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Doc. XVII-bis n. 1


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DOCUMENTO CONCLUSIVO DELL'INDAGINE CONOSCITIVA SUL NUOVO ASSETTO DEI POTERI REGIONALI E LA RIPARTIZIONE DELLE COMPETENZE DOPO LA LEGGE 15 MARZO 1997, N. 59

Premessa.

L'attuale fase di transizione istituzionale risulta contrassegnata sul tema del regionalismo e delle autonomie da due processi di riforma, la cosiddetta riforma Bassanini, volta ad attuare il più ampio decentramento possibile a Costituzione invariata, e la riforma costituzionale, che ha disegnato un modello di rapporti tra Stato, regioni ed enti locali, nel quale, a grandi linee, è attribuita alle regioni una competenza legislativa generale e residuale e ai Comuni la generalità delle funzioni amministrative.
L'effettiva portata della riforma costituzionale in corso è però ancora tutta da approfondire in sede politica e parlamentare, mentre il processo di riforma avviato con la legge n. 59 del 1997 persegue un obiettivo concreto e raggiungibile, rappresentando il primo tentativo, in risposta alle istanze che vengono ormai da tutto il Paese, di potenziare il decentramento dopo i lavori della Commissione Giannini e i decreti delegati del 1977.
La Commissione parlamentare per le questioni regionali, che ai sensi dell'articolo 6 della legge n. 59 del 1997, è chiamata ad esprimere il proprio parere sugli schemi di decreti legislativi volti a conferire alle regioni e agli enti locali funzioni amministrative in attuazione degli articoli 5, 118 e 128 della Costituzione, ha ritenuto che l'importanza dei temi da affrontare esigesse una riflessione tecnica e politica sulle prospettive del regionalismo aperte dalla riforma. Si è pertanto ritenuto necessario procedere allo svolgimento di una indagine conoscitiva sull'argomento.

1. La deliberazione dell'indagine conoscitiva.

Nella seduta del 17 settembre la Commissione ha deliberato il seguente documento di base per lo svolgimento dell'indagine:
«L'esperienza del regionalismo italiano è parsa contrassegnata da una progressiva divaricazione rispetto al modello costituzionale, che


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ha prodotto, in ultima analisi, un'attenuazione dei connotati tipici dello Stato delle autonomie disegnate dalla Carta fondamentale del 1948. Per un verso, infatti, l'affermarsi del principio di leale cooperazione tra il livello statale e quello regionale ha finito per far premio sul modello costituzionale imperniato sul principio di separazione delle competenze (articoli 117 e 118 della Costituzione). Per altro verso, al dispiegarsi del processo di trasferimento delle funzioni amministrative secondo diverse velocità - dapprima in forma del tutto frenata (decreti delegati del 1972), successivamente, invece, in forma più estesa ed organica (decreto del Presidente della Repubblica n. 616 del 1977) - si è accompagnato un concreto riaccentramento di fatto delle medesime funzioni giustificato, di volta in volta, secondo diversi canoni interpretativi dell'«interesse nazionale», elaborati dalla giurisprudenza costituzionale.
Infine, la condizione di una non apprezzabile autonomia finanziaria della regioni ha ancor più ridotto la effettiva capacità di decisione politica dell'Ente autonomo territoriale concorrendo a favorire, tra l'altro, un deficit di responsabilità degli amministratori locali. Quanto sopra rilevato ha concorso nel complesso a indebolire il livello regionale di governo frustrando le aspettative insite nel disposto costituzionale.
L'odierna riattualizzazione del dibattito sul regionalismo nella prospettiva di un rilancio dello Stato delle autonomie muove, allora, da una molteplicità di fattori che sollecitano in definitiva una più generale valorizzazione del livello di governo regionale. A cominciare da una configurazione del processo di integrazione europeo nel quale appare necessario marcare una partecipazione delle regioni alle decisioni di livello sovranazionale; per finire, da ultimo, alla pressante istanza di una maggiore autonomia - soprattutto finanziaria - che dalle stesse comunità territoriali si indirizza al potere centrale, con l'auspicio, in ultima analisi, della realizzazione di un ordinamento anche di tipo federale.
Tale dibattito ha già prodotto apprezzabili esiti normativi «a Costituzione invariata»; la legge n. 59 del 1997 - seguita dalla legge n. 127 del 1997 (recante «Misure urgenti per lo snellimento dell'attività amministrativa e dei procedimenti di decisione e di controllo») - anticipa, in qualche modo, i possibili esiti riformatori della Commissione parlamentare per le riforme costituzionali, dilatando significativamente l'autonomia amministrativa regionale e, nel contempo, rinvenendo nel principio di sussidiarietà la formula organizzatoria di articolazione dei rapporti tra i diversi livelli di governo. Spetterà al Governo di tradurre ad esito - nei previsti decreti delegati - le scelte legislative innanzi delineate.
Naturalmente, l'impegno a realizzare un più vasto decentramento autonomistico e a rendere immediatamente operativi nel nostro ordinamento princìpi e regole organizzative - come quello della sussidiarietà - da tempo vigenti in altre esperienze ordinamentali (come quella tedesca) deve, in ultima analisi, coordinarsi con lo sforzo ben più impegnativo nel quale si produce la suddetta Commissione Bicamerale di ridisegnare coerentemente le profilature del modello di Stato regionale attraverso la modificazione del titolo V della Costituzione.

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La consapevolezza, infatti, della necessità di rivedere la disciplina costituzionale vigente - rivelatasi oramai insufficiente a contenere le evoluzioni del modello preposto e, soprattutto, ad arginare le disfunzioni in senso centralistico registratesi nel tempo - impone di riguardare la legge n. 59 del 1997 come un chiaro sintomo dell'impegno politico a procedere senza indugio sulla via di un rilancio dello Stato delle autonomie coinvolgendo il livello massimo di regolamentazione normativa.
Seguendo questa impostazione generalmente condivisa, resta impegno politico prioritario identificare con nettezza l'assetto istituzionale da realizzare (federalismo, regionalismo, più o meno spinto) prima di procedere alla strutturazione normativa di esso. La scelta delle singole soluzioni da adottare, sul piano organizzativo, resta infatti del tutto servente e complementare alla scelta di fondo relativa al «tipo» di Stato delle autonomie; in ogni caso, sembra non potersi più prescindere, al riguardo, dalla compiuta affermazione che la legge Bassanini (n. 59 del 1997) ha concorso alla realizzazione del canone della sussidiarietà sia come «valore» intrinseco ad un ordinamento democratico fondato sulla valorizzazione delle autonomie territoriali (articolo 5 della Costituzione), sia, ancora, come regola organizzatoria dei rapporti tra le molteplici istituzioni territoriali preposte alla cura degli interessi delle comunità sociali.
L'indagine conoscitiva trova ragione, in primo luogo, nella opportunità di raccogliere le autorevolissime considerazioni di eminenti studiosi del diritto costituzionale sugli effetti che la legge n. 59 del 1997 appare in grado di spiegare per la conformazione del modello di Stato regionale «a Costituzione invariata». In tale ordine di idee, sembra utile acquisire - in prospettiva, tra l'altro, dell'esame che questa Commissione sarà chiamata a svolgere sugli schemi dei decreti legislativi delegati di attuazione della citata legge n. 59 del 1997 - ogni valutazione che, nel corso di tale indagine potrà emergere, su eventuali accorgimenti normativi che possano sostenere l'effettività dell'affermato principio di sussidiarietà, favorendo, in particolare, la possibilità di un corretto impiego dello stesso all'interno di un contesto ordinamentale fondato per lo più sulla separazione delle sfere di competenza.
Resta, poi, da porre l'attenzione al problema della semplificazione degli apparati amministrativi, statali e regionali, conseguente, rispettivamente, all'ulteriore trasferimento di funzioni dal centro e alla migliore articolazione delle competenze tra regioni e governi locali nella prospettiva di riservare alle prime eminentemente funzioni di governo e di programmazione.
Infine, dai soggetti auditi ci si attende una più generale considerazione circa la capacità del nuovo assetto organizzativo, come espresso dai princìpi della legge n. 59 del 1997, di favorire nell'immediato un effettivo rilancio del livello regionale rimediando alle disfunzioni nel tempo prodottesi sul piano della reale funzionalità della Regione come ente di governo.
Così che sarà utile raccogliere, da questa indagine, una traccia sugli auspicabili sviluppi che il percorso riformatore dovrà seguire per approdare alla descrizione di un modello coerente con le aspettative di un maggiore autogoverno delle comunità intermedie».

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2. Lo svolgimento dell'indagine.

La Commissione ha, quindi, dedicato dieci sedute all'audizione di soggetti istituzionali e di esperti della materia.
Le audizioni si sono così articolate:
23 settembre 1997: ANCI (Associazione nazionale comuni italiani);
30 settembre 1997: UPI (Unione delle province d'Italia);
21 ottobre 1997: UNIONCAMERE e UNCEM (Unione nazionale comuni, comunità, enti montani);
26 novembre 1997: professor Rossano (Università «La Sapienza» - istituzioni diritto pubblico);
2 dicembre 1997: professor Corso (Università di Palermo - diritto amministrativo) e professor Ortino (Università di Firenze - diritto pubblico dell'economia);
3 dicembre 1997: professor Scudiero (Università di Napoli - diritto costituzionale);
11 dicembre 1997: Conferenza dei presidenti delle regioni e delle province autonome;
13 gennaio 1998: professor Falcon (Università di Trento - diritto amministrativo);
21 gennaio 1998: professor Barbera (Università di Bologna - diritto costituzionale).

2.1. Le audizioni dei soggetti istituzionali.

Il giudizio espresso sulla legge n. 59 del 1997 - e sulla legge n. 127 del 1997 - da parte delle associazioni delle autonomie locali è sostanzialmente unitario (vedi documento elaborato d'intesa tra ANCI, UPI e UNCEM) e fortemente positivo; le eventuali preoccupazioni sono rivolte ai profili di attuazione della legge, chiedendosi coerenza con i princìpi enunciati, omogeneità (se non unicità) della legislazione delegata, coinvolgimento delle autonomie nel caso di esercizio da parte dello Stato dei poteri surrogatori, effettività e contestualità nel trasferimento delle risorse (finanziarie ed umane).
In questo senso è la posizione dell'Associazione nazionale comuni italiani (ANCI), che nell'audizione del 23 settembre 1997 ha rimarcato la straordinaria valenza del principio di sussidiarietà nella riforma amministrativa e costituzionale dello Stato per la costruzione di una vera e propria Repubblica delle autonomie.
In primo luogo, il principio di sussidiarietà segna una netta linea di distinzione tra i compiti di programmazione e di coordinamento, da affidare alle Regioni, e i compiti di gestione, rimessi agli enti locali. Questo aspetto rappresenta un momento di indispensabile chiarimento con le regioni, che esige l'abbandono di atteggiamenti di corporativismo istituzionale e grande senso di responsabilità anche alla luce


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dell'esperienza negativa della mancata attuazione dell'articolo 3 della legge n. 142 del 1990.
Più specificamente il principio di sussidiarietà introduce una sorta di presunzione di competenza dell'ente comune, sentito dai cittadini come unica «organizzazione istituzionale naturale».
Questione particolarmente delicata è poi quella delle materie previste dall'articolo 117 della Costituzione: per esse gli enti locali reclamano integralmente l'applicazione del principio di sussidiarietà, anche se, in questo caso, non appare possibile un'attribuzione diretta di compiti dallo Stato agli enti locali, essendo costituzionalmente necessaria la mediazione della legislazione regionale. Inoltre, per tali materie non sembra agevolmente configurabile un meccanismo sostitutivo da parte dello Stato nel caso di inadempienze regionali.
Anche secondo l'Unione delle province d'Italia (UPI), sentita nell'audizione del 30 settembre 1997, la modernizzazione del sistema amministrativo passa attraverso la dismissione da parte delle regioni dei compiti di amministrazione attiva. Sotto questo profilo, l'esperienza regionalista ha avuto complessivamente un esito non positivo; i processi di decentramento si sono spesso bloccati essenzialmente per la tendenza a mantenere in capo alle regioni competenze di amministrazione attiva nel governo dei sistemi istituzionali locali, del territorio e dei sistemi economici. Su tale aspetto, la previsione contenuta nella legge n. 59 di un potere sostitutivo dello Stato qualora le regioni non si muovano in questa direzione, è considerata un punto decisivo, perché consente di avviare obbligatoriamente il processo di decentramento e di riorganizzazione del sistema amministrativo previsto dalla legge 59 medesima. Si rileva, infine, che nel quadro di una politica di promozione delle autonomie locali, il ruolo della Provincia, in quanto ente intermedio fondamentale per radicare lo sviluppo sul territorio e contribuire a tradurre in atto le scelte che interessano le comunità locali, si dovrebbe ridefinire in relazione al governo di tre grandi settori: la pianificazione territoriale e la tutela dell'ambiente; il mercato del lavoro e la formazione; la politica delle infrastrutture e il coordinamento dei sistemi locali.
Per l'Unione nazionale comuni, comunità, enti montani (UNCEM), sentita nell'audizione del 21 ottobre 1997, si pone anzitutto un problema di identità istituzionale e di fondamento costituzionale.
Anche la legislazione ordinaria tende sempre più a identificare le comunità montane come organismi di autogoverno della montagna, superando la prima impostazione basata su interventi meramente economici a sostegno delle zone montane. In questa linea è la legge n. 97 del 1994, così come l'articolo 56, terzo comma, del progetto di revisione costituzionale, che rispecchia una logica di flessibilità degli ordinamenti territoriali, contemplando forme associative tra piccoli comuni e tra comuni montani. Per poter materialmente decentrare, in ossequio al principio di sussidiarietà, rilevanti compiti amministrativi che non possono essere mantenuti in gestione da un livello di governo superiore a quello comunale (principio di adeguatezza), le comunità montane (e, per i piccoli comuni, le unioni intercomunali) si pongono come organismo associativo di gestione dei servizi pubblici e non come nuovo, ulteriore livello di governo. Si attua così anche il principio di differenziazione, coniugandolo con quelli già richiamati di adeguatezza

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e sussidiarietà. E in quest'ottica la comunità montana si trasforma in un organismo associativo che dialoga con le altre istituzioni all'interno della provincia e della regione, per creare simbiosi tra i vari territori e nuove forme di collaborazione istituzionale in termini solidaristici.
La Conferenza dei presidenti delle regioni e delle province autonome, sentita nell'audizione dell'11 novembre 1997, ha espresso una valutazione decisamente critica sulla legge Bassanini per il rischio di una frantumazione del disegno di riforma amministrativa, che - si sottolinea - non è un mero trasferimento di funzioni ma è anche una riorganizzazione dell'amministrazione centrale.
Si assiste, secondo le regioni, ad uno dei tipici paradossi della situazione italiana, per cui per riformare il centro occorrerebbe che quest'ultimo fosse efficiente. Ma il bisogno di riforma nasce proprio dall'inefficienza del centro, che rende estremamente difficile rendere operativa la direzione unitaria (la «cabina di regia») del processo di riforma stesso. Ne derivano, a giudizio degli esecutivi regionali, scompensi molto preoccupanti, non essendo disponibile un quadro complessivo del processo di decentramento con conseguenti forme di contrattazione e confronto molto settoriali che generano conflittualità interistituzionali piuttosto marcate e disarticolazioni riguardanti i soggetti di governo territoriale.
Si paventa il rischio che l'operazione di decentramento consista nello scaricare i deficit sugli enti decentrati come già avvenuto in modo clamoroso nel caso della sanità.
Quanto al raccordo con il progetto di riforma costituzionale elaborato dalla Bicamerale, le regioni non vedono un disegno chiaro e colgono elementi contraddittori: da un lato vi è un messaggio di federalismo con accenti quasi massimalistici, come nella definizione del principio di sussidiarietà (articolo 56); dall'altro restano al centro le scelte di fondo in materia fiscale (articolo 62) e il potere di determinazione degli «imprescindibili interessi nazionali» (articolo 58, comma 3).
Le maggiori preoccupazioni riguardano l'esigenza di una distribuzione più efficiente delle competenze fra i vari livelli istituzionali ed il tema della forma di governo regionale, per la quale è stata unitariamente avanzata la richiesta dell'elezione diretta del presidente della giunta regionale; vi è poi la questione della composizione della seconda Camera (articolo 89), che non può essere un organo per metà di garanzia e per metà di rappresentanza dei governi territoriali, ma deve avere un identità precisa e forte. Infine, si sottolinea che la possibilità di forme speciali di autonomia anche per le regioni a statuto ordinario deve essere resa maggiormente praticabile rispetto a quanto previsto dall'articolo 57, quarto comma, del progetto di revisione costituzionale.
Un capitolo a parte dell'indagine riguarda le cosiddette autonomie funzionali, quali sono le camere di commercio e le università. L'Unioncamere, nell'audizione svoltasi il 21 ottobre 1997, ha espresso un giudizio sostanzialmente positivo sull'impianto complessivo della legge n. 59. Si è rilevato che la cultura giuridica e quella politica hanno sempre definito il decentramento solo sulla base territoriale; la vera novità della legge è invece quella di individuare un altro aspetto, legato alle autonomie funzionali: come tali devono essere considerate le

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camere di commercio che, con il loro sistema a rete sul territorio, svolgono importanti funzioni, non solo di conservazione e monitoraggio, ma anche di promozione e di supporto dell'economia locale. Con la legge n. 59 si abbandona quindi l'idea di una riorganizzazione «a cascata», che utilizza il territorio come unico riferimento, e gli enti locali funzionali divengono così possibili destinatari delle deleghe di compiti amministrativi da parte dello Stato e delle regioni. Coerentemente con tale impostazione va inteso il principio di sussidiarietà, in quanto la vicinanza ai cittadini da esso postulata non deve intendersi in senso meramente spaziale, ma anche di prossimità del rapporto, come accade relativamente ai servizi che interessano la business community per le camere di commercio. Queste chiedono, con riferimento ai servizi per le imprese, di essere riconosciute come naturali destinatari delle deleghe in ragione dei principi di omogeneità, efficienza e unicità del referente.

2.2. Le audizioni di esperti della materia.

La Commissione ha dedicato, inoltre, alcune sedute all'audizione di esperti della materia. Il professor Claudio Rossano, ordinario di istituzioni di diritto pubblico presso la facoltà di economia e commercio dell'Università «La Sapienza» di Roma, nell'audizione del 26 novembre 1997, soffermandosi sul raccordo tra i princìpi ispiratori della legge n. 59 e i princìpi del progetto di riforma costituzionale, ha individuato quale «denominatore comune» il principio di sussidiarietà accolto in entrambi i documenti. Lo stesso, peraltro, presenta lati ambigui, nel senso che potrebbe essere strumentalizzato per legittimare ingerenze dei livelli di governo superiori assumendo a pretesto l'insufficienza delle autorità periferiche.
Ulteriore aspetto problematico è l'assenza nel progetto di revisione costituzionale di un modello federalista vero e proprio, a favore di una sorta di federalismo municipalistico che frantuma la funzione amministrativa in una pluralità di enti territoriali, indebolendo il ruolo delle regioni; si realizza una parificazione dei diversi livelli istituzionali nella Conferenza Unificata, sulla quale si ergerà però il potere decisionale dello Stato quale inevitabile mediatore di ultima istanza dei conflitti insorgenti tra i diversi livelli istituzionali.
La riflessione specificamente condotta sulla legge n. 59 del 1997 ha come punto centrale l'articolo 4, che configura il principio di sussidiarietà, da intendere in senso orizzontale (pubblico-privato), e in senso verticale, con le autonomie locali che debbono svolgere tutte le funzioni localmente con l'intervento degli organismi gradualmente superiori, quando il livello inferiore non possa adeguatamente assolverle. Sul piano attuativo, peraltro, mancano i criteri specifici per rendere operativo il principio, criteri che forse potrebbero essere meglio individuati dalle regioni. Si delinea così una uniformità di attribuzione di funzioni che nella sua rigidità potrebbe rivelarsi una scelta poco opportuna. Ugualmente, se va vista positivamente la scelta di costruire le strutture organizzative, non prima di aver delineato le funzioni, sarebbe stato preferibile prevedere anche un meccanismo transitorio che consentisse di subordinare l'efficacia dei trasferimenti


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alla predisposizione degli strumenti normativi e organizzativi da parte degli enti conferitari. Quanto al principio di cooperazione, il professor Rossano appare perplesso sul sistema di raccordo tra i vari livelli istituzionali, che appare penalizzante per le regioni. Va, invece, valorizzato il principio di unicità dell'amministrazione responsabile, che deve servire a risolvere un problema di imputazione che nemmeno la legge n. 241 del 1990 aveva risolto.
In merito al potere sostitutivo dello Stato in caso di inadempienza (articolo 4, comma 5) delle Regioni, se esso, paradossalmente, potrà comportare un incentivo all'inerzia delle medesime, va pure osservato che si pone in linea con la logica della sussidiarietà, sia pure estesa ad un ambito legislativo e non amministrativo.
Il professor Michele Scudiero, ordinario di diritto costituzionale presso la facoltà di giurisprudenza dell'Università «Federico II» di Napoli, nel corso dell'audizione del 3 dicembre 1997, ha toccato anzitutto il tema della flessibilità nel disegno di riforma amministrativa, sottolineando come già in un quadro di inevitabile rigidità quale quello della Carta del 1948 (il «parallelismo» delle funzioni) fossero presenti significativi strumenti di flessibilità, rappresentati dall'attribuzione agli enti locali delle funzioni di esclusivo interesse locale e dal meccanismo della delega di competenze amministrative (e anche legislative, articolo 117, secondo comma, della Costituzione).
In tale direzione può essere letto il principio di differenziazione, che va ad affiancare quello di sussidiarietà. Mentre quest'ultimo, interpretato in una logica democratica, oltre a regolare il rapporto tra pubblici poteri e autonomia privata, valorizza le istituzioni più vicine ai cittadini, e cioè le autonomie territoriali, ma anche quelle funzionali come le camere di commercio e le università, il principio di differenziazione consente di superare il canone dell'uniformità di trattamento nell'allocazione delle funzioni, nel senso cioè di diversificare le funzioni non solo in senso verticale - in rapporto ai vari livelli - ma anche orizzontalmente, per esempio per classi di comuni.
Rispetto al processo di riforma costituzionale, la legge n. 59 del 1997 ne rappresenta un'anticipazione in quanto delinea il nuovo assetto delle competenze secondo un principio di devoluzione totale ai livelli locali dei poteri, con esclusione di talune materie, riconosciute di spettanza statale per la natura infrazionabile degli interessi sottostanti.
In rapporto ai lavori della Bicamerale, il professor Scudiero ritiene che si possa condividere l'impostazione di assegnare i compiti amministrativi agli enti locali, facendo delle regioni soprattutto enti di legislazione, con una riserva di competenze statali in base al già ricordato criterio dell'infrazionabilità degli interessi nazionali. I meccanismi impiegati nella legge n. 59 divengono così un fatto cogente nella previsione della proposta di riforma della Commissione bicamerale. Resta un problema importante: quello del numero e della dimensione delle regioni in una visione di pubblica amministrazione efficiente. Al riguardo è stato richiamato il modello spagnolo delle comunità autonome basato su un meccanismo di aggregazione dal basso su iniziativa delle province, meccanismo non dissimile da quello previsto dall'articolo 132 della vigente Costituzione, norma peraltro rimasta concretamente inutilizzata.

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Il professor Sergio Ortino, ordinario di diritto pubblico dell'economia presso la facoltà di economia dell'Università degli studi di Firenze, ha affrontato il tema dell'indagine conoscitiva partendo dall'analisi dei nuovi scenari ordinamentali che si vanno delineando a seguito delle trasformazioni prodotte dalla società dell'informazione. Si sta affermando, a giudizio del docente, un nuovo ordinamento spaziale, che supera l'attuale concezione dello Stato nazionale come unico titolare della sovranità. Sia la legge n. 59 del 1997 sia il progetto di revisione costituzionale (articolo 58, terzo comma), continuano però ad accettare questa configurazione della sovranità, mentre è in atto un processo che sta trasformando gli stati in uno dei tanti livelli di governo, con compiti di «enti liquidatori» di competenze e di risorse verso l'alto e verso il basso. Nel nuovo contesto si avrà un sistema organizzativo a livelli multipli, un federalismo «funzionale» basato su una dialettica non bipolare, ma multipolare. Al centro del sistema si porrà l'individuo, con la sua libertà di creare aggregazioni idonee a seconda degli interessi da tutelare. Si spiega così l'irrompere del principio di sussidiarietà, che dovrebbe prendere il posto di quello di sovranità. In questo quadro, ad esempio, i cataloghi di materie riservate allo Stato sono ispirati a una logica rigida e superata, dato che tali materie saranno presto oggetto di disciplina continentale o intercontinentale. Sarebbe preferibile un modello in cui la decisione sull'assunzione o rinuncia di una competenza spetti all'ente interessato, anziché quello della Conferenza unificata, in cui il riassetto ordinamentale avviene dal centro e dall'alto.
Il professor Guido Corso, ordinario di diritto amministrativo presso la facoltà di giurisprudenza dell'Università degli studi di Palermo, nell'audizione del 2 dicembre 1997, ha individuato come elemento comune caratterizzante sia la legge n. 59 del 1997 sia il progetto di riforma costituzionale, il ribaltamento del principio di riparto delle attribuzioni tra Stato e regioni. La realizzazione di quest'operazione «a Costituzione invariata» consiste nella riserva di competenza statale per una serie di materie e nella devoluzione di tutte le restanti, devoluzione operata sulla base di una distinzione fondamentale tra materie riconducibili all'articolo 117 della Costituzione e ulteriori materie: per le prime le regioni esercitano funzioni legislative e amministrative con l'obbligo di redistribuire i compiti amministrativi tra loro stesse e gli enti locali; per le seconde si prevede il trasferimento a regioni ed enti locali, con una potestà legislativa regionale d'attuazione.
Il conferimento delle funzioni amministrative, in entrambi i casi, deve avvenire nel rispetto del principio di sussidiarietà. Gli altri principi enunciati potrebbero però entrare tra loro in conflitto: così è, ad esempio, per quello di completezza, che richiederebbe l'attribuzione ad un unico livello territoriale di ogni competenza in materia, e per quello di cooperazione, che postula una pluralità di soggetti titolari di funzioni attinenti alla stessa materia.
A giudizio del docente due sono gli orientamenti di fondo che costituiscono la filosofia della legge n. 59: da un lato la redistribuzione delle funzioni, dall'altro l'esigenza di limitare (anche attraverso processi di privatizzazione), razionalizzare e semplificare le funzioni pubbliche.

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In conclusione, in questa vicenda legislativa e di progettazione costituzionale i veri protagonisti saranno gli enti locali, cui l'articolo 56, comma 2, del progetto di legge costituzionale devolve tutte le funzioni amministrative. Peraltro, quest'ultima affermazione ha un valore programmatico perché la sussistenza del principio di legalità dell'azione amministrativa (enunciato in forma piuttosto contorta dall'articolo 106 del citato progetto) comporterà che i comuni potranno esercitare potestà amministrative solo in forza di un conferimento legislativo statale o regionale.
Infine, in ordine al problema dell'aspetto finanziario, che costituisce il presupposto di operatività dei conferimenti di funzioni, il progetto di revisione costituzionale appare poco incisivo perché non realizza né autonomia tributaria né federalismo fiscale, ma si limita a prevedere un semplice incremento di gettito.
Nell'audizione del 13 gennaio 1998, la Commissione ha ascoltato il professor Giandomenico Falcon, ordinario di diritto amministrativo presso la facoltà di giurisprudenza dell'Università di Trento.
Il docente ha preliminarmente sottolineato che il titolo V della Costituzione vigente rappresenta una «zona d'ambiguità» istituzionale assai problematica, in quanto la triade in cui si configura il sistema delle autonomie locali è sovraffollata e, a sua volta, genera un sovraffollamento della classe politica. Inoltre, la regione appare essenzialmente ente amministrativo, perché la potestà legislativa di cui è fornita è limitata alla disciplina dell'azione amministrativa; la mancanza, poi, di competenza legislativa sugli enti locali da parte delle regioni ad autonomia ordinaria è una delle cause del cosiddetto centralismo regionale: la regione, infatti, delegando ad enti locali proprie funzioni, ne perde il controllo.
Inoltre, non va dimenticato che il limite del rispetto dei principi fondamentali anche impliciti, e non solo di quelli espressi, ha impedito alle regioni di tradurre in realtà la loro vocazione riformatrice, perché per fare riforme bisogna poter ridefinire anzitutto i principi fondamentali, e tale ridefinizione non compete alle regioni medesime.
Nel vigente contesto costituzionale la recente legislazione ordinaria, ed ora la legge n. 59, ha inteso potenziare le autonomie, proponendosi un obiettivo che in un paese con mentalità centralista è assai difficile da realizzare, specie quando si tratti di trasferire settori di apparato burocratico.
Come aspetto positivo, nella legge in esame si intravvede il rafforzamento delle strutture di raccordo e di cooperazione, anche se si deve criticare il depotenziamento del meccanismo dell'intesa (ormai, con l'articolo 3, comma terzo, del decreto legislativo n. 281 del 1997, tutte le intese si configurano come intese «deboli», poiché se non intervengono entro un prefissato periodo temporale il Consiglio dei ministri può comunque provvedere).
Come aspetto negativo il professor Falcon individua il fatto che non risulta bene delineato il quadro di governo del potere locale, perché nelle materie previste dall'articolo 117 si fa perno sulle regioni, mentre nelle ulteriori materie si provvede con trasferimenti diretti agli enti locali. Al riguardo il docente ritiene che un sistema efficiente postuli un potere di comando regionale, essendo impensabile un sistema anarchico di ottomila comuni.

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Rispetto alle proposte della bicamerale il professor Falcon esprime una valutazione negativa, perché si assiste a un mero rimescolamento dell'esistente e non ad un vero progetto costituente. Si sarebbe dovuto eliminare il livello provinciale o, alternativamente, anche quello regionale, ma non mantenere entrambi come livelli di rappresentanza politica. Si dichiara, infine, contrario alla nuova configurazione del Senato, proponendo invece il modello Bundesrat, che non è una seconda Camera del Parlamento, ma piuttosto una struttura per attuare forme di codecisione.
Nell'audizione del 21 gennaio 1998 il professor Augusto Barbera, ordinario di diritto costituzionale presso la facoltà di giurisprudenza dell'Università di Bologna, ha espresso una valutazione positiva per i contenuti innovativi della legge n. 59 (principio di sussidiarietà, forte valorizzazione degli enti locali, separazione tra funzione legislativa, di spettanza statale o regionale, e funzione di amministrazione attiva, di competenza degli enti minori).
Peraltro, dalla esperienza dei trasferimenti attuati con il decreto del Presidente della Repubblica n. 616 del 1977, per i quali si è successivamente assistito a una sorta di riappropriazione di compiti da parte dello Stato attraverso leggi (o leggine) ordinarie, il docente ha tratto la considerazione che una riforma nel senso indicato è inevitabilmente un problema di ordine costituzionale. Non ritiene, tuttavia, che il testo elaborato dalla Commissione bicamerale realizzi quel disegno federalista, cui con una certa enfasi pure s'intitola. Infatti, l'inversione dell'ordine delle competenze è un dato più apparente che reale, se si considera l'interferenza della potestà regolamentare degli enti locali minori, ma soprattutto la competenza dello Stato a legiferare in qualsiasi materia per imprescindibili esigenze nazionali, che di fatto sottrae ogni garanzia costituzionale al potere legislativo regionale; in altri termini, la «competenza delle competenze» è rimessa al legislatore statale ordinario e non al costituente, in contraddizione con un fondamentale principio presente in ogni ordinamento federale.
Per di più l'attribuzione della generalità dei compiti amministrativi e regolamentari ai comuni e alle province, costituisce un ulteriore fattore di indebolimento della potestà legislativa regionale alla luce del dato ormai acquisito dalla scienza giuridica costituzionale che esistono leggi-provvedimento. Si ritorna così ad una concezione ottocentesca della divisione dei poteri legislativo ed esecutivo.
Nel dibattito sulla revisione della parte seconda della Costituzione si dovrebbe, inoltre, a giudizio del professor Barbera, prestare maggiore attenzione ai problemi di «geografia» delle istituzioni, come quello della ridefinizione dei confini regionali, che in taluni casi non appaiono coerenti con la storia e la sensibilità delle comunità locali. In questa prospettiva si dovrebbero avviare veri e propri processi costituenti regionali, nel cui ambito definire il ruolo dei comuni e prevedere, in luogo delle province, delle federazioni di comuni.
Quanto al problema della presenza dell'ente federato (la regione) in Parlamento, il «Senato delle garanzie», eletto con il sistema proporzionale e a composizione integrata, appare un organo di difficile inquadramento: da un lato, esso non è estraneo alla definizione dell'indirizzo politico in certe materie, dall'altro non è chiaro se la

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funzione rappresentativa dei senatori sia riferibile agli interessi territoriali o, in presenza del divieto di mandato imperativo, si mantenga a livello politico generale. Incerto ne risulta il ruolo anche in rapporto alla costituzionalizzazione della Conferenza dei presidenti delle regioni.
In conclusione, il professor Barbera ritiene che il testo della Bicamerale non sia né federalista né regionalista; ma in ogni caso ha sottolineato che la scelta per un forte decentramento politico di tipo federalista richiede la consapevolezza che essa non consente di realizzare pienamente i valori di eguaglianza, anzi si è talora rivelata lo strumento per lo smantellamento dello Stato sociale.

3. Conclusioni.

3.1 Le finalità della legge n. 59 del 1997.

La riforma delineata dalla legge n. 59 mira ad una profonda trasformazione dell'amministrazione pubblica, per realizzare il passaggio da una organizzazione centralista e diretta, in cui lo Stato controlla o pretende di controllare tutto e tutti, ad un modello di decentramento e amministrazione indiretta, in cui tutte le decisioni vengono prese a livello locale. Pur contenendo numerose formulazioni che fanno riferimento al modello federalista di Stato, il riassetto opera esclusivamente all'interno della cornice autonomistica consentita dall'attuale Carta costituzionale, i cui articoli 5, 117, 118 e 128 sono esplicitamente richiamati negli articoli 1 e 2 della legge di riforma; può pertanto affermarsi che le deleghe legislative in essa contenute vengono ad introdurre il massimo di decentramento amministrativo compatibile con il nostro ordinamento.
Risultano evidenti, anzitutto, il profondo impatto ordinamentale della riforma e la sua rilevanza costituzionale, che sono confermati da un apposito ordine del giorno (n. 9.1124-B.19, del 5 marzo 1997, presentato al Senato e accolto dal Governo), con cui si impegnava il Governo stesso a non procedere nell'esercizio della delega prima del 10 luglio 1997, data in cui si sarebbero resi noti i primi esiti della Commissione parlamentare per le riforme costituzionali. Peraltro, come già detto, non sembra esatto parlare di federalismo, sia pure amministrativo, in quanto il nuovo assetto delle autonomie regionali resta oggetto di competenza legislativa ordinaria statale. Non quindi, almeno in questa fase e con questa legge, federalismo, né modifica della struttura costituzionale dello Stato, ma attuazione della previsione di cui all'articolo 5 della Costituzione, in corrispondenza a istanze specifiche di efficienza e modernità provenienti dalla realtà sociale.
Infatti, se è vero che il decentramento costituisce anzitutto un principio tendenziale di organizzazione, è altrettanto vero che esso nel nostro ordinamento assurge a principio fondamentale, che va quindi ben al di là di semplici finalità tecniche, per realizzare in modo più completo le esigenze di democraticità e di pluralismo dell'ordinamento medesimo. In questo senso la legge n. 59, nel costituire sostanzialmente il terzo tentativo di decentramento dopo quelli già operati con


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il decreto del Presidente della Repubblica n. 8 del 1972 e con il decreto del Presidente della Repubblica n. 616 del 1977, si pone nel solco delle grandi leggi di riforma degli anni '90 (leggi nn. 142 e 241 del 1990, relative rispettivamente alle autonomie locali ed al procedimento amministrativo; leggi n. 19 e n. 20 del 1994, concernenti il nuovo regime dei controlli; decreto legislativo n. 29 del 1993 sulla organizzazione amministrativa e pubblico impiego), volte tutte a incrementare gli strumenti di partecipazione democratica all'attività della pubblica amministrazione, superando per quanto possibile lo status subiectionis del cittadino di fronte allo Stato-amministratore.
Devono peraltro segnalarsi le forti novità della legge in esame rispetto alle precedenti legislazioni di decentramento, sia sotto il profilo del metodo che sotto quello del contenuto. Per quest'ultimo aspetto il legislatore, consapevole della stretta correlazione sussistente tra rafforzamento del sistema delle autonomie e modifiche all'organizzazione della macchina amministrativa, nonché della necessità di intervenire anche sulle risorse umane coinvolte dallo spostamento di funzioni, ha affrontato il tema del decentramento congiuntamente a quello del riordino delle strutture amministrative, connettendo inoltre entrambi gli aspetti anche ad un intervento (ulteriore, rispetto a quello già avviato con il decreto legislativo n. 29 del 1993) nel pubblico impiego.
Quanto al metodo, è stato rovesciato il criterio finora seguito nella legislazione di decentramento che si è prima richiamata - metodo del resto analogo alle previsioni della Carta costituzionale - che elencava i compiti e le materie da affidarsi alle regioni ed alle autonomie, nonché i relativi ambiti di esercizio; si è ora invece proceduto ad individuare esclusivamente le materie che rimangono nella competenza dello Stato, affidando tutte le altre materie e competenze alle regioni ed agli enti locali (territoriali e funzionali). Si tratta di un affidamento ispirato ad un criterio di residualità di carattere potenzialmente omnicomprensivo, in osservanza del principio di sussidiarietà derivato dal diritto comunitario: in base a tale principio l'assolvimento delle funzioni amministrative spetta alle istituzioni territorialmente (e funzionalmente) più vicine ai cittadini, ad eccezione di quelle funzioni riservate allo Stato ovvero di quelle incompatibili con le dimensioni delle istituzioni periferiche. In quest'ultimo caso, peraltro, in base ai princìpi - del tutto innovativi nella nostra disciplina ordinamentale - di omogeneità, adeguatezza e differenziazione previsti dall'articolo 4 della legge di riforma, la sussidiarietà dovrebbe operare secondo un sistema, per così dire, a cerchi concentrici, nel quale l'ente locale «non adeguato» viene sussidiato dall'ente maggiore che comunque risulti il più vicino possibile al cittadino. Il tessuto organizzativo prefigurato dalla legge di riforma sembra mirato a superare una volta per tutte l'indecisione che ha caratterizzato i tentativi di decentramento prima ricordati, che nel conservare il centralismo amministrativo volevano nello stesso tempo favorire le autonomie locali. In tal modo è venuto finora a delinearsi l'inconveniente - che l'attuazione della legge n. 59 dovrebbe eliminare - di avere un sistema amministrativo ed istituzionale centralizzato senza gli strumenti che consentono al centro l'efficienza per bene amministrare e, contemporaneamente, di avere

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autonomie locali mancanti dei requisiti istituzionali per far valere un'autonomia effettiva.

3.2 Gli aspetti problematici della riforma.

a) La complessità dell'insieme dei princìpi di delega.

I profili problematici però non mancano. Innanzitutto, si è aperto un copiosissimo processo di produzione normativa, a vari livelli (decreti legislativi, leggi regionali e regolamenti governativi), che oltre a procedere in senso inverso rispetto all'esigenza - unanimemente affermata - di miglior conoscenza e trasparenza della vigente legislazione, porrà problemi di coordinamento anche con le altre riforme in corso. I decreti legislativi con cui si sta dando attuazione alla legge n. 59, si susseguono inoltre in assenza di una chiara e unitaria logica di riferimento. Ove l'attuazione della legge n. 59 avvenisse in modo frammentario, si rischierebbe di incidere negativamente sullo statuto delle autonomie delineato dalla citata legge n. 142 del 1990.
Per prevenirne la possibile frammentarietà, che peraltro non sembra allo stato evitata nei primi schemi di decreto finora esaminati, stante l'ampia latitudine delle materie ivi trattate (organizzazione del collocamento, distribuzione dei carburanti et cetera) potrebbe ritenersi utile recuperare in qualche modo la competenza per così dire «fisiologica» delle commissioni di merito, ad esempio restituendo ad esse una presenza ed un ruolo - da coordinare con quello delle Commissioni previste nell'articolo 6 della legge, in ipotesi mediante una previa consultazione - almeno negli oggetti della delega concernenti la materia economico-produttiva. In tal senso, del resto, sembrano orientate le proposte di modifica alla legge di riforma contenute nell'atto Camera n. 4229, attualmente all'esame presso l'Assemblea della Camera dei deputati.
È comunque necessario acquisire la consapevolezza che il conferimento di nuovi importanti compiti e funzioni agli enti locali ne trasformerà profondamente il ruolo di fronte ai cittadini, imponendo una coerente riforma di tale legge, così da farne una vera e propria Carta delle autonomie. Mancano, peraltro, criteri che permettano di dare concreto significato al predetto principio di sussidiarietà, di cui è stata ripetutamente sottolineata l'ambivalenza: ciò in relazione sia ad una sua non corretta applicazione, in presenza di eventuali effetti distorsivi che possono derivare da una eccessiva vicinanza tra ente decidente e destinatari delle decisioni, sia a causa di un eventuale sommarsi nel medesimo soggetto, nell'ambito del conferimento, di funzioni di amministrazione attiva e di funzioni di controllo. Inoltre, l'esistenza di una sorta di doppio binario nel processo di conferimento (materie di cui all'articolo 117 della Costituzione, in cui il riparto tra i vari livelli di governo territoriale è operato dalle regioni, e ulteriori materie, in cui il riparto è direttamente fatto dal legislatore delegato) lascia presumere che in assenza di criteri applicativi dei princìpi di conferimento si assisterà a una difforme interpretazione e attuazione - da parte dello Stato e da parte delle regioni - dei princìpi medesimi.


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Se poi le leggi regionali di conferimento di compiti agli enti locali attuassero in termini minimali il principio di sussidiarietà, è lecito chiedersi quali strumenti giuridici potrebbero essere impiegati dagli enti locali per ottenere un'adeguata attribuzione di compiti di amministrazione attiva. Infatti, anche le esperienze straniere in cui il principio di sussidiarietà assume direttamente valore costituzionale dimostrano una sua scarsa «giustiziabilità», che riflette la già più volte sottolineata ambivalenza o bidirezionalità del principio stesso.

b) La necessità di una precisa ripartizione delle competenze.

Un preciso e puntuale riparto di funzioni eviterà poi l'insorgere di possibili diffidenze degli enti locali nei confronti dei poteri regionali: diffidenze (e rischi di frammentazione) che una chiara identificazione dei rispettivi ambiti di responsabilità - che peraltro sembra costituire la principale valenza organizzativa del principio di sussidiarietà - riuscirebbe ad impedire, affiancando a regioni «forti», un altrettanto forte sistema delle autonomie locali: caratteristiche entrambe necessarie in questa fase di avvio della legge n. 59, come pure appare necessario uno Stato altrettanto «forte» nelle funzioni che continuerà ad esercitare. È del resto irrealistica, e comunque non condivisibile, una strutturazione del sistema autonomistico frammentata e priva di raccordi, che viene a sostituire ad una organizzazione statale basata su un potere di direzione centrale una organizzazione libera di ottomila comuni (più le province, le comunità montane e gli enti locali funzionali). Un sistema mirante a (necessari) obiettivi di efficacia ed efficienza deve avere «punti di snodo» dotati di poteri di direzione del sistema: poteri che devono essere non soltanto certi - e quindi precisamente circoscritti - ma anche forti e cogenti, che nel disegno organizzativo previsto dalla legge in esame sembrano, a nostro avviso, correttamente da situare nelle regioni.
Va anche considerato che i princìpi di delega ulteriori a quello di sussidiarietà enunciati nell'articolo 4, terzo comma, possono risultare tra loro confliggenti. Occorrerà pertanto verificare come si rapporteranno l'un l'altro, nella loro concreta applicazione nei provvedimenti attuativi della delega, il principio di sussidiarietà rispetto a quelli di adeguatezza «in relazione all'idoneità organizzativa dell'amministrazione ricevente a garantire (...) l'esercizio delle funzioni» e di differenziazione nell'allocazione delle funzioni «in considerazione delle diverse caratteristiche (...) degli enti riceventi»; ed andranno poi considerati i riflessi dell'operare dei suddetti princìpi rispetto all'altro e fondamentale principio, anche esso enunciato nell'articolo 4 della legge n. 59, dell'autonomia organizzativa e regolamentare e di responsabilità degli enti locali. Andrà altresì verificata con attenzione la compatibilità tra il principio di completezza e quello di cooperazione, che ad una prima lettura non sembrano sommabili tra loro, visto che il primo richiederebbe l'attribuzione a ciascun livello territoriale di ogni competenza in materia, mentre quello di cooperazione postula la compresenza nella medesima funzione di più livelli territoriali.


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c) L'importanza del ruolo delle Regioni.

Nel suo complesso la legge n. 59 viene a delineare un assetto in cui le regioni sono intese come enti di legislazione e programmazione, e solo residualmente come soggetti di amministrazione attiva. Tale configurazione dei poteri regionali, peraltro, rispecchia un riparto che risultava già in termini pressoché identici nell'articolo 3, primo comma, della legge n. 142 del 1990, norma rimasta largamente inattuata, come è noto. Anzi, proprio tale esperienza ha oggi suggerito un intervento surrogatorio dello Stato ove le regioni non diano corso alla delega di funzioni agli enti locali nelle materie di cui all'articolo 117 della Costituzione.
Tale intervento costituisce un aspetto decisivo ai fini del successo della riforma, considerato che la realizzazione di uno Stato «leggero» - espressione ormai entrata nel linguaggio corrente per sintetizzare gli effetti di snellimento che l'attuazione della riforma produrrà nell'apparato statale - dipenderà dall'effettiva capacità delle regioni e degli enti locali di assumere l'espletamento delle funzioni conferite. Capacità che la stessa legge di riforma non dà per scontata, sia laddove specifica (articolo 3, comma 1, lettera b) che il conferimento deve assicurare «l'effettivo esercizio delle funzioni conferite», sia ove, alla successiva lettera c) del medesimo comma, prevede «eventuali interventi sostitutivi» nel caso di inadempienza delle regioni e degli enti locali nell'esercizio delle funzioni ad esse affidate. A conferma di una (legittima, stante l'esperienza dei precedenti provvedimenti di decentramento, e stante le luci ed ombre dell'attuale assetto regionalistico) cautela del legislatore circa la piena capacità di risposta delle istituzioni delle autonomie a fronte dei nuovi compiti, si rinvengono nella legge in esame anche altre ipotesi di interventi decisi in sede centrale: in presenza di inadempienze della Conferenza Stato-regioni nel procedimento di redazione degli schemi di decreti legislativi volti ad individuare i «compiti di rilievo nazionale» previsti dall'articolo 1, comma 4, lettera g), ovvero in caso di ritardo nell'emanazione dei decreti legislativi di decentramento infraregionale previsti dall'ultimo comma dell'articolo 4.
Eventuali situazioni di inadempienza in fase di avvio della riforma potrebbero causare il ricorso a tutte queste tipologie di interventi sostitutivi, con il rischio di avviare un circolo vizioso tra tali interventi e successive inadempienze, frustrandosi così le finalità della riforma.

d) L'imprescindibilità di un «coinvolgimento attivo» delle autonomie locali.

È pertanto essenziale l'operare, nel corso di tutta la fase di attuazione della legge n. 59, ma soprattutto nei suoi primi passi, di una risorsa decisiva per l'attuazione della riforma medesima, individuabile nella necessità di coinvolgimento e, nei limiti del possibile, di consenso, di tutti i soggetti istituzionali interessati. In mancanza di tale consenso, con l'instaurarsi di eventuali elementi di conflitto in ordine a specifici aspetti sui quali gli enti locali manifestino una opposizione che non riesca a superarsi, può comportare un arresto del processo di riforma:


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occorrerà pertanto un attento sforzo da parte della Commissione, nell'ambito della funzione consultiva ad essa affidata dalla legge n. 59, per «fluidificare» l'applicazione di quelle disposizioni sulle quali si crei un rischio di dissenso. Il coinvolgimento degli enti locali appare di rilievo soprattutto in quello che costituisce uno dei passaggi più delicati del disegno riformatore in esame, costituito dalla fase di stesura delle leggi regionali per il conferimento di funzioni e responsabilità agli enti locali, nonché degli eventuali interventi sostitutivi in caso di inadempienza regionale (articolo 4, comma 5). La necessaria esigenza di completezza del disegno riformatore sembra richiedere una presenza effettiva delle associazioni rappresentative delle autonomie in entrambe le situazioni (qualora anche la seconda dovesse rendersi necessaria in qualche situazione particolare), al fine di evitare che la riforma rimanga di solo principio, senza poi tradursi concretamente nell'ordinamento.
La medesima istanza di coinvolgimento appare auspicabile anche con riguardo ad un'altra tra le fasi cruciali del processo di riforma, costituito dal trasferimento del personale. Si tratta di un aspetto forse finora non sufficientemente considerato, e che invece merita di essere attentamente approfondito, stante anche gli esiti non soddisfacenti (e gli elevati oneri aggiuntivi) che a suo tempo produsse il trasferimento di personale nell'attuazione del decentramento regionale. Sembra pertanto necessaria una qualche forma di raccordo con le rappresentanze sindacali, al fine di facilitare l'operazione: in mancanza, si potrebbe correre il rischio di realizzare una operazione astrattamente positiva ma di fatto difficoltosa e capace di mettere in crisi l'intero processo di riforma.
Va poi rilevato che l'importanza del coinvolgimento delle autonomie locali deriva anche dal nuovo disegno dei poteri legislativi delineato nel progetto di riforma costituzionale, ove i titolari di competenze proprie non sono costituiti più soltanto dallo Stato e dalle regioni, come nel decentramento finora attuato a norma della previgente legislazione, ma anche dagli altri enti locali. Una eventuale situazione di conflitto può dar luogo ad una variabile di forte criticità del nuovo sistema di decentramento, stante l'entità e le conseguenze sulla tenuta della nuova disciplina derivanti dall'istituto del conflitto di attribuzione: istituto che, è bene ricordarlo, viene fortemente sviluppato nel progetto di riforma costituzionale in corso, ove si prevede, in coerenza con il nuovo ordinamento federale delineato nel progetto medesimo, la promuovibilità della questione di legittimità costituzionale anche da parte di comuni e province.
Sembra comunque necessario sottolineare che un ruolo attivo e propositivo degli enti locali nell'implementazione del disegno organizzativo contenuto nella legge n. 59 si connetterà anche al quantum di risorse che accompagnerà il trasferimento delle funzioni. Senza uno stretto ed effettivo parallelismo tra l'assegnazione dei nuovi compiti e la dotazione delle corrispondenti risorse umane, materiali e finanziarie, la riforma potrebbe rischiare di ripercorrere le annose e note vicende già verificatesi nei precedenti tentativi di decentramento. Per questo aspetto risulterà fondamentale riscontrare - come contestuale «controprova» del decentramento via via operato - la reale riduzione

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dei poteri e degli apparati delle strutture amministrative centrali dello Stato.

4. La riforma amministrativa nella prospettiva della revisione costituzionale.

Poiché, peraltro, non può non convenirsi sul fatto che il nuovo assetto delle competenze scaturirà comunque solo dal processo di riforma costituzionale, in quanto soltanto tale livello garantisce stabilità e definitività al riparto di competenze tra i vari soggetti di governo territoriale, appare auspicabile che dalla riforma costituzionale risulti delineato un sistema delle autonomie e dei rapporti tra queste e lo Stato corrispondente a quello ora prefigurato dalla legge in esame; in caso contrario, qualora cioè il riparto delle competenze tra centro e periferia risulti diverso da quello ora in corso di attuazione, occorrerà necessariamente procedere ai necessari adeguamenti. Ad un primo esame, riferito alla fase attuale del progetto di legge costituzionale, sembra da osservare che per ora l'istanza federalistica non emerga ivi in termini di organizzazione istituzionale effettiva, e quindi che su tale terreno appaia attualmente «vincente» il disegno prefigurato dalla legge n. 59, che ha posto al centro dell'amministrazione le autonomie locali più vicine al cittadino, cioè i comuni. Si tratta di una scelta che allo stato appare più solida rispetto al livellamento organizzativo fissato nel progetto di legge costituzionale tra Stato, regioni, comuni e province: anche se occorre fin d'ora precisare che la costituzionalizzazione del principio di sussidiarietà previsto dall'articolo 56 del progetto medesimo potrebbe poi in definitiva far coincidere i due disegni istituzionali. Quel che appare certo, comunque, è che il parallelismo di competenze tuttora rispettato nella legge n. 59, stante le attuali competenze legislative concorrenti tra Stato e regioni, potrebbe venir superato nel momento in cui secondo le modifiche costituzionali in corso si arriverà ad una precisa distinzione di competenze legislative tra Stato e regioni: distribuite le funzioni potrebbe anzi poi pensarsi ad affidare al sistema delle autonomie poteri di tipo amministrativo maggiori rispetto a quelli ora previsti dalla legge n. 59. Tale sequenza consentirebbe di coniugare l'attribuzione delle nuove competenze amministrative con la perdurante vigenza del principio di legalità nel nuovo testo costituzionale, che, nella parte dedicata alla pubblica amministrazione, riconferma che non può sussistere attività amministrativa non riconducibile alla legge (che dovrà di volta in volta costituire la base legale del conferimento della potestà amministrativa).
Su questo punto deve essere chiaro che l'obiettivo del federalismo si pone al termine di un processo politico complesso, del quale la realizzazione dell'attuale progetto di riforma rappresenta semplicemente una fase. D'altra parte, i processi di integrazione europea e di globalizzazione potrebbero indicare nuovi punti di approdo. In questa linea si colloca, ad esempio, chi parla di «federalismo funzionale» e di tramonto dell'idea di sovranità.
Infine, maggiore attenzione sembra debba essere posta ai problemi che sono stati definiti di «geografia» delle istituzioni. Sul punto è


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emerso che non può ipotizzarsi uno schema rigido del tipo «macroregioni», ma, se mai, devono essere favoriti i processi che, partendo dal basso, consentano alle comunità locali di ricostruire precise identità storico-culturali.
A questo tema si connette quello del ruolo delle province, sulla cui presenza nel nostro ordinamento, in verità, sono stati espressi giudizi discordi. Al riguardo, si deve sottolineare che la provincia non è una entità artificiale e pertanto non può essere degradata a mero ente strumentale della regione; essa identifica storicamente una precisa comunità locale (il «contado» in contrapposizione al «comune») e quindi può e deve mantenere questo compito di ente esponenziale della propria comunità, assegnatole anche dalla legge n. 142 del 1990, con funzioni di governo del territorio e dell'ambiente.

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