probabilmente si era recato negli Stati Uniti perché stava accadendo qualcosa a Peppino. Egli negò fermamente e aggiunse che se avessero voluto fare del male a Peppino prima avrebbero dovuto ammazzare lui.

La riapertura dell'inchiesta continuò ad essere un tema di mobilitazione dei familiari degli amici e di un vasto movimento che si era sviluppato nella società civile come dimostrano le qualificate adesioni di associazioni, sindacati, partiti e personalità del Parlamento, all'appello promosso nel maggio del 1992 dai consiglieri della Provincia Regionale di Palermo di Rifondazione comunista, Rete, Pci-Pds, Verdi, e da Umberto Santino presidente del Centro Impastato (199). Ovviamente l'appello, in mancanza di fatti diversi da quelli già valutati dall'Autorità giudiziaria, non poteva determinare effetti sul piano strettamente processuale.
Ma anche negli anni successivi, benché sul versante giudiziario la situazione fosse assolutamente ferma alle insoddisfacenti conclusioni delle due precedenti istruttorie penali, il Centro Impastato e i familiari continuarono nell'opera incessante e meritoria di denuncia e di sensibilizzazione della pubblica opinione sui temi dell'impegno civile e politico di Peppino Impastato.


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Una siffatta azione, ovviamente, era tesa altresì a cogliere ogni pur minimo segnale che permettesse di rimettere in moto la macchina giudiziaria.
E, infatti, una formale richiesta di riapertura delle indagini venne avanzata a firma del legale dei familiari e del Centro Impastato avvocato Vincenzo Gervasi, in data 9 maggio 1994, atteso il diverso ruolo che, nell'ambito della struttura di cosa nostra sembrava dovesse attribuirsi a Badalamenti sulla base delle risultanze delle indagini scaturite dopo le stragi di Capaci e via D'Amelio ma, soprattutto, con riferimento alle ulteriori dichiarazioni di Buscetta e di Palazzolo Salvatore, affiliato proprio alla mafia di Cinisi, collaborazione che poteva offrire spunti decisivi per l'accertamento della verità sulla morte di Giuseppe Impastato.

La stagione dei collaboratori.

Non è questa la sede per affrontare il tema dei collaboratori di giustizia, e, d'altra parte la Commissione- che, peraltro ha istituito un apposito comitato - ha avuto modo di esprimere, nei suoi dibattiti, nel corso delle sue inchieste e in deliberati formali (200) proprie compiute valutazioni sul tema.
Per questo specifico caso, tuttavia, quali che siano le determinazioni della competente Autorità giudiziaria in ordine alla personale responsabilità degli imputati, va sottolineata l'oggettiva importanza delle dichiarazioni rese sulla vicenda da numerosi collaboratori di giustizia, posto che esse, proprio perché provenienti da chi era dall'interno della struttura mafiosa, permettono alla magistratura di rivisitare una vicenda che ancora presenta aspetti oscuri.
E infatti, il processo che oggi vede alla sbarra Gaetano Badalamenti e Palazzolo Vito si instaura presso la Procura della Repubblica di Palermo, in data 11 aprile 1995, proprio a seguito delle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Palazzolo Salvatore.
Le indagini hanno poi potuto contare sul contributo di conoscenza diretta e indiretta di Gaspare Mutolo, Calderone Antonino e Francesco Di Carlo mentre, relativamente al ruolo di Badalamenti in Cosa nostra, ed alla sua esclusione dalla Commissione, utili dichiarazioni hanno reso Tommaso Buscetta, Antonio Calderone, Francesco Marino Mannoia, Ganci Calogero, Anzelmo Francesco Paolo e Pennino Gioacchino.
Esperite le dovute indagini, la Procura di Palermo in data 26 maggio 1997, a conclusione dei suoi accertamenti, ha richiesto la misura della custodia cautelare in carcere per Badalamenti Gaetano


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e quella degli arresti domiciliari per Palazzolo Vito, in considerazione delle sue precarie condizioni di salute (201).
La richiesta del pubblico Ministero è fondata su molteplici e convergenti dichiarazioni sia in ordine al fatto specifico della responsabilità di Gaetano Badalamenti e Vito Palazzolo per la morte di Peppino Impastato sia relativamente al loro ruolo di vertice nella famiglia di Cinisi (che li rendeva necessariamente partecipi e responsabili del delitto, secondo le regole della organizzazione mafiosa, giudizialmente accertate).
Contestualmente ai provvedimenti coercitivi la Procura della Repubblica di Palermo avanzava richiesta di rinvio a giudizio per entrambi gli imputati. Con ordinanza 11 novembre 1997 il Gip preso il Tribunale di Palermo accoglieva la richiesta di custodia cautelare, limitatamente a Gaetano Badalamenti. Per Palazzolo Vito, invece, il Gip, con la medesima ordinanza 11 novembre 1997 riteneva che, a differenza di Badalamenti, il Palazzolo non era raggiunto da gravi indizi di colpevolezza in quanto a suo carico vi era la sola chiamata in correità del collaboratore di giustizia Palazzolo Salvatore, pur considerata intrinsecamente attendibile, posto che gli altri collaboratori non avevano riferito della sua qualità di mandante, anche se lo indicavano come «vice capo» della famiglia di Cinisi, all'epoca dei fatti guidata da Badalamenti. Contro le decisioni del giudice per le indagini preliminari ricorrevano al Tribunale del riesame sia il Pubblico Ministero sia il difensore.
Il collegio giudicante accoglieva la richiesta del Pubblico Ministero e disponeva la misura coercitiva degli arresti domiciliari per Vito Palazzolo sottolineando la pluralità delle indicazioni relative alla sua qualità all'interno della famiglia di Cinisi, alla conoscenza dell'impegno antimafia del giovane, al conseguente interesse alla sua eliminazione; fu proprio Vito Palazzolo, infatti, a recarsi a casa Impastato per convocare il padre Luigi da Badalamenti dopo il noto volantino di attacco.
Il ricorso di Badalamenti avverso l'ordinanza di custodia cautelare in carcere, invece, veniva rigettato. Contro la decisione del Tribunale del riesame proponeva ricorso per Cassazione l'avvocato Gullo nell'interesse sia di Gaetano Badalamenti sia di Vito Palazzolo.
La Suprema Corte ha rigettato entrambi i ricorsi, a conferma di un impianto accusatorio ritenuto, evidentemente, articolato e solido.
Per il delitto di omicidio in danno di Giuseppe Impastato i due imputati, tuttora, sono sottoposti a misure restrittive della libertà personale: a Gaetano Badalamenti - dalla Spagna estradato verso gli Stai Uniti, dove è detenuto- è applicata la custodia cautelare in carcere; a Palazzolo Vito, per ragioni di salute è applicata la misura degli arresti domiciliari.
Va dato atto, infine, che il procedimento penale, è poi andato incontro alla separazione delle due posizioni processuali.
Alla richiesta di rinvio a giudizio in data 26.5.1997 avanzata dalla Procura di Palermo -Direzione Distrettuale Antimafia nei confronti di


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Gaetano Badalamenti e Vito Palazzolo segue il decreto del 29 ottobre 1999 che fissava l'udienza preliminare per il giorno 30 novembre 1999. Con atto del 22 novembre 1999, il Badalamenti rinunciava all'udienza preliminare sicchè il Giudice per le Indagini preliminari disponeva, con decreto del 23 novembre 1999 ,il giudizio immediato.
Nei confronti di Gaetano Badalamenti, infatti è attualmente in corso il dibattimento dinanzi alla Corte di Assise di Palermo
Palazzolo Vito, invece ha richiesto di essere giudicato con il rito abbreviato.


(172) Le elezioni per il rinnovo del Consiglio comunale di Cinisi si tennero regolarmente il 14 maggio 1978, Giuseppe Impastato, già assassinato, riportò 264 voti di preferenza.
(173) Commissione Parlamentare Antimafia - Comitato di Lavoro sul «Caso Impastato», Resoconto stenografico della Riunione 25 novembre 1999 (audizione Del dott. Giancarlo Trizzino), p.2 e ss.
(174) Il dott. Domenico Signorino esercitò a lungo le funzioni di sostituto nella Procura della repubblica di Palermo e sostenne l'accusa nel dibattimento del c.d. primo maxi - processo di Palermo. Egli si suicidò nel mese di novembre 1992 dopo essere stato sentito nell'ambito del procedimento penale cui era sottoposto.
(175) Di regola il capo dell'ufficio - e il dott. Martorana era il procuratore facente funzioni - non partecipa, se non eccezionalmente, alle prime indagini.
(176) La circostanza è stata riferita a questa Commissione dal dott. Trizzino nel corso della sua audizione «.... Trizzino: Come ho già spiegato, non ebbi alcun contatto con alti ufficiali. Ricordo appunto questa scena: affacciandomi nella stanza del Comandante di stazione, vidi seduti intorno al tavolo alti ufficiali dei carabinieri e i due colleghi magistrati che ho menzionato» in Commissione Parlamentare Antimafia-Comitato di Lavoro sul «Caso Impastato», Resoconto stenografico della riunione di giovedì 25 novembre 1999, p. 6.
(177) Cfr. DOC.1349 pag.783020.
(178) La circostanza è stata dichiarata dal maresciallo Travali a questa Commissione nel corso della sua audizione Commissione Parlamentare Antimafia-Comitato di Lavoro sul «Caso Impastato», Resoconto stenografico della riunione dell'11 novembre 1999.
Cfr. l'ampia trattazione in seconda parte.
(179) Cfr.Doc. 1764.
(180) in Commissione Parlamentare Antimafia - Comitato di Lavoro sul «Caso Impastato», Resoconto stenografico della Riunione di giovedì 25 novembre 1999, pagg. 12 e segg.
(181) Vedi le note a firma del coordinatore Sen. Giovanni Russo Spena in data 25 gennaio 2000 e 22 giugno 200.
(182) vedi DOC 1747.
(183) V. in Commissione Parlamentare Antimafia-Comitato di Lavoro sul «caso Impastato», Resoconto stenografico della riunione di giovedì 27 gennaio 2000 pagg. 12 e segg.
(184) Sui sequestri di numerosi materiali documentali non attestati da appositi verbali vedi a pag. 94 della presente Relazione.
(185) Cfr. DOC.1349 pag. 78302.
(186) V. in Commissione Parlamentare Antimafia-Comitato di Lavoro sul «Caso Impastato», Resoconto stenografico della riunione di giovedì 27 gennaio 2000 pagg. 12 e segg.
(187) V. sull'atteggiamento e sull'uso della stampa, a pag 142 e segg.
(188) Vedi DOC.1349,p.783053 con l'annotazione autografa del procuratore Martorana «conferire» indirizzata al sostituto assegnatario del fascicolo , Domenico Signorino.
(189) Vedi la più ampia trattazione nella seconda parte della relazione.
(190) V. in Commissione Parlamentare Antimafia-Comitato di Lavoro sul «Caso Impastato», Resoconto stenografico della Riunione del 15 dicembre 1999, p. 32 ( ..... MARTORANA. Non so come definire questo fatto. Probabilmente si trattò di un eccesso di scrupolo da parte dei carabinieri che cercavano di sapere qualcosa di più. Certamente vi fu uno straripamento).
(191) Vedi DOC. 1349.
(192) I due documenti sono riportati nel volume «L'assassinio e il depistaggio», a cura di U. Santino ed. del Centro siciliano di documentazione Giuseppe Impastato, Palermo 1998 pagg. 43-52.
(193) Di tale atteggiamento, denunciato al giudice Chinnici, ha parlato in questa sede, il Martorana. V. Commissione Parlamentare Antimafia-Comitato di Lavoro sul caso «Impastato», Resoconto stenografico della riunione del 15 dicembre 1999 p. 6 .. Qualche giorno dopo questo avvenimento, alcuni giovani di democrazia proletaria o di «Radio Aut» - ma comunque credo fosse la stessa cosa - rinvennero una pietra su cui c'era qualche macchia di sangue e la portarono all'Istituto di medicina legale, non ai carabinieri, perché credo che ci fosse qualche prevenzione per quanto riguardava le stazioni dei carabinieri.
(194) Commissione Parlamentare Antimafia-Comitato di Lavoro sul «Caso Impastato», Resoconto stenografico della Riunione del 31 marzo 2000, p. 2.
(195) Tra le testimonianze più significative, quella, già ricordata, di Riccobono, del necroforo Liborio, di Vito Lo Duca, che riferì come quella sera Peppino era seguito da una macchina nera, di Giovanni Impastato che consegna le cassette di registrazione della trasmissione Onda Pazza, poi fatte trascrivere da Chinnici.
(196) Badalamenti fu estradato negli USA e qui processato e condannato per traffico internazionale di stupefacenti . È attualmente detenuto in un carcere del New Jersey.
(197) Gli atti in riferimento sono tutti rinvenibili nel DOC. 1349.
(198) Sul punto vedi la più ampia trattazione nella prima parte di questa relazione.
(199) L'appello riportato nel volume L'assassinio e il depistaggio alle pagg. 22,23 e 24.
(200) Cfr. Relazione sui testimoni di giustizia, relatore On. Alfredo Mantovano, approvata dalla Commissione parlamentare antimafia nella seduta del 30 giugno 1998 - Relazione sui criteri per la custodia dei collaboratori di giustizia dei detenuti del circuito alta sicurezza e di quelli sottoposti al regime di cui all'articolo 41 bis dell'ordinamento penitenziario - Relatore on.Salvatore Giacalone approvata all'unanimità dalla Commissione parlamentare Antimafia nella seduta del 9 marzo 1999.
(201) Per Palazzolo Salvatore nato a Cinisi il 15.3.1946, omonimo del collaboratore di giustizia, il p.m. ha chiesto l'archiviazione degli atti, in mancanza di adeguati riscontri alla parola dei collaboratori che lo indicavano - insieme a Trapani Francesco e Badalamenti Antonio - autore materiale del delitto.

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