Massimo SCALIA, Presidente della Commissione.

Apriamo i lavori, iniziando con le due relazioni introduttive.

Io aprirò i lavori, dopo ci sarà la relazione del professor Petruzzelli, penso che poi il ministro ci dirà due parole, lasciandoci per andare a Palazzo Chigi, nella speranza di tornare con noi nelle ore seguenti.

Le iniziative e gli argomenti su cui la Commissione parlamentare d’inchiesta si è impegnata in questi tre anni, per conoscere la realtà e indicare - ove possibile - le soluzioni ai problemi, investono tutte le tematiche del ciclo dei rifiuti: dalla gestione dei rifiuti radioattivi ai delitti contro l’ambiente, dalla lotta alle ecomafie al funzionamento dell’istituto dei commissariamenti per l’emergenza, dagli ecoincentivi per le imprese all’ancora problematico smaltimento dell’amianto. Tra tutti questi temi una grande attenzione è stata data costantemente dalla Commissione al problema delle aree inquinate e della loro bonifica, argomento affrontato - ad esempio - nell’ambito di tutte le relazioni territoriali approvate sin qui. Nel corso di tutte le missioni conoscitive effettuate, infatti, abbiamo svolto sopralluoghi, ricevuto segnalazioni e denunce in merito a situazioni di degrado ambientale, a volte molto rilevanti, causate da lavorazioni industriali o da attività di illecito smaltimento dei rifiuti.

Quando abbiamo deciso di organizzare questo forum non potevamo certo sapere che avrebbe coinciso con un momento importante per uno dei luoghi-simbolo dell’inquinamento industriale in Italia, vale a dire l’Acna di Cengio. Sarà poi il ministro Bordon a comunicarci i contenuti dell’incontro che si svolgerà fra poco a Palazzo Chigi.

Il problema è che di Acna - cioè di siti industriali contaminati - sul territorio italiano ve ne sono a decine, e a queste aree vanno aggiunte le migliaia di discariche abusive (con rifiuti di ogni tipologia) scoperte nel corso degli anni dalle forze di polizia e di contrasto. E dunque il primo elemento che vorrei sottolineare è che quando parliamo di bonifiche affrontiamo un tema del quale non conosciamo in maniera precisa i risvolti quantitativi. Lo Stato ha previsto interventi per iniziare le bonifiche di rilevanza nazionale in 14 aree contaminate da decenni di attività industriale. Da Priolo a Porto Marghera sono aree, come dire, storiche: due però, Pitelli (La Spezia) e l’area del litorale flegreo e dell’agro aversano, sono state devastate da una gestione criminale dei rifiuti. Con la legge n. 426 del 1998 venivano stanziati circa 560 miliardi per quelle bonifiche e per quegli interventi sono stati previsti altri 600 miliardi con la legge finanziaria per il 2001. Anche se si tratta di poste non irrilevanti, con tali stanziamenti si potranno soltanto iniziare i necessari monitoraggi per definire lo stato dei suoli, i piani di fattibilità delle bonifiche e le prime operazioni per il ripristino. Ma appunto questi sono solo i primi passi se si pensa che, anche in assenza di stime precise, i quantitativi di rifiuti provenienti dalle bonifiche avranno come unità di misura i milioni di tonnellate. Del resto per l’Acna si parla di alcune centinaia di migliaia di tonnellate, una cifra simile ai prospettati dragaggi del sistema delle calli e dei canali veneziani.

Ma la "questione bonifiche" può anche essere colta come un’opportunità, cioè può essere per l’imprenditoria un business, che certo richiede lo sviluppo delle migliori tecnologie come anche di ricerche dedicate a trovare le soluzioni di più elevata compatibilità ambientale. Anche perché è questa l’esperienza che ci arriva da Paesi dove le attività di bonifica sono da anni all’ordine del giorno.

Un ruolo di avanguardia lo giocano ad esempio gli Stati Uniti: molti dei presenti avranno sicuramente visto due film di successo usciti negli ultimi anni e dedicati a storie realmente accadute, vale a dire "A civil action" e "Erin Brockovich". In entrambe le occasioni al centro della vicenda vi era la causa intentata contro due aziende per l’illecita gestione dei loro rifiuti e dei loro scarichi che avevano determinato gravi conseguenze sanitarie sulla popolazione. E’ importante in particolare ricordare che la vicenda di "A civil action" è stata nella realtà alla base della norma Comprehensive Environmental Response, Compensation and Liabily Act, il cosiddetto Superfund, che consente all’Epa (l’ente di protezione ambientale statunitense) di perseguire i responsabili della contaminazione di un sito, costringendoli a provvedere al suo risanamento. La norma è del 1980 ed è in sostanza la prima applicazione normativa del principio ‘chi inquina paga’, un principio - lo dico per inciso - in certa misura alla base dell’accordo di programma relativo all’Acna.

La previsione del Superfund e i tanti interventi dell’Epa nel territorio statunitense, hanno consentito alle aziende di quel Paese di sviluppare tecnologie molto avanzate in questo settore, sia nell’ambito delle bonifiche ex situ (cioè la rimozione dei materiali inquinanti) sia - più recentemente - di quelle in situ, che consentono l’attenuazione dei fenomeni di contaminazione senza rimuovere ingenti quantità di materiale. Si tratta, per quanto riguarda questo secondo aspetto, di interventi possibili laddove l’inquinamento sia relativamente di minore entità.

Credo e spero che l’Italia sia oggi alla vigilia di una fase simile; abbiamo accumulato venti anni di ritardo rispetto al Superfund, ma già oggi esistono nel nostro Paese tecnologie e sistemi di rilevamento all’avanguardia. Per quanto riguarda il monitoraggio, ad esempio la Commissione ha avuto modo di apprezzare la tecnologia messa a punto dal Cnr, nota come sistema LARA, che — installato su una piattaforma aerea - consente di leggere il territorio su oltre cento distinti canali e di fornire quindi un elevato potere risolutivo; sono comunque note alla Commissione altre tecnologie di rilevamento e a questo argomento è nostra intenzione dedicare nei prossimi mesi uno specifico appuntamento. La tecnologia italiana ha anche messo a punto un sistema di bioremediation adottato con successo nell’area di Sambatello, a Reggio Calabria.

Ed è importante notare, specie per le possibilità di competizione imprenditoriale che possono nascere, come lo scenario italiano sia del tutto simile a quello dei nostri competitori europei, dove gli interventi di bonifica avviati - e non sono molti - sono stati quasi ovunque condotti con tecnologie statunitensi. Poiché le stime più accreditate parlano per l’Europa di oltre 150.000 siti e di circa un miliardo di metri cubi di rifiuti contaminati, credo che questo debba essere un terreno sul quale sviluppare le nostre capacità tecnologiche.

Ho appena parlato di un ritardo accumulato rispetto al Superfund, il che tuttavia non vuol dire che in questi anni nulla sia accaduto in Italia. Nel 1989, un decreto ministeriale imponeva alle regioni di effettuare il censimento dei siti contaminati: meno della metà delle regioni effettuarono però questa attività, in assenza tra l’altro di una norma tecnica nazionale. Con il decreto Ronchi si è fatto un passo avanti anche da questo punto di vista, giacché sono state previste norme specifiche sulle bonifiche e - con il decreto attuativo varato il 25 ottobre 1999 - sono stati anche dettati i criteri, le procedure e le modalità per la messa in sicurezza, la bonifica e il ripristino dei siti contaminati. Non solo: tra i siti contaminati ora sono comprese anche le aree interne ai luoghi di produzione, in particolare gli oltre mille impianti a rischio di incidente rilevante presenti sul territorio nazionale.

Lo scopo del censimento, ai sensi del decreto ministeriale del 16 maggio 1989, era dunque quello di individuare le aree contaminate su cui intervenire con programmi di bonifica a breve e medio termine, ma la richiamata mancanza di precise norme tecniche per individuare e bonificare i siti contaminati non ha consentito di specificare l’entità della contaminazione. Non ha poi dato ancora i risultati sperati l’estensione - prevista dal decreto Ronchi - del censimento ai siti operativi a rischio di incidente rilevante. Sono infatti pochissimi i casi di accordi di programma tra il Ministero dell’ambiente e gli enti provvisti delle tecnologie di rilevazione più avanzate (es. CNR, ENEA), per realizzare la mappatura nazionale dei siti oggetto dei censimenti e la loro verifica con le regioni.

Nel 1998, come detto, sono stati previsti interventi urgenti di bonifica di alcuni siti di priorità nazionale relativi ad aree industriali dismesse, ad aree fatte oggetto di discariche abusive ed a discariche di rifiuti pericolosi gestite in maniera illegale. A tutt’oggi, nonostante gli sforzi del legislatore, risulta quindi incompleto il quadro nazionale delle aree da bonificare e recentemente è stato differito al 31 marzo 2001 il termine per l’autodenuncia dei siti contaminati da parte dei soggetti interessati.

Sono inoltre preoccupanti i dati che come Commissione abbiamo rilevato in merito agli impianti di marketing e della rete di vendita dei carburanti. La ristrutturazione della rete di vendita (si ipotizzano interventi su oltre ventimila punti vendita) fa prevedere notevoli interventi di bonifica e ripristino ambientale, una volta rimossi i serbatoi che nel tempo hanno causato la contaminazione delle falde da idrocarburi, tra cui il benzene, e da MTBE, sostanza cancerogena già oggetto di indagine specifica negli Stati Uniti in tempi assai recenti.

Si tratta tuttavia solo di una parte - sia pure molto rilevante - del complesso delle aree inquinate che in Italia attendono di essere recuperate. A questo punto però è opportuno riflettere sul concetto di bonifica quale cioè sia l’obiettivo che ci dobbiamo porre. Il punto di partenza, in particolare per le aree industriali, è una situazione di degrado accumulato nell’arco di decenni, uno spazio temporale che comincia a volte all’inizio del novecento, quando cioè nessuno considerava un problema l’abbandono incontrollato dei rifiuti, e arriva ai nostri giorni passando per l’epoca che ho più volte definito del far-west, quando - anche per le imprese, anche per le imprese di Stato - la non corretta gestione dei rifiuti era, tutto sommato, la regola più che l’eccezione.

Questo ci pone di fronte al rilevante problema del ‘chi paga’; le diverse gestioni che si sono succedute nelle varie aree industriali rendono infatti assai difficile risalire all’effettiva responsabilità dei fenomeni di inquinamento. Ripeto, è un aspetto che considero rilevante perché sarebbe del tutto inaccettabile pensare ad un generalizzato intervento dello Stato; da questo punto di vista, ad esempio, il modello alla base dell’accordo di programma proposto per la bonifica dell’Acna di Cengio potrebbe essere replicabile. La questione delle passività ambientali, però, è stata sinora considerata come marginale dall’imprenditoria in occasione di acquisti, cessioni, fusioni e via dicendo. Per fare un nuovo paragone con gli Stati Uniti, dunque con un Paese a capitalismo molto avanzato, le eventuali passività ambientali hanno un riflesso sensibile sulle stesse quotazioni azionarie delle aziende. Gli anni ottanta e l’inizio degli anni novanta sono stati contrassegnati, in Italia, da una serie di fusioni, divorzi, acquisti - soprattutto nel settore chimico - che hanno lasciato sul tappeto questo tema non secondario.

Uno scenario a dir poco ingarbugliato, con il quale si trova a fare i conti anche l’autorità giudiziaria: il procedimento in corso a Venezia per i decessi tra gli operai del petrolchimico di Porto Marghera, così come l’inchiesta della magistratura di Brindisi per il petrolchimico di quella città, mettono in luce in maniera evidente come la ricerca degli effettivi responsabili - nonché la divisione delle responsabilità - sia uno degli aspetti più complicati dell’attività giudiziaria.

Se è evidentemente rilevante l’aspetto del ‘chi paga’, altrettanto importante è la progettualità sulle aree, sapere cioè cosa si intenda fare del sito bonificato. Sono ben diverse infatti le necessità se un sito deve diventare un'area abitativa o un’area industriale, anche se il concetto di bonifica - sia essa superficiale o in profondità - è comunque legato all’eliminazione dei rischi di contaminazione. Il ripristino del sito per l’area di Porto Marghera è forse un concetto utopistico; ma la conditio sine qua non è giungere ad una situazione per cui le falde e la laguna non subiscano più l’attuale quotidiana aggressione, con le possibili conseguenze di carattere sanitario.

Esiste infine la questione legata alla destinazione dei rifiuti da bonifica. E’ noto come l’attuale sistema di smaltimento e trattamento italiano per i rifiuti speciali e pericolosi non sia in grado di assorbire la produzione annua; secondo il rapporto Anpa-Osservatorio nazionale sui rifiuti, il 25% dei rifiuti speciali sfugge al controllo. Come Commissione siamo più pessimisti e, sulla scorta di una cauta estrapolazione di alcune indagini di campo, riteniamo che il dato vada portato al 35%, in termini numerici circa 30 milioni di tonnellate l’anno di rifiuti speciali che alimentano il mercato illegale. Su questo aspetto voglio essere particolarmente chiaro: il problema non è solo il deficit impiantistico, giacché, se fosse solo questo il punto, davanti agli impianti esistenti dovrebbe esserci la fila di mezzi in entrata, mentre a noi come Commissione non è mai capitato di visitare siti che lavorassero al 100% delle loro possibilità. E’ un problema più generale, che abbiamo più volte affrontato, e non è questa la sede per rivisitarlo. Sono tuttavia insufficienti le soluzioni in Italia per i rifiuti da bonifica ed anche per questo motivo, come Commissione, ci siamo recati lo scorso mese di settembre in Germania a visitare la miniera di Teutschental, candidata ad ospitare i fanghi essiccati dell'Acna di Cengio, che ha ancora una capacità di accoglienza per oltre 4 milioni di tonnellate di rifiuti.

Si tratta di un sistema positivo da diversi punti di vista: il trasporto da Cengio alla Germania dovrebbe infatti avvenire via ferrovia - soluzione che come Commissione avevamo da tempo suggerito - risparmiando così un traffico veicolare di alcune decine di automezzi alla settimana; presso la miniera abbiamo avuto modo di constatare il sistema di inertizzazione e quello di messa a dimora dei rifiuti. Un sistema per il quale credo vadano studiate le possibilità di sviluppo anche in Italia, per quei siti che presentino una conformazione geologica atta a garantire il confinamento idrologico e geochimico dei rifiuti messi a dimora: questo è il caso di Teutschental, la cui configurazione geologica sembra particolarmente idonea. Di più, in questo caso, la collocazione finale dei rifiuti si configura come un consolidamento delle strutture e delle gallerie, per le quali anni di abbandono — nel passaggio dall’ex Germania est alla situazione attuale — hanno comportato crolli, con rilevanti esiti sismici. L’attività di riempimento si configura quindi come una vera e propria opera di consolidamento e recupero, con la contestuale salvaguardia di un buon numero di posti di lavoro.

Come Commissione abbiamo ritenuto di dar vita a questo appuntamento proprio per conoscere e valutare le migliori tecnologie a disposizione alla vigilia di un percorso che durerà sicuramente molti anni. Le bonifiche sono infatti una grande tematica nel più generale ambito delle ecocompatibilità e del diritto di cittadini ed enti locali di avere a disposizione un territorio non più contaminato; si tratta inoltre di un punto rilevante per quanto riguarda una corretta gestione integrata del ciclo dei rifiuti, in particolare quelli speciali. Infine, è auspicabile che l’avvio delle bonifiche venga individuato effettivamente come una grande opportunità di business dai soggetti interessati, che sia insomma un volano per la ricerca e le nuove tecnologie.

Riusciremo così a trasformare una passività in un risultato positivo da molti punti di vista. Ambientale, recuperando ampie aree del nostro territorio; sanitario, eliminando gli attuali rischi per la popolazione; occupazionale, creando o salvaguardando posti di lavoro in questo specifico settore. Le premesse - ed anche le prime disponibilità finanziarie - ci sono: adesso si tratta di dare concretezza ad un cammino senz’altro difficile, ma che cominciamo a percorrere, come il ministro Bordon ci dirà questa mattina.

Do lettura del messaggio del Presidente della Camera, on. Luciano Violante:

"Ho ricevuto il suo invito a partecipare alla giornata di studio organizzata per approfondire le problematiche legate alle bonifiche, in programma oggi; sono veramente rammaricato, ma, per impegni programmati già da tempo, non mi sarà possibile intervenire. Desidero comunque ringraziarla ed estendere i miei più cordiali saluti per l’ottima riuscita della manifestazione. Violante. Presidente della Camera".

Anche il Presidente del Senato comunica che interverrà, in rappresentanza del Senato, il Presidente della Commissione territorio, ambiente e beni culturali, sen. Fausto Giovanelli, ci invia i suoi saluti e gli auguri di buon lavoro.

Anche il ministro delle risorse agricole e forestali, Alfonso Pecoraro Scanio, invia i suoi saluti.

Do immediatamente la parola al professor Giannantonio Petruzzelli per la relazione di carattere tecnico-scientifico.

Gianniantonio PETRUZZELLI, dirigente di ricerca del CNR, Pisa.

È già stata introdotta dall’on. Scalia la dimensione del problema della bonifica dei residui contaminati. Io parlerò naturalmente per quelle che sono le mie competenze. Esse sono di carattere più scientifico che pratico, anche se oggi tutte le attività di ricerca devono comunque confrontarsi con le realtà pratiche.

La problematica dei siti contaminati è sicuramente una delle tematiche ambientali più importanti. Nell’ultimo convegno di un paio di mesi fa a Lipsia, con Soil, che è un punto di riferimento per la ricerca nell’ambito della bonifica dei siti contaminati, c’è stato un confronto a livello europeo legato non solo alle innovazioni scientifiche, ma anche ai problemi che nascono dall’applicazione di normative diverse e soprattutto dalla verifica delle tecnologie attualmente applicabili in Europa.

Direi anzi che, se da un punto di vista scientifico non ci sono state grosse novità, la parte più interessante del convegno è stata proprio quella del confronto sulla verifica delle tecnologie. C’è da dire che gli aspetti teorici che erano stati programmati e la verifica pratica dei risultati non sono spesso coincidenti. In alcuni casi, tecnologie che sulla carta dovrebbero funzionare benissimo hanno in realtà difficoltà ad essere applicate in termini concreti.

In Europa, in Italia in particolare, abbiamo spesso dei siti contaminati che sono nel centro delle città. L’espansione delle città ha fatto sì che alcune aree industriali, che un tempo erano alla periferia o ai margini, oggi si trovano nel tessuto cittadino. Un riferimento a quanto detto rispetto agli Stati Uniti. Noi in Europa abbiamo una situazione ambientale un po’ diversa. Negli Stati Uniti esistono spazi molto ampi, per cui è possibile prevedere interventi di bonifica in termini molto lunghi, senza un particolare problema di rischio per la popolazione.

Quindi noi abbiamo alcuni problemi di urgenza. Il progetto di bonifica deve tener conto in maniera pesante dei tempi necessari per gli interventi di bonifica.

L’Italia si presenta con un leggero ritardo derivante dalla mancanza di una conoscenza approfondita del numero dei siti contaminati. A questo si aggiunge una certa mancanza di conoscenza delle tecnologie, intesa non come mancanza reale di conoscenza, ma come un difficile trasferimento di conoscenza pubblica, per tutti gli operatori del settore, delle tecnologie attualmente disponibili.

Il censimento dei siti contaminati dovrebbe essere effettuato in tempi piuttosto rapidi. E’ stato dato incarico all’ANPA di istituire in tempi brevi un’anagrafe dei siti contaminati: ciò ci porterebbe a livello degli altri Paesi europei in tempi molto rapidi.

Per quanto riguarda il tema specifico dei rifiuti che provengono dalle bonifiche, cercherò di sintetizzare. Io appartengo all’Istituto di chimica del terreno del CNR e quindi ho una visione del problema spostata sul suolo.

La bonifica dei siti contaminati è divenuta, negli ultimi anni, una delle problematiche ambientali più importanti anche in Italia, così come in tutti i Paesi industrializzati.

Questo fenomeno si è evidenziato non solo per la dismissione di numerosi siti industriali per i quali sono previste variazioni di destinazione d’uso, ma anche perché indagini sempre più accurate hanno portato alla scoperta di moltissime aree contaminate per le quali sono indispensabili, e spesso urgenti, interventi di bonifica.

Il decreto ministeriale 471/99, che stabilisce i criteri, le procedure e le modalità per la bonifica dei siti contaminati, ha messo a disposizione un quadro di riferimento normativo univoco in grado di superare la frammentarietà delle precedenti norme regionali. Tuttavia, a distanza di un anno dall’entrata in vigore del suddetto decreto, non è ancora possibile tracciare un primo consuntivo completo dei risultati ottenuti, sia perché permangono notevoli interazioni con il quadro normativo preesistente, sia perché esistono ancora difficoltà interpretative del nuovo decreto che ne hanno rallentato la completa applicazione.

In questa realtà si colloca il problema dei rifiuti provenienti dalle operazioni di bonifica, sulla cui gestione le informazioni che si ricavano dal settore non sono ancora adeguate per quantità e qualità.

Al di là degli aspetti legislativi, negli interventi di recupero dei siti contaminati si possono individuare almeno tre flussi principali di rifiuti, che derivano da diverse tipologie di residui che più frequentemente si incontrano nelle aree inquinate: i rifiuti pericolosi presenti (stoccati, abusivamente abbandonati ecc.) nei siti contaminati; i rifiuti che derivano dall’applicazione delle tecnologie di bonifica; i rifiuti di altro genere, quali i residui di costruzioni che sono state demolite; i rifiuti derivanti dalla decontaminazione di edifici, serbatoi ecc.; i terreni che residuano dalle operazioni di bonifica spesso individuabili sotto la dizione di "terre di scavo", che possono essere considerati o no rifiuti a seconda delle concentrazioni dei contaminanti presenti.

Per tutte le tipologie di rifiuti che provengono dalle attività di bonifica, una parte di fondamentale importanza è quella della caratterizzazione analitica, perché le risultanze specifiche che ne derivano servono ad individuare la loro pericolosità e quindi la loro destinazione finale.

Nei siti contaminati la fase analitica è particolarmente complessa, a causa dell’ eterogeneità delle matrici ambientali presenti. Le stesse analisi del suolo e delle acque presentano notevoli problemi esecutivi ed interpretativi già a partire dal campionamento, dal momento che non è semplice riuscire ad ottenere un campione rappresentativo dal quale valutare 1’effettiva concentrazione dei contaminanti, spesso proprio a causa della presenza di rilevanti quantità di materiali di rifiuto.

La presenza di rifiuti potenzialmente pericolosi è una delle componenti che caratterizzano la maggior parte dei siti contaminati. Il decreto ministeriale 471/99, prevedendo questa possibilità, definisce già a partire dalle fasi di campionamento particolari attenzioni che devono essere adottate nel caso si preveda la presenza di rifiuti interrati, in modo da scongiurare la diffusione dei contaminanti.

Allo scopo di ridurre al minimo i rischi ambientali, è previsto l’impiego di metodi di indagine non invasivi, in modo da poter localizzare, ad esempio, eventuali fusti interrati o altri materiali di rifiuto spesso di origine sconosciuta. Inoltre è molto frequente nei siti contaminati da attività industriali trovare discariche interne, nelle quali sono rintracciabili stratificati rifiuti di natura anche molto diversa che raccontano la storia delle attività e della produzione industriale.

La rimozione e lo smaltimento di rifiuti interrati deve avvenire secondo le procedure adeguate alle loro caratteristiche. Questo comporta uno sforzo analitico non indifferente, perché spesso il campione "medio" anche se estratto a profondità diverse da più sondaggi può non essere del tutto rappresentativo del materiale di rifiuto, mentre un’analisi di dettaglio dei vari materiali presenti può risultare spesso troppo onerosa dal punto di vista economico e troppo prolungata nel tempo.

Lo smaltimento di questi rifiuti assume quindi particolare rilevanza, laddove gli interventi di bonifica rivestano carattere di urgenza.

Sono specificamente previste dal DM 471/99 le modalità per la rimozione di container o fusti contenenti materiali pericolosi e l’allontanamento di rifiuti ammassati in superficie o derivanti dallo svuotamento di bacini.

Anche in questo caso l’analisi chimica indirizzerà verso un collocamento definitivo i rifiuti presenti, mentre sul sito sarà necessario intervenire con appropriate attività di monitoraggio per verificare il raggiungimento di condizioni di sicurezza ambientale.

Qualora la sorgente dell’inquinamento siano i rifiuti stoccati e non sia fattibile la rimozione, è possibile attuare misure di messa in sicurezza permanente lasciando i rifiuti nel sito. Anche in questo caso è prevista dal DM 471/99 una procedura di gestione dei rifiuti che privilegia le tecnologie di trattamento che portano ad una riduzione del volume, e rimane comunque l’obbligo di procedere alla bonifica del suolo e delle acque inquinate.

La conoscenza delle diverse tecnologie di bonifica rappresenta operativamente uno degli aspetti più importanti già a partire dalla fase di progettazione di un recupero ambientale di un sito contaminato. Ogni metodologia di trattamento ha proprie caratteristiche peculiari, e proprie limitazioni; pertanto ogni tecnologia è in grado di allontanare, o comunque interagire solo con alcune classi di inquinanti, mentre altre classi possono risultare indifferenti al trattamento prescelto.

I processi di decontaminazione dei terreni devono essere preceduti da un accurato studio delle principali caratteristiche del suolo e degli inquinanti. In particolare vanno prese in esame le caratteristiche che individuano il tipo di suolo (tessitura, permeabilità, ecc.) ed i fattori che influenzano la mobilità dei contaminanti (pH, sostanza organica, ecc.) nel sistema suolo per individuare il tipo di trattamento che sarà necessario attuare.

Una volta raccolte le informazioni relative al tipo di suolo da bonificare, ai materiali di rifiuto presenti ed ai contaminanti che li caratterizzano, è possibile iniziare un percorso logico per la scelta delle tecnologie più opportune da utilizzare nel sito in esame.

In termini di finalità di trattamento, i processi di bonifica possono essere esaminati in base all’azione svolta nei confronti dei contaminanti presenti: degradazione o

distruzione, mobilizzazione e recupero, inertizzazione e/o immobilizzazione ovvero riduzione del volume della matrice contaminata.

I parametri essenziali per il confronto e la scelta delle tecnologie di bonifica sono almeno i seguenti: capacità di interagire con i contaminanti presenti, stato di sviluppo della tecnologia, possibilità di essere impiegata da sola o di far parte di un trattamento integrato, disponibilità sul mercato, affidabilità della tecnologia, tempo necessario per il completamento della bonifica, costo totale.

Sulla base di questi parametri si individuerà tra i vari processi di bonifica, che possono essere divisi schematicamente in alcune categorie generali (fisici, chimici, biologici, termici, di inertizzazione), quello più indicato.

La scelta della tecnologia definisce anche l’atteggiamento che si intenderà assumere nei confronti dello smaltimento dei rifiuti. A seconda della tecnologia scelta si può già prevedere quali saranno i rifiuti prodotti ed individuare le necessarie operazioni per un loro corretto smaltimento finale.

Il decreto ministeriale 471/99 invita a privilegiare quelle tecnologie tendenti a trattare il suolo nel sito stesso, per ridurre al minimo le fasi ed i rischi connessi al trasporto di materiali che in qualche modo possano essere considerati rifiuti, e che consentano il riutilizzo del terreno nello stesso sito contaminato dopo le operazioni di bonifica.

Le tecnologie biologiche risultano essere quelle che creano i minori problemi come produzione di rifiuti. Nel caso di contaminanti organici (idrocarburi, PCB, diossine, ecc.) i processi di bioremediation effettuati in situ o on site prevedono una ridotta movimentazione del terreno contaminato ed al termine del trattamento non si ha, almeno in teoria, alcuna produzione di rifiuti. Nel caso dei contaminanti inorganici (metalli pesanti), che fino a pochissimo tempo fa sembravano trattabili esclusivamente con metodi chimici o fisici, è oggi possibile utilizzare processi di bonifica biologici mediante le tecniche di phytoremediation.

Ad esempio, l’impiego di piante iperaccumulatrici sembra essere una brillante soluzione per il recupero di siti contaminati da metalli pesanti, nei quali la concentrazione degli inquinanti non sia troppo al di sopra degli obiettivi di bonifica e la contaminazione interessi gli strati più superficiali del terreno.

Con l’utilizzo di questa tecnologia, dai costi estremamente ridotti, si deve comunque tenere conto che si avrà una certa produzione di rifiuti, le piante con una concentrazione di metalli particolarmente elevata. Sarà necessario quindi prevedere una fase finale di trattamento del materiale vegetale contaminato o di collocazione in discarica.

In ogni caso il ricorso alla discarica o all’incenerimento risulta essere ridotto almeno dell’80 - 90%, rispetto ai quantitativi di terreno che sarebbe stato necessario trattare senza l’impiego di questa tecnologia.

Gli interventi di bonifica che si basano su processi chimici o termici derivano direttamente dalle stesse tecnologie che si impiegano per il trattamento diretto dei rifiuti e implicano, nella maggior parte dei casi, la necessità di definire impianti ex situ, spesso in centri di trattamento specializzati. Questo implica, naturalmente, la movimentazione di notevoli quantità di terreno o di fanghi con concentrazioni di inquinanti anche molto elevate, con i conseguenti problemi legati al trasporto di materiali potenzialmente pericolosi.

Queste tecnologie sono specificatamente indirizzate alla distruzione delle sostanze contaminanti, sono efficaci in tempi brevi e per questo sono scelte spesso come soluzioni praticabili, soprattutto quando la collocazione geografica dei siti contaminati è molto vicina ai centri abitati ed è quindi necessario procedere in tempi molto rapidi agli interventi di bonifica.

Questi trattamenti danno luogo a diverse tipologie di rifiuti che in generale sono da considerarsi per le loro caratteristiche come pericolosi; inoltre, essendo i trattamenti molto aggressivi, modificano in maniera sostanziale le caratteristiche dei terreni decontaminati, che pertanto non possono nella maggior parte dei casi essere riutilizzati né in loco né altrove.

Ad esempio, un trattamento termico che superi i 7000C induce nel terreno una tale serie di modifiche (distruzione della materia umica, collassamento delle argille, ecc.) che rende dubbia la possibilità di definirlo dopo il trattamento ancora come un terreno. Nei trattamenti chimici, l’impiego di agenti acidi nei processi di estrazione lascia il suolo al termine del processo in una situazione tale (valori molto bassi di pH) che potrebbe rivelarsi addirittura più pericoloso se riutilizzato in loco, nel caso di presenza residua di alcuni contaminanti (metalli pesanti), di quanto lo fosse prima del trattamento di bonifica.

La collocazione finale di rifiuti dai processi di trattamento di questo tipo deve essere programmata, come fase dell’intero processo di bonifica, già a partire dal progetto preliminare.

Per lo specifico problema dei rifiuti, sono particolarmente interessanti le tecnologie fisiche, perché sono orientate ad una riduzione di volume del terreno contaminato. Esse prevedono trattamenti che concentrano i contaminanti in una ridotta frazione del volume totale di terreno da trattare, lasciando decontaminata una rilevante quantità di terreno, che può essere riutilizzata direttamente in loco senza particolari preoccupazioni.

Queste tecnologie hanno inoltre il vantaggio di un basso impatto ambientale, costi moderati ed una buona accettabilità pubblica.

Un esempio classico di riduzione di volume di suolo contaminato, con una modesta produzione di rifiuti nei quali i contaminanti sono concentrati, sono i processi di lavaggio (soil washing). Questa tecnologia si basa sulla separazione a umido di differenti frazioni granulometriche del suolo, in modo da dividere le frazioni più grossolane e pulite da quelle più fini molto contaminate. Queste ultime dovranno essere collocate in discarica o trattate con altri sistemi, e comunque considerate come rifiuti pericolosi.

In questo caso dunque si ha la dimostrazione di una tecnologia che recupera una buona percentuale di terreno decontaminato intorno all’80 - 90% del volume originale, che porta, però, alla formazione di un residuo particolarmente contaminato che dovrà essere considerato come un rifiuto, allontanato dal sito ed inviato ad opportuno trattamento.

Questa tecnologia viene oggi applicata on site mediante impianti mobili e pertanto i quantitativi di materiali contaminati che devono essere trasportati all’esterno del sito sono, in generale, molto ridotti. La stessa impresa che effettua il trattamento si deve prendere cura dello smaltimento finale di questi residui e spesso è proprio questa fase che incide notevolmente sui costi dell’intero processo.

Nella maggior parte degli interventi di bonifica esistono notevoli quantità di terreno che vengono scavate, stoccate, talora parzialmente, o del tutto bonificate e che se non possono essere riutilizzate in loco, devono essere allontanate dal sito e trasportate verso una destinazione finale ambientalmente sicura.

Questi materiali sono stati ultimamente oggetto di particolare interesse da parte dei soggetti incaricati delle bonifiche e da parte degli enti di controllo. Il Ministero dell’ambiente è dovuto intervenire con una lettera di chiarimento indirizzata a regioni e province per definire quando questi "terreni" devono essere considerati rifiuti e quando possono essere direttamente riutilizzati senza particolari precauzioni o limitazioni.

Quando la concentrazione dei contaminanti presenti è inferiore ai valori limite riportati nel DM 471/99 per il terreno con destinazione a verde privato, pubblico e residenziale, non esistono limitazioni all’utilizzo. In questo caso si deve privilegiare la possibilità di riutilizzo di questi terreni nel sito di origine e se questo non è possibile possono essere destinati ad altri utilizzi, quali sottofondi e rilevati stradali, rimodellamenti paesaggistici, ecc.

Quando la concentrazione dei contaminanti in questi materiali è superiore ai valori limite riportati nel DM 471/99 per il terreno con destinazione a verde privato, pubblico e residenziale, essi devono essere considerati potenzialmente pericolosi ed è necessario controllare il loro utilizzo per evitare ogni possibile trasferimento di inquinanti in altri siti.

In questo caso dunque i terreni che residuano da interventi di bonifica devono essere assoggettati al regime dei rifiuti.

Emergono però alcune lacune che sarebbe opportuno colmare. Non è sempre possibile definire questi materiali in base al codice CER e non è ben chiaro, almeno a sentire il parere di chi opera negli interventi di bonifica, a chi spetta l’attribuzione della loro pericolosità.

Una certa mancanza di chiarezza può derivare anche dal DM 471/99, perché se queste terre di scavo hanno una concentrazione di contaminanti compresa tra i valori tabellari ammissibili per l’uso residenziale e quelli per l’uso industriale non è ben definibile quale possa essere il loro riutilizzo.

Spesso prevale la scelta di inviarli in discarica; questa soluzione sembra ambientalmente non corretta e può anche essere uno spreco di risorse in quanto terreni con valori di contaminanti di poco superiori ai valori limite per l’uso residenziale potrebbero, almeno teoricamente, essere utilizzati in recupero di siti con destinazione industriale senza alcun peggioramento della situazione ambientale. Questo comporterebbe, naturalmente, la definizione di procedure di conservazione, monitoraggio e controllo, che sembrerebbero comunque una scelta migliore rispetto all’indiscriminata collocazione in discarica.

Sarebbe opportuna una codifica di questi terreni assai più puntuale di quella attuale, mediante un’analisi di caratterizzazione delle loro proprietà ed una specifica del tipo di contaminazione, ad esempio terreno contaminato da idrocarburi ovvero terreno contaminato da metalli pesanti, ecc.

E’ necessario inoltre tenere presente un altro problema; è possibile che spesso i limiti tabellari non siano raggiungibili neppure con l’applicazione delle migliori tecnologie di bonifica disponibili. In questi casi si ricorre all’analisi di rischio per stabilire gli obiettivi di bonifica; i terreni che residuano da questo tipo di intervento hanno quindi una concentrazione di contaminanti "ambientalmente sicura" solo nella zona oggetto della bonifica, essendo l’analisi di rischio sempre sito-specifica, mentre risulta difficile poterne definire un impiego sicuro all’esterno del sito dal quale provengono, a meno che non siano ben caratterizzati analiticamente.

Quest’ultimo è un problema di non facile soluzione perché, per la quantità elevata che se ne produce e si accumula durante gli interventi di bonifica, non è possibile prevedere un programma di analisi particolarmente approfondito, se non a costi abbastanza elevati. D’altra parte la valutazione analitica di pochi "campioni medi" comporterebbe rischi di approssimazioni grossolane se non assolutamente prive di significato scientifico, che non garantirebbero alcuna sicurezza ambientale.

Anche per quanto riguarda le operazioni di bonifica, ed il ciclo dei rifiuti ad esse connesso, stiamo ancora scontando una certa situazione di arretratezza.

Gli interventi di bonifica comportano la produzione di notevoli quantità di rifiuti, alcuni dei quali sicuramente pericolosi, tuttavia il loro percorso dovrebbe essere ben definito e rintracciabile già a partire dalla stesura del progetto preliminare di bonifica, nel quale devono essere individuate le fonti della contaminazione, i percorsi ambientali dei contaminanti e le tecnologie di bonifica da utilizzare.

Sulla produzione di rifiuti incidono in maniera determinante le caratteristiche delle tecnologie utilizzabili (affidabilità, disponibilità sul mercato, costi, ecc.), ma purtroppo incidono anche alcune carenze normative del più volte citato decreto ministeriale 471/99. Infatti la scelta di valori tabellari estremamente bassi, talora intorno al limite di rivelabilità della metodica analitica, comporta una serie di conseguenze negative quali: elevati costi di analisi perché sono necessarie strumentazioni d’avanguardia; ridotta possibilità di controlli perché non tutti gli enti preposti hanno laboratori con attrezzature adeguate; costi di bonifica molto alti, spesso superiori a quelli dello smaltimento in discarica.

Quest’ultima situazione rappresenta un punto estremamente delicato nel complesso dei problemi legati al ciclo dei rifiuti e dovrebbe essere motivo di un’attenta riflessione perché contrasta palesemente con lo spirito generale con il quale era nato il DM 471/99, che si proponeva un ricorso alla discarica molto limitato.

Massimo SCALIA, Presidente della Commissione.

Ringrazio il professor Petruzzelli. Rifletteremo su questa appendice. Nel corso del dibattito egli spiegherà meglio come funziona la selezione verso il basso.

Do subito la parola al ministro dell’ambiente, Willer Bordon.

Willer BORDON, Ministro dell’ambiente.

Ringrazio e mi scuso per aver prodotto questa corsa contro il tempo; spero che il motivo per cui dovrò tra dieci minuti andarmene ancor più velocemente sia, come ricordava prima il Presidente Scalia, di tale importanza da giustificare questa accelerazione dei lavori. Tra venti minuti a Palazzo Chigi verrà sottoscritto l’accordo di programma per l’inizio della bonifica dell’Acna di Monte Cengio. Credo che l’evento meriti una volta tanto l’aggettivo "storico". La questione risale addirittura all’inizio di questo secolo, quando sorsero i primi problemi fra le popolazioni, le amministrazioni pubbliche e gli stabilimenti industriali. Fra l’altro, è ancora aperta una pendenza fra l’amministrazione che ho l’onore in questo momento di presiedere e l’Acna stessa, per una valutazione di impatto ambientale negativa nei confronti del cosiddetto resoil.

Siamo riusciti, in questa difficile condizione, a mantenere fermi – questo è il dato più importante – tutti gli obiettivi di fondo e a non deflettere rispetto al principio "chi inquina paga". Il costo del primo intervento è di 350 miliardi, di cui 300 da parte delle società interessate e 50 miliardi di compartecipazione, in questo caso più che dovuta, da parte del Ministero dell’ambiente. Non abbiamo quindi fatto venire meno questo principio e nello stesso tempo siamo riusciti a trovare obiettivi compatibili con la sicurezza generale delle zone interessate e la tranquillità delle popolazioni. Oggi con me firmeranno l’accordo di programma non soltanto il commissario liquidatore dell’Acna e i responsabili dell’Enichem, ma anche i due presidenti delle regioni interessate, Piemonte e Liguria. Colgo l’occasione per ringraziare il commissario delegato dottor Leoni, che in questa vicenda è stato assolutamente fondamentale. Io sono arrivato nel 1987 alla Camera dei deputati e già allora il problema dell’Acna di Monte Cengio era uno dei problemi all’attenzione dei parlamentari che rappresentavano quelle popolazioni. Da questo punto di vista è con qualche soddisfazione che oggi questa vicenda va in risoluzione. E' con altrettanta soddisfazione, anche se siamo appena agli inizi, che l’altro lunedì ho firmato, assieme al presidente della giunta regionale del Veneto, ai rappresentanti dell’amministrazione comunale della provincia di Venezia e a una ventina di primarie imprese nazionali del settore petrolchimico, l’altro importante atto che rende possibile finalmente la partenza dell’accordo di programma per la bonifica di Porto Marghera. Avvenimento di dimensioni ciclopiche, rispetto al quale ho volutamente detto che siamo appena agli inizi; anche lì, però, sembrava un inizio che non dovesse avvenire mai. Il tentativo di mettere attorno al tavolo le imprese, tutte le amministrazioni locali e regionali, le rappresentanze del mondo imprenditoriale e delle organizzazioni sindacali, sembrava un’impresa quasi impossibile. Questa impresa è riuscita e bisogna cominciare a produrre atti ancora più importanti. Io vorrei ricordare che gli obiettivi che la legge si prefigge possono essere conseguiti in modo efficace, soprattutto se ricorriamo il più possibile alle forme di compartecipazione tra i soggetti obbligati e la pubblica amministrazione. Di fronte a un’impresa di questa natura, è evidente che in taluni casi può essere anche obbligatorio l’intervento autoritativo. Se c’è una piena partecipazione di tutti i soggetti interessati probabilmente l’operazione, al di là di quanto viene descritto in provvedimenti autoritativi, cammina davvero e non rimane soltanto sulla carta. Questo è il punto di fondo, fermo restando che in taluni casi l’autorità pubblica non può venire meno ai propri fondamentali obiettivi. Nello stesso caso dell’Acna, siamo arrivati ad un punto in cui l’ultima riunione, quella decisiva, si è aperta con questa considerazione: non era possibile perdere ulteriore tempo e quindi o in quella riunione si raggiungeva un accordo, oppure il Ministero avrebbe proceduto con interventi autoritativi. Voglio essere chiaro: l’accordo va perseguito fino all’ultimo secondo utile, ma non un istante di più rispetto alle esigenze di salvaguardia delle popolazioni e dell’interesse pubblico. Io considero questi due accordi – quello dell’Acna di Cengio e quello di Porto Marghera che sarà firmato il 15 dicembre – un importante successo nell’azione amministrativa; essi avviano, forse, effettivamente l’azione più generale delle bonifiche nel rispetto della disciplina vigente e negli interessi sostanziali della salute dei cittadini e dell’ambiente, nonché dell’occupazione. Questi accordi segnano finalmente l’avvio e al tempo stesso prevedono tempi e modalità di intervento coordinati con le esigenze della produzione e della reindustrializzazione, secondo modelli più attenti alle problematiche ambientali.

Fra l’altro, sotto tale ultimo profilo, merita di essere segnalato, negli accordi, l’impegno delle aziende firmatarie di favorire ed avviare attività produttive ecocompatibili.

Per quanto invece riguarda la gestione dei rifiuti stoccati nei siti inquinati o originati da interventi di bonifiche effettuati sui siti stessi, gli accordi recano l’impegno delle imprese firmatarie di limitare il più possibile la movimentazione dei rifiuti e di ricorrere a trattamenti in situ e in ogni caso di avvalersi– lo ricordava prima Scalia – di sistemi di trasporto quando necessario. In alcuni casi può essere perfino più che necessario.

La stipula di questi primi due accordi è importante, anche perché rende operativo un percorso di collaborazione tra pubblico e privato, con l’effetto di favorire nuove e più numerose adesioni.

Infatti c’è già una richiesta in corso di istruttoria, e rispondo così anche ad un altro sollecito del Presidente Scalia. Voglio ringraziare, non soltanto per questa occasione, ma fuori da ogni ritualità, Presidente, attraverso Lei, la Commissione bicamerale d’inchiesta per il lavoro davvero prezioso che ha svolto in questi mesi e in questi anni. Lavoro che fra l’altro è stato fondamentale per fare emergere in tutta la sua complessità un problema di proporzioni gigantesche e di dimensioni così rilevanti che non possono che essere affrontate con un’attenzione, a mio avviso, ancor più forte rispetto a quella che negli ultimi tempi si è prodotta. Le modifiche sostanziali, anche di legislazione, lo stanno a dimostrare. Eravamo però ancora in una situazione in cui tutto quello che occorreva dal punto di vista del supporto legislativo c’era. Oggi manca un’ulteriore spinta, un’ulteriore determinazione. Il far emergere i nodi, i problemi, il dare suggerimenti, come la Commissione in questi mesi ha fatto, è stato fondamentale anche per l’attività del Ministero che ho l’onore di presiedere. Voglio approfittare per ricordare che in questo momento sono in corso di istruttoria, da parte dei miei uffici, appositi accordi di programma con l’Unione Petrolifera e l’Assocostieri.

Quindi continuiamo in questa opera che, lo ricordo ancora una volta, da una parte mantiene ferma la volontà e l’indicazione rispetto ai propri compiti di salvaguardia dell’interesse pubblico del Ministero, dall’altra parte, quando possibile, ricerca sempre la piena collaborazione e compartecipazione dell’attività dei soggetti interessati.

Io purtroppo non ho molto tempo a disposizione, la legislatura è in via di scadenza, voglio solo ricordare che entro la fine dell’anno il Ministero ritiene di poter presentare alla conferenza Stato-Regioni e alle competenti Commissioni parlamentari la proposta del programma nazionale di bonifica. Questo è il dato forse più importante. Sono inoltre già stati perimetrati, con mio decreto, sentiti i comuni interessati, tutti i siti nazionali individuati dalla legge n. 426 e sono già in avanzato iter istruttorio le procedure amministrative previste per l’approvazione dei progetti di caratterizzazione e messa in sicurezza di tali siti; più precisamente sono già state effettuate formali conferenze di servizi per tutti gli interventi di interesse nazionale, ad eccezione del sito Napoli orientale e del sito litorale domizio-flegreo ed agro aversano. Per questi due siti non è stato presentato alcun progetto di caratterizzazione, ma si spera di accelerare l’iter con l'attribuzione delle competenze, ahimè, ad un commissario delegato. E dico "ahimè" perché vedo il ricorso all'istituto commissariale come un intervento che avviene in casi di patologia, quindi non ne sono assolutamente felice.

Sono inoltre già stati approvati alcuni piani di caratterizzazione di messa in sicurezza di emergenza nei siti di Manfredonia, Pitelli, Balangero, Cengio e Saliceto, Casalemonferrato, Porto Marghera, Gela e Priolo. Io avrei anche il dettaglio, ve lo risparmio, ve lo lascio come relazione da consegnare, che potrà far considerare la giornata di oggi come probabilmente quella in cui si è avviata concretamente un’operazione così complicata e difficile, rispetto alla quale permettetemi un’ultima considerazione: voi sapete che si discute spesso e molto dei costi di alcuni interventi. Quando si riflette sull’esigenza di fare opere di manutenzione, di prevenzione più in generale sul territorio, e quando qualcuno mi chiede: "Quanto costa?", rispondo quasi sempre che costa sicuramente molto, ma costerebbe molto di più non fare nulla.

Se mi permettete, vorrei introdurre un altro concetto, quello della contabilità ambientale, che non è solo l’esternalizzazione dei costi per la salute dei cittadini, in taluni casi non sempre quantificabili, in altri, ahimè, maledettamente irreversibili, ma è anche il costo che spesso noi non sappiamo prevedere rispetto ad alcuni interventi che vengono fatti senza considerare che dopo molti anni produrranno costi che l’intera comunità dovrà sopportare.

Io non ho una dimensione del valore in generale di quanto verrà alla fine a costare il piano nazionale delle bonifiche, ma credo di non andare molto lontano se dico che saremo nell’ordine delle decine di migliaia di miliardi, rispetto alle quali una parte considerevole sarà sopportata anche dall’erario pubblico. Risorse finanziarie che se ne vanno in opere di investimento, in taluni casi di ricerca di nuove tecnologie, in altri di business. È importante che anche su questo vi sia un’accortezza e una riflessione: non sempre, anzi quasi mai, questi costi vengono previsti al momento della realizzazione degli insediamenti.

Non sarebbe male fare una riflessione, qualche anno prima, sulla considerazione più generale non soltanto dei costi diretti, ma anche dei costi indiretti che una comunità deve sopportare rispetto ad alcuni insediamenti, piuttosto che dover sopportare i costi qualche anno dopo.

Massimo SCALIA, Presidente della Commissione.

Ringrazio il ministro per il suo intervento. Come egli ricordava, esistono costi differiti nel tempo, che con tecniche di ammortamento dovrebbero essere anch’essi valutati. Questa è forse una delle tematiche che dovrà essere approfondita. Lascio ora la parola al nostro coordinatore Sergio Rizzo, il quale condurrà il dibattito.

Sergio RIZZO, giornalista Corriere della Sera.

Innanzitutto la cosa che mi ha impressionato – premetto di non essere un esperto anche se, come a tutti i cittadini italiani, mi piacerebbe vivere in una natura più pulita nella quale l’uomo sia più rispettoso dell’ambiente – sono questi dati che leggevo nella relazione alle Camere della Commissione presieduta dall’on. Scalia, in cui si citano dati di un’indagine di Legambiente, da cui salta fuori che in Italia spariscono 121.000 tonnellate di rifiuti tossici pericolosi.

Dove vanno a finire? Questo lo chiedo a Francesco Ferrante, direttore generale di Legambiente.

Francesco FERRANTE, Direttore generale di Legambiente.

Se lo sapessi sarebbe tutto molto più semplice. Sappiamo, come dimostra il lavoro della Commissione, quello fatto dall’Arma dei carabinieri e dalle altre forze di polizia, che siamo in mano alla criminalità organizzata.

Prima di affrontare questo argomento vorrei fare qualche riflessione in relazione a ciò che è stato prima affermato dal ministro Bordon e dal professor Petruzzelli. Io starei attento a mettere insieme gli accordi di programma dell’Acna con quello di Marghera, altrimenti temo che si faccia confusione.

Sono due cose molto diverse. L’Acna è una vicenda ormai di un secolo, una vicenda che negli ultimi decenni ha avuto un aggravamento terribile. L’atto che firmeranno tra pochi minuti a Palazzo Chigi è davvero una novità. È un accordo criticabile, che può avere anche dei buchi, ma che comunque mette in moto delle procedure, con tempi certi, che si possono verificare. Finalmente si avvia davvero la bonifica di un sito che è simbolico, almeno per noi ambientalisti.

Per Marghera, invece, non è così: a Marghera siamo ancora molto lontani da un accordo. Mi spiace che non ci sia il ministro Bordon, ma a questo tavolo ci sono ancora molti attori a vario titolo di quello che dovrà essere l’accordo di Marghera, che è simbolicamente e sostanzialmente più importante. Io ho l’impressione che a Marghera si realizzi quello che ci ha detto il professor Petruzzelli nell’ultima battuta: di fronte a costi eccessivi, diventa di nuovo conveniente la discarica. Ed è questo ricorso alle discariche che vorrei evitare e voglio evitare fin quando è possibile. Io credo che snodo fondamentale per una corretta gestione delle bonifiche sia il Ministero dell’ambiente, che deve però essere molto più efficiente, rapido e dialogante con il mondo delle imprese di quanto lo sia stato finora. Altrettanto importante, e forse di più, è che il mondo delle imprese capisca una volta per tutte che questa strada – lo abbiamo detto tante volte – può condurre ad importanti occasioni di business. La bonifica può anche diventare un’occasione importante, ma comunque è una cosa che va fatta. L’Enichem ha scelto finalmente questa strada e investe anche dei soldi.

Solo affrontandola in questa maniera, forse riusciamo non tanto a rispondere alla domanda: "dove vanno a finire i rifiuti?", ma riusciamo a bloccare un circolo vizioso, che è quello per cui la criminalità organizzata si offre come smaltitore principe a basso costo di questo tipo di rifiuti, determinando una serie di conseguenze che è facile immaginare.

Sergio RIZZO, giornalista Corriere della Sera.

Comunque, mi pare che uno degli elementi centrali, anche per capire dove vanno a finire i rifiuti nocivi e pericolosi, di cui non si conosce la destinazione, è il fatto di sapere che cosa c’è sul territorio. Da questo punto di vista, mi pare che la situazione sia abbastanza disastrosa.

Io mi rifaccio ai dati che l’on. Scalia ha citato nella sua relazione: secondo il rapporto dell’ANPA e dell’Osservatorio nazionale sui rifiuti, il 25 per cento dei rifiuti speciali sfugge al controllo, ma addirittura questa percentuale dovrebbe essere incrementata.

Io mi domando: come è possibile questo? Soprattutto, come è possibile che ci sia un censimento previsto dal 16 maggio 1989, mi pare siano undici anni, che a tuttora – cito ancora la relazione dell’on. Scalia – non ci siano ancora risultati concreti e siano pochissimi i casi di accordo di programma tra il Ministero dell’ambiente e gli enti per realizzare la mappatura nazionale dei siti? Perché questa situazione?

Questo lo chiederei al professor Walter Ganapini.

Walter GANAPINI, Presidente ANPA.

Ci sono due nodi nella risposta alla sua domanda, che peraltro anch’io mi pongo. Ho avuto l’onore di avviare il ragionamento sulle bonifiche all'epoca del Ministero Ruffolo. Allora presiedevo il comitato tecnico-scientifico smaltimento rifiuti al Ministero, che tentava di introdurre in Italia il tema delle bonifiche nella normativa.Avevo assistito a livello europeo alla nascita del tema nei primi anni ottanta, con il dragaggio dei porti di Amburgo e Rotterdam. Da lì nasce il tema della bonifica, tema che cominciava dall’elaborazione statunitense.

I nodi sono due: se oggi siamo ancora in queste condizioni, è dovuto al funzionamento delle burocrazie centrali, prevalentemente quelle regionali. La situazione migliora: il sistema delle agenzie nazionali e regionali per l’ambiente sta operando. Esiste adesso un centro tematico nazionale che si occupa delle bonifiche, coordinato dall’ARPA del Piemonte, e stiamo lavorando anche nelle quattro regioni commissariate. Abbiamo censito, per conto del commissario delegato in Campania, 705 siti da bonificare, sono 4 milioni di metri cubi di materiali da trattare.

C’è dunque un problema di funzionamento dello Stato, e approfitto della sede straordinariamente autorevole e della sensibilità che i parlamentari, con il Presidente della Commissione, on. Scalia, hanno dimostrato per questa vicenda per affermare che il problema esiste sotto ogni punto di vista. Il decreto sulle bonifiche attualmente vigente ha impiegato più di un anno e mezzo ad essere varato, nonostante fosse pronto già dal luglio 1998. Il problema del funzionamento della macchina dello Stato, già ricordato, é in qualche modo drammatico.

Un altro problema riguarda l’evidente questione dei costi, che è già stata richiamata, e dunque l’evoluzione della cultura industriale. L’amico Venturini è stato uno dei protagonisti della crescita della cultura industriale in questo settore. Il problema non è solo italiano. Si è parlato anche di contenziosi: ci sono contenziosi esemplari nel mondo. Il più famoso, che investe le maggiori risorse di cultura giuridica, è tra la Repubblica popolare cinese e il Governo del Canada, perché la Repubblica popolare cinese ha acquistato per poche lire l’area su cui a Vancouver si tenne l’Expo, per scoprire poi che era un’area industriale dismessa con circa venti milioni di tonnellate di materiale a vario titolo contaminato. Il governo canadese avrebbe lasciato i cinesi investire in quell’area solo a sito bonificato; il costo vero dell'investimento si era quasi decuplicato. Anche l’esperienza americana del Superfund, citata dal Presidente Scalia, che ha investito ingenti risorse (si parla di 12 miliardi di dollari) viene solitamente criticata perché gli unici che hanno lavorato e hanno fatto girare i dollari sono stati gli avvocati nei contenziosi.

Quindi la risposta alla sua domanda è: burocrazia e costi. Costi che incidono sulla possibilità da parte del sistema industriale di mettere in conto il problema delle bonifiche, soprattutto in assenza di un’obiettiva regolazione internazionale che sia valida per tutti.

Il Giappone, per esempio, è il più grande produttore industriale al mondo ed ancora oggi scarica i rifiuti tossici in mare e non tollera il controllo internazionale. Dunque non è solo un problema di un controllo interno attraverso le agenzie. Io ho vissuto con il comitato scientifico dell’Agenzia europea dell’ambiente, del quale mi onoro di essere membro dal 1994, uno scontro con gli inglesi che non volevano inserire il tema delle bonifiche nel programma di lavoro dell’Agenzia europea. Sostenevano che le aree inquinate e le bonifiche non erano un problema nel 1994, con grande affabilità, con grande fair play, però non volevano che si inserisse il tema.

Il tema invece è di quelli cruciali, E attualmente disponiamo dei mezzi tecnici e organizzativi per affrontarlo, a partire da una corretta caratterizzazione di ciò che deve essere trattato. Ha ragione Ferrante quando cita la straordinaria differenza tra i casi tipo Acna e i casi tipo Marghera; però, come il professore Petruzzelli che mi onoro di citare qui anche come membro del comitato scientifico dell’Agenzia internazionale per l’ambiente ha già detto, esistono tecnologie per i trattamenti in situ e tecnologie per i trattamenti a distanza. Due sono dunque le possibilità di intervento: da una parte sono disponibili impianti mobili, che possono essere trasportati per il trattamento degli inquinanti sui siti; da un'altra parte si può procedere al trasporto del materiale inquinato verso aree adeguatamente disposte a contenerlo. Saluto come straordinariamente importante l’impegno delle ferrovie dello Stato nel cogliere questa opportunità di sviluppo imprenditoriale nel settore dei trasporti. La maniera migliore per essere sicuri di avere sotto controllo un trasporto è di averlo su rotaia, evitando così centinaia di migliaia di automezzi in giro. Naturalmente i due sistemi devono convivere. È importante sapere che, attraverso il trasporto e il controllo di una parte non irrilevante del trasporto di rifiuti, l’economia criminale si inserisce pesantemente nel settore.

Sergio RIZZO, giornalista Corriere della Sera.

Adesso vorrei sentire l’opinione del dottor Kurt Schmitz. Stavamo parlando di tecnologie e volevo capire meglio come funziona, come è possibile portare via, ridurre a materiale inerte questi fanghi tossici dell’Acna e come tecnicamente si realizza questo processo. Prima, però, vorrei sapere da lui se in Germania la situazione è come quella italiana, oppure se le cose vanno meglio.

Kurt SCHMITZ, Amministratore delegato della GTS.

Innanzitutto direi che la situazione in Germania è assolutamente paragonabile a quella in Italia. Non é corretto dare dei consigli qui in Italia; dobbiamo risolvere prima i compiti a casa. Abbiamo molto, moltissimo da fare anche in Germania per le bonifiche e per i rifiuti che vengono prodotti tutti i giorni in quantità enormi e che costituiscono un problema anche da noi.

Più che dare dei consigli, vorrei focalizzare l'attenzione su una realtà esistente in Germania, che può offrire soluzioni relative ad alcuni rifiuti tossico-nocivi anche per l'Italia. Una soluzione per due problemi, come dovrebbe essere il titolo del mio intervento: perché, se è vero che i rifiuti pericolosi hanno bisogno di un sito sicuro dove essere smaltiti, è altrettanto vero che in Germania esiste un sito che ha bisogno dei rifiuti.Se permette, vorrei utilizzare alcuni lucidi, per sottolineare il problema.

La miniera di Teutschenthal offre per la messa a dimora di certi rifiuti un sito con una sicurezza ecologica a lungo termine. Quando dico "lungo termine", faccio riferimento a periodi geologici.

In questa miniera è possibile un’operazione di recupero ed è possibile garantire trasporti sicuri per i rifiuti, almeno sotto il punto di vista ecocompatibile.

Nei pressi di Lipsia, si trova una miniera dismessa di potassio, non è più in esercizio ma costituisce un pericolo pubblico perché sono avvenuti crolli, cedimenti degli strati sovrastanti i giacimenti di potassa che sono stati estratti e coltivati. Questo pericolo pubblico impone la messa in sicurezza del sito. Per esaminare più da vicino il problema che dobbiamo risolvere, potete osservare in questo lucido una piantina delle tante gallerie e delle tante camere che si trovano nella miniera. Queste camere, che sono state coltivate, cioè da dove sono stati estratti i sali, oggi costituiscono un pericolo per la miniera stessa, nel senso che gli strati restanti, le formazioni di roccia restanti, non sono più in grado di sorreggere tutto quello che sta al di sopra del giacimento di potassio, che oggi costituisce una cavità. Quindi, con operazioni di riempimento, di costipamento, di rifiuti inerti anche tossico-nocivi (dirò poi qualche cosa sull’aspetto ambientale), si stabilizzano queste cavità, eliminando il pericolo in superficie di effetti sismici, paragonabili a terremoti.

Nel 1996 abbiamo avuto un terremoto che ha scosso tutta la superficie, con un’intensità sulla scala Richter del 5° grado, e quindi le nostre autorità oramai hanno dovuto constatare il pericolo derivante da questa formazione geologica.

Perché possiamo utilizzare rifiuti anche pericolosi, anche tossico-nocivi? Perché la geologia della zona è favorevole. L’ex giacimento di potassio, che ora è più o meno costituito da cavità, presenta una formazione geologica tale che gli strati sovrastanti presentano massicci strati di salgemma, di argilla, in modo da costituire una struttura in grado di racchiudere i rifiuti utilizzati per la messa in sicurezza di questa miniera tramite la costruzione di pilastri artificiali.

Naturalmente il tutto è stato valutato da esperti, nonché comprovato anche dalle autorità competenti.

Abbiamo dovuto quindi effettuare perizie sulla sicurezza a lungo termine della miniera, cioè della formazione geologica, e la nostra autorità competente ha confermato e constatato l’esistenza di un grado di sicurezza a lungo termine; una volta che la miniera viene chiusa con tutte le operazioni della messa in sicurezza, i rifiuti sono messi a dimora senza mai poter prendere contatto con la biosfera.

Il tipo di rifiuti utilizzabili per questa operazione di messa in sicurezza sono materiali inerti, polveri, fanghiglia minerale e materiali provenienti da bonifiche, muratura inquinata, pavimentazioni e terre con sostanze nocive.

La costruzione di pilastri artificiali per la stabilizzazione della formazione geologica è un’operazione di recupero. Siamo in grado, con queste operazioni, di eliminare un pericolo pubblico, escludendo cedimenti di rocce e conseguenti terremoti in superficie; naturalmente risparmiamo anche risorse naturali, che altrimenti avremmo dovuto utilizzare.

La miniera è stata approvata ufficialmente come impianto di recupero. Viste le buone condizioni geologiche della miniera di Teutschenthal, possiamo garantire altissimi livelli ambientali che mai si possono realizzare in superficie, che consistono nella garanzia di chiusura ermetica di questi rifiuti nel salgemma nella fase post-operativa, per periodi lunghissimi paragonabili solo a periodi geologici: parliamo di centinaia di milioni di anni, non solo di 100 o di 50 anni, come normalmente è possibile garantire nei casi di discariche in superficie.

Non siamo stati noi a creare questa situazione geologica favorevole, è stato Iddio che ci ha regalato questa situazione, ma è nostro compito sfruttare questa opportunità. Non abbiamo la necessità del dopo cura e riusciamo con queste operazioni a risolvere contemporaneamente due problemi: mettere in sicurezza il sito della miniera e la messa a dimora di rifiuti anche pericolosi con un processo di recupero e non di mero smaltimento, di solo deposito dei materiali.

Persino un’istituzione molto rinomata in Germania, il cosiddetto Oeko-institut, l’istituto per l’ecologia applicata, molto vicina alla vostra associazione Legambiente, ha sottoposto ad una valutazione ecologica queste operazioni di messa in sicurezza ed ha concluso che esse sono ambientalmente le più favorevoli attualmente in Germania. Comunque siamo certamente anche in grado di esportare questa possibilità di messa a dimora di rifiuti, anche pericolosi, come servizio all’estero.

Arrivo all’ultimo punto: trasporto sicuro ecocompatibile.

Abbiamo la possibilità di ricevere i materiali in miniera, sul nostro raccordo ferroviario, e qui si vede un intero convoglio che trasporta dalle 800 alle 900 tonnellate, con i materiali dentro i cassoni di una società lussemburghese, l’ACTS. Questi cassoni vengono riempiti in diversi cantieri o comunque nei posti da dove provengono i rifiuti, vengono scaricati con i camion, per poi essere trasportati in un capannone dove c’è uno stoccaggio intermedio dei materiali.

Esistono comunque anche altri sistemi che potrebbero andare benissimo su binario, per garantire un trasporto sicuro ed ecologicamente valido.

Mi fermo qui e naturalmente risponderò alle domande.

Sergio RIZZO, giornalista Corriere della Sera.

Entreremo successivamente un po’ più nel dettaglio dell’operazione. Dottor Maurizio Bussolo, lei, che in qualche modo sarà responsabile del trasferimento di questi fanghi essiccati, può spiegare come è nata l’idea e perché le Ferrovie dello Stato sono state coinvolte?

Maurizio BUSSOLO, Direttore cargo delle Ferrovie dello Stato.

Noi non solo siamo stati coinvolti, ma siamo stati una parte attiva in questa proposta di soluzione. Ci siamo mossi per tempo e abbiamo fatto degli accordi con la GTS, la società che gestisce la miniera di Teutschenthal, ci siamo proposti come elemento base della movimentazione logistica per le discariche, in particolare per quel che riguarda i siti che devono essere bonificati. Riteniamo che questo nostro ruolo, che abbiamo per tempo sollecitato ed anche manifestato in un’audizione presso la Commissione circa un anno fa, garantisca alcuni punti di riferimento importanti.

Uno è l’utilizzo di uno strumento di trasporto a basso impatto ambientale: il treno. Il secondo riguarda la sicurezza: in questi termini il trasporto via treno ha vantaggi notevoli. Terzo, l’impatto dei costi, che è favorevole per questa tipologia di trasporto. Quarto, ma sicuramente non ultimo, il problema della trasparenza. Lei ha iniziato questo breve dibattito dicendo: dove vanno a finire? Cosa ne succede? È evidente che, usando il treno, sicuramente sappiamo da dove partono e dove arrivano. E dal punto di vista della trasparenza, per quel che riguarda le sostanze tossiche nocive, l’uso del treno ha un vantaggio sicuramente notevole.

Noi proponiamo questa soluzione d’accordo con la GTS e con la miniera di Teutschenthal perché ha pragmaticamente una capacità di ricezione elevata e si possono fare interventi in tempi brevi. Voglio ricordare che se verranno date le autorizzazioni alla notifica che la GTS e noi, in associazione d’impresa, abbiamo fatto per Marghera, il 18 dicembre prossimo partirà il primo treno. Questo vuol dire che abbiamo una capacità di risposta molto rapida, oltre che i vantaggi che prima ho evidenziato.

Ancora un paio di osservazioni. Un anno fa, con il Presidente Scalia, ci siamo incontrati in un’audizione e abbiamo fatto alcune promesse di impegni che le Ferrovie avrebbero assunto su questa problematica, le abbiamo sostanzialmente sostenute avvalorate. Abbiamo costituito una società, abbiamo chiuso alcuni contratti importanti, come quello con l’AMA di Roma, quello per il trasporto del CDR da Cassino allo stabilimento della Fosterwiller, altrimenti questo CDR sarebbe andato a finire in discarica. A fronte di questi nostri impegni, le nostre richieste sono rimaste ancora in sospeso. Può sembrare paradossale, ma, mentre le Ferrovie possono trasportare qualunque tipo di rifiuto tossico-nocivo, non sono autorizzate al trasporto di rifiuti solidi urbani. Non è che sia vietato, ma non è espressamente consentito perché ci vuole la targa del veicolo e ovviamente né le locomotive né i vagoni hanno la targa. Quindi stiamo aspettando un intervento legislativo che ci consenta di intervenire anche nei rifiuti solidi urbani.

Sergio RIZZO, giornalista Corriere della Sera.

Mi piacerebbe sapere cosa ci guadagnano le Ferrovie, cioè se questa operazione potrà avere un ritorno economico.

Maurizio BUSSOLO, Direttore cargo delle Ferrovie dello Stato.

Da quando siamo stati trasformati in spa con Trenitalia, noi abbiamo un conto economico. Io sono responsabile del conto economico della divisione Cargo e quando faccio queste operazioni voglio una resa per l’investimento che faccio come qualunque imprenditore. È una cosa normale.

Sergio RIZZO, giornalista Corriere della Sera.

Mi sembra logico far parlare l’on. Tesini, perché ci spieghi molto sinteticamente il ruolo che può avere il trasporto in questa grande operazione, che poi sarà anche un grande business per il Paese.