Massimo SCALIA, Presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti e sulle attività illecite ad esso connesse. Sfidando la noia di tutti quanti voi, leggerò il mio intervento: se dovessi parlare a braccio, impiegherei forse il doppio del tempo.

Con questa mia introduzione, apriamo dunque i lavori del forum.

In questi anni di lavoro la Commissione d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti ha affrontato le diverse tematiche che riguardano questo particolare settore: dalla gestione dei rifiuti radioattivi alle problematiche connesse alla dismissione dell’amianto, dalla necessità di una gestione industriale del ciclo dei rifiuti ad una valutazione dello strumento del commissariamento per le regioni in stato d’emergenza. Un’attenzione costante – attraverso documenti, audizioni ed incontri – è stata attribuita agli illeciti nel ciclo dei rifiuti ed all’azione delle ecomafie.

Il 25 ottobre scorso, la Commissione ha approvato un documento dedicato proprio al tema che oggi qui vogliamo riprendere: gli illeciti nel ciclo dei rifiuti e l’azione delle ecomafie. In quel testo abbiamo messo in evidenza una serie di elementi che voglio qui riportare in maniera sintetica:

il ciclo dei rifiuti è un settore economico di sempre maggiore rilevanza ed in costante espansione, interessato da fenomeni illeciti in grado di provocare rilevanti distorsioni dei corretti meccanismi della libera concorrenza, nonché gravissime conseguenze ambientali e sanitarie;

abbiamo stimato che siano gestiti in maniera illecita circa 30 milioni di tonnellate di rifiuti l’anno, con un business illegale pari a circa 12 mila miliardi di lire l’anno ed un danno erariale calcolabile in circa 2 mila miliardi di lire l’anno;

sarebbe un errore attribuire solo alle ecomafie, intese nella loro accezione di clan della criminalità organizzata ed imprese collegate, l’intera responsabilità di tali fenomeni illeciti; esistono invece, e prosperano, società che proprio sulla gestione illecita dei rifiuti sembrano fondare le loro attività; si tratta di un reticolo di nomi ed aziende attraverso cui il rifiuto passa di mano, cambia le proprie caratteristiche (ovviamente sulla carta) e svanisce facendo perdere le sue tracce;

in diversi casi sono evidenti i segnali di contatti tra queste società e gli elementi e le aziende legati alla criminalità organizzata, il che porta a due conseguenze, entrambe allarmanti: la prima riguarda la capacità di penetrazione che la criminalità organizzata ricava grazie al suo agire nel mercato illecito dei rifiuti; la seconda è la conferma del fatto che nel mercato illecito dei rifiuti la concorrenza cede ad una logica di mutuo soccorso per spartirsi al meglio un business di proporzioni notevoli. In particolare, è noto che assai spesso i clan malavitosi che entrano in conflitto per il controllo degli appalti, del racket delle estorsioni, del traffico degli stupefacenti, si accordano invece per la gestione e lo smaltimento illecito dei rifiuti;

a fronte di una tale situazione e delle pesanti conseguenze ambientali e sanitarie, le forze di polizia e di contrasto nonché l’autorità giudiziaria si ritrovano con pochi strumenti a disposizione, nell’impossibilità – ad esempio – di utilizzare nel corso delle indagini le intercettazioni telefoniche o ambientali, e di contestare la stessa associazione per delinquere, non prevista per reati di natura contravvenzionale. Non solo: la rapida prescrivibilità di tali reati rende oltremodo difficile – qualora si individuino i responsabili – pervenire all’emanazione di condanne definitive. E’ noto infatti che nel nostro codice penale non esiste la fattispecie del delitto ambientale, figura prevista invece nella normativa di diversi altri Paesi, dalla Germania alla Spagna, alla Grecia.

Vorrei però evidenziare da subito un altro elemento; quando affermiamo la necessità di introdurre le fattispecie di delitti contro l’ambiente nel codice penale italiano – necessità espressa dalla Commissione monocamerale d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti che operò nella passata legislatura e ribadita da questa con un documento ad hoc approvato il 26 marzo 1998 – non intendiamo certo affermare che sia questa l’unica possibile forma di tutela dell’ambiente e del nostro territorio. Anzi, in più occasioni abbiamo segnalato come sarebbe errato cadere in quella che abbiamo definito la logica del ‘panpenalismo’. E’ necessario giungere alla modifica del codice penale, ma è altrettanto – o forse più – necessario poter disporre di un sistema di controlli in grado di prevenire o quanto meno ridurre drasticamente la stessa possibilità di commettere tali reati.

In questi anni di lavoro la Commissione ha potuto osservare la crescita del sistema Anpa/Arpa, crescita che non è ancora in vista dei livelli ottimali, ma che ha portato all’effettiva esistenza di una rete di controlli, nonostante vi siano regioni come la Sicilia o la Sardegna ancora non dotate di un’agenzia di protezione ambientale ed in altre importanti realtà (Lazio e Lombardia su tutte) le agenzie abbiano appena iniziato a muovere i primi passi. Né vanno dimenticati i dubbi che tuttora esistono circa lo stesso futuro del sistema Anpa/Arpa, per il quale non sono stati sciolti i nodi in ordine alla natura che la futura agenzia per il territorio dovrà avere, se cioè quella in qualche modo analoga ad un’authority o quella di soggetto internalizzato nelle strutture ministeriali.

E’ evidente che si tratta di nodi da sciogliere in tempi rapidi, per poter contare su una sempre maggiore efficienza ed efficacia dei controlli, dai quali dipende la prevenzione dei reati contro l’ambiente. Pensiamo soltanto a due ipotesi: la prima è quella relativa alle procedure semplificate previste dal "decreto Ronchi" per le imprese che intendono operare nel settore del recupero dei rifiuti. Com’è noto, tale norma – che aveva l’apprezzabile intento di favorire l’apertura di aziende che recuperassero le frazioni raccolte in maniera differenziata – è stata utilizzata anche per realizzare vere e proprie discariche abusive e per mettere in piedi truffe di notevole entità. Infatti, dal Lazio all’Emilia, dalla Toscana al Friuli, capannoni che avrebbero dovuto accogliere i macchinari per il recupero dei rifiuti sono stati in realtà riempiti solo di rifiuti ed abbandonati una volta saturi. I controlli amministrativi che avrebbero dovuto essere svolti entro 90 giorni dall’avvio delle presunte operazioni di recupero in diversi casi o non sono stati compiuti o hanno portato alla scoperta di queste vere e proprie discariche abusive.

L’eredità del mancato efficiente funzionamento della macchina amministrativa sono tonnellate e tonnellate di rifiuti, che hanno impattato in maniera negativa sulla programmazione regionale e costretto i comuni a sborsare ingenti somme per lo smaltimento di quanto era stato accumulato nel loro territorio.

Si tratta della truffa che abbiamo ribattezzato del ‘riciclaggio-fantasma’, nella quale sono cadute vittime anche enti locali illustri, come ad esempio Milano, anche a causa dei mancati controlli degli stessi enti locali truffati. Infatti, per avere riscontro dell’avvenuto corretto trattamento dei propri rifiuti non ci si può accontentare del documento di trasporto, soprattutto quando i rifiuti vengono inviati al di fuori del territorio regionale.

E’ questo solo uno dei metodi grazie ai quali si consumano illeciti nel settore dei rifiuti ed anche questo si basa sul meccanismo del cosiddetto ‘giro-bolla’. Sulla base di quanto abbiamo potuto constatare come Commissione, è possibile affermare che i rifiuti fanno molta più strada in maniera fittizia di quanta non ne percorrano in realtà. In sostanza, i formulari di identificazione vengono scambiati da un centro all’altro senza seguire affatto il percorso effettivo dei rifiuti, che si sottraggono a qualsiasi possibilità di controllo grazie a questo vorticoso giro di carte basato sul nulla, per finire in discariche non autorizzate a riceverli nella loro veste originaria, ma abilitate a riceverli dopo trattamenti effettuati solo in maniera virtuale.

Anche qui emerge la necessità di un più attento ed efficiente controllo amministrativo e preventivo: in questo senso la Commissione ha seguìto e sostenuto lo sviluppo del sistema check-rif, brevettato dall’Anpa, per il controllo in tempo reale dei trasporti di rifiuti; un sistema che dovrebbe implementare e – in una prospettiva di breve-medio termine – sostituire l’attuale sistema di rilevamento basato sui Mud. Debbo dire che suscitano perplessità le critiche avanzate a questo strumento sulle sue presunte difficoltà d’uso: quali difficoltà infatti potrebbero venire da un sistema analogo a quello diffusissimo del bancomat? Il check-rif consentirebbe di conoscere in tempo reale la produzione, la movimentazione e lo smaltimento o trattamento dei rifiuti, sostituendo nel contempo bolle e formulari, consentendo così alle aziende di risparmiare non pochi soldi di imposte di registro e di addetti alla compilazione dei formulari. Di fronte a questi vantaggi, coniugati alla semplicità d’uso del sistema, che cosa si può obiettare? O è ipotizzabile che vi sia chi preferisca non essere controllato?

E’ del resto evidente a tutti che se le ecomafie e la cosiddetta imprenditoria deviata prosperano è perché c’è qualcuno (anzi molti) che affida i suoi rifiuti a tali soggetti grazie, ai prezzi più che concorrenziali che questi, in un sistema di controlli ancora debole, riescono a praticare seguendo la logica del facile profitto e non quella del corretto adempimento delle prescrizioni ambientali.

La pervasività delle ecomafie è un elemento da sottolineare con forza; grazie all’inserimento nel mercato illecito dei rifiuti la criminalità organizzata riesce a penetrare, non dico ad impiantarsi, nelle cosiddette aree non tradizionali. In Toscana è stato scoperto come insediamenti turistici fossero stati acquisiti grazie ai proventi della gestione illecita dei rifiuti; indagini della procura di Torino hanno evidenziato la presenza di personaggi legati alla ‘ndrangheta calabrese all’interno di traffici che – per la prima volta – seguivano una direttrice tutta settentrionale, avendo come destinazione discariche abusive del Veneto o del Friuli-Venezia Giulia.

Ma soprattutto è da sottolineare che l’azione delle ecomafie ha condizionato e vuole condizionare le regioni meridionali, dove la criminalità organizzata è attiva ed ha un controllo capillare di molte aree del territorio tanto da rappresentare un anti Stato. Come ho già avuto modo di sottolineare in diverse circostanze, non è un elemento da ascrivere al destino se Campania, Puglia, Calabria e Sicilia (cioè i territori dove operano camorra, sacra corona unita, ‘ndrangheta e mafia) siano tutte in stato d’emergenza per quanto riguarda il ciclo dei rifiuti. E – al di là di quanto questa Commissione ha avuto modo di affermare nel documento sull’istituto del commissariamento – è evidente che le organizzazioni criminali stanno cercando di intervenire sulle situazioni d’emergenza e sulle possibili vie d’uscita.

Il caso della Campania, in queste settimane in una crisi gravissima vista la chiusura delle discariche a servizio della provincia di Napoli e dell’area salernitana, è senz’altro emblematico. E’ in corso uno scontro, che mi auguro decisivo nella direzione di chi vuole cambiare pagina, tra chi spera di tornare al sistema del ‘tutto in discarica’ e chi invece ritiene che non c’è più spazio per queste soluzioni, oltre tutto fuorilegge. Ad oggi, però, una volontà generale di voltare pagina incontra mille difficoltà, prima fra tutte quella logica utilitaristica per la quale i rifiuti prodotti sono un problema di qualcun altro. E’ questo atteggiamento che produce manifestazioni contro aree di trasferenza localizzate in lande deserte o contro centri di vagliatura o produzione di cdr proposti in aree industriali. Certo, la popolazione campana ha diritto ad essere risarcita per decenni di cattiva gestione del ciclo dei rifiuti e per aver ricevuto – in maniera del tutto illecita – i rifiuti, anche pericolosi, di altre regioni italiane. Ma questo non giustifica ciò che sta accadendo in questi giorni: o gli amministratori e i cittadini si faranno carico di un problema che è loro o la battaglia contro le ecomafie ed il partito delle discariche rischia di essere persa, in via definitiva: e non basterà nessuna riforma del codice penale per recuperare quest’occasione. I segnali positivi per fortuna non mancano: comuni che in pochi giorni sono passati da zero all’11 per cento di raccolta differenziata, comuni che richiedono di aderire subito ad una gestione avanzata del ciclo dei rifiuti. Serve a questo punto un grande sforzo collettivo ed una presa di coscienza generale dell’attuale determinante fase di transizione.

Per tornare al campo d’azione che potremmo definire classico delle ecomafie, vale a dire la realizzazione di traffici illeciti di rifiuti, abbiamo più volte evidenziato l'esistenza di una vastissima ramificazione di forme varie di criminalità comune ed organizzata, anche di tipo mafioso, praticamente in tutte le regioni d'Italia e che nel corso degli ultimi anni i traffici illeciti nel ciclo dei rifiuti non hanno segnato sensibili diminuzioni. È senz'altro aumentata l'attività d'indagine da parte dell'autorità giudiziaria e delle forze di polizia, ma con ciò - anche per i limiti normativi cui facevo prima riferimento - aumenta la statistica dei reati contestati e delle attività illecite perseguite senza un più significativo contenimento della situazione, che permane grave.

Non sembrano più esistere aree esenti da fenomeni di infiltrazioni di tipo mafioso nel ciclo dei rifiuti, pur con le forti differenze nell'entità del fenomeno nei diversi territori. In vaste aree del Paese non esiste una criminalità organizzata e radicata nel territorio: esistono però presenze ed attività anche di stampo mafioso nel ciclo dei rifiuti che non consentono più di parlare di "isole felici". In questo contesto si collocano alcune zone della Liguria, del triangolo Piemonte, Lombardia ed Emilia, alcune aree del Lazio e dell'Abruzzo. E non è davvero poco, se si riflette sulle caratteristiche di queste regioni e sulle progressive interferenze della criminalità organizzata che si sono registrate e che appaiono in espansione, con modalità operative sempre più subdole e raffinate (si pensi al meccanismo del "giro bolla" o al sistema di alterazione del mercato degli appalti) che significano disponibilità, strumenti e mezzi.

Dal già citato documento della Commissione sulle ecomafie si delinea una mappa della presenza della criminalità organizzata di tipo mafioso nelle aree esaminate: il dato è impressionante, perché essa risulta presente pressoché ovunque, sia pur con connotati, intensità e pericolosità di diverso livello. E se si considera l'altra mappa, quella che fa specifico riferimento alle metodologie, agli strumenti ed alle modalità operative, il quadro è altrettanto allarmante per la sua varietà e per il livello spesso sofisticato delle infiltrazioni e delle operazioni di inserimento, per la capacità dei criminali di usare le maglie della normativa per realizzare nuovi profitti e riciclare le quantità di denaro illegalmente acquisito. La procedura del cosiddetto "giro bolla", la centralità delle società di intermediazione commerciale e dei centri di stoccaggio temporaneo nelle operazioni illecite richiamano, infatti, il concetto del riciclaggio: i rifiuti vengono fittiziamente declassificati, grazie alla falsificazione dei documenti di trasporto, e sono quindi immessi nel legale circuito dei residui riutilizzabili, o inviati in impianti non idonei a riceverli o del tutto abusivi.

Vorrei ora fare riferimento a quelle che in questi anni abbiamo individuato come carenze a livello normativo. Il "decreto Ronchi" - che pure ha rappresentato un determinante cambiamento di rotta rispetto al quadro delineato dalla vecchia normativa sui rifiuti, in armonia con le direttive comunitarie - presenta spesso l’enunciazione di una regola cui seguono numerose eccezioni, subeccezioni ed eccezioni alle eccezioni, a volte disperse in più articoli (il tutto nell'ambito di un testo che si compone di 58 articoli, quasi tutti divisi in numerosi commi, e sei allegati). Da tutto ciò discendono inevitabilmente difficoltà di comprensione e, quindi, di concreta applicazione delle regole da parte degli operatori del settore, senza contare poi gli ulteriori strumenti attuativi che sono rimasti ancora da emanare. Il "decreto Ronchi" ha eliminato alcune previsioni fondamentali per il controllo sui movimenti dei rifiuti "dalla culla alla tomba", come è necessario per contrastare l'ecomafia. Mi limito a citare un aspetto contraddittorio: il trasportatore professionale di rifiuti ha l'obbligo di inserire nel registro le informazioni sulle caratteristiche qualitative e quantitative dei rifiuti e non anche quelle sulla loro origine e destinazione, laddove invece, recependo le direttive comunitarie, l'articolo 20 del "decreto Ronchi" impone alle province che i controlli sulla raccolta ed il trasporto dei rifiuti pericolosi riguardino, in primo luogo, l'origine e la destinazione dei rifiuti.

Venendo poi al profilo sanzionatorio delle violazioni relative al settore dei rifiuti, la realtà emergente dalle indagini svolte dalla Commissione, in particolare nelle regioni a tradizionale presenza mafiosa, rende evidente che, a fronte di attività illecite nel contesto delle quali si è inserita la criminalità organizzata, l'effetto della normativa ambientale vigente è praticamente nullo, giacché le modeste sanzioni previste sono del tutto inadeguate a fronteggiare e scoraggiare i vantaggi economici miliardari che determinano. Paradossalmente, in alcune situazioni l'azione di contrasto è resa possibile non perché l'oggetto dell'indagine è il traffico e lo smaltimento illecito di rifiuti, ma le operazioni finanziarie illecite che stanno a monte e che configurano fattispecie di delitti (si pensi al reato fiscale, al falso in bilancio); fuori dei casi, poi, in cui da subito emergono elementi che facciano ipotizzare i reati di falso, truffa, o di casi – talvolta difficili da configurare - di un disastro ambientale o dell'avvelenamento di acque, la Commissione ha dovuto registrare lo sforzo degli operatori di giustizia di ricercare ipotesi di reato "collaterali", che consentano di colpire la gestione illecita dei rifiuti.

Lo sforzo effettuato nell'utilizzazione normativa non può, tuttavia, surrogare l'esigenza di una norma precisa per ciò che attiene alle prassi applicative ed investigative. La semplificazione normativa e l'individuazione di meccanismi sanzionatori semplici, chiari ed efficaci, farebbero accrescere, invece, sia i livelli di deterrenza nei confronti dei soggetti destinatari delle norme che i livelli di efficacia dell'azione degli uffici requirenti e di polizia.

Già nella precedente legislatura, raccogliendo le indicazioni della conferenza Onu del Cairo del settembre 1995, la Commissione monocamerale d’inchiesta aveva segnalato l’esigenza di un inasprimento significativo delle sanzioni. Uno dei primissimi impegni in questa legislatura è stata la redazione di un documento, approvato all’unanimità il 26 marzo 1998, con il quale la Commissione formulava una proposta d'inserimento nel codice penale di alcune figure di reato previste come delitti, dalla cornice edittale non indifferente e concernenti condotte di danneggiamento dell'ambiente. La proposta è nota, ma voglio ricordare almeno che viene previsto l'inserimento nel titolo VI del libro II del codice penale di un capo relativo ai delitti ambientali, riconoscendo così alle aggressioni all'ambiente lo stesso disvalore giuridico che connota le condotte lesive dell'incolumità pubblica e della salute pubblica.

Non è questa l’unica proposta sul tavolo, poiché, accanto a quelli parlamentari, anche il Governo (nell’aprile 1999) ha presentato un proprio disegno di legge. Purtroppo, si deve rilevare con rammarico che, a fronte delle spinte in questa direzione che vengono da formazioni sociali ed organi istituzionali, i progetti di legge per l'introduzione dei delitti ambientali nel codice penale giacciono da quasi due anni all'esame del Senato. Queste incertezze del legislatore, questa eccessiva dilatazione dei tempi di approvazione dei nuovi strumenti di prevenzione e di contrasto, non soltanto sono produttivi di effetti assai negativi rispetto alle situazioni già in atto, ma - è bene dirlo - a causa del forte impatto che esse hanno sulla società civile, ad ogni livello, rischiano di minare anche l'azione tenace e caparbia di coloro che sono impegnati da anni nella difesa di un bene prezioso per tutti e che richiede uno sforzo comune, la cui tutela, invece, rimane ancora in larga parte affidata all'iniziativa volenterosa del singolo magistrato o del singolo rappresentante delle forze dell'ordine, oppure alla denuncia di un'associazione ambientalista.

Sulla base di queste valutazioni, nonché tenendo in considerazione le numerose segnalazioni da parte degli operatori di giustizia in merito all’irrisorietà delle sanzioni attualmente vigenti – con le conseguenti difficoltà pratiche cui ho prima fatto cenno –, l’Ufficio di Presidenza della Commissione ha richiesto un incontro al Capo dello Stato cui ha fatto presente la gravità della situazione e la distanza tra le gravi e ripetute aggressioni criminali all’ambiente, il comune sentire di forte condanna rispetto a tali atti ed un codice penale che per questi argomenti mostra di non essere al passo con i tempi.

Ciò nonostante, la Commissione ha rilevato che negli ultimi anni la magistratura ha mostrato un interesse ed una capacità culturale in grado di andare al di là dei singoli fatti, di particolare rilievo, di cui questa o quella procura si stesse occupando, per acquisire finalmente una maggiore consapevolezza della gravità e delle dimensioni del problema ed impegnarsi in attività di formazione e specializzazione nel settore, che devono, però, essere intensificate e garantite sin dall'inizio a coloro che andranno ad occuparsi di tematiche ambientali nelle sedi giurisdizionali di destinazione e vanno completate con la realizzazione di forme stabili di coordinamento tra i diversi uffici giudiziari.

A livello normativo abbiamo colto il segnale positivo rappresentato dall'introduzione - da parte del Senato - del delitto di traffico illecito di rifiuti nell'ambito del disegno di legge n. 3833 approvato lo scorso 26 luglio. Un segnale positivo, certo, ma senza i necessari connotati di organicità della riforma, che solo l'introduzione delle fattispecie di delitto ambientale nel codice penale potrà dare. Interventi ed innovazioni richiesti peraltro anche da organismi sovranazionali, come il Consiglio d’Europa, che oltre tre anni fa ha varato una convenzione sulla protezione dell'ambiente attraverso il diritto penale, che il nostro Paese – date le insufficienze normative di cui ho parlato – avrebbe, diciamolo eufemisticamente, qualche imbarazzo a sottoscrivere.

Sempre su un terreno generale, le forze di contrasto debbono mostrare una maggiore specializzazione nel settore unita ad un rafforzamento dei nuclei e dei corpi impegnati sul versante dell'illegalità ambientale; così come è necessaria l'istituzione di forme di coordinamento tra gli uffici giudiziari, che consentano a tutti gli operatori di avvalersi di banche-dati aggiornate e comprensive di tutti gli elementi di conoscenza utili, assicurando sinergia di azione e, soprattutto, l'assenza di duplicazioni di interventi. Questo per tenere conto del nuovo volto imprenditoriale assunto anche dai clan della criminalità organizzata: non è insomma più il "solo" smaltimento illecito, ma l'aggressione ad un settore economico il fenomeno da combattere. A forme di aggressione così rilevanti e sempre più sofisticate si deve infatti rispondere con strumenti avanzati, quali le indagini patrimoniali e le attività di intelligence in campo economico, e con previsioni di legge effettivamente dissuasive.

Di nuovo, la sola via repressiva non è la panacea per gli illeciti nel ciclo dei rifiuti, essendo naturalmente prioritario l’adeguamento ed il rafforzamento del sistema amministrativo dei controlli e delle altre forme di intervento preventive. Da questo punto di vista, come detto, la situazione è nel corso degli anni senz'altro migliorata, restando però ancora ad un livello insufficiente; del resto, la migliore garanzia contro l'incidenza degli illeciti è in realtà proprio il buon funzionamento di tutto il ciclo dei rifiuti, centrato su un sistema di gestione integrata, con elevati stantards di qualità, sia rispetto alle tecnologie impiegate che ai servizi offerti. Dove si afferma l'esercizio corretto di un sistema integrato a servizio di tutta un'area, gli spazi per comportamenti illeciti se non si annullano si riducono drasticamente, come la Commissione ha potuto direttamente osservare. Né vanno sottaciute le positive ricadute in termini occupazionali derivanti da una gestione integrata e tecnologicamente avanzata del ciclo dei rifiuti. Non è questa però, purtroppo, la situazione generale del Paese. A maggior ragione, pertanto, la modifica del codice penale rappresenterebbe un rilevante segnale di volontà politica. L'auspicio è che l'unanimità di consensi registrata in Commissione, nonché la grande tensione nella direzione dell'introduzione del delitto ambientale rilevata tra gli operatori del settore, non venga ulteriormente delusa.

L’incontro di oggi si svolge peraltro in un periodo che potrebbe rappresentare quanto meno l’inizio di un salto di qualità nella lotta alle ecomafie. E’ infatti stato approvato dal Senato, ed è ora all’esame della Camera, il disegno di legge che – sotto la voce nuovi interventi in campo ambientale – introduce sanzioni penali per il traffico illecito di rifiuti pericolosi. Tutti noi siamo consapevoli della necessità di una riforma organica, ma – come ho avuto modo di far presente con una lettera a tutti i presidenti dei gruppi parlamentari della Camera – è l’ultima occasione perché questa legislatura riesca quanto meno a prevedere sanzioni più severe per le fattispecie di delitto più gravi. Sono certo che anche questo incontro, la cui data è stata fissata in modo non certo casuale, contribuisca ad andare in questa direzione.

Gioacchino NATOLI, Presidente della X commissione del Consiglio superiore della magistratura. Ringrazio innanzitutto il Presidente, on. Massimo Scalia, per l’invito a questo forum e per la sua interessante relazione introduttiva.

Dico subito che limiterò il mio intervento alla sintetica esposizione di pochissime riflessioni di carattere generale, attesa la presenza di molti illustri relatori, che hanno una vasta esperienza in questa specialistica materia ed ai cui interventi non vorrei sottrarre tempo prezioso.

La prima riflessione riguarda, ovviamente, l’azione del crimine organizzato nel settore dei rifiuti. Quest’ultimo infatti - anche per quanto ho avuto modo di approfondire nell’attuale responsabilità di presidente della commissione consiliare che si interessa di criminalità mafiosa - appare essere il campo di azione nel quale le associazioni criminali hanno maggiormente manifestato la propria presenza, al di là chiaramente dei cosiddetti reati "strutturali" (stupefacenti, armi, estorsioni), ovvero di tutti i reati mirati espressamente alla penetrazione nell’economia e nel mercato, sia legali che illegali.

Cosa nostra e le organizzazioni similari, come ben sappiamo, si inseriscono finalisticamente in qualsiasi attività - lecita o illecita - che sia comunque redditizia ed hanno mostrato già da qualche tempo di trovare un terreno di sicuro interesse in alcuni segmenti economici con rilevante ricaduta ambientale, quale appunto quello correlato allo smaltimento dei rifiuti.

Tuttavia questa affermazione, certamente vera, va meglio analizzata ed approfondita, sia per evitare di cadere in una possibile "confusione delle lingue" (che non giova alla corretta informazione della collettività) sia per ridurre il rischio - sempre incombente - di dire che "tutto è mafia". Infatti, facendo questa errata generalizzazione, si provoca l’ulteriore risultato negativo di spostare la preziosa attenzione dei cittadini onesti dal vero "cuore" del problema-mafia; un "cuore" che - nel nostro Paese - ha bisogno di essere sapientemente distillato nel campo della comunicazione, se non si vuole ancor più aggravare il marcato disinteresse che esso suscita nel mondo dei media da almeno un quinquennio.

Intendo dire che bisogna sforzarsi anche in questo caso, come già in quello delle cosiddette nuove mafie straniere, di distinguere nettamente le situazioni in cui le organizzazioni mafiose tradizionali sono "ontologicamente" presenti dai casi in cui, viceversa, esse risultano solo "occasionalmente" o "casualmente" interessate. Meno che mai, poi, vanno ricondotte al comune denominatore "mafia" quelle presenze, che riguardano soggetti o imprese solo indirettamente o genericamente ricollegabili ad organizzazioni mafiose; in special modo - mi permetto di insistere - in tutti quei casi in cui la criminalità organizzata di stampo mafioso sta cercando di passare dal mero interessamento allo smaltimento abusivo dei rifiuti al tentativo, invece, di controllare organicamente il sistema degli appalti per la gestione del settore, soprattutto in talune aree specifiche, come ad esempio la Campania, la Sicilia e la Calabria, "regioni a rischio" per eccellenza anche in questo campo.

Ritornando al problema dal quale ho preso le mosse, credo che l’attenzione vada posta in particolare sul sistema di smaltimento dei rifiuti "speciali e pericolosi" (pari a circa 80 milioni di tonnellate l’anno), nel quale - a dire di autorevoli esperti - il bilancio tra la produzione delle sostanze e lo smaltimento dichiarato ed ufficiale delle stesse sembra non tornare affatto, se è vero che circa un terzo dei 108 milioni di tonnellate di rifiuti prodotti annualmente in Italia sarebbe eliminato, secondo stime ufficiali, in maniera non corretta o illecita. Con l’ulteriore versante - da sottoporre pure a speciale osservazione - costituito dai traffici internazionali di rifiuti speciali "pericolosi": penso, ad esempio, ai materiali radioattivi provenienti dallo smontaggio di centrali nucleari nei paesi dell’est, ovvero alla commercializzazione clandestina di gas illegali (come il cfc) attraverso l’uso sempre più frequente di carrette del mare a perdere. Questo dei traffici "via mare", infatti, è un settore nel quale mi sembra di poter sfruttare quell’ipotesi generale - avanzata oltre un decennio fa dall’allora Alto commissario antimafia prefetto Sica - di una sorta di "agenzia del crimine": è un settore, cioè, gestito quasi sempre dagli stessi soggetti (soprattutto nel Mediterraneo), i quali offrono la propria rete di servizi a varie attività criminali, che vanno dal contrabbando di tabacchi esteri al traffico di stupefacenti, dai flussi di immigrazione clandestina al mercato degli esseri umani.

Il panorama generale è, dunque, preoccupante e meritevole di una costante e solerte vigilanza da parte delle istituzioni e della collettività: ma va mantenuta sempre - mi permetto di ribadirlo - una corretta selettività nell’analisi complessiva del fenomeno e nell’informazione che ne consegue. Dal recente "Documento sui traffici illeciti e le ecomafie", approvato il 25 ottobre 2000 dalla Commissione parlamentare d’inchiesta, così bene presieduta e guidata dall’onorevole Scalia, emergono informazioni e dati che destano speciale preoccupazione circa il rapporto intercorrente fra traffico illegale dei rifiuti e criminalità mafiosa, soprattutto perché il documento si basa su indagini giudiziarie e su testimonianze provenienti da noti magistrati, alcuni dei quali sono qui presenti.

Come è noto, l’associazione criminale maggiormente attiva nel settore sembra essere la camorra, che, controllando "di fatto" gran parte del territorio campano, non solo gestisce i siti finali di smaltimento dei rifiuti, ma estende il proprio campo di azione anche al trasporto degli stessi attraverso imprese cosiddette contigue. La mia conoscenza di quella realtà criminale non è specialistica ed attendo con speciale interesse, pertanto, di avere notizie più aggiornate dai colleghi che operano in quel territorio per verificare, appunto, quale sia stato il risultato specifico delle indagini concluse e dei processi definiti con sentenza, con particolare riguardo al coinvolgimento certo di soggetti collegati, appunto, alla criminalità organizzata campana.

Una considerazione analoga mi sento di fare - in attesa anche qui di ascoltare l’intervento del dottor Cisterna - per la peculiare situazione della Calabria, ove l’infiltrazione capillare nel tessuto economico da parte della ‘ndrangheta è talmente diffusa ed invasiva da far presumere - al di là di ogni ragionevole dubbio - che anche il comparto economico dei rifiuti non possa essere sfuggito al suo controllo illecito e totalizzante.

La situazione che meglio conosco, ovviamente, giacché vi ho lavorato a lungo e spero di ritornarvi presto, è quella siciliana. La dimensione "imprenditoriale" di Cosa nostra è ben nota sin dalla fine degli anni settanta e può ben dirsi che essa ha attraversato trasversalmente ogni forma di attività economica, esercitando un controllo così efficace del territorio da poter affermare - senza tema di errore - che fino a sette o otto anni fa lo Stato era - se non un ospite - sicuramente un soggetto secondario nelle dinamiche effettive del governo dell’economia regionale.

Per dirla efficacemente con le parole di un noto "uomo d’onore", poi divenuto collaboratore di giustizia, soprattutto nella zona palermitana dell’isola non si poteva "piantare un chiodo" senza che Cosa nostra intervenisse per autorizzare l’intrapresa ed esercitare così la propria illecita "fiscalità generale". Il settore degli appalti, come ormai consacrato in molte sentenze, è stato il terreno di elezione del business degli anni ottanta e novanta, con un intervento diretto dell’organizzazione mafiosa nella programmazione dell’aggiudicazione degli appalti di opere pubbliche e dell’appropriazione di rilevanti flussi di denaro pubblico. Sarebbe sciocco pensare, quindi, in un quadro di così grave dissesto della "legalità statuale", che il settore connesso al ciclo dei rifiuti non sia stato permeato da persone fisiche o giuridiche riconducibili in qualche modo a Cosa nostra. Tuttavia, per quelle che sono le mie conoscenze giudiziarie, il fenomeno è forse meno vasto di quanto si potrebbe, a tutta prima, pensare. Mi sento, pertanto, di rischiare l’affermazione che, al di là di pochi casi (forse meno di una decina in tutta la Sicilia), il fenomeno sia - almeno allo stato - in qualche misura circoscritto e che, in molte delle situazioni giudiziariamente rilevate, la presenza di soggetti pur collegabili al mondo del crimine sia più la conseguenza della diffusione di un sistema imprenditoriale in gran parte "malato" che non, invece, il frutto di una precisa volontà elettiva di inserimento nel settore. Il tutto tra l’altro - e ciò va detto in modo chiaro e netto - in una situazione generale in cui i controlli amministrativi sono o quasi del tutto assenti o scarsamente efficaci, oppure soggetti a forme di diffusa collusione/corruzione ambientale.

Sembra confortare questa mia lettura, che forse potrà apparire azzardata o minimalista, lo stesso ricordato documento della Commissione, in cui i casi rilevati in tutta la Sicilia non mi paiono indicare - in modo univocamente sintomatico - una presenza mafiosa attiva ed invasiva, soprattutto se li si confronta con quelli evidenziati in Campania. Spero ardentemente di non sbagliare diagnosi, ma sono stato indotto ad esprimerla anche dalla presenza di autorevoli ed aggiornati esperti, quali il procuratore nazionale antimafia, dottor Vigna, ed il procuratore distrettuale di Palermo, dottor Grasso, i quali potranno, eventualmente, correggere la "cifra" di questa mia lettura. Vi sono grato, comunque, per l’attenzione che avete voluto prestare al mio intervento e vi ringrazio per la benevolenza.

Pier Luigi VIGNA, Procuratore nazionale antimafia. Presidente, la ringrazio per questo invito. L’attesa della sua relazione, che ha colto tutti gli aspetti del problema – come quella d’altra parte del collega Natoli – mi fa pensare che non sia stata una cattiva scelta la mia, quella di iniziare da un qualcosa che apparentemente non ha niente a che fare con questo tema: cioè, dal coro dell’Antigone di Sofocle, il cui inizio è dato da questo verso: "Molte ha la vita forze tremende, eppure più dell’uomo nulla è tremendo".

È per l’appunto riportando questi versi che un filosofo moderno tedesco, Jonas, ha scritto un libro intitolato "Principio di responsabilità", con il sottotitolo: "Un’etica per la civiltà tecnologica". Così inizia questo libro, del quale scorro alcune frasi: "Questo omaggio angosciato al potere angosciante dell’uomo narra della sua irruzione violenta e violentatrice nell’ordine cosmico, della sua temeraria invasione nelle varie sfere della natura, grazie alla sua infaticabile intelligenza. Ciò che non viene espresso, essendo per quei tempi scontato, è che il sapere dell’uomo, malgrado tutta la grandezza della sua sconfinata inventiva, era ancora sempre piccolo se commisurato agli elementi. Appunto questa circostanza rende così temerarie le sue irruzioni in essi e consente loro di tollerare la sua insolenza. Questo risulta vero, perché prima del nostro tempo gli interventi dell’uomo sulla natura, come lui stesso li vedeva, furono essenzialmente superficiali, incapaci di turbare il suo equilibrio stabilito. Tutto questo è decisamente mutato. La tecnica moderna ha introdotto azioni, oggetti e conseguenze di dimensioni così nuove, che l’ambito dell’etica tradizionale non è più in grado di abbracciarle. Si prenda ad esempio, quale prima e maggiore trasformazione del quadro tradizionale, la vulnerabilità critica della natura davanti all’intervento tecnico dell’uomo. Questa scoperta, il cui brivido portò all’idea e alla nascita dell’ecologia, modifica per intero la concezione che abbiamo di noi stessi in quanto fattore causale nel più vasto sistema delle cose. Essa evidenzia mediante i suoi effetti che la natura dell’agire umano si è modificata e che un oggetto di ordine completamente nuovo, nientemeno che l’intera biosfera del pianeta, è stato aggiunto al novero delle cose per cui dobbiamo essere responsabili, in quanto su di esso abbiamo potere. È quanto meno non privo di senso chiedersi se la condizione della natura extraumana, la biosfera, ora sottomessa al nostro potere nel suo insieme e nelle sue parti, sia diventata appunto qualcosa che è dato in custodia all’uomo e avanzi perciò nei nostri confronti una sorta di pretesa morale, non soltanto a nostro ma anche a suo favore, in base ad un proprio diritto".

Di fronte a queste considerazioni, che ho brevemente estrapolato, mi pare inoppugnabile che in Italia, sotto il profilo legislativo, a parte quelle che vengono chiamate norme-manifesto (come la normativa che ha mutato il reato di incendio, facendo un’ipotesi delittuosa autonoma, di delitto, quella che prima era un’ipotesi di delitto aggravato), non sia stato prodotto nulla, mentre quella produzione legislativa sull’incendio è ancorata alla mentalità che portò alla formulazione del codice penale del 1930, basata su una società agricola. I motivi dell’incendio ora possono essere mutati, in Calabria abbiamo visto che certi incendi avvengono in zone demaniali dove si coltiva la marijuana. Ancora, abbiamo degli interventi di grosso impatto sull’opinione pubblica, se ad Agrigento si è scomodato persino padre Pio; di grosso impatto anche nel nostro panorama giurisprudenziale, se la Cassazione per il "mostro" di punta Perotti si è mostrata più sensibile dei giudici di merito; ancora per l’eliminazione di pugni nell’occhio come l’albergo del Fuenti, però siamo rimasti a questo livello di fronte alle osservazioni del filosofo.

Vi fu – è già stato ricordato – il disegno di legge n. 2570 del 1997, volto a conferire la delega al Governo per la depenalizzazione dei reati minori, una cui parte estrapolata dette luogo al disegno di legge n. 2570-bis, relativo all’ambiente ed ancora in discussione. Ma anche qui si ha una semplificazione del sistema sanzionatorio e se leggo le norme (prevedere, trasformare in violazione amministrativa i reati; eliminare le sanzioni penali per le violazioni diverse; prevedere sanzioni amministrative ripristinatorie, prevedere l’estinzione dei reati edilizi urbanistici in tutti i casi di osservanza delle sanzioni ripristinatorie; eliminare la duplicazione delle sanzioni penali; trasformare in violazioni amministrative tutti questi reati) vedo che la mania depenalizzatrice nel settore dell’ambiente è stata particolarmente sentita dal legislatore.

Sono invece rimasti singolarmente fermi il famoso disegno di legge Scalia, Biondi, Bonito ed altri (raggruppava quindi esponenti di vari partiti, mi sembra), che fu presentato il 2 aprile 1998, volto ad inserire nel codice penale un particolare titolo di delitti contro l’ambiente, ed in buona parte anche quello presentato dai ministri Ronchi e Diliberto. Le ragioni che militano a favore di una difesa - tutto bene per la prevenzione - forte, anche penalistica, sono state esposte da lei, caro Presidente, e sono esposte nelle relazioni ai disegni di legge. Ne voglio citare solo un paio.

Innanzitutto, mi riferisco al valore, connettivo degli interessi su cui deve radicarsi una società, che ha l’inserimento di una disposizione nel codice penale, anziché uno sparpagliamento in vari testi. Tale inserimento, a parte la proposta della Bicamerale, per cui tutti i nuovi delitti dovevano essere inseriti nel codice penale, oltre che rispondere ad una ragione di chiarezza metodologica, come del resto hanno fatto in altri Paesi, ha anche un valore simbolico.

Presidente, riflettevo su questo, proprio mentre lei parlava: a Palermo, con grande sfoggio di delegazioni, dal 10 al 12 dicembre scorsi sono stati posti alla sigla di tutti i Paesi del mondo due protocolli ed una convenzione ONU contro la criminalità organizzata transnazionale. Ora, se c’è un tipico caso di criminalità transnazionale, è ormai proprio questo. Allora si dice intanto che esiste la struttura criminale organizzata, quando fra gli altri requisiti ha di mira la commissione di un reato grave, e tali si considerano quelli che hanno una pena non inferiore a quattro anni di reclusione. Quindi con la nostra legislazione, anche in base a questo moderno strumento, ci troveremmo del tutto spiazzati rispetto ad una cooperazione che l’ONU e tutti noi vogliamo sia non più solo dei soliti 15 Paesi dell’Unione europea (che serve, ma serve a poco), non solo dei 41 Paesi dell’Europa, ma di tutto il mondo.

Lei è una persona molto cortese, penso che lo sappia meglio di me: ci sono interessi forti – diciamolo, – ci sono poteri forti che non vogliono questa legge e che sono semplicemente coloro i quali producono rifiuti. La responsabilità è soprattutto di questi, che vogliono non si prosegua con una certa legislazione. Non ho altre ragioni da evidenziare alla mia coscienza se non queste. Ci saranno ragioni di economia industriale, e di queste sono ben sicuro, ma la stessa creazione di norme sovrapposte, intricate e dunque facilmente violabili, è una sicura manifestazione di questa resistenza.

Vedo soprattutto nel non aver letto il coro dell’Antigone di Sofocle la ragione vera che si oppone ai progressi che tutti auspichiamo.

Pietro GRASSO, Procuratore distrettuale antimafia di Palermo. È un po’ difficile, dopo la relazione del Presidente Scalia e gli interventi che mi hanno preceduto, riuscire ancora a dire qualcosa di originale. Mi sforzerò comunque di dare il quadro, già fornito alla Commissione in altre occasioni, ma alquanto più aggiornato ed attuale, dell’emergenza rifiuti in Sicilia.

Negli ultimi anni certamente la magistratura in generale, e quella che si occupa di criminalità organizzata in particolare, ha mostrato maggiore interesse, capacità culturale e consapevolezza che il problema ecologico-ambientale è sempre più importante. A questo maggiore interesse ha corrisposto un maggiore impegno in attività da un lato di specializzazione nel settore, dall’altro di coordinamento con altri uffici giudiziari. Il fine precipuo è quello di raccogliere sempre maggiori elementi da parte della magistratura, per mettere a fuoco il problema dal punto di vista repressivo.

Già la riforma del giudice unico ha agevolato la soluzione del problema, perché oggi, con la fusione degli uffici della procura presso la pretura con quelli della procura presso il tribunale, siamo un unico ufficio dove è possibile cominciare a vedere i fenomeni, delle contravvenzioni ambientali, sia da parte della mafia che delle organizzazioni di tipo mafioso. È importante in questi uffici presso le direzioni distrettuali antimafia, che poi si collegano con la procura nazionale antimafia del collega Vigna, riuscire a porre le basi organizzative innanzitutto per un lavoro proficuo, per portare avanti, diffondere ed utilizzare tutti questi elementi conoscitivi.

Diciamo che dell’argomento si occupano sia giovani esperti in materia contravvenzionale nella difesa dell’ambiente, che già hanno fatto questo lavoro, sia quell’ufficio che – attraverso la mediazione di un procuratore aggiunto – ho creato nell’ambito della procura della Repubblica di Palermo, di un dipartimento di criminalità economica e di misure di prevenzione patrimoniale, ossia il settore specializzato nell’ambiente. Perché questa commistione? Perché è evidente, e a tutti appare tale, che oggi cominciare a parlare di ecologia e di tutela dell’ambiente e quindi di territorio significa nelle realtà meridionali, come è stato abbondantemente messo in evidenza, cominciare a mettere gli occhi sulle attività di chi controlla il territorio e quindi delle mafie.

Questo dato che ho conosciuto dalla relazione mi ha impressionato, perché vedevo soltanto il dato regionale siciliano: se tutte le regioni del sud, dove esiste la criminalità di tipo tradizionale, organizzata, mafiosa, sono nella stessa condizione, una qualche spiegazione ci sarà. La spiegazione risiede proprio nel fatto che non si vogliono certe cose, non c’è la volontà politica, che è a sua volta segnale della mancanza di un’altra volontà, quella imprenditoriale, che spesso è legata, fa da tramite - da interfaccia, per usare un termine informatico – con un’altra realtà, che è quella mafiosa.

Ecco che dall’analisi cominciamo a capire un po’ meglio di che cosa ci dobbiamo occupare. E’ certo che il fine precipuo oggi diventa quello di cogliere i collegamenti tra l’attività degli operatori nel settore dei rifiuti e le attività illecite conseguenti appunto all’accertato interesse della mafia per questo settore.

Nel corso di intercettazioni telefoniche – mi sembra di averlo già rappresentato alla Commissione quando è venuta a Palermo, ma mi piace ricordarlo anche ai presenti – sempre più registriamo questo marcato interesse per il settore. Nel corso di un’indagine un mafioso diceva, per indurre l’altro ad investire nel settore: "Ricordati, trase munnizza, nesce oro", cioè: "Entrano rifiuti, esce oro".

Questo è quello che sentiamo, per cui non portiamo dati di previsione, ma dati di interesse ben specifico, e da lì partono le varie indagini. Attualmente abbiamo solo il fenomeno delle discariche, perché è l’unico che cerca di risolvere i problemi giornalieri dei rifiuti. Non ci sono altre aspettative, perché abbiamo un ente regionale che è di cinquant’anni indietro nel settore. Adesso, con tutta la buona volontà, è difficile recuperare, quindi si crea l’emergenza. Questo significa poter gestire enormi capitali da un punto di vista amministrativo con minori controlli, il che serve: infatti nel nome dell’emergenza, sia quella idrica sia quella dei rifiuti, in Sicilia e nelle altre regioni tutto diventa più facile, la gestione da un punto di vista amministrativo più superficiale, quindi ecco che si potrà forse realizzare qualcosa. Purché, però, si realizzi qualcosa! Siamo al punto quasi di desiderare che comunque sia si realizzi qualcosa, piuttosto che non avere niente (dico questo da cittadino, non parlo da procuratore della Repubblica).

I livelli di attuazione della legislazione inerente alla gestione del ciclo dei rifiuti (si allude al "decreto Ronchi") appaiono molto bassi, per questa scarsa sensibilità verso il problema dei rifiuti oltre che, come abbiamo detto, per il controllo diffuso e pervasivo della mafia. La situazione è talmente drammatica che è scaduto il primo decreto di emergenza, che già nel gennaio 1999 aveva dichiarato lo stato di emergenza per l’intera regione siciliana e se n’è dovuto fare un altro senza che i problemi nemmeno siano stati affrontati. Questo in nome dell’emergenza. Abbiamo quindi un secondo decreto di emergenza, che fissa la fine dell’emergenza (ma sappiamo come andranno queste cose…) al 31 dicembre 2001, cioè alla fine di quest’anno.

Il dato che posso fornire come aggiornamento è che la regione Sicilia ha provveduto a redigere un piano provvisorio delle priorità di intervento, una commissione lo ha approvato ma ancora non è stato nemmeno redatto, anche se so che si lavora (alacremente, mi dicono) alla redazione di questo piano generale per lo smaltimento dei rifiuti: il che significa individuare siti, strutture, nonché i luoghi dove saranno realizzati i futuri investimenti. Questo non è poco, per cui occorre un accordo di base, che non è solo tecnico, ma anche politico. In atto, agiamo in emergenza perché l’ordinanza del Ministero dell’interno, permette ai prefetti l’uso di ordinanze urgenti ai sensi dell’articolo 13 del "decreto Ronchi".

Comunque, a parte l’impegno di una rinnovata cultura della protezione dell’ambiente come bene insostituibile per i cittadini, notevoli sono le difficoltà che continuiamo ad incontrare sia per la prevenzione, che per i controlli e la repressione.

Confermo quanto già messo abbondantemente in evidenza dal Presidente Scalia, che cioè sostanzialmente da noi non esiste un sistema di controlli. Non mi sento di dire che sia inefficiente, perché in effetti proprio non c’è. La legislazione in materia di controlli amministrativi forse va riordinata, dando la competenza ad un unico organo che faccia solo quello, perché si trovano sempre emergenze e priorità diverse, per cui si trascura questo tipo di controlli. Chi dovrebbe incaricarsene? La polizia municipale dovrebbe controllare il territorio? O la guardia forestale, che però in Sicilia dipende dall’assessorato regionale all’agricoltura, vale a dire un corpo a parte, non inserito in ambito nazionale?

Chi li deve fare quindi questi controlli? Sono attualmente dispersi tra più enti, senza demarcazione di poteri, e poi c’è una sostanziale commistione di poteri autorizzativi e poteri di controllo affidati agli stessi organi. Questo genera confusione (genera anche altre cose, ma non le possiamo dimostrare e quindi sorvoliamo…). Ben venga quindi il check-rif. Magari potessimo avere qualcosa del genere! Per noi sarebbe un aiuto immenso, perché ancora oggi solo l’iniziativa e l’intervento del giudice penale vengono considerati come sostitutivi dell’attività di controllo e questo non possiamo ammetterlo in linea di principio. Siamo sempre disponibili a fare opere di supplenza, che però poi ci vengono ribaltate contro per dire che esageriamo in questa supplenza.

Per quanto riguarda l’attività repressiva, sia la polizia che la magistratura si trovano di fronte ad un duplice compito, che comporta un duplice ordine di difficoltà; perché appunto, come dicevo prima, intanto questa attività deve perseguire la miriade di singoli fatti delittuosi, non sempre di facilissimo accertamento, derivanti dalla violazione delle pressoché infinite norme penalmente sanzionate poste dalla legislazione in materia sanzionatoria. È vero che c’è la depenalizzazione, ma ne sono rimaste anche alcune di difficile accertamento. Questo è un compito che assorbe buona parte delle energie disponibili, per quanto riguarda sia la polizia giudiziaria, che i magistrati.

Poi c’è la criminalità organizzata, che come abbiamo detto controlla e sfrutta a proprio vantaggio molte delle violazioni in materia ambientale, specie con riferimento ai fenomeni più gravi di abusivismo edilizio, oltre che alla gestione delle discariche abusive e del traffico illecito dei rifiuti. Siamo pienamente concordi con il Presidente e ci uniamo al coro di Antigone come ha illustrato il procuratore Vigna), ma certamente si deve dire con chiarezza che gli strumenti normativi a disposizione del pubblico ministero per fronteggiare questi fenomeni sono assolutamente inadeguati. Ci uniamo anche alla valutazione che se qualcosa non si fa per la tutela e la difesa dell’ambiente, nonostante tutto quello che è palese, che non può essere contraddetto, sul quale insomma tutti sono d'accordo, qualche motivo ci deve essere. Concordo nell’analisi secondo la quale ci sono interessi talmente forti che forse frenano queste spinte verso la soluzione di certi problemi.

Il fatto che molte fattispecie sono previste da contravvenzioni – e talune anche depenalizzate – provoca l’impossibilità di agire, ma anche quella di usare mezzi di indagine nei confronti della criminalità organizzata. Nessuno dei reati in materia ambientale raggiunge i limiti di pena cui la legge condiziona la possibilità di disporre intercettazioni. Lo stesso discorso vale per quanto riguarda le misure cautelari personali, che pure sarebbero certamente giustificate nei casi più gravi, in cui il danno arrecato alla collettività, e a volte anche ai singoli individui, è di gran lunga maggiore di quello cagionato da molti dei reati contro il patrimonio, per cui il codice penale prevede la possibilità o addirittura l’obbligo di adottare misure cautelari. Non si può quindi che salutare con favore l’intenzione, manifestata in sede politica ed anche governativa, di introdurre in materia di tutela dell’ambiente queste nuove figure, punite come reato autonomo con pene che consentano di superare queste limitazioni.

È anche vero che gli inquirenti sono sostanzialmente disarmati di fronte a questi fenomeni, che sono di rilevante gravità. Mi hanno impressionato i dati forniti dal Presidente Scalia, secondo le cui stime trenta milioni di tonnellate di rifiuti l’anno sono gestiti illecitamente, gli affari connessi sono 12 mila miliardi l’anno, il danno erariale 2 mila miliardi. Ecco che questo comincia a rendere più concreta l’ipotesi che continuiamo a portare avanti e che ha portato avanti il procuratore Vigna circa un interesse effettivo, concreto. Le ditte autorizzate oggi in Italia possono in definitiva smaltire solo una percentuale della quantità complessiva dei rifiuti, di tutte le categorie, che si producono annualmente in Italia, di fatto smaltiscono anche meno. Già da questo dato si evince che c’è un illecito immenso, sul quale si dovrebbero indirizzare (la forza di questa argomentazione mi pare ineludibile) le indagini ed i controlli amministrativi, oltre a quelli repressivi.

Se noi pensiamo, per esempio, che una ditta che produce rifiuti a Palermo conferisce i suoi rifiuti nocivi ad un’altra ditta che opera nella regione siciliana e che effettua lo smaltimento dei rifiuti a Porto Marghera, attraversando tutta l’Italia (almeno sulla carta); oppure che arrivano, per essere seppelliti in Italia o buttati sulle nostre coste, rifiuti che provengono invece dall’Europa o da altri Paesi, è chiaro che il fenomeno assume una dimensione tale per cui è difficile che la polizia municipale o quella forestale possano perseguire questo tipo di reati. Questo mi pare evidente, anche se, per carità, a Palermo la polizia municipale ha creato un settore specifico. L’unico mezzo che abbiamo è quello dei sequestri. I sequestri nel corso delle indagini si rivelano quanto meno uno strumento per bloccare le conseguenze devastanti per l’ambiente. Sarebbe utile che ci fosse, così com’è nel progetto di legge, la confisca obbligatoria anche nel caso di patteggiamento e di sanzione amministrativa, perché soltanto attraverso questa misura si può quantomeno, a parte la responsabilità delle persone, cercare di recuperare l’ambiente. Allora, per evitare che pagando delle somme i beni tornino alle persone e quindi queste continuino a perpetrare i reati contro l’ambiente, occorre che questi beni possano passare ad un’amministrazione pubblica o a qualcuno che li possa gestire e farli ritornare, per il godimento dei cittadini, nella loro anteriore struttura. Questo mi sembra un elemento che deve essere tenuto presente.

Migliori risultati abbiamo potuto conseguire allorché, anziché partire dal reato ambientale e quindi dalle contravvenzioni, si è partiti dalle indagini sulla criminalità organizzata. Lì abbiamo avuto risultati eccezionali. Abbiamo riferito tutte le indagini che abbiamo concluso o che sono in corso alla Commissione, quindi si conosce benissimo come sia stato facile agire, attraverso questo meccanismo invertito, avendo gli strumenti – intercettazioni e quant’altro – per poter veramente condurre a fondo le indagini. È significativo il fatto che questi collegamenti nell’ambito della criminalità organizzata hanno trovato conferma in altre indagini espletate dalla direzione distrettuale antimafia di Palermo in collegamento con le procure che fanno parte del distretto, alle volte in collegamento anche con altre procure, come quella di Napoli.

Anche i collaboratori di giustizia sono stati utilissimi, molto spesso per rompere il muro di omertà, per superare soprattutto l’interposizione fittizia di soggetti incensurati che operano come prestanome di boss mafiosi. Infatti, quando aggrediamo un bene e lo troviamo intestato ad una persona assolutamente incensurata, al di fuori dell’ambiente mafioso, ecco che cominciamo a parlare di una ditta che è nell’ambiente, però occorre valutare anche l’aspetto legale. In realtà, molto spesso ci siamo trovati, approfondendo, con qualcuno che ci diceva: "Guardate che i profitti di tutta questa attività poi vanno al boss tale, perché li andavo a riscuotere io e glieli portavo io i soldi…". A questo punto, si vede sempre più spesso nelle nostre regioni (parlo del distretto della Sicilia occidentale) che in realtà si tratta di ditte gestite da mafiosi attraverso prestanome. Riuscire a cogliere questo collegamento però non è facile.

Quest’ultima circostanza mi induce ad una considerazione finale, questa volta in chiave ottimistica, circa la positiva sinergia di conoscenze e di professionalità che può derivare appunto nell’ambito della magistratura dal coordinamento, sempre più auspicabile. Qui la Procura nazionale ha già fatto tanto. Speriamo che possiamo fare ancora di più insieme. Potrà essere possibile dedicare maggiori risorse al tema dei reati ambientali e soprattutto utilizzare le conoscenze sulla criminalità organizzata derivanti sia dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, sia dalle altre indagini che da anni vengono svolte sulle grandi organizzazioni criminali. Proprio per fare meglio questo, la Procura di Palermo punta molto su questo gruppo di lavoro, composto da magistrati provenienti da entrambi gli uffici: sono convinto che l’unione di queste diverse professionalità con la collaborazione di tutte le forze di polizia, a cominciare appunto dalla polizia municipale, potrà dar luogo in breve a risultati sempre migliori. Grazie. (Applausi)

Maurizio LAUDI, Procuratore aggiunto di Torino. Grazie, Presidente. Io rappresento a questa tavola rotonda il Procuratore della Repubblica di Torino, dott. Maddalena, che per impedimenti non ha potuto essere presente e mi ha incaricato di svolgere questo breve intervento, anche in relazione al mio ruolo attuale nell’Ufficio quale delegato della DDA di Torino.

Ovviamente, la situazione del Piemonte è molto diversa da quella che abbiamo sentito esporre da ultimo dal dottor Grasso e da quella che risulta dagli atti della Commissione parlamentare. Nella nostra realtà territoriale, le organizzazioni criminali hanno un interesse verso gli ambiti tradizionali dei mercati illegali, quindi il controllo degli stupefacenti, le estorsioni, la prostituzione; per cui non hanno, almeno fino ad ora, per quanto è stato possibile constatare, realizzato un reinserimento definibile in termini di controllo del mercato per quanto riguarda le varie fasi, dalla raccolta al trasporto ed allo smaltimento dei rifiuti.

Senza addentrarmi in analisi socio-economiche che non mi competono, posso però dire che una ragione possibile di questo, per fortuna, mancato controllo da parte di organizzazioni criminali del settore dello smaltimento dei rifiuti, è conseguente anche alla tipologia proprio economica, imprenditoriale, di questa attività del Piemonte, dove vi è una miriade di operatori economici, molti dei quali conducono anche aziende di consolidata tradizione di tipo familiare, dove non esistono cartelli imprenditoriali veri e propri, e questo significa anche che non esistono grandi spazi vuoti per inserimenti di tipo economico-finanziario tali da favorire in qualche modo una interferenza indebita da parte di strutture criminali.

Detto questo come necessaria cornice per differenziare la realtà di una regione del nord come il Piemonte rispetto ad altre realtà italiane, dobbiamo peraltro rilevare che alcuni profili preoccupanti sono emersi anche in Piemonte. La relazione della Commissione bicamerale ne dà ampiamente conto, quindi è inutile da parte mia rifare qui una relazione dettagliata di un risultato investigativo già ampiamente raccontato e riferito. Mi interessa soltanto fare la sintesi di questo lavoro giudiziario, cioè dire che cosa è emerso in termine di fonte di preoccupazione per un possibile collegamento anche in Piemonte, e in generale nel Nord Italia, per le attività connesse allo smaltimento e al trattamento dei rifiuti, con settori di criminalità organizzata. È emerso che il Piemonte in particolare è una regione di partenza di traffici illeciti, che seguono, accanto alla tradizionale rotta conosciuta, cioè verso il sud, anche rotte alternative, che rimangono ricomprese nel circuito del nord-nord est e centro Italia. Al tempo stesso il Piemonte è emerso, dall'esito di alcune indagini giudiziarie, come punto terminale di traffici nazionali di rifiuti, cioè come sito finale di smaltimenti abusivi.

In questo ambito il primo profilo che maggiormente ha richiamato l'attenzione degli investigatori, delle forze di polizia giudiziaria e della Procura della repubblica è appunto il collegamento esistente tra alcuni operatori nel circuito dello smaltimento rifiuti - e parliamo soprattutto del profilo dei trasportatori e dei manutentori dei centri di stoccaggio operanti in Piemonte - con persone, con soggetti che si possono sicuramente definire come vicini a strutture di criminalità organizzata del sud, in particolare della Sicilia e della Campania: la Sicilia appunto per la vicenda ampiamente citata nella relazione della discarica di Montanaro, la cui utilizzazione per lo smaltimento di rifiuti tossici pericolosi emerse in una circostanza drammatica come la penultima alluvione del Piemonte, con questi contenitori che galleggiavano sulle acque di un laghetto che si era formato vicino alla discarica.

Un ulteriore profilo preoccupante emerso dalle indagini giudiziarie è comunque l’esistenza di quella che definirei una sorta di protocollo operativo illegale ormai consolidato, e cioè la dove si è avuta la prova di un traffico illecito, e soprattutto di un collegamento tra operatori economici del settore e soggetti vicini a strutture di criminalità organizzata, è emersa anche l'esistenza di questi ruoli molto nettamente differenziati tra i diversi soggetti che intervenivano nel ciclo e nell'iter che portava dalla produzione del rifiuto sino allo smaltimento.

Infine, l'ultimo dato che mi sembra significativo è la permeabilità di alcuni soggetti economicamente più deboli nell'ambito appunto della categoria degli operatori legali del settore, quindi più facilmente suscettibili di aderire a proposte da parte di soggetti dotati di strumenti di intimidazione. Si trattava quindi di operatori economici che, per le dimensioni della loro azienda o soprattutto per le difficoltà economiche della stessa, erano disponibili a diventare complici di reati connessi al traffico illecito di rifiuti, ed in alcuni casi peraltro anche a subire le conseguenze di questo loro ruolo, divenendo a loro volta poi soggetti passivi, per esempio, di atti estorsivi.

Se questo è il quadro - e affronto la seconda ed ultima parte del mio intervento, per non rubare spazio agli altri operatori - cosa riteniamo di aver ricavato da questa nostra esperienza? Qui affronto il problema in un'ottica non diversa, ma in qualche misura complementare a quella che finora ho sentito sviluppare, nel senso che finora io ho sentito discorsi sacrosanti, che condivido totalmente, circa la insufficienza degli strumenti attuali di intervento, dal punto di vista sia degli strumenti di repressione del diritto sostanziale, sia della insufficienza di quelli che sono i mezzi investigativi: cose che io sottoscrivo totalmente e integralmente. Non vorrei però che da questa giusta e sacrosanta critica potesse poi in qualche modo venir quasi fuori quasi una sensazione di impotenza e di inutilità di quelli che sono gli attuali strumenti di intervento, perché si tratterebbe a mio giudizio di un'ottica ed di un approccio sbagliati.

Io ovviamente, con molta reale umiltà, sia perché non sono uno specialista di questo settore, sia perché mi rendo conto che questa realtà piemontese, pur con quei profili che prima ho detto, comunque non è certo comparabile con altre più gravi realtà in questo ambito, devo dire che però la nostra esperienza ha dimostrato la grande utilità di quelli che sono anche i normali strumenti e meccanismi, le normali procedure di intervento. In altre parole voglio dire che la repressione, ovviamente doverosa in un sistema di esercizio dell'azione penale obbligatorio, degli illeciti contravvenzionali, è stata molto utile nell'ambito delle indagini giudiziarie piemontesi sugli aspetti invece più preoccupanti di possibili infiltrazioni con la criminalità organizzata. Infatti, si è constatato - e non è stato certamente un caso - che quegli operatori economici legati appunto al ciclo del trattamento e smaltimento di rifiuti, che avevano stretto contatti, alleanze, connessioni con soggetti invece legati alla criminalità organizzata, erano anche i soggetti rispetto ai quali vi era un dato di partenza di maggiore conoscenza ad opera degli operatori specializzati di polizia giudiziaria, perché erano stati lungamente monitorati, attraverso una serie di atti di vigilanza e di controllo che avevano portato all’apertura di numerosi procedimenti penali per reati contravvenzionali.

Vi fornisco un dato numerico, banale ma significativo: in quei due processi più rilevanti che noi abbiamo trattato, due personaggi erano stati al centro dell'attenzione ed erano in qualche modo i personaggi chiave, perché erano operatori economici dell'ambito legale, peraltro poi collegati invece a soggetti di criminalità organizzata. Ebbene, uno aveva avuto 24 procedimenti aperti per reati contravvenzionali tra il 1996 e il 2000, l'altro ne aveva avuti 20. So benissimo che fornendo questi dati è facile obiettare che, allora, non è servita granché l'apertura di questi procedimenti penali così numerosi, tant'è che questi soggetti hanno potuto comunque legare e creare un contatto addirittura con personaggi della criminalità organizzata; ma è una obiezione più apparente che reale, perché la vera valenza positiva di questi procedimenti è stata quella di consentire agli operatori di polizia, là dove essi hanno percepito l'esistenza di movimenti in qualche modo strani, che l'attenzione doveva essere mirata verso soggetti che, per la struttura aziendale, per le loro abitudini - chiamiamole così - imprenditoriali e la loro abitudine a non rispettare le norme contravvenzionali, erano maggiormente noti.

Non soltanto questo vantaggio ha avuto, e credo avrà in futuro, il ricorso ad un monitoraggio attento attraverso lo strumento della repressione anche per i fatti contravvenzionali, ma perché una sistematica applicazione della norma penale anche per le fattispecie meno gravi è un meccanismo che favorisce la creazione di un circolo virtuoso tra agli organi della repressione penale, la polizia giudiziaria, la pubblica amministrazione, perché è un modo per dimostrare una presenza reale della organizzazione statale ed anche per far sì che quell’attività di vigilanza che spetta agli uffici della pubblica amministrazione sia effettivamente svolta.

Devo dire - credo di non sbagliare per eccesso di ottimismo - che per fortuna non posso confermare il giudizio così critico e negativo emerso dalla relazione del collega Grasso per quanto riguarda il ruolo della pubblica amministrazione. Per quello che abbiamo potuto verificare nel nostro ambito, la nostra pubblica amministrazione è stata ed è tuttora complessivamente attenta, così come positivo è il ruolo della classe imprenditoriale, nel senso che gli altri operatori del settore sono operatori che hanno interesse in qualche modo ad isolare quei soggetti che possono considerarsi a rischio.

Ecco perché io credo che l’applicazione degli strumenti ordinari, in attesa di quelle riforme di cui sicuramente molto bene ci parlerà il professor Manna, possa avere e mantenere una sua grande utilità. Chiudo, anche in questo caso semplicemente richiamandomi a quanto già detto anche dal collega Grasso, con un impegno da parte della Procura, in particolare della Direzione distrettuale, di creare sempre più una specializzazione, che faccia in modo che l'attenzione verso la commissione di reati ambientali non sia disgiunta da quella verso forme più gravi di criminalità organizzata. Non ci vuole una grande fantasia organizzativa. Noi - ma non soltanto noi, ovviamente, perché credo che tutte le Direzioni distrettuali lo facciano - abbiamo creato delle sezioni attraverso le quali, in caso di procedimenti che riguardino materie specialistiche di questo genere, cointestiamo il procedimento penale, l'indagine, ad un collega che appartiene alla Direzione distrettuale antimafia, quindi ha una competenza specifica in quest'ambito, con il collega che invece è specializzato nel settore in questo caso dei reati ambientali. È una piccola facilissima soluzione tecnica, ma che credo possa essere utile. Grazie per l'attenzione (Applausi).

Adelmo MANNA, Professore di diritto penale dell’Università di Foggia. Cercherò in un breve tempo di esaminare i disegni di legge in che riguardano questa complicata materia molto specifica, tentando soprattutto di capire perché non siano stati ancora varati dal Parlamento. I disegni di legge a questo riguardo sono di orientamento, alcuni tutt’affatto diversi rispetto ad altri. Devo partire dal disegno di legge sulla depenalizzazione, che in realtà, come è stato ricordato, è uno stralcio di quel più ampio progetto in materia di depenalizzazione, che diceva: "Trasformare in violazioni amministrative i reati per violazione di obblighi meramente formali che non ledono né espongono concretamente a pericolo il bene tutelato dalla normativa a difesa dell'ambiente e del territorio". Così diceva anche la lettera b) dell'art. 1 del disegno di legge: "Eliminare le sanzioni penali per le violazioni diverse da quelle di cui alla lettera a), che non ledono né espongono concretamente a pericolo il bene tutelato dalla normativa a difesa dell'ambiente e del territorio".

Ebbene, coloro che hanno elaborato questo disegno di legge non si sono resi conto subito che in questa maniera vengono depenalizzate tutte le contravvenzioni previste dal codice penale, perché, come a tutti è noto, le contravvenzioni sono per reati di pericolo astratto, per reati essenzialmente formali. Poi forse qualcuno di noi "penalai" ai parlamentari l'ha detto: "Guardate che se voi mettete una norma di questo genere, tutte le contravvenzioni scompaiono, per cui a questo punto la tutela dell’ambiente diventa una tutela puramente affidata all’autorità amministrativa".

Su questo vorrei fare una precisazione, un po’ in contrasto forse con l’amico Laudi: in realtà la legge di depenalizzazione, la n. 689 del 1981, da parte di noi "penalai" ha suscitato subito qualche perplessità, perché si è visto che l’autorità amministrativa in realtà non funziona così bene nella repressione di questo tipo di illeciti, quindi ecco la ragione per la quale la stessa opera di depenalizzazione ha trovato ad un certo momento delle resistenze: va bene creare un sub-sistema penale amministrativo, ma a condizione che funzioni.

Allora, immaginate questo disegno di legge nella sua formulazione originaria: se costruito in questa maniera, sarebbe passato tutto all’autorità amministrativa, con quei problemi di inefficienza cui ho fatto riferimento e che sono dovuti anche ad una importante Commissione presieduta da Ferrando Mantovani alla metà degli anni Ottanta, che dimostrava proprio questo. Immaginate quindi che cosa poteva succedere. Per fortuna il disegno di legge è stato modificato, e si è precisato "che non ledono né espongono a pericolo". In questa maniera un po’ di contravvenzioni restavano, e diventavano illeciti amministrativi solo quelle puramente formali, dove non c’era nemmeno una ipotesi di esposizione a pericolo. Evidentemente però questo tipo di disegno di legge andava verso una direzione di un diritto penale cosiddetto minimo, su cui poi vorrei tornare sia pure brevemente, perché è un altro dei punti su cui credo occorra soffermare la nostra attenzione.

Veniamo invece ai progetti di legge di stampo direi opposto, quelli che intendono introdurre i delitti ambientali nell’ambito del codice penale. Mi riferisco al progetto del Presidente on. Scalia, al progetto Lubrano di Ricco e al progetto governativo, scaturito da quella Commissione mista ambiente e giustizia che ho avuto l’onore di coordinare.

Perché c’è la proposta di introdurre i delitti ambientali nell’ambito del codice penale? Anche in questo mi dispiace di essere alquanto in disaccordo con l’amico Laudi… Certo che anche le contravvenzioni soprattutto in autorità giudiziarie particolarmente funzionanti possono avere un proprio ruolo, però non c’è dubbio che esse hanno un termine prescrizionale così basso, che evidentemente l’autorità giudiziaria non fa in tempo ad arrivare ai classici tre gradi di giudizio. Si capisce allora che anche il pubblico ministero non è che si trovi molto invogliato… Certo che c’è l’obbligatorietà dell’azione penale, ma se poi questa mi si prescrive in mano capite che non c’è poi tutta questa voglia di indagare!

Soprattutto, poi, c’è il collegamento con il reato associativo, che rappresenta il problema principale in materia di ecomafia. Il reato associativo, come tutti sanno semplicemente dando solo un’occhiata superficiale al 416-bis, richiede la commissione di delitti, e in questo caso, trattandosi di contravvenzione, capite bene che non funziona. Allora, bisogna andare a rintracciare dei reati di tipo diverso, cioè soltanto se l’organizzazione che ricicla rifiuti ha commesso o un falso in bilancio o una frode fiscale o comunque un delitto, si può riuscire a contestare ad essa il reato associativo, altrimenti non vi è questa possibilità e capita che una semplice contravvenzione è un’arma veramente spuntata.

Allora questi progetti di legge avevano cercato di introdurre queste fattispecie plurime di delitti ambientali.

Per quanto riguarda il progetto Scalia e il progetto Lubrano di Ricco, mi permetto di fare una sommessa critica, se mi è consentita, perché in questo caso si identificava il reato di inquinamento ambientale con la grave alterazione dell’ambiente; grave alterazione che si riteneva tuttavia sussistente anche nel caso del superamento del limite tabellare, e allora erano chiare poi le perplessità che si sono avute in sede parlamentare, perché si sosteneva che in questa maniera "il delitto si va a mangiare la contravvenzione", dato che la contravvenzione si ha proprio con il superamento del limite tabellare. Se si vuole costruire un evento di pericolo così grave, bisogna staccarlo dalla ipotesi contravvenzionale, altrimenti si reidentifica e possono venir fuori delle perplessità.

Viceversa, nel progetto governativo che avevamo preparato in Commissione, avevamo tentato di scindere chiaramente questo tipo di tutela, e cioè creare tre tipi di tutela fondamentale: una tutela lasciata all’autorità amministrativa, nel settore dell’Amministrazione, che riguarda quindi illeciti puramente formali; un altro tipo di tutela legata al reato contravvenzionale per quegli illeciti formali, che tuttavia espongono a pericolo – sia pure a livello di pericolo astratto – il bene ambiente; e viceversa una serie di delitti derivanti da comportamenti, che non si limitano soltanto astrattamente a porre in pericolo il bene ambiente, ma creano un pericolo concreto. Questo era il passaggio, altrimenti non riuscivamo a spiegare perché dalle contravvenzioni si passasse ai delitti. La condizione era di passare dal pericolo astratto al pericolo concreto, cioè dalla violazione puramente formale ad un evento di pericolo concreto, evidente, che potesse giustificare questo passaggio da contravvenzione a delitto e queste pene evidentemente più ampie e più gravi.

Noi però avevamo pensato che fosse opportuno scindere l’ambiente nelle sue varie forme, senza lasciare così l’alterazione del reato ambientale, altrimenti avremmo avuto obiezioni a livello di indeterminatezza della fattispecie. Allora avevamo scisso l’ambiente nei suoi vari settori: acqua, aria, suolo, flora, fauna; avevamo pensato anche al patrimonio artistico, ma quella parte poi non ci è stata promossa perché si è detto che il patrimonio artistico sta al di fuori del bene ambiente. Pensammo quindi di strutturare il progetto da un lato con riferimento all’inquinamento ambientale come prima fattispecie, dall’altro alla distruzione del patrimonio naturale, faunistico e così via, come seconda fattispecie, prevedendo poi un’altra serie di fattispecie, quali il traffico illecito di rifiuti, anche con un’aggravante in presenza di un reato avvenuto in forma associata. Avevamo pensato ad un reato associativo, ma a struttura mista, nel senso che l’associazione dovesse aver già posto in essere qualche cosa. Ci è stato obiettato però che questo tipo di reato associativo non era ricompreso in quelli previsti più in generale nell’ambito del codice penale, quindi ci limitammo anche lì ad un’aggravante, con una fattispecie di pentimento operoso e così via.

Quali sono state le obiezioni mosse a tutti questi progetti a livello parlamentare? Credo che sia questo il punto più importante per capire le ragioni per le quali non sono stati accolti e se le obiezioni siano di forma oppure di sostanza. Il senatore Follieri, che era relatore di una delle Commissioni, ha rilevato che le pene previste erano troppo elevate. Per l’inquinamento ambientale prevedevamo una pena di tre anni di reclusione, che con le aggravanti arrivava a sei, fino a dieci nel caso di disastro ambientale, da noi previsto come fattispecie autonoma. Poi in Commissione ci fu l’intervento del consigliere Casson, che ci suggerì di crearla appunto come fattispecie autonoma, altrimenti con il giudizio di bilanciamento rischiava anche quello di scomparire. Abbiamo pertanto cercato di aderire al suo giusto suggerimento, e così abbiamo fatto. L’ipotesi base comunque era soltanto fino a tre anni, quindi solo con le ipotesi aggravate si poteva arrivare alle intercettazioni telefoniche e quant’altro.

Il discorso delle intercettazioni telefoniche si può risolvere in un’altra maniera, nel senso che non è necessario arrivare per forza alla pena fino a sei anni: basta che sia prevista dall’articolo n. 266 una ipotesi autonoma.

PIER LUIGI VIGNA, Procuratore nazionale antimafia. Non si fa!

Adelmo MANNA, Professore di diritto penale dell’Università di Foggia. Ma perché non si fa? Vedrà, Procuratore, che ci arriveremo piano piano. Vediamo intanto se le obiezioni sono valide oppure no.

Si parlava dunque delle "pene eccessive". Io vorrei soltanto ricordare una cosa. Pensate ai reati contro l’ambiente, che sono stati introdotti già dal 1975 nel codice penale tedesco, il quale (paragrafo 324) prevede la pena detentiva fino a cinque anni, ovvero la pena pecuniaria nel caso si sia agito per colpa; e non parliamo dell’inquinamento atmosferico e acustico, per il quale pure è prevista una pena che arriva fino a cinque anni (a dieci con ipotesi aggravate). Altrettanto si è fatto in Spagna con il codice penale del 1995, ed è addirittura previsto il terrorismo ecologico nel codice penale francese del 1994, con una pena che arriva fino a vent’anni! Capite quindi che quella dei tre anni era una obiezione veramente un po’ speciosa.

Ma l’obiezione forse più seria era quella relativa alla indeterminatezza della fattispecie: attenzione – si è detto – che qui si amplia la discrezionalità del giudice, quindi ci sono pericoli per il principio di tipicità. Certo, bisogna riconoscere che l’obiezione coglie una parte del vero, poiché la dottrina penalistica ci dice che il passaggio dal pericolo astratto al pericolo concreto in effetti può portare ad un coefficiente di indeterminatezza, perché occorre andare ad invidiare il pericolo concreto caso per caso, nel singolo caso concreto. Però, andiamo anche qui a vedere (un unico esempio, per carità!): per quanto riguarda l’inquinamento idrico previsto nel codice penale tedesco (e badate che i tedeschi sono molto attenti al principio di determinatezza e precisione della norma penale), guardate come è scritto: "Chiunque inquina abusivamente un’acqua o altrimenti ne altera le caratteristiche in maniera pregiudizievole, è punito con la pena detentiva fino a cinque anni e con la pena pecuniaria…". Cosa vuol dire "in maniera pregiudizievole?". Vedete che anche qui la norma ha un coefficiente di indeterminatezza, ma la giurisprudenza che ci sta a fare, se attraverso una idonea interpretazione della norma non arriva ad eliminare per quanto possibile la indeterminatezza? Poi queste obiezioni – mosse in particolare dal senatore Giovannelli - mi hanno sempre lasciato un po’ perplesso, perché non mi sembra che il nostro legislatore sia uno molto attento alle esigenze di tipicità o determinatezza. Vogliamo pensare alle norme riguardanti la violenza sessuale? "Chiunque compia atti sessuali…". Che vuol dire "atto sessuale"? Prima c’era almeno la violenza carnale, l’atto di libidine violenta; oggi, per ragioni peraltro condivisibili, si è autorizzata una fattispecie unica, ma con forte indeterminatezza, perché l’atto sessuale può essere tutto (la giurisprudenza della Cassazione si è occupata anche recentemente di vari toccamenti lascivi e così via…). Certo che c’è l’attenuante della lieve entità, ma anche lì c’è una cambiale in bianco lasciata al giudice penale: quando proprio le cose non son gravi, c’è l’attenuante. Oppure in materia di usura, l’usura in concreto, quella che va a vedere nel caso singolo la differenza fra le controprestazioni: quella è forse una norma che rispetta il principio di determinatezza? L’allora Ministro di grazia e giustizia Caianiello rilevò subito in Commissione Affari costituzionali che occorreva prestare attenzione, perché si trattava di una norma fortemente indeterminata. Il legislatore però allora non si diede per vinto e introdusse queste fattispecie, che hanno determinato tutti questi problemi.

Allora ho l’impressione che in realtà, dietro tutte queste obiezioni – e qui riprendo quanto secondo me molto bene i due Procuratori hanno detto – ci siano delle esigenze di tipo diverso, ci siano i poteri forti. Qui bisogna essere chiari. Non è un caso che a seguito di queste obiezioni poi questi progetti di legge stanno fermi due anni, e ancora sono fermi perché bisogna sentire ulteriori esperti e così via… Ma in due anni cosa si è fatto? È logico: in materia di reati ambientali dobbiamo cercare di trovare un bilanciamento tra le esigenze di tutela dell’ambiente da un lato e quelle riguardanti la produzione dall’altro, per cui viene toccato tutto un mondo industriale. Non pensate soltanto alle ecomafia e al traffico illecito di rifiuti. Queste fattispecie riguardavano anche imprese – diciamo così, fra virgolette – "sane", che pur tuttavia potevano commettere reati di questo genere. Ecco perché si tratta di obiezioni che in realtà nascondono ben altro, venendo appunto alla domanda del Procuratore Grasso. C’è ben altro in gioco, ci sono evidentemente le esigenze della produzione.

Io vorrei però anche ricordare – e vado ormai alle conclusioni – che il nostro progetto di legge (mi permetto di dire "nostro" solo perché l’ho coordinato) aveva un altro pezzo, che non trovate nella documentazione che vi è stata data: conteneva cioè un altro punto, anche questo dolens, che riguardava la previsione della responsabilità diretta delle persone giuridiche. Noi non ci limitavamo soltanto a sanzionare con l’ordinario strumentario penale (pene detentive, confische e quant’altro), ma prevedevamo la responsabilità amministrativa delle persone giuridiche. Quel progetto è stato stralciato perché per le imprese era veramente forte in tema di diritti ambientali prevedere anche la responsabilità delle persone giuridiche, che avrebbe potuto creare per qualcuno un serio e proprio malanno. L’allora ministro Flick creò una commissione ad hoc; ma su questo vorrei parlarvi con una maggiore dose di ottimismo, perché tale Commissione è ancora viva e vitale. Grazie all’intervento del legislatore comunitario, in virtù della convenzione OCSE in materia di corruzione dei funzionari comunitari, la convenzione stessa è stata ratificata dall’Italia. A questo punto i parlamentari, a prescindere dallo schieramento di appartenenza, non potevano più tirarsi indietro; infatti, il Parlamento, con legge delega, ha incaricato il Governo di predisporre nell’arco di otto mesi un decreto legislativo che introducesse la responsabilità amministrativa delle persone giuridiche. Nel caso della responsabilità delle persone giuridiche, ci era stato suggerito di non parlare di responsabilità penale, altrimenti i parlamentari non l’avrebbero mai approvata. In realtà, ci troviamo di fronte ad una responsabilità amministrativa, le cui sanzioni sono irrogate dal giudice penale. Quindi, come è facile comprendere si tratta di un problema di etichette, ma per noi va bene. Chiamiamola pure sanzione amministrativa, ma con le garanzie del processo penale.

Tutto ciò avviene a causa di una convenzione internazionale che è stata ratificata dall’Italia, mentre la convenzione europea, varata dal Consiglio d’Europa, per la tutela dell’ambiente attraverso il diritto penale non è mai stata ratificata, come è stato ricordato dal Presidente Scalia. Questo spiega perché i reati ambientali, o meglio i delitti ambientali, sonoandati incontro a questa grande battuta d’arresto. Non c’è niente da fare, se non sarà il legislatore comunitario ad obbligare il legislatore nazionale, non arriveremo mai ad introdurre i delitti ambientali nell’ambito del codice penale, perché troppi sono gli interessi in contrasto.

Se mi è consentito, vorrei terminare con due ultime osservazioni. La prima, è quella sul diritto penale minimo. Buona parte della sinistra continua a sostenere che il diritto penale non va usato in quanto potrebbe creare problemi e che quindi va utilizzato come extrema ratio. Questa vecchia idea del diritto penale minimo, un’idea degli anni settanta, che riguardava addirittura l’abolizione del diritto penale (Baratta, Wolesman, grandi criminologi degli anni settanta), ha portato ad un diritto penale che deve occuparsi soltanto di lesioni di individui in carne ed ossa. Ciò significa un diritto penale che ritorna ad essere il buon vecchio patriarca, il diritto penale dell’ottocento che si occupa solo di omicidi, rapine e quant’altro. Una cosa di questo genere (è paradossale che ciò venga dalla sinistra) diventa espressione di un diritto penale neoliberista. Per le forze più conservatrici nel nostro Parlamento un diritto penale di questo genere va benissimo, perché diventa un diritto penale che di questi beni collettivi, quali l’ambiente, la sicurezza, io direi anche la pubblica amministrazione, non si deve occupare, in quanto deve ritornare ad essere il diritto penale classico: il diritto penale dei pacchetti sicurezza, tanto per capirci. Quindi, attenzione a sostenere il diritto penale minimo, che in realtà porta ad un diritto penale fortemente reazionario e neoliberista, il che significa occuparsi solo di alcuni settori e non di altri.

La seconda osservazione, con la quale vorrei terminare il mio intervento, è la seguente. Sono contento che il traffico illecito di rifiuti alla fine abbia trovato una sua identificazione. E’ vero che in questo caso la norma è costruita come una sorta di reato associativo; va beve lo stesso, non andiamo a creare ulteriori problemi. Ciò avviene perché in materia di traffico illecito di rifiuti, il collegamento con l’ecomafia è talmente forte che anche coloro che non la pensano in questa maniera alla fine non si oppongono. Per altro verso, tutto ciò è preoccupante perché vuol dire che è possibile approvare una riforma organica indipendentemente da chi sta al governo, così come è avvenuto in Germania dal 1975, in Spagna, con un governo di centro destra, dal 1995, in Francia dal 1994, in Portogallo dal 1982. Continuo a pensare che l’unica via sia la ratifica della convenzione che protegge l’ambiente attraverso il diritto penale. Solo in questo modo i parlamentari italiani saranno obbligati ad introdurre questa fattispecie nel diritto penale; altrimenti, riprendendo un articolo che mi è piaciuto molto su Micromega di Roberto Scarpinato: "La giustizia penale rischia sempre più di essere forte con i deboli, ma debole con i forti". Grazie (Applausi).

Massimo SCALIA, Presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti e le attività illecite ad esso connesse. Ringrazio il professor Manna anche per la passione che ha messo nel suo intervento.

Prima di passare alla seconda fase dei nostri lavori, mi permetto di avanzare il sospetto che indubbiamente i poteri forti esistano e facciano il loro mestiere, ma assai spesso nelle vicende italiane, anche quelle parlamentari, non si devono neanche scomodare perché la questione di fondo è di una cultura, che non esito a chiamare sviluppista, industrialista, che ognuno travasa anche nella sua attività di parlamentare, per cui poi gli unici poteri forti non hanno neppure bisogno di fare azione di lobbying, in quanto questa è stata fatta in qualche modo a priori.

Prego i relatori, dopo averli ringraziati, di passare dall’altra parte, solo per motivi di spazio, perché invece è bene che stiano con noi.

Elencherò ora i nomi dei partecipanti alla tavola rotonda: il dottor Felice Casson, il dottor Donato Ceglie, il dottor Alberto Cisterna, il sottosegretario Franco Corleone, il dottor Silvio Franz, il presidente Fausto Giovannelli, il dottor Giovanni Russo. Coordinerà il dibattito Marco Frittella, giornalista del TG1.