SECONDA SESSIONE

La politica dei rifiuti in Italia e le conseguenze delle politiche europee

Presidenza di Massimo Scalia

Massimo Scalia, Presidente della Commissione. Diamo inizio alla sessione pomeridiana dei nostri lavori. Prima di dare la parola al dottor Domenico Zampaglione, assessore all’ambiente del comune di Milano perché pronunci l’indirizzo di saluto, vorrei fare alcune considerazioni sull’ordine dei lavori: siccome per una certa ora è previsto un "evento", sarebbe opportuno saltare il coffee break, in modo di dare compattezza e continuità ai lavori stessi e concluderli prima dell’"evento" in questione.

Domenico ZAMPAGLIONE, Assessore all’Ambiente del Comune di Milano. Signori, come ha affermato il Presidente Scalia, occorre "compattare" la nostra attività, in modo di concluderla in tempo per l’"evento". Per vostra informazione, da venti minuti è in corso il consiglio comunale di Milano: anche l’inizio dei lavori di quell’assemblea è stato anticipato, in modo che essi possano concludersi alle 17, in tempo per l’"evento".

Il mio è sostanzialmente un indirizzo di saluto, ascolterò poi con estrema attenzione le due brevissime relazioni che sono in previsione.

Porgo l’indirizzo di saluto a nome del sindaco di Milano, Albetrini, a nome di tutta la giunta comunale, segnalando che gli argomenti trattati in questa sede sono di particolare interesse.

Attraverso l’AMSA noi — e chi ci ha preceduto — abbiamo portato avanti iniziative industriali molto importanti dal punto di vista degli investimenti, che fino ad ora hanno posto Milano in una condizione di prestigio rispetto al problema della separazione dei rifiuti e della destinazione finale degli stessi. Abbiamo una struttura industriale che è stata messa a punto con molta attenzione e che funziona egregiamente. Abbiamo sostanzialmente in conclusione i lavori dell’inceneritore Silla 2, che tratterà 900 tonnellate/giorno nominali di rifiuti; abbiamo poi in previsione delle modifiche ad altri due impianti di incenerimento esistenti sul territorio milanese.

Tutto questo insieme di attività, in questo momento sta, se non subendo un rallentamento (non vorrei usare questa parola), certo diventando oggetto di un momento di attenzione estrema da parte dell’amministrazione comunale, la quale sta procedendo lungo la strada della creazione almeno di una società per azioni AMSA. Vista la prossimità della scadenza del nostro mandato, quindi, siamo fortemente impegnati a concludere l’operazione entro i nove mesi che restano alla nostra attività.

In sostanza, possiamo dichiararci relativamente soddisfatti della situazione complessiva. Forse, una politica più indirizzata in forma strategica avremmo potuto farla. Avremmo potuto immaginare obiettivi più congrui, più consistenti, rispetto alla responsabilità che abbiamo, in questa posizione, al centro di una pianura padana che dal punto di vista climatico e ambientale non è il migliore dei luoghi italiani: ma, se non l’abbiamo fatto, ci auguriamo di poterlo fare da qui in avanti.

È con questo augurio che restituisco la parola al Presidente Scalia e attendo con grande interesse le relazioni che seguiranno.

Massimo SCALIA, Presidente della Commissione. Ringrazio il dottor Zampaglione, che ci ha portato il saluto del comune ospitante, e prima di dare la parola al professor Massarutto vorrei rapidissimamente fugare, almeno nel foyer, qualche timore che mi è arrivato all’orecchio. Questa Commissione spesso viene chiamata Commissione ecomafie. Sicuramente, è quello uno dei punti di massimo impegno della Commissione, però debbo dire che, con il concorde apporto di tutti i colleghi, noi abbiamo tenuto molto a distinguere l’attività, doverosa, di repressione e di lotta ai crimini delle ecomafie dallo spettro amplissimo, che ricordavo nella mia relazione introduttiva, dalle altre competenze della Commissione.

Ci è ben chiara, quindi, la distinzione tra aspetti criminali, illeciti, presenza di organizzazioni criminali e invece, pur nella fatica e nella difficoltà del decollo, aspetti di mercato (le zone d’ombra le denunciavo questa mattina) ed esistenza di una imprenditoria interessata che può svolgere un ruolo esattamente nella direzione indicata dall’obiettivo del convegno. Vorrei quindi rassicurarvi sul fatto che non abbiamo confusione in mente. Il senso di questo convegno è avere una risposta, contribuire ad uno slancio, pur nelle difficoltà ampiamente sottolineate, che vada ad affrontare per davvero — ed è l’unico modo possibile — la questione delle oltre cento milioni di tonnellate, tra rifiuti solidi urbani e rifiuti speciali, che ogni anno interessano questo paese.

L’impostazione è dunque questa. Dicevo prima all’ingegner Capodieci che poi, in tema di rigore e precisione, ovviamente una Commissione di inchiesta presieduta da un fisico non ha niente a che vedere con un grande organismo come il CONAI, presieduto, purtroppo per loro, da un ingegnere: quindi siamo molto avvantaggiati!... Ma, al di là delle battute, vorrei che una cosa fosse chiara: errori se ne possono sempre commettere. Ritengo che il tasso di sbagli della Commissione sia molto basso (ma questa potrebbe essere considerata una dichiarazione Cicero pro domo sua).

Abbiamo aperto una interlocuzione, la dottoressa Ferrofino ricordava il documento sugli assetti societari: francamente, nel rapporto epistolare, che potrà anche preludere ad incontri con l’ufficio di presidenza della Commissione d’inchiesta, le risposte che abbiamo cercato finora di dare non ci mostrano errori: nel senso che noi stiamo alla documentazione ufficiale, stiamo — per capirci — all’Ecocerved, alla documentazione pubblica. Poi, ognuno potrà fare presenti le sue ragioni e in questo abbiamo una disponibilità di massimo ascolto.

Tutto ciò chiarito — almeno, questo è stato il tentativo — do la parola al professor Massarutto per la sua relazione. Vi ricordo che c’è stato un piccolo errore nella formulazione del nostro calendario dei lavori: non è pensabile, infatti, che due colleghi così giovani abbiano maggior tempo a disposizione del professor Vaccà. C’è dunque un errore d’orario, e starà alla vostra capacità di sintesi potervi rimediare.

Antonio MASSARUTTO, IEFE Bocconi e Università di Udine. Grazie, Presidente. Cercherò di trasformare in una sintesi per flash quella che era stata originariamente pensata come una relazione. Vi risparmio quindi lucidi, effetti speciali ed ogni sorta di altro supporto didattico.

Vorrei riassumere, in qualche misura, il tema di questa giornata e la discussione di questa mattina partendo da una constatazione. Da una parte noi abbiamo un serie, diciamo così, di studi a tavolino, basati su analisi tecnico-economiche, ma non solo, che ci dicono una serie di cose (molti di questi studi sono, tra l’altro, disponibili anche negli atti di questa giornata): ci dicono che ci sono forti potenzialità per lo sviluppo di una imprenditoria innovativa in questo settore, che c’è forte spazio per attività creatrici di occupazione, di nuovo reddito, che la soluzione al problema dei rifiuti sta probabilmente non più nella monocultura, come si pensava una volta, ma in un pluralismo di iniziative, con una forte enfasi sul recupero e sulla destinazione al ciclo produttivo di sostanze precedentemente considerate rifiuti, e si parla sempre di più di politica integrata di prodotto.

Chiamiamo tutto questo, se mi consentite, per analogia con altri settori (mi viene questa definizione fantasiosa) la "new monnezza".

Massimo SCALIA, Presidente della Commissione d’inchiesta. New waste!

Antonio MASSARUTTO, IEFE Bocconi e Università di Udine. Come c’è la new economy, c’è la "new monnezza".

A fronte di questa grande aspettativa che ci siamo creati, di sviluppo e di trasformazione futura, abbiamo però una realtà che invece è dominata ancora dalla "old monnezza", cioè dalle cose che abbiamo visto questa mattina: discarica ancora di gran lunga dominante; frazioni consistenti di rifiuti, soprattutto industriali, che spariscono non si sa bene dove; sviluppo di alternative presente, ma complessivamente troppo lento per tenere testa all’aumento veloce della produzione di rifiuti; "old monnezza" che è stata dipinta da alcuni, questa mattina, con tinte un po’ più fosche (si è posto l’accento soprattutto su aspetti di arretratezza), da altri con tinte meno fosche (ho sentito con piacere, ad esempio, il dottor Lolli e l’ingegner Cirelli rivendicare, direi giustamente, le cose buone che sono state fatte in alcune realtà). Complessivamente, però, abbiamo di fronte un grosso scollamento tra quella che è la realtà del settore — oggi come dieci anni fa, in gran parte — e quello che invece da dieci anni ci stiamo ripetendo che il settore potrebbe diventare. E questo, per un economista quale sono, è evidentemente un problema piuttosto imbarazzante. Al primo anno di Economia, infatti, mi hanno insegnato che quando ci sono delle potenzialità di sviluppo di mercato, in cui degli imprenditori possono guadagnare, gli imprenditori vi accorrono. Allora, se questa cosa non è ancora accaduta, dopo dieci anni che ne parliamo, evidentemente c’è qualche problema: e sta qui il problema di politica industriale che il professor Vaccà, ma anche il dottor Sbandati, questa mattina, hanno molto opportunamente evocato.

Dobbiamo renderci conto, a mio avviso, che senza una politica industriale, cioè senza un’azione dell’operatore pubblico, indirizzata al governo di questo sistema, sarà ben difficile che il sistema si orienti da solo.

Cercherò di dedicare il mio intervento a capire, insieme a voi, quali potrebbero essere le ragioni di questo mancato sviluppo.

Io partirei ricordando che, quando noi parliamo di politica dei rifiuti, in realtà parliamo di una cosa che nel corso del tempo ha cambiato buona parte dei suoi significati e dei suoi obiettivi. Trenta anni fa, parlare di politica dei rifiuti significava parlare di nettezza urbana: cioè il problema era portare via i rifiuti dalle strade. Dove portarli, era un problema relativamente semplice da risolvere. In una fase successiva, i rifiuti sono diventati un problema di ordine pubblico, proprio perché non si sapeva più dove portarli: c’era una strozzatura all’offerta di impianti, di discariche prima, di altri impianti poi, che ci ha costretti ad intervenire con strumenti di gestione dell’emergenza, ad esempio con la pianificazione dei rifiuti. La terza fase, che è quella verso la quale vorremmo andare, quella verso la quale le direttive europee e gli esperti a livello mondiale del settore ci dicono che dovremmo andare, è quella che io ho chiamato la fase della gestione dei cicli dei materiali: una fase in cui, fatto salvo che i rifiuti debbono continuare ad essere portati via dalle strade, che ci deve essere un sistema di gestione dei rifiuti corretto dal punto di vista ambientale, cioè che non impatti in modo pesante sul territorio, c’è un problema di politica ambientale più generale, che è quello di minimizzare o comunque di ottimizzare i flussi di materiali che caratterizzano la nostra economia.

Attenzione: il passaggio lungo queste tre fasi, da una fase all’altra, non significa che gli obiettivi della fase precedente scompaiano. Significa invece che agli obiettivi della fase precedente se ne aggiungono di nuovi. Per tornare al discorso di prima: non è vero che passare ad una gestione dei rifiuti basata sul ciclo dei materiali significa per forza di cose soppiantare una gestione dei rifiuti che ha al suo centro l’operatore dell’igiene urbana (tanto per fare un esempio); proprio perché continuerà ad esistere, per quanti rifiuti noi recuperiamo, per quanti rifiuti noi ricicliamo, un problema di igiene urbana, un problema di corretto smaltimento.

Il risultato di tutto questo è una complessificazione sempre maggiore di quella che gli economisti industriali chiamano la catena del valore, la filiera produttiva, intorno alla gestione del rifiuto: complessificazione che significa, in particolare, che quella che noi ritenevamo, in passato, essere una filiera abbastanza semplice, in cui c’era un operatore dominante (il gestore dei rifiuti, l’operatore dell’igiene urbana), che faceva tutto, e al limite comprava fuori di casa sua dei beni tutto sommato semplici (impianti, servizi non particolarmente sofisticati), diventa oggi un sistema in cui l’operatore dei rifiuti fa sempre meno cose e deve comprare sempre più cose da operatori che con i rifiuti non hanno niente a che vedere. Quello che rende complessa la politica industriale in questo settore è proprio questo spostamento crescente di fette di valore aggiunto dalla gestione tradizionale dell’igiene urbana ad altri settori che con l’igiene urbana non hanno nulla a che vedere: la produzione di gomme, la produzione di automobili, e così via. Questo proprio perché da ciascuno di questi settori industriali può venire un’offerta di servizi utili per gestire i rifiuti in modo corretto.

Attenzione: questo può avvenire, ancora una volta, attraverso l’operatore di igiene urbana, che diventa una sorta di intermediario tra il cittadino e queste destinazioni finali, ma può avvenire anche bypassando il gestore dell’igiene urbana. Questa mattina si è usata la parola "liberalizzazione": liberalizzazione significa esattamente questo, cioè che non necessariamente un unico operatore monopolista della raccolta dei rifiuti in un’area territoriale dovrà occuparsi di tutti i rifiuti.

Ovviamente, nel momento in cui noi abbiamo a che fare con tutto questo, dobbiamo risolvere una sorta di trade-off, di contrasto tra obiettivi diversi. Il contrasto, in particolare, è quello tra la liberalizzazione, necessaria per far acquisire nuovi gradi di libertà al sistema, e la necessità per la politica ambientale di controllare questo sistema, cioè di assicurarsi che effettivamente dietro queste operazioni di recupero e smaltimento alternativo non si nascondano delle semplici operazioni di camuffaggio od occultamento dei rifiuti.

Si sono raccontate decine di storie, a questo proposito. Accenno qui a due di esse, emblematiche. Qualche anno fa capitò — qualcuno di voi sicuramente lo ricorda — che un capannone industriale vicino ad Asti prese fuoco. Quel capannone era adibito allo stoccaggio di scarti di plastica provenienti dal dual system tedesco, se non vado errato. Si sospetta che quell’incendio fosse doloso: non so, poi, come l’inchiesta sia andata a finire. Si tratta, comunque, di un classico esempio di situazione in cui dietro un’attività di stoccaggio per il recupero si nascondeva, a mio avviso, niente altro che un’operazione di "incenerimento alternativo non autorizzato".

L’altra storia è speculare alla precedente: conosco un’azienda dalle mie parti, vicino a Manzano, in Friuli, che ha inventato un sistema per trasformare gli stessi scarti di materie plastiche in imbottitura per le sedie (sapete che a Manzano c’è il distretto della sedia: vi si produce la maggior parte delle sedie che si usano in tutto il mondo). L’impresa, per fare un semplicissimo impianto che produce imbottitura a partire dai rifiuti plastici, ha incontrato tante e tali difficoltà localizzative in Friuli che ha dovuto farlo da un’altra parte: in Pakistan forse? No, in Carinzia, quindi non certamente in un paese che si possa accusare di avere una normativa ambientale meno attenta della nostra.

È chiaro che queste due storie dobbiamo cercare di farle stare assieme: dobbiamo, cioè, cercare di rendere la vita più semplice possibile all’imprenditore di Manzano, senza per questo rendere possibili storie come quella di Asti. Ed è qui, lo sottolineo, che c’è ancora una volta una forte esigenza di politica industriale. Noi ci siamo illusi per troppo tempo, secondo me, che per affrontare questo tipo di problemi bastasse la regolazione ambientale, bastasse dire come volevamo che fossero fatte le cose, perché tutti lo facessero. Non c’è solo un problema di carenza di controlli: c’è anche quello, chiaramente, però a monte di ciò c’è l’esigenza di trasformare un settore industriale in qualcosa che possa effettivamente farle, queste cose.

Ci sono allora, secondo me, due temi rilevanti di politica industriale con i quali dobbiamo confrontarci. Debbo andare per forza di cose velocissimo, perché il mio tempo sta per giungere al termine. Sul primo di questi problemi non dirò, quindi, molte cose. Il problema è quello di agevolare e creare mercati il più possibile ampi e flessibili, ma controllati, nel settore del recupero e dello smaltimento alternativo. Su questo dirà qualcosa di più, penso, Marco Frey, quindi non mi ci soffermo più di tanto. Dico soltanto che abbiamo capito che c’erano tanti problemi relativi a questo settore, abbiamo capito che per affrontarli una delle strade più utili e più promettenti era quella della responsabilizzazione del produttore, lo abbiamo fatto, molto opportunamente, recependo le direttive con il "decreto Ronchi". Io credo che questa sia una strada molto importante, sulla quale battere il più possibile.

Dobbiamo però renderci conto di una cosa, a mio avviso: anche questa strada, cioè, pur molto promettente, ha degli inconvenienti. Il primo inconveniente è stato ricordato questa mattina dall’ingegner Cirelli, se non erro: costa molto. Il sistema tedesco di gestione degli imballaggi costa qualcosa come 4.000 miliardi. Non è detto che questo sia il modo migliore di spenderli. Su questo sono d’accordo con l’ingegner Cirelli: forse dovremmo pensarci un po’ di più.

Un secondo problema è quello dei costi affondati (sunk costs, come si dice in economia industriale) che hanno sostenuto gli operatori dell’igiene urbana. Il ragionamento è questo: il settore del recupero è un settore, per definizione, residuale, cioè un settore sul quale dobbiamo fare il massimo degli sforzi possibili, dopodiché ci rimarranno delle quantità notevoli di rifiuti comunque esistenti e che dovranno essere smaltiti nei modi tradizionali. Se voglio evitare che questi rifiuti rimangano per le strade, dovrò avere una dotazione di impianti per gestirli. Ma se non ho una qualche certezza riguardo alle quantità di rifiuti che mi troverò a dover gestire, è ben difficile che io decida oggi di affrontare certi investimenti, in particolare investimenti capital intensive come sono quelli in tema di termorecupero, se non ho una qualche garanzia. Attenzione: la differenza principale tra noi ed i tedeschi e gli olandesi, da questo punto di vista, è che loro gli impianti li avevano già; quindi, una volta ottimizzata la loro offerta di impianti sul territorio, hanno cominciato a porsi il problema di fare qualcos’altro, come ad esempio recuperare. Così è nato il dual system, che ha causato qualche problema, non da poco, agli impianti esistenti; comunque, gli impianti c’erano, ci sono e sono in grado di far fronte alle eventuali carenze del sistema di recupero. Noi che non li abbiamo ci troviamo nella poco invidiabile situazione di chi deve scegliere fra… l’uovo domani e la gallina dopodomani! Oggi, infatti, non abbiamo niente, ma dobbiamo scegliere se concentrare i nostri sforzi su soluzioni di medio termine o scommettere su soluzioni di lungo termine: ed è una situazione piuttosto delicata.

Vengo all’altro problema — con il quale concludo — che è quello, speculare al precedente, di affrontare il nodo della gestione dell’igiene urbana, che, come dicevo prima, è qualcosa che non può scomparire ma deve essere comunque parte del nuovo sistema, ancorché non sarà la monocultura l’unica soluzione. Il gestore dell’igiene urbana, sicuramente, sarà sempre meno un soggetto che fa e sempre più un soggetto che organizza, che acquisisce servizi, però comunque dovrà esserci.

Qui, secondo me, abbiamo un altro problema, che è quello del monopolio naturale. Cercherò di spiegarlo in due parole (non sarà facile!). Noi ci siamo scontrati, ad un certo punto della nostra storia di operatori di rifiuti — mi ci metto dentro anch’io, anche se non dovrei — con l’obiettiva difficoltà che la pianificazione, quindi uno strumento di governo pubblico ex ante del sistema, aveva nell’offrire soluzioni. La pianificazione dei rifiuti, concepita negli anni ’80, obiettivamente ha faticato a generare delle soluzioni. Ci siamo inventati la soluzione della gestione imprenditoriale, attraverso il "decreto Ronchi". Gestione imprenditoriale vuol dire che alcune delle cose che una volta si decidevano attraverso il piano si deve cercare di farle decidere all’imprenditore. Bene: questo ha delle conseguenze industriali non da poco, perché significa, ad esempio, spingere il sistema verso l’integrazione verticale o verso un aumento delle radici che il gestore mette sul territorio che gestisce; significa quindi, in sostanza, aumentare le cause di monopolio naturale. Chiunque si occupi un po’ di economia industriale sa che il monopolio naturale è una situazione piuttosto ingombrante da gestire e da governare, perché delle due l’una: o lo affido a un soggetto pubblico e lo regolo, in qualche maniera, o lo affido a un soggetto privato, attraverso una gara (quello che si vuol fare con il disegno di legge n. 4014), ma debbo pormi il problema — lo ricordava Lolli questa mattina — di quali gare fare, come farle, che cosa mettere in gara e così via.

La teoria economica ci dice che le gare funzionano quando noi mettiamo in gara attività semplici, con poche dimensioni. Più complesso è l’elemento che mettiamo in gara, più difficile è che da questa gara salti fuori una soluzione ottimale.

Che cosa facciamo allora? Torniamo al piano? Torniamo, cioè, ad un soggetto pubblico che decide ex ante, in un capitolato di gara, tutto quello che dovrà essere fatto dal gestore, per poi metterlo in gara? Non so se questa sia la soluzione migliore. Io sono d’accordissimo con un punto che ha sollevato questa mattina il dottor Levorato: il punto è che occorre distinguere chiaramente fra che cosa fa il soggetto di domanda e che cosa fa il soggetto di offerta. Il problema è che — ahimé! — la storia del nostro paese ci dice che, negli ultimi cento anni, i comuni hanno trovato una soluzione molto particolare per evitare di dover fare troppo il soggetto di domanda. È stata la soluzione di creare delle aziende pubbliche. Oggi le aziende pubbliche — lo ha detto giustamente Levorato — sono soggetti di offerta, ma sono anche, e direi soprattutto, soggetti di domanda. Lo sono perché sono nate per questo, non perché qualcuno glielo ha lasciato fare. Ora, se noi, improvvisamente, decidiamo di mettere in gara tutta questa materia, mettiamo in gara anche un bel po’ delle funzioni del soggetto di domanda: e questa è una cosa che, alle mie orecchie, non suona troppo bene.

Per concludere: io non sono troppo d’accordo con chi pensa che la gara del disegno di legge n. 4014 (anzi del n. 7042, come mi sembra si chiami adesso) rappresenterà la soluzione, l’unica soluzione, la soluzione finale al problema di trovare efficienza in questo settore. Probabilmente, consentirà di fare qualche passo avanti, a certe condizioni, che questa mattina sono state ben richiamate da alcuni, in particolare, a mio avviso, dal dottor Lolli.

Termino richiamando alcuni dei punti che noi da tempo andiamo proponendo e sottolineando e che sono contenuti anche, ad esempio, nel documento che avete trovato nella cartellina: lo so, è un documento non recentissimo, in quanto risale ad un paio di anni fa, che però riassume un po’ i suggerimenti di politica industriale che indicammo allora e che, secondo me, in molti casi restano ancora degli utili punti di riflessione.

Il primo discorso è quello di responsabilizzare gli enti locali. Io non credo che la soluzione passi per l’esautoramento dei comuni. Ritengo, al contrario, che la soluzione passi per una completa responsabilizzazione dei comuni sul piano ambientale e sul piano finanziario. I comuni non possono aver l’alibi di non sapere dove portare i rifiuti perché il piano regionale non lo prevede. Milano ha cominciato a risolvere i suoi problemi quando la discarica di Cerro Maggiore è stata chiusa e al comune è stato detto che da allora in poi avrebbe dovuto smaltirseli per conto suo.

Emilio ROLDANI, Rappresentante dell’Assoproge. E dove vanno? Vanno in Puglia! Non hai risolto niente! Non continuiamo a raccontare stupidaggini! Non si è mai voluto risolvere il problema, in omaggio a grandi proprietà. A un certo punto Formentini viene a dire di aver risolto il problema: con 100 lire l’ENEL tratta tutto. Ma all’ENEL gli dobbiamo dare il rifiuto secco, tritato, sistemato: costo minimo 500-600 lire. Chi paga, a questo punto, è sempre la gente... Cose assurde! Deve essere ingegnerizzato il processo! È una vergogna! Scusate se mi permetto, ma è così!

Antonio MASSARUTTO, IEFE Bocconi e Università di Udine. Aspettando che si ingegnerizzi il processo, però mi consentirà e mi darà atto che i rifiuti di Milano andranno da qualche altra parte e non vanno più nella discarica di Cerro Maggiore perché, comunque, il comune di Milano è stato costretto ad occuparsi dei suoi rifiuti. Ne parleremo dopo!

Emilio ROLDANI, Rappresentante dell’Assoproge. Vanno in quelle della Puglia: l’Italia è una!

Antonio MASSARUTTO, IEFE Bocconi e Università di Udine. Meglio che per le strade, secondo me!

Il secondo punto è questo: non demonizziamo le società miste. Io credo che, proprio per il fatto che i comuni hanno storicamente affidato funzioni di domanda molto importanti alle proprie aziende, la strada per industrializzare il settore passi più per una progressiva uscita dalle fasi industriali delle aziende pubbliche, mantenendo il "cervello" nelle aziende pubbliche — o comunque in soluzioni adottate in collaborazione con il privato, ma in cui il comune continua ad avere un ruolo — piuttosto che attraverso questa illusione del "mettiamo tutto in gara", che secondo me non porterà molto lontano.

Per finire, il discorso dei finanziamenti. Sbandati ha parlato, questa mattina, di tariffa, ed io non torno su questo tema, su cui sono perfettamente d’accordo. Introduciamo nel tema anche tutto il discorso degli ecoincentivi e degli strumenti economici e di politica ambientale, dei quali — sono d’accordo — finora nel nostro paese si è fatto un uso abbastanza sporadico e abbastanza poco convinto e non sempre coerente con gli obiettivi centrali del sistema. E qui mi fermo.

Massimo SCALIA, Presidente della Commissione. Non è vero che i rifiuti di Milano vadano ovunque. "Andavano" ovunque, e compito nostro è appunto sapere dove. Li abbiamo visti a Trinitapoli, in Puglia, e va detto che quell’impianto è stato sequestrato dalla magistratura (peraltro, non era nemmeno stato fatto male). Li abbiamo visti in ampi capannoni del Lazio. Sappiamo, quindi, dove vanno, così come sappiamo che alcuni rifiuti delle industrie del bresciano sono andati a finire a Scurcola Marsicana o in altri luoghi dell’Abruzzo. È anche vero che questo "turismo dei rifiuti" è oggi estremamente più difficile: perché leggi regionali impediscono il traffico transfrontaliero; perché — insisto — l’attività di controllo si è fatta molto più serrata; perché anche a Milano il sistema dei rifiuti — e la Commissione ha avuto modo di vedere quasi tutti gli impianti a disposizione nella provincia — è decollato. Non credo che avrei sprecato parole di riconoscimento per il sistema dei rifiuti a Milano se non fosse accaduto che un’altra grande metropoli, Barcellona, come ricordavo nel mio intervento introduttivo, si ispira a Milano per organizzare la gestione dei suoi rifiuti.

Cerchiamo, quindi, di essere un po’ più ottimisti. Certo, se poi le cose fossero a lungo termine, dovrei rifarmi ad un economista, Keynes: sul lungo termine, sappiamo qual è la nostra sorte.

È ovvio che non attiene al nostro convegno, però credo che ci riguardi tutti, come cittadini: mi ha detto il dottor Zampaglione che è morto Vittorio Gasmann. Credo che ognuno di noi sarà addolorato per questa notizia, che ritengo quasi un dovere civile comunicare a chi già non la conoscesse.

Accanto a questa notizia, che ci ha turbato profondamente, voglio dare una piccola notizia positiva: le iscrizioni al convegno, registrate questa mattina, hanno superato il numero di 300, e questo significa che una qualche attenzione, un qualche interesse e forse anche una qualche sinergia si potrà realizzare.

Do adesso la parola al professor Frey.

Marco FREY, IEFE Bocconi e Università di Cassino. Non sono un "rifiutologo". Molti di voi mi hanno sentito, in altre circostanze, parlare di problematiche ambientali e di impresa. Il mio coinvolgimento nel convegno di oggi è per cercare di dare un contributo e riferimenti concreti a quel taglio, che è stato più volte ribadito, secondo il quale il tema dei rifiuti viene affrontato in una chiave non di "old monnezza", ma in una prospettiva di carattere nuovo.

Proprio perché il mio contributo sarà più legato alle cose che conosco meglio, ovvero le imprese, le imprese industriali in particolare — e in questo senso parlerò più di rifiuti industriali che non di RSU, che d’altra parte sono stati già ampiamente affrontati nel corso della giornata di oggi —, voglio fissare alcuni elementi che condivido negli interventi svolti nel corso della mattinata, così da fornire una sorta di framework per le cose che dirò.

1) Nel testo della relazione del Presidente Scalia, nelle prime due pagine, vi sono due punti, che vengono ripresi successivamente nel suo intervento, che riguardano:

– la concezione di sistema, dove il sistema si estende sia in senso verticale che orizzontale, concezione che è stata da tutti condivisa come necessità, nella logica di una politica industriale (d’altronde è stata inserita nel titolo stesso del convegno);

– il coinvolgimento attivo dell’imprenditorialità.

Per come è stato affrontato il tema oggi, coinvolgimento attivo dell’imprenditorialità riguarda sia l’imprenditorialità tradizionalmente operante nel settore o neoentrante, sia l’imprenditorialità in un senso un po’ più ampio: perché la logica di filiera che ha richiamato Massarutto ed in cui mi ritrovo perfettamente chiama evidentemente in causa anche soggetti diversi, a monte e a valle del gestore dei rifiuti.

2) Il professor Vaccà ha distinto tra politica di regolazione e politica industriale, atta a promuovere lo sviluppo efficace delle attività. Io partirò dal secondo aspetto, in una chiave molto "micro", ovvero di impresa, di imprenditorialità, per sviluppare in conclusione qualche considerazione sugli aspetti di regolazione.

3) L’altro elemento che ha sottolineato Massarutto — ma anche questo è emerso con chiarezza nel corso della mattinata — è che stiamo discutendo di qualcosa in cui negli ultimi tre anni è cambiato il focus. Con il "decreto Ronchi" — in realtà con il recepimento di una prospettiva comunitaria che ha una serie di caratteristiche distinguibile in tantissimi ambiti nel campo della regolazione ambientale — il fuoco dell’attenzione si è spostato dallo smaltimento finale al ciclo, complessivamente inteso, di materiali a monte (ma non soltanto a monte, in realtà).

Attenzione, perché i provvedimenti comunitari hanno altre caratteristiche chiave: identificano le responsabilità e definiscono con chiarezza gli oggetti. Questo approccio, come sappiamo, nella nostra legislazione genera tutta una serie di problemi; da anche luogo, però, ad un assetto complessivamente coerente che si sposa perfettamente con il concetto di responsabilità del produttore. Sappiamo benissimo che questo concetto non è stato formulato per il contesto specifico dei rifiuti, ma è nato in generale, per garantire la responsabilizzazione, e quindi l’impegno responsabile e documentato, da parte, in particolare, del sistema industriale, attore principale per la risoluzione delle problematiche ambientali: quindi, non solo causa, ma anche possibile fonte di soluzione.

In questo quadro, la logica di filiera vede la responsabilità del produttore allargarsi a macchia d’olio. In una filiera, infatti, qual è il produttore responsabile? E poi: è soltanto al produttore che si fa riferimento, o è una responsabilità che si trasferisce nelle diverse fasi, che più sono prolungate e più si estendono? Pensate ad esempio a tutti i processi di outsourcing: finché il residuo me lo tengo, rimane all’interno del processo produttivo; basta soltanto che io generi dei processi di outsourcing e la gestione dei rifiuti-residui aumenta di complessità generando tutta una serie di vincoli, anche di natura burocratica.

Per meglio comprendere questa prospettiva di condivisione delle responsabilità, possiamo aiutarci con un esempio. Prendiamo il tema degli imballaggi, che è una filiera di cui si sono capiti abbastanza bene i contorni. Come sappiamo, i produttori degli imballaggi, sulla base della legislazione comunitaria, sono chiamati ad operare in una prospettiva di prevenzione: ovvero, ridurre la quantità e la nocività per l’ambiente sia delle materie e delle sostanze utilizzate negli imballaggi, sia dei processi di produzione, commercializzazione, distribuzione e gestione post consumo.

Questa definizione, che è tratta dalla legislazione in materia, fa capire quanti attori operino all’interno di questa filiera. Allora, noi potremmo attribuire la responsabilità primaria a chi produce imballaggi. Il regolatore ha agito in questa direzione generando risultati significativi: se ci riferiamo agli ultimi dieci anni si segnala una riduzione, ad esempio, del contenuto di alluminio nelle lattine. Il CONAI, e per esso Capodieci, potrebbe fornire un quadro generale dei risultati che sono stati ottenuti in questo campo; così come in quello della plastica, se vogliamo prendere un altro ambito.

Però, nella logica di filiera, ci sono altri soggetti altrettanto importanti. Abbiamo, infatti, considerato soltanto una riduzione di tipo qualitativo, nella composizione: se vogliamo ridurre la quantità degli imballaggi, dobbiamo evidentemente agire sul cliente, sia in termini di cliente industriale intermedio, sia anche il cliente finale. In fondo è in funzione delle aspettative del cliente finale che viene concepito un imballaggio contenente determinate informazioni, che si presenta in un certo modo, che protegge il prodotto. È la logica tipica delle politiche di marketing. Allora, si tratta di un problema culturale molto più generale. I soggetti intermedi, gli utilizzatori industriali, possono decidere nella loro politica di produzione, di marketing, logistica, di fare determinate scelte in termini di imballaggi, ma queste scelte saranno sempre condizionate dal mercato finale. Se il cliente finale, poi, non acquista un prodotto perché è stato semplificato e reso "leggero", ma non si presenta più così allettante, evidentemente tutto questo ciclo entra in crisi.

Questa è soltanto un’esemplificazione, ma ci fa capire quale deve essere la connessione, all’interno di una politica industriale per la gestione dei rifiuti, tra il soggetto specializzato, quello che siamo abituati a prendere in considerazione normalmente, e tutta un’altra serie di soggetti, che sono clienti in una certa fase ma poi diventano produttori immediatamente dopo. Infatti, la logica della filiera è esattamente quella: c’è una sequenza di soggetti che interagiscono all’interno della catena del valore.

In questa prospettiva, diventa interessante entrare nel merito del ruolo dell’impresa. Nella prospettiva di estensione degli attori, abbiamo visto questo secondo tipo di attori collegati a valle del produttore di imballaggi, ma in realtà si rileva una dinamica che li vede coinvolti anche nelle relazioni, a monte, con i propri fornitori e, a valle, con i soggetti di distribuzione, secondo certe dinamiche.

Entriamo semplicemente nel merito dell’azienda industriale. Diciamo che da venticinque anni esiste evidenza empirica, principalmente di origine anglosassone, sulla convenienza nel perseguire strategie di minimizzazione (per usare un termine adoperato da Antonio Massarutto) dei rifiuti. Ci sono programmi che credo siano noti a tutti, ma che vale sempre la pena di ricordare, come il TreP della TreM, che ha dimostrato efficienza nel waste management, da diversi punti di vista. Comunque, nel seguito faremo una rapida citazione di alcuni casi emblematici di minimizzazione dei rifiuti. In termini molto banali, la convenienza nella minimizzazione dei rifiuti si lega ad un concetto: i materiali costano due volte, se non si opera nella direzione di una loro razionalizzazione o minimizzazione. Si pagano acquistandoli e si pagano smaltendoli, evidentemente.

Allora, se il quadro generale può essere questo, ai fini di un contributo del sistema industriale ad una politica dei rifiuti in quanto attore che partecipi sia alla fase di riduzione alla fonte sia alla fase di recettività alla fine del ciclo, per il recupero come materia prima, secondaria o comunque come elemento riutilizzabile nel processo produttivo, quali sono i nodi, le condizioni (mi è stato attribuito questo titolo) perché ciò avvenga?

Proviamo a sintetizzarli semplicemente in quattro aspetti.

1. In primo luogo, bisogna dimostrare l’effettiva efficienza. I ragionamenti che abbiamo fatto prima, infatti, sono discorsi che riguardano qualche singolo caso, ma probabilmente sono difficilmente trasferibili al sistema industriale, soprattutto in un paese come il nostro, caratterizzato da piccole e medie imprese.

2. Il secondo nodo-condizione parte dal presupposto che avevamo posto in evidenza all’inizio: la logica di sistema. Ci deve essere una logica di sistema, perché altrimenti questa partecipazione perde il suo senso e perde anche la possibilità di essere efficace, sia per l’impresa sia per il sistema.

3. Il terzo aspetto è quello della credibilità e delle garanzie nelle scelte dell’impresa. Alcuni di questi aspetti sono già emersi nel corso degli interventi della tavola rotonda, ma vorrei recuperarli dal mio punto di vista e dal mio approccio.

4. Ultimo aspetto è quello che riguarda la ricettività del mercato complessivamente inteso, quindi nelle sue diverse fasi di mercato all’interno di questo sistema.

Soltanto visti questi quattro temi si può cominciare a parlare di politiche industriali pubbliche in questo campo.

1) Cominciamo dall’efficienza effettiva. Ahimè, i casi disponibili, affrontati anche da noi, in questo campo sono quasi sempre casi di imprese di grandi dimensioni, in settori abbastanza tradizionali. Potremmo dilungarci sull’esperienza nel settore automobilistico, all’estero e in parte anche in Italia: è evidente che in un settore come quello automobilistico, in cui la grandissima parte del prodotto arriva dai fornitori, la razionalizzazione delle relazioni con i fornitori passa anche attraverso un processo che può tenere conto di aspetti di compatibilità ambientale. Avete visto recentemente le scelte di Ford in questa direzione: sono coraggiose, in un settore che è in fase di maturità ed in cui per poter rimanere all’interno del mercato l’efficienza si misura continuamente, ma sono anche competitive. Le variabili ambientali diventano variabili competitive che l’impresa presidia attraverso azioni dirette e indirette; l’efficienza si ottiene anche attraverso un processo di trasferimento della responsabilità ad altri soggetti a monte.

Se voglio ottenere certi risultati coinvolgo e responsabilizzo i miei fornitori, così come anni fa è stato fatto nel campo della qualità, perché questo mi può consentire di ottenere risultati significativi senza essere stato necessariamente il soggetto che ha investito di più per il loro conseguimento.

Ci sono altri di esempi di conseguimento di efficienza in questo campo. Oltre al già citato TreP di TreM, vi è il Wrap di Dow Chemical. Fornisco solo qualche dato in proposito: il Wrap, che vuol dire waste reduction always pays, finalizzato ai rifiuti, ha consentito solo nel Nord America con un numero rilevantissimo di diverse centinaia di progetti, di ridurre i rifiuti di oltre dieci mila tonnellate l’anno con un risparmio di venti milioni di dollari.

La cosa più interessante è leggere il ritorno degli investimenti in questo campo che è stato elevatissimo. Infatti, nel 1992, era il 55 per cento; cioè, investimenti in questo ambito di waste minimization management hanno prodotto un ritorno pari al 55 per cento, mentre fino a tutta la seconda metà degli anni novanta era ancora del 30-40 per cento. Ovviamente ci vogliono degli anni per riuscire a misurare i risultati effettivi dei programmi aziendali, che sono continuate all’interno di questo progetto nel corso della seconda metà degli anni novanta.

Si segnalano anche esperienze giapponesi molto interessanti nel campo delle piccole e medie imprese nella stessa prospettiva, sia pure con risultati non così evidenti dal punto di vista della misurazione che possano essere evidenziati in un intervento di pochi minuti. Vorrei solo fare un altro flash. Attenzione, i servizi saranno sempre più importanti. Oggi negli Stati Uniti l’ottanta per cento delle attività è concentrato nei servizi e continuare a parlare semplicemente di rifiuti industriali, pensando ancora alla destinazione e alla provenienza, può essere limitativo. Vi sono attività nei servizi ad altissimo impatto; gli americani la chiamano smoke stack ("camini che emettono fumi"), creando un’analogia con gli impianti industriali inquinanti. Queste attività di servizio possono risultare, infatti, estremamente rilevanti dal punto di vista dell’impatto in generale sull’ambiente ed in particolare nel campo dei rifiuti. Pensate a tutta la ristorazione, in particolare i fast food. Il settore dei servizi è un contesto, in cui bisogna cominciare a pensare seriamente agli impatti complessivi, ma non soltanto nell’ambito degli smoke stack.

Esiste, infatti, un terziario che normalmente non viene preso in considerazione, i cui risultati possono essere estremamente significativi. Anche qui un esempio statunitense: la Banca d’America, niente di più a basso impatto ambientale nella coscienza collettiva, oggi ricicla il 61 per cento della propria carta risparmiando mezzo milione di dollari. Non sarà tanto, ma riesce a chiudere un ciclo ed oggi diventa sempre più facile ottenere dalla carta riciclata un prodotto, quanto meno per i tabulati, in modo tale da dimostrare di essere un attore effettivo dello sviluppo sostenibile. Ci si guadagna anche in termini di immagine. Sarà anche poca cosa, ma quando questi soggetti, che rappresentano la parte sempre più rilevante dell’economia, entrano in un certo tipo di logica si possono ottenere risultati significativi.

2) La seconda condizione è rappresentata dall’approccio sistemico, per il quale, dopo le considerazioni introduttive, mi limiterò ad un solo flash. È ovvio che l’approccio sistemico comporta tutta una serie di implicazioni. All’interno delle imprese, nel rapporto con l’esterno, questa logica sistemica viene spesso riferita alla logica dei sistemi di gestione, in particolare quelli ambientali. Ho visto al proposito che nella relazione del Presidente Scalia è presente un riferimento esplicito all’incentivazione di Emas. Nel settore c’è stata una forte accettazione e spinta nella direzione dell’utilizzo dei sistemi di gestione come forma di razionalizzazione interna che può offrire poi delle garanzie all’esterno. La Federambiente ha un progetto pilota proprio finalizzato alla certificazione ambientale e alla registrazione Emas di un interessante gruppo di imprese del settore dei rifiuti.

In questa prospettiva questa logica di sistema può anche diventare il canale attraverso il quale legare tutti quegli elementi della filiera, perché in un sistema di gestione ambientale uno degli aspetti cruciali, per esempio, è fornire garanzie sui soggetti a valle e a monte. Allora, chiunque sia il soggetto che ha messo in piedi un sistema di gestione, appare chiaro che si entra esattamente e trasversalmente all’interno di questa filiera. Se si tratta di una impresa industriale deve controllare la destinazione dei propri rifiuti e nel caso di smaltitori significativi dovrebbe fare anche degli audit dei propri smaltitori; la stessa cosa a monte nei confronti dei propri fornitori. È una chiave abbastanza interessante e coerente con quanto da noi sinora sostenuto, rispondendo pienamente ad una logica di sistema interno che deve gestire le relazioni con l’esterno.

3) Credibilità e garanzie: strettamente connesso a questo discorso, per quanto riguarda i sistemi di gestione, c’è la certificazione dei sistemi di gestione ambientale; più precisamente la registrazione Emas in una logica pubblica. Ma c’è anche la certificazione di prodotto. Certi marchi di prodotto entrano esattamente nel merito della logica di filiera e di sistema che prima mettevamo in evidenza. L’unica cartiera italiana che a oggi ha ottenuto l’ecolabel ha dovuto rispettare tutta una serie di vincoli che entrano esattamente nella logica di cui stiamo discutendo; ovvero, utilizzare materia prima riciclata, minimizzare certi tipi di consumi, entrare nella capacità di gestire un processo riducendo alla fonte i propri rifiuti.

Un altro ambito di certificazione estremamente interessante, sempre nel settore della carta (stiamo parlando di logiche merceologiche, come diceva Massarutto, e quindi bisogna penetrare entrare all’interno dei settori nell’ambito della filiera), è quello dell’FSC (Forest Stewardship Council): una garanzia che vede coinvolti anche altri attori, come le associazioni ambientalistiche. Oggi 15 milioni di ettari di foresta sono certificati e ciò vuol dire che la materia prima utilizzata è sottoposta a tutta una serie di vincoli di uso.

Gli attori intermedi sono fondamentali. Un’altra esperienza statunitense interessante è quella del Natural Defence Found: l’associazione ambientalista ha stipulato una serie di accordi operativi con alcune imprese per definire proprio gli standard relativi alla gestione dei rifiuti. Mac Donald ha realizzato un progetto di riduzione dei rifiuti, ed in particolare della componente imballaggio del prodotto, attraverso un monitoraggio sistematico da parte di questa associazione ambientalista. Non è esattamente una certificazione, però fornisce una garanzia su certi tipi di scelte e un monitoraggio continuo dei risultati. Si tenga presente che negli Stati Uniti questi tipi di soggetti operano realmente in autonomia.

Sempre dal punto di vista della credibilità e garanzie ricordo che la recente direttiva sull’IPPC (Integrated Prevention Pollution Control) rappresenta una partita immensa in questa prospettiva, coinvolgendo anche il discorso specifico delle riautorizzazioni degli impianti. Si tratta, in pratica, di una vera integrazione nel processo autorizzativo e ciò renderà necessario garantire al soggetto pubblico tutta una serie di condizioni in cui il tema dei rifiuti entra penamente, associandosi per altro al tema fondamentale, che oggi forse non è stato affrontato abbastanza, delle migliori tecnologie disponibili.

3) Il terzo punto riguarda la ricettività del mercato che può essere espressa in termini di disponibilità ad utilizzare le tariffe in una prospettiva di regolazione di cui si è già parlato; ma il mio contributo vuole porsi in una logica diversa, di carattere più micro. Pensiamo ai due soggetti che ricordavamo in precedenza e cioè i clienti intermedi e quelli finali. I secondi, utenti-cittadini, per essere incentivati ad accettare un prodotto con poco imballaggio hanno evidentemente bisogno di informazione, sensibilizzazione, di certezza informativa. Devono capire che un certo prodotto, con determinate caratteristiche, non si presenta così perché vale di meno di un altro in termini di qualità, ma è così perché implica effettivamente uno sforzo significativo in termini di contributo ad una migliore gestione delle problematiche ambientali e più specificamente dei rifiuti. Ci vuole uno sforzo delle istituzioni pubbliche (perché non abbiamo Pubblicità Progresso in questo campo, ad esempio?) che tendano a sensibilizzare il consumatore finale. Per i clienti intermedi valgono quegli strumenti di cui si discuteva: benissimo per un mercato borsistico, meglio ancora se telematico. Allo stato attuale quello che trovo sul web sono vetrine virtuali, non c’è una vera borsa dei rifiuti.

Avendo affrontato i diversi tasselli e condizioni, si può entrare nel merito della mia conclusione che è relativa al sostegno pubblico. Se vogliamo parlare di politiche pubbliche, di politica industriale e di sostegno, tenendo conto di queste condizioni, quali potrebbero essere i passi necessari?

1) Una cosa che è emersa chiaramente oggi è che questo è un mercato che si conosce ancora abbastanza poco. Bisogna entrare nel merito degli esempi di Venezia per capire se la produzione dei rifiuti stia crescendo oppure no. I suggerimenti che venivano dati questa mattina dal ricercatore di CRS-Proacqua erano favorevoli ad un maggior sforzo conoscitivo in materia: mi sembra, che le cose stiano in questi termini, anche se non ho svolto una ricerca approfondita sul campo. Credo che il primo aspetto per un policy maker sia conoscere, valutare il mercato e in questa prospettiva promuovere la gestione integrata dei rifiuti. Quindi, mi sembra importante che tutti gli elementi conoscitivi siano oggetto di riflessione.

2) Un secondo aspetto: promuovere nuovi strumenti flessibili. Secondo il mio punto di vista la condizione per il coinvolgimento dei diversi attori in un’ottica di sistema, come dicevamo in precedenza, deve passare attraverso strumenti che non siano quelli tradizionali. Nella relazione del Presidente Scalia vi sono molti passaggi sul comando e controllo, sui nuovi strumenti. Egli ne cita alcuni. La realtà è molto semplice: senza comando e controllo certe cose purtroppo le imprese non le fanno, però siamo in una fase storica in cui le istituzioni stanno operando una transizione orientata alla valorizzazione massima dei nuovi strumenti marked-based. È una caratteristica europea. In questo probabilmente riusciremo a far meglio degli Stati Uniti, che su certi programmi oggi spendono il 70 per cento delle risorse per finanziare l’attività degli avvocati in campo ambientale. Negli USA l’importante è che le imprese abbiano un buon avvocato per difendersi, che l’EPA abbia un ottimo avvocato per rispettare la legge, che gli NGO abbiano ottimi avvocati per attaccare, per far causa e quindi finanziarsi, perché poi alla fine i proventi di queste cause finiscono negli NGO. Il famoso Superfund — super risarcimento, non stiamo parlando di rifiuti ma di terreni contaminati — per il 70 per cento è finito nelle tasche degli avvocati. Questa è la logica dei sistemi conflittuali: comando e controllo. Prima di fare le cose si deve valutare se si può evitare di farle e tra queste c’è anche il difendersi bene.

In un Paese come il nostro, con la numerosità di leggi che esistono nel nostro contesto, la valorizzazione degli strumenti marked-based può essere un obiettivo perseguibile. Tali strumenti devono andare alla sostanza delle cose, utilizzare le leve economiche, attivare il mercato. Credo sia molto semplice pensare a cosa si può fare per far sì che un mercato effettivo possa funzionare.

Perché un mercato effettivo funzioni ovviamente il terzo compito del soggetto pubblico è selezionare e premiare i migliori nelle gare, nei meccanismi incentivanti. La selezione consente di evitare che ci siano quelle sacche di inefficienza o di mancata convergenza tra la domanda e l’offerta che lasciano lo spazio agli aspetti di cui oggi non si vuole parlare, ma che per tutti sono l’oggetto principale dell’attività della Commissione d’inchiesta.

Ovviamente gli incentivi in questa prospettiva vanno sì nella direzione dei migliori, ma devono anche agire sui punti deboli del sistema. Non nascondiamoci dietro un dito; se si vuole far penetrare questo tipo di cultura nelle realtà imprenditoriali di minori dimensioni ci vuole un’azione che non è soltanto di sensibilizzazione, ma anche di incentivazione. Una volta partito il sistema, i risultati si premieranno da soli.

Massimo SCALIA, Presidente della Commissione. Ringrazio il professor Frey anche per alcuni utili stimoli. Vorrei fare una piccola invasione di campo. In una parte della sua relazione lei parlava degli strumenti di certificazione. Visto che stiamo in una università che è nota soprattutto per la sua Facoltà di economia, vorrei ricordare che all’Università La Sapienza di Roma, presso la Facoltà di economia, è stato aperto un corso post laurea proprio sugli aspetti di certificazione ambientale in rapporto alle esigenze delle imprese. Le chiedo se esiste qualche cosa di analogo alla Bocconi.

Marco FREY, IEFE Bocconi e Università di Cassino. Nel nostro istituto da quattro anni c’è un osservatorio sui sistemi di gestione ambientale, a cui partecipano tutti gli attori rilevanti del sistema. Molti ricercatori di istituto sono coinvolti nell’applicazione di strumenti volontari ancora prima che uscissero, nel senso che abbiano contribuito anche in sede di Unione europea a tutta una serie di attività in questo campo. Dal punto di vista della didattica facciamo soltanto formazione post laurea; abbiamo dei corsi sulla certificazione ambientale anche nel campo della sicurezza, ma non siamo ancora nelle condizioni di farli a livello pre-laurea e quindi di insegnamenti universitari.

L’anno prossimo per la prima volta (è questa una novità interessante) oltre ai nostri tradizionali corsi di economia, tecnica ambientale, economia delle fonti di energia, avremo un corso sulla gestione della sicurezza che è nella stessa logica e soprattutto un corso di marketing ambientale. Credo sia il primo al mondo.

Massimo SCALIA, Presidente della Commissione. Possiamo passare alla successiva fase dei nostri lavori, cioè alla discussione.

Il collega Gerardini, vicepresidente della Commissione, non può essere presente forse stressato dall’attività di relatore sul cosiddetto Ronchi-quater, dalle contrastanti pressioni che si esercitano su queste tematiche. Quindi, coordinerò io la tavola rotonda. Prego pertanto tutti i soggetti interessati di sistemarsi nelle posizioni migliori.

Carlo Rosario NOTO LA DIEGA, Presidente del Consorzio italiano compostatori. Il Consorzio italiano compostatori è un consorzio volontario, a differenza del CONAI e quello per gli oli esausti, che sono consorzi obbligatori. Già questo rappresenta un’anomalia, anche se non è colpa del legislatore, perché il consorzio obbligatorio, il CONAI, ha alle spalle chi paga, detto brutalmente, visto il poco tempo a disposizione; viceversa il consorzio dei compostatori non ha un produttore della materia prima. Per questa ragione è stato lasciato nel limbo. Noi lo abbiamo costituto ancor prima del "decreto Ronchi" con il patrocinio sia di Assoambiente che di Federambiente, perché sappiamo che rappresenta un momento centrale del sistema. Per far capire che si tratta di un momento centrale vorrei fare un riferimento (mi dispiace che non sia presente Capodieci e d’altro lato non vorrei essere troppo polemico, ma la macroeconomia ha una certa valenza). Il problema CONAI ci ha occupato per due o tre anni dal momento che è stato pubblicato il "decreto Ronchi", ma nella macrospazzatura rappresenta una frazione molto piccola perché il CONAI non rappresenta la raccolta differenziata nel suo complesso, ma solo gli imballaggi e quindi cartoni, bottiglie, eccetera e non la carta. È vero che il tutto viene inserito nella stessa campana, ma soltanto per una questione di sinergia; in realtà sono due mondi diversi, tanto è vero che questa mattina Capodieci, al quale avevo chiesto quale sarebbe stato il contributo che avrebbero dato al sistema nel 2000, ha parlato di 260 miliardi. Se teniamo conto che come minimo, secondo le ultime pubblicazioni, il giro dei rifiuti solidi urbani è intorno ai 12 mila miliardi, ci si rende conto che la somma di 260 miliardi rappresenta all’incirca il 2 per cento. Quindi, con il CONAI si è fatto un lavoro egregio, ma si è affrontata solo una piccola frazione del problema dei rifiuti.

La seconda grande scommessa del "decreto Ronchi" è rappresentata dalle altre raccolte differenziate: la carta, laddove non si fa con il CONAI insieme al cartone, ma soprattutto la frazione organica che ha una presenza di gran lunga superiore alle singole frazioni di cui si parla relativamente al vetro, alla carta, all’alluminio e al ferro. Questa frazione, lo devo dire con rammarico, è stata almeno in questo primo periodo abbandonata a se stessa. Infatti, mentre il settore degli imballaggi ha il CONAI, il settore dell’incenerimento ha visto e vede ancora presente il CIP6, sia pure limitatamente ad alcune iniziative. Le amministrazioni, che devono procedere per legge per raggiungere i risultati previsti dal "decreto Ronchi", devono attrezzarsi a loro spese per fare questo tipo di raccolta senza avere nessuno aiuto né in fase di raccolta, né tanto meno con alcun provvedimento in fase di trasformazione della frazione organica in compost.

Come è noto il compost è di due tipi: quello che proviene dal trattamento della raccolta differenziata che per legge dello Stato diventa compost di qualità se rispetta alcune caratteristiche che riguardano per un verso le matrici in entrata, per un altro verso il modo di lavorazione e per ultimo il rispetto di alcune caratteristiche fisico-chimiche del prodotto finito. Rispettando queste caratteristiche non si è più nel campo dei rifiuti ma in quello delle procedure facilitate. Il compost tradizionale, quello che proviene dal trattamento del rifiuto tal quale attualmente è ancora normato con il DPR n. 915, quindi con la legge del 1982 e con il decreto del 1984.

Le aziende iscritte al CIC, che sono più di cento e che rappresentano più dell’85 per cento del compost prodotto oggi in Italia, si trovano a dover lavorare in questa situazione. Innanzitutto le amministrazioni non hanno molti soldi per effettuare la raccolta dell’organico e quindi ne arriva pochissimo per fare il compost di qualità, inoltre se fanno quello tradizionale negli impianti di compostaggio tradizionale hanno grossissime difficoltà di esitazione nel mercato perché la normativa è farraginosa e in continua evoluzione.

Parlando di macroeconomia e tornando ai 12 mila miliardi, in realtà 10 mila, vorrei dire che molto spesso si dimentica il modo in cui vengono spesi da parte delle amministrazioni comunali. In passato circa l’80-85 per cento veniva speso per i sevizi di raccolta, trasporto e pulizia della città e solo il 15-20 per cento per lo smaltimento; attualmente c’è stato uno spostamento, ma non tanto grande dal momento che sono aumentati i costi per le esigenze dei cittadini che chiedono città più pulite, al punto che circa il 75 per cento è destinato alla raccolta, al trasporto, alla spazzatura e altri servizi collaterali e il 25 per cento allo smaltimento, per un totale di circa 2.500-3.000 miliardi.

La gara per Napoli e provincia è stata aggiudicata con un costo che prevedeva investimenti, a seconda dei tre raggruppamenti di imprese che hanno partecipato, tra gli 850-950 miliardi. La gara della Calabria nord che va da Cosenza in su è stata aggiudicata per 350-360 miliardi. È di tutta evidenza la grande sproporzione tra queste cifre, necessarie per passare ad un sistema complesso di gestione, e quelle che sono le attuali risorse delle amministrazioni. Il vero problema è la scarsità delle risorse, ma non da parte delle imprese, come giustamente hanno ricordato questa mattina i rappresentanti di Pirelli e di Falck e come avrei voluto dire anch’io questa mattina non come presidente del CIC ma come imprenditore. Noi facciamo investimenti per centinaia di miliardi, ma se il 90 per cento dei rifiuti va in discarica, la parte trattata rimane sempre a livello di pochi punti in percentuale. Una volta costruito l’impianto i costi, che poi si riflettono sulle tariffe, sono a carico del cittadino. A Napoli la gara è stata vinta dall’Impregilo che poi è stata venduta a Romiti, forse faceva parte della liquidazione. Comunque, non importa, i gruppi si troveranno, si faranno concorrenza, troveremo il nostro spazio. Come dicevo, il problema è quello delle risorse.

Tornando al compost, vorrei dire che siamo preoccupati perché le amministrazioni non hanno le necessarie risorse per fare la raccolta dell’umido, che si deve fare porta a porta o comunque in piccoli contenitori. Dunque, non ci sono le risorse e come si raggiungeranno i limiti previsti dal "decreto Ronchi" non lo sappiamo neanche noi.

Da un conto presentato a "Ricicla" insieme al ministro Ronchi risulta che per fare tutti gli impianti di compost di qualità per raggiungere i limiti previsti, sono necessari 2.500-3.000 miliardi. L’impianto di Muggiano, che noi gestiamo, dà circa cento tonnellate al giorno e tutti sanno quanto lavoro ruota intorno ad esso.

Vorrei chiudere il mio intervento con una considerazione che forse viene dal mio essere siciliano che manca da tanti anni dalla sua terra. Come avrete capito mi occupo di questo settore da molto tempo ed in questi anni ho notato, prima ancora che ci fosse la Commissione presieduta dall’onorevole Scalia, che si cercava continuamente di attribuire colpe, individuare scorrettezze, si parlava di ecomafia. Tutto ciò è corretto, però negli anni settanta-ottanta abbiamo assistito a determinati comportamenti negativi ed oggi ci troviamo di fronte ad una legge dello Stato che da un sistema di discariche incontrollate quantitativamente, dovrebbe portare ad un sistema impiantistico. Riteniamo sia una presa in giro, dopo aver detto che il CDR è un combustibile, dichiarare che al contrario è un rifiuto.

Il provvedimento, per fortuna Ronchi lo ha capito, che siamo riusciti a bloccare in un solo rigo affermava che il compost prodotto attualmente, ricavato dal trattamento del tal quale, doveva andare in discarica a copertura. Ho fatto presente al ministro che in questo modo saremmo diventati schiavi delle discariche.

Sembra che ci sia un Grande Vecchio, un livello che non riusciamo a capire, per il quale mentre da un lato saremmo indotti a fare delle gran belle cose, dall’altro si creano delle situazioni per cui tutto si blocca. Tutto ciò ci deve far riflettere perché ci sarà pure qualcuno dietro a questa regia; non è possibile che scaturisca dal nulla e che mentre da una parte con una mano si dà dall’altra si frena e noi continuiamo a stare fermi.

Massimo SCALIA, Presidente della Commissione. Ho il timore che il Grande Vecchio sia ancora sostanzialmente quella situazione di arretratezza e di difficoltà che stiamo cercando faticosamente di superare. È importante il confronto per cercare di capire quali provvedimenti è utile adottare sul versante degli incentivi e quali disponibilità esistono per quello che riguarda il sistema delle imprese, per far decollare sia pure con tanti anni di ritardo il pianeta dei rifiuti.

Guido VENTURINI, Direttore Generale della Federchimica. Desidero ringraziare il Presidente Scalia e gli organizzatori di questo convegno perché accendere i riflettori su questo argomento secondo noi rappresenta un importante messaggio non solo al sistema delle imprese, ma a tutto il sistema-paese. Richiamo l’attenzione dei presenti, è già stato ricordato autorevolmente questa mattina, per dire che il sistema industriale preso nel suo complesso è forse quella parte della società italiana che più sta facendo su questo argomento, perché da un lato ne ha le convenienze ed è una buona parte dei motivi per i quali imprenditori ed imprese autorevoli, come avete visto questa mattina, si stanno orientando su questo tipo di prodotto perché ne vedono il business e dall’altro perché evidentemente ci sono una serie di adempimenti normativi che forzano in questa direzione.

Perché questa sottolineatura? Quando mi tolgo dalla responsabilità dell’associazione di impresa e faccio il comune cittadino di obblighi ne ho molto pochi, al pari delle sanzioni, ed i miei comportamenti possono essere ancora molto ma molto superficiali e disordinati. Presidente Scalia, io uso fare questo esempio: il sistema di impresa ha lavorato molto sulla sicurezza, sul controllo della sicurezza per chi opera in azienda. Come posso chiedere ad un giovane che il lunedì mattina si presenta ai nostri stabilimenti di indossare una tuta, mettere dei guanti, delle scarpe protettive, un casco, degli occhiali, osservare delle norme, all’interno di un’azienda di tipo tradizionale, quando lo stesso giovane ha passato un sabato ed una domenica da cittadino, fino a poco tempo fa guidando dei ciclomotori senza casco, mettendo in atto dei comportamenti, al di fuori di qualsiasi prudenza, totalmente estranei al problema del pericolo e alla gestione del suo rapporto con il pericolo? Spessissimo, purtroppo, abbiamo notizie drammatiche di quello che accade nei week-end. La stessa persona quando entra in azienda dovrebbe avere un determinato comportamento, ma è chiaro che io ingenero non solo in lui, ma alla sua famiglia e a chi lo conosce la sensazione che sta operando in una situazione a rischio che comporta chissà quali problematiche, anche dal punto di vista psicologico. In pratica, con una serie di atteggiamenti negativi creo una serie di differenziazioni tra sistema di impresa, quindi sistema produttivo, e società civile laddove invece il meccanismo della libertà e della socializzazione ha tutta una serie di altre regole.

Faccio questo esempio perché dobbiamo essere molto attenti quando il legislatore si muove su queste tematiche; per una sua questione etica il legislatore allorché si muove in questo ambito è portato ad impostare da subito un piano normativo di regole ideale e a pretendere che da subito il sistema industriale e quello della società facciano proprie tali regole. È difficile che il legislatore riesca ad impostare una gradualità, a dare dei tempi di attuazione, che accompagnino questi tempi e queste attuazioni con supporti formativi e informativi. Questo è ciò che è accaduto e sta accadendo sul problema della gestione rifiuti; a mio avviso, manca un accompagnamento dei soggetti che operano su questo mercato e su queste responsabilità.

Per parte nostra riteniamo sia fondamentale che il sistema a valle dei produttori rapidamente si industrializzi e assuma una sua dignità economico-industriale importante. Questo per noi è fondamentale e faremo di tutto per aiutare non solo i nostri trasformatori, ma anche chi conferisce a fine del ciclo di vita i nostri prodotti per far sì che questo sistema a valle sia trasparente, industriale e certo. Dico questo perché qui si realizza un altro punto di convergenza tra il lavoro della sua Commissione e noi; ad esempio, il fatto che il nostro paese, operando scelte di un certo tipo, lasci ancora troppo spazio alla convenienza economica dell’uso della discarica. È chiaro che lasciando troppo spazio a questa convenienza economica, si deprimono i prezzi dello smaltimento (badate bene che vi sta parlando un rappresentante dei produttori, ai quali interessa il prezzo più basso possibile nel conferire il proprio rifiuto). Ebbene, noi stessi diciamo che deprimendo troppo il prezzo dello smaltimento industriale del rifiuto, perché in questo paese ci sono ancora troppe situazioni o di discarica o di altri percorsi che la Commissione ha cercato di individuare, il prezzo resta depresso e da questo punto di vista non si riesce a dare valore al business del trattamento del rifiuto. Faccio queste affermazioni perché ciò emerge da confronti internazionali che abbiamo non solo con la Germania, ma con altri paesi dell’Unione europea, a dimostrazione, ancora una volta, della cosiddetta "anomalia italiana". L’industrializzazione a valle necessita di un’attenta valutazione del mercato, delle convenienze di chi si industrializza a valle e quindi necessita di un’attenzione sul fatto che queste opportunità di smaltimento a basso costo debbano rapidamente, dal mio punto di vista, essere precluse.

Qual è l’interpretazione per la quale permane ancora questa situazione? Perché il nostro paese, ad esempio, ha rifiutato aprioristicamente una questione che gli altri paesi stanno utilizzando, cioè quella della termovalorizzazione del rifiuto. Non si può riciclare tutto; non voglio usare, come si diceva questa mattina, l’esempio del riempire il paese di panchine. Sarei troppo arrogante e superficiale nei confronti del riciclo, però dobbiamo cominciare a chiederci — in alcuni punti del dibattito mi sembra stia avvenendo — il significato ed il valore della termovalorizzazione del rifiuto come recupero di energia.

Questa è la parte sostanziale del mio intervento e per lasciare anche agli altri il tempo di esprimere il proprio parere dico soltanto che tutti chiedono maggiore attenzione e regole certe su questa vicenda. Cinquanta regolamenti attuativi all’interno del "decreto Ronchi" determinano una situazione ingovernabile anche per chi ha la responsabilità di emanare gli stessi regolamenti. Dobbiamo chiedere una maggiore libertà per i soggetti nel territorio per definire alcuni comportamenti, ma anche di lavorare maggiormente sui comportamenti volontari. Molto spesso laddove il mercato dà una serie di risposte positive sono proprio quelle che premiano di più; difficoltà quindi per le convenzioni con i comuni, miopie e poca generosità da parte degli stessi nell’aprirsi nei confronti di questo tipo di discorso, quindi scarsa disponibilità alla raccolta differenziata e così via. Target che molto spesso sono non realistici perché irraggiungibili sono evidenziati egualmente perché comunque danno lustro a chi li pone, eccetera.

Credo che la Commissione non possa esimersi dal chiedere in maniera molto più forte a chi ha responsabilità di governo una presenza anche ad un tavolo europeo, su questo problema. Stiamo monitorando poco questo argomento a livello europeo e manchiamo su due aspetti: quello dell’armonizzazione, del confronto rispetto a quello che avviene in altri paesi che non considero assolutamente delle pattumiere, perché credo che tutti i paesi confinanti siano degni di essere considerati alla stessa stregua con cui consideriamo in maniera seria e protettiva l’ambiente nel nostro paese. Quindi, occorre un confronto non solo legislativo, ma anche dei comportamenti dei soggetti. Da ultimo: chi se non il Parlamento può, su questa operazione, su questo tema, fare una grande campagna di cultura, di formazione, informativa, per far sì che il paese vada in una direzione attiva su questo argomento? Chi ha la responsabilità all’interno di quella piccola iniziativa, perché così la devo definire visti i numeri, che si chiama CONAI, non può lasciare solo sulle spalle di questi pochi settori la responsabilità di caricarsi tutto l’impegno, oltre che i costi, dal punto di vista formativo ed informativo. Ci deve essere un impegno forte da parte del Parlamento, ci deve essere l’individuazione di una priorità e questa deve entrare dentro i meccanismi di spesa.

Presidente Scalia, si avvicina il momento della finanziaria, c’è un DPEF in discussione; ebbene, qual è il punto nella finanziaria o nel DPEF che riguarda questo tipo di argomento?

Questo è il contributo, non solo critico ma anche estremamente positivo, che i produttori della plastica e gli utilizzatori dei contenitori nel settore chimico avanzano su questo argomento.

Massimo SCALIA, Presidente della Commissione. Sarebbe una risposta sbagliata pensare di bruciare tutto; oggi il riciclaggio si trova al di sotto della già scarsa percentuale rappresentata dalla termodistruzione. Quindi, andare verso il sistema industriale significa erodere fortemente quell’80 per cento di rifiuti solidi urbani che va in discarica. Qualche segnale in questa direzione esiste, se è vero che in due anni sono state chiuse 700 discariche. Quindi, siamo in presenza di un’azione abbastanza efficace proprio per limitare l’apertura di discariche abusive e far decollare un sistema industriale. Non dobbiamo dimenticare che a tutt’oggi esiste ancora un paese che convoglia in discarica l’80 per cento dei suoi rifiuti.

Bruno MENINI, Vicepresidente vicario della CNA (Confederazione nazionale dell’artigianato). La nostra è un’associazione che riunisce 400 mila imprese e se è vero che l’economia italiana è fatta certamente dalla Falck, dalla Pirelli, dalla Fiat, non va dimenticato che per il 90 per cento è composta da piccole e piccolissime imprese.

Debbo chiarire che i distretti industriali del ferro, del tessuto, della carta si sono sviluppati spontaneamente partendo da una rete capillare di raccoglitori e che è dunque una favola quella per cui i distretti si sono sviluppati negli anni ’80: è dimostrato che i distretti sorgono spontaneamente, e non per imposizione di qualcuno. Ogni più piccola particella di metallo veniva trattata in un circuito commerciale e produttivo, creando valore aggiunto e lavoro: povero, ma lavoro. Avevamo discariche vuote e magazzini pieni. Certamente, erano altri tempi.

Poi, abbiamo iniziato ad introdurre regole, obblighi, pratiche amministrative, iscrizioni, ed abbiamo perso gran parte di questo sistema, sicché oggi l’ancora fiorente industria, piccola e media, del riciclaggio si trova costretta ad acquistare materiali all’estero, che non sono rifiuti, e contemporaneamente abbiamo le discariche piene ed i fenomeni di ecomafia.

Non che le regole non fossero giuste per combattere gli inquinatori, i delinquenti e la mafia, nazionale ed internazionale, che peraltro sta abbandonando il settore per darsi ai più lucrosi affari di borsa. Forse grazie anche alle nuove regole, c’è stato questo arretramento. Alcuni importanti risultati sono stati raggiunti in termini di conoscenza e di governo del fenomeno; però, non si può stravolgere l’economia di molti settori in nome di questi principi, non si può, in nome degli stessi, violentare l’economia e la logica.

Se l’oratore che ha parlato prima aveva un sospetto, io ho una preoccupazione (uso un termine più elegante). Mi dicono gli esperti che la gestione dei rifiuti è un affare da 30.000 miliardi nel suo complesso, e anche di più. È una bella torta, in sostanza. È ovvio che qualcuno può pensare che più rifiuti ci sono, più la torta diventa grande. Noi dobbiamo tutelare gli interessi delle piccole e piccolissime imprese che rappresentiamo, imprese che non sempre, anzi quasi mai, sono in grado da sole, come singole imprese, di affrontare queste problematiche e spesso si vedono gravate di costi che non sempre sanno gestire o sono in grado di gestire.

Se immaginiamo di poter approdare ad un moderno sistema industriale della gestione dei rifiuti, abbiamo prima di tutto il dovere di togliere dalle regole e dai sani principi ciò che rifiuto non è e ciò che le leggi, l’economia, il comune sentire ritengono siano prodotti. Stiamo parlando della ricotta, della segatura, della crusca per fare il pane integrale, delle terre di scavo usate per ricoltivare terreni impoveriti, o dell’oro o di altri materiali preziosi della nostra apprezzata attività orafa. Io stesso sono un piccolissimo produttore orafo vicentino, pago quella che io chiamo tassa (perché non saprei in quale altro modo chiamarla) al comune per l’asporto dei rifiuti del mio laboratorio, e vi posso assicurare che non solo io, ma tutte le migliaia di orafi che ci sono in Italia, soprattutto a Valenza, ad Arezzo e a Vicenza, non fanno uscire nulla, neanche un capello: addirittura, la più grossa industria italiana, la Unoaerre di Arezzo (non faccio pubblicità perché è conosciutissima!) ricicla anche le vasche biologiche. Però la tassa la paghiamo lo stesso, anche perché, quando il postino mi consegna la lettera, che resta sulla scrivania per una mezz’ora, qualche traccia di polvere d’oro nel laboratorio c’è! Noi non abbiamo uffici sofisticati, anzi spesso i nostri laboratori sono un tutt’uno addirittura con la casa.

L’occasione è data dal disegno di legge n. 6313, in discussione alla Camera, e da quella benedetta norma di interpretazione autentica della definizione di rifiuto, che non può essere frutto di sofismi giuridici, nazionali od europei, ma deve recepire il semplice concetto secondo cui non ricorre l’atto di disfarsi di un bene, di un prodotto, di una sostanza quando il produttore o il detentore lo avvia a riutilizzo. Applicando questo principio, le cose sarebbero molto più semplici.

Ricondotto il problema alle sue giuste dimensioni e ricondotte a più miti consigli le aspirazioni economiche di chi vorrebbe che tutto fosse rifiuto, ripristinato il principio comunitario di produrre meno rifiuti, si può immaginare di attrezzare un moderno sistema per la gestione dei rifiuti, modificando prima di tutto le regole, ancora eccessivamente vincolistiche e protettive che il "decreto Ronchi" contiene e che non permettono lo sviluppo delle piccole imprese. Prima di tutto, bisogna garantire il mercato attraverso regole uguali per tutti. Per questo non ha più senso la privativa comunale, se non per i rifiuti urbani dei cassonetti e giacenti sulle aree pubbliche, soprattutto dopo l’emanazione della legge n. 265 del 1999. E bisogna tenere sempre presente che i rifiuti dei cassonetti sono un terzo del totale dei rifiuti: i due terzi dei rifiuti provengono invece dal sistema industriale e commerciale.

Il superamento della privativa darà nuove possibilità imprenditoriali ed un vantaggio alle imprese ed ai consumatori. Bisogna superare la privativa e qualsiasi monopolio si voglia reintrodurre, magari attraverso accordi di programma o di categoria; ma se si vuole dare economicità al settore dei rifiuti, si dovrà anche agire con la scure per semplificare la gestione delle imprese. Spesso queste ultime, infatti, si spaventano per i carichi burocratici e per i relativi costi che accompagnano le imprese stesse, dal momento in cui progettano un intervento alla gestione del lavoro. D’altra parte, abbiamo già detto come in questo ambito si vive una sorta di sindrome di Penelope: laddove in Parlamento qualcuno lavora per semplificare, altri cercano di imporre un ulteriore obbligo di comunicazione o quant’altro.

Vi prego di tenere conto — mi rivolgo al Presidente della Commissione — delle proposte formulate dalla CNA e dalle altre organizzazioni delle piccole e medie imprese sul MUD, sulla gestione degli impianti: sono proposte che tendono a facilitare la vita delle imprese, pur consentendo il più rigoroso controllo sulla produzione e gestione dei rifiuti, pericolosi e non pericolosi. La CNA e le altre organizzazioni, si sono dichiarate disponibili a surrogare le imprese, per consentire l’individuazione della quantità di rifiuti prodotti, in quanto possibili detentori di banche degli stessi, nella misura in cui le organizzazioni potranno gestire registri di carico e scarico. Tra l’altro, abbiamo un esempio di collaborazione sul fisco. È di questi giorni — l’ho sentita annunziare alla televisione ed alla radio — la notizia che verranno aboliti gli scontrini fiscali, proprio perché il Ministero delle finanze, con un lavoro fatto insieme alle organizzazioni attraverso gli studi di settore, è riuscito ad introdurre un’altra metodologia. Noi siamo disponibilissimi a collaborare allo stesso modo anche con i dicasteri preposti al settore di cui discutiamo.

Ma questo provvedimento non possiamo ritenerlo esaustivo. Dobbiamo impegnarci per superare l’attuale iter procedurale di autorizzazione, a cui le imprese di ogni dimensione debbono ricorrere per ogni aspetto delle relazioni ambientali. Potrebbe esser questa un’importante soluzione, che sottrae le imprese e la pubblica amministrazione dalla necessità di impegnarsi nella gestione di decine di procedimenti. Già da tempo abbiamo avanzato una proposta che, tenuto conto delle leggi sulla semplificazione (le leggi Bassanini) e dello sportello unico per le imprese, introducono l’autorizzazione unica ambientale, ossia un unico procedimento ed un unico atto per le emissioni in atmosfera, la gestione delle acque, il rumore, i rifiuti. In un futuro più o meno prossimo, si potrebbe pensare ad un’autorizzazione integrata, che recuperi anche quelle relative agli ambienti di lavoro.

Un discorso a parte meriterebbe l’albo gestori dei rifiuti, strumento utile per le imprese in un settore in cui le rigidità hanno condotto a situazioni assurde. Un esempio banale: un’impresa di trasporto, che deve iscriversi nell’albo dei gestori, nel 1998 ha pagato 100.000 lire per ogni classe e categoria di iscrizione. Nel 1999 le è stato chiesto un milione e mezzo per ogni classe e categoria di iscrizione, con un aumento ingiustificato e ingiustificabile secondo noi. Le imprese con tre iscrizioni sono passate da 300.000 lire a 4-5 milioni. Inoltre, un’impresa che trasporta crusca e colla di riso deve presentare ogni anno una montagna di documenti, comprese le incomprensibili perizie sui mezzi, magari prodotti solo un mese prima; oppure pagare più volte, per centinaia di milioni l’anno, per garanzie fideiussorie, con l’unico effetto di apportare benefici ai bilanci delle compagnie di assicurazione.

Se il Parlamento, con questo disegno di legge, riesce a dare regole semplici, non soffocanti, allora si avranno le condizioni per sviluppare un efficace sistema di gestione dei rifiuti che, tenuto conto delle imprescindibili esigenze di tutela ambientale, possa rispettare le regole del mercato in termini di costi, qualità, efficienza e remuneratività. Il Governo, in questo caso, sarebbe in dovere di intervenire a garanzia della tutela ambientale e delle regole generali, predisponendo un efficace ed efficiente sistema di controllo e vigilanza, che porti a reprimere giustamente comportamenti illegali e delittuosi.

Al contempo, possiamo immaginare un ruolo dello Stato e delle regioni nel promuovere il sistema attraverso accordi di programma significativi in termini di razionalizzazione, e del Governo per particolari elementi della gestione dei rifiuti. Se ciò avvenisse, se tutto ciò fosse portato a compimento, si potrebbero immaginare anche dei numeri positivi: per lo meno, il raddoppio delle attuali unità imprenditoriali attualmente impegnate nell’attività di raccolta, stoccaggio, cernita e recupero dei rifiuti, che attualmente dovrebbero essere circa 40 mila. Va auspicato l’avvio della costruzione di impianti di termodistruzione — si dovrebbe passare dalle attuali scarse unità a qualche centinaio — non pensando alla pratica antieconomica del CDR — e per la produzione di compost di qualità, e quindi fertilizzante naturale, a beneficio dell’agricoltura e delle varie zone verdi.

Si può immaginare un risultato fortemente positivo, a condizione che qualcuno lo voglia, sul piano occupazionale per i benefici sulla bilancia dei pagamenti e sulla produzione di ricchezza del paese. Si possono immaginare strategie concordate sui tavoli della concertazione tra le parti sociali e tra queste, il Governo e le regioni. Perché non si approfitta di queste condizioni favorevoli? Si possono evitare fallimenti come il patto per l’energia e l’ambiente, utilizzando seriamente le risorse pubbliche e quelle private. Auspichiamo che si voglia prendere un appuntamento anche per arrivare ad una buona legge, che crei buone condizioni per lo sviluppo sostenibile.

Per concludere, mi associo alle considerazioni svolte dal relatore che mi ha preceduto. Per conto della mia organizzazione, io seguo gli affari comunitari (anche se non sono un esperto). Mi rendo conto anch’io che da parte dell’Italia è necessario uno sforzo maggiore di concertazione a livello europeo, di armonizzazione delle leggi. Parlavo poco fa con il tecnico che segue per noi queste vicende: io, come orafo, da un anno a questa parte ricevo offerte di riciclaggio di prodotti orafi da parte di aziende francesi (soltanto francesi). Ci chiedevamo proprio oggi, nella pausa, se — ed è nostro dovere controllare — la Francia abbia adottato particolari procedure in questo comparto, che peraltro non è un comparto tipicamente francese, visto che l’Italia resta pur sempre la prima produttrice al mondo di prodotti orafi: per la verità da un anno a questa parte la seconda, perché l’India ci ha sorpassato l’anno scorso; ma restiamo pur sempre un grandissimo produttore di oreficeria. Se però dalla Francia arrivano alla mia azienda ed a moltissime altre aziende richieste di questo genere (addirittura, vengono nella sede produttiva, prendono i rifiuti, li portano in Francia, li affinano e ci riportano il metallo), con offerte interessanti, a costi più bassi di quelli che sopportiamo noi nei nostri banchi metalli o nelle aziende specializzate, un motivo ci dovrà pur essere. Sarà compito anche della nostra associazione capire se il sistema francese è riuscito, su questo piccolissimo settore, che interessa pochi ma può essere un buon esempio, a introdurre una legislazione migliore della nostra.

Massimo SCALIA, Presidente della Commissione. Passiamo adesso alla dottoressa Gloria Domenichini, per Assolombarda, pregando tutti gli oratori di seguire questo ottimo trend. Restando sui dieci minuti, riusciremo a consentire lo svolgimento dei tre interventi che erano rimasti da questa mattina e le conclusioni del sottosegretario De Piccoli.

Gloria DOMENICHINI, Rappresentante dell’Assolombarda. Dopo due interventi sul sistema produttivo, credo che mi competa chiudere molto velocemente sui punti in esame. Devo dire, onorevole Scalia, che condividiamo — è vero — i risultati dell’inchiesta parlamentare. L’area della gestione dei rifiuti ha notevoli potenzialità. Bene, su questo, credo che non vi sia assolutamente nulla da obiettare. Chiediamoci allora dove stiamo andando e a che punto siamo.

Dopo vent’anni di normativa sui rifiuti, quando ci siamo messi a lavorare per recepire le direttive europee, pensavamo che fosse l’occasione, finalmente, per mettere mano realmente ad una riforma di un sistema normativo che "pesava" migliaia di pagine di Gazzetta: una cosa allucinante per tutti, per chi doveva controllare e per chi doveva rispettare queste norme.

Sono vent’anni che mi occupo di rifiuti: se dovessi fare un bilancio oggi, non direi che le cose siano particolarmente cambiate. Abbiamo un eccessivo contenzioso, che da una parte contrappone pubblico e privati, per una serie di motivi, e dall’altra privati tra loro. Abbiamo seguito un caso in cui erano coinvolte 500-600 aziende, in un conferimento per certi aspetti abusivo per altri no. Insomma, siamo in una società di diritto che è solo di fatto e non reale, perché, quando ci troviamo a dover governare situazioni che, per un solo soggetto, trascinano quattrocento problemi, non possiamo non condividere quello che diceva prima Frey. Rischiamo di spendere le nostre risorse in questioni legali anziché fare sviluppo.

Questo è dunque il primo punto: eccessivo contenzioso.

Secondo punto: è vero che siamo di fronte ad un circolo virtuoso, è come un cane che si morde la coda, ma condivido pienamente quanto espresso nel precedente intervento. Che si tratti di un’impresa di piccole o grandi dimensioni (associate ad Assolombarda vi sono aziende con due dipendenti ed aziende con migliaia di dipendenti), per certi aspetti il problema non cambia: chi produce il rifiuto e deve attivare all’interno dell’impresa una politica che incentivi il recupero, a che cosa si trova oggi di fronte? Intanto, ancora non abbiamo capito cosa è rifiuto e cosa non lo è. Dopodiché le aziende ci chiedono: diteci cosa ne faccio di questa roba. L’erba del prato, la posso dare al contadino o no? Abbiamo dovuto fare una consulta di tre province per decidere se l’erba del prato fosse consegnabile, e come. Ebbene, l’erba del prato, comunque, deve essere stoccata secondo certe modalità, deve viaggiare con un apposito formulario, deve essere contabilizzata sui registri, e così via.

Credo che, se vogliamo seriamente considerare che c’è un mercato, e c’è di sicuro, dobbiamo dare la possibilità a chi fa il prodotto che crea il mercato di poterlo fare nella massima tutela dell’ambiente, ma anche secondo una logica che non sia penalizzante per l’impresa, che si trova tra l’altro esposta a sanzioni penali e amministrative per la gestione dell’erba del prato e di un formulario. Se gli obiettivi europei erano quelli di prevenire a monte, dare priorità al riciclaggio, eliminare il flusso dei rifiuti, il primo passaggio è fare in modo che chi produce rifiuto sia realmente incentivato a spingere il processo per avere un rifiuto che possa andare al recupero e riciclo. Questo crea un mercato, quindi crea un interesse a investire, crea business e crea anche soluzioni. Parlo dal punto di vista dell’azienda che non è del settore. Dall’altro lato, è vero che l’innovazione tecnologica e le risposte del mercato, a loro volta, incentivano la produzione. Io credo che vi sia un momento importante per avviare questa riforma. A Roma stiamo discutendo di alcuni dei cinquanta decreti. È un momento in cui c’è forse la possibilità di mettere mano legislativamente alla realizzazione di questo percorso. Noi ci crediamo. Abbiamo fiducia che vi siano le condizioni perché questo possa essere fatto.

C’è una questione che non attiene direttamente ai rifiuti, ma che comunque va affrontata, e seriamente, ed è il problema dello sviluppo. Oggi, in Italia, che io debba costruire un impianto di incenerimento o debba fare l’ampliamento di un capannone, in misura diversa mi trovo di fronte allo stesso problema: la semplificazione amministrativa è partita, ma per lo meno in provincia di Milano — e credo che la provincia di Milano sia una di quelle che sono più avanti — abbiamo una situazione in cui le amministrazioni comunali sono state lasciate con un cerino acceso e, dietro, il percorso non è ancora finito. Se devo fare un investimento, oggi, devo avere tempi e modi che siano congruenti con il mercato; altrimenti, lo andrò a fare da un’altra parte, e forse non sarà il comune a fianco, ma un altro paese dell’Europa, per non parlare del terzo mondo. E c’è anche un problema di consenso. Condivido quello che diceva il dottor Venturini: il consenso si costruisce con la conoscenza. Su questo, credo che ci possiamo impegnare tutti, perché capendo meglio questi problemi si può forse aiutare ad accettare anche determinate soluzioni, che sono assolutamente inevitabili per risolvere i problemi stessi: e vuol dire realizzare gli impianti che servono.

Massimo SCALIA, Presidente della Commissione. La ringrazio, anche per la semplice efficacia delle sue parole. Vorrei però ricordare a tutti che la definizione di rifiuto — scrolliamoci di dosso un po’ di provincialismo! — è in discussione in Europa da sette anni, e le difficoltà più grosse si trovano appunto nel contrasto (lo dico esplicitamente) che oggi c’è a livello europeo sul concetto di rifiuto. Una volta tanto, quindi, non è una questione italiana: è una questione su cui sono mobilitati gli interessi industriali delle nazioni più forti d’Europa.

La parola ora al dottor Corazzari.

Franco CORAZZARI, Direttore generale della Società Fenice. La Fenice è la società del gruppo Fiat alla quale è stata demandata, tra le altre cose, tutta la problematica dei rifiuti del gruppo medesimo. Abbiamo risposto con grande entusiasmo all’invito del Presidente Scalia per portare in questa sede, così qualificata, anche una testimonianza di vita vissuta, da parte del nostro gruppo, nel campo dei rifiuti industriali.

La Fiat si è data, all’inizio degli anni ’90, una strategia per risolvere i propri problemi di smaltimento, mettendo a punto un sistema integrato che consentisse di gestire in maniera controllata il flusso dei rifiuti dallo stabilimento fino alla destinazione finale. Questo sistema era incentrato su un insieme di isole ecologiche a bordo di stabilimento per il pretrattamento ed il controllo dei rifiuti in uscita ed una serie di piattaforme di smaltimento finale basate sulla termovalorizzazione (allora si chiamava incenerimento, poi il termine si è nobilitato: ma la sostanza non è cambiata), forti del fatto che questa soluzione fosse, come riteniamo sia tuttora, l’unica soluzione percorribile, al di la di tutti i riciclaggi ed i riutilizzi che vengono correntemente fatti e che sicuramente occorre sempre più perseguire, per smaltire l’ultima frangia di rifiuti (si parla di rifiuti industriali) che comunque deve essere trattata e che ha una componente organica pesante, nonché una componente energetica che può essere facilmente recuperata con tecnologie consolidate e sicure.

Su questa base, è stato avviato il piano realizzativo di questo sistema, del valore di circa 500 miliardi, per un complessivo di 200 mila tonnellate circa di rifiuti coinvolti a livello nazionale. Alcune di queste strutture — le isole ecologiche, in particolare — sono state realizzate; è stata realizzata, ed è entrata in esercizio di recente, la prima piattaforma di termovalorizzazione da 65 mila tonnellate circa, che deve servire, nell’ottica della soluzione globale del sistema, tutta l’area del Centro-Sud degli stabilimenti Fiat.

Illustrerò brevemente l’iter che questa iniziativa del termovalorizzatore — ma chiamiamolo pure inceneritore, per richiamare il suo nome originario — ha avuto. Nel 1992 fu presentata la richiesta di autorizzazione, completa di indagine sull’impatto ambientale (VIA), svolta secondo i canoni di legge. Alla fine del 1993 fu rilasciato il giudizio positivo di VIA da parte dei quattro ministeri interessati e della regione competente: e debbo dire che, in quella circostanza, il rapporto con gli enti ministeriali fu veramente di una grossissima capacità tecnica, fu un rapporto molto costruttivo, molto positivo; ne venne fuori una valutazione di impatto ambientale completa ed esaustiva. Nel 1998 abbiamo ottenuto l’autorizzazione all’installazione dell’impianto. La pratica, quindi, era tornata a livello regionale: sono passati quattro anni e mezzo circa. Oggi l’impianto è stato realizzato ed è in fase di avviamento e siamo in attesa di un ultimo passaggio: l’autorizzazione definitiva all’esercizio.

Si tratta di un impianto destinato all’autosmaltimento dei rifiuti del gruppo. Non è sul mercato, non è disponibile per altri, è nato ed è tuttora in questa situazione.

L’iter regionale ha richiesto 25 ricorsi al TAR ed al Consiglio di Stato, diffide, messe in mora ripetute, per poter arrivare allo sblocco della situazione di stallo. E trattasi di un impianto autofinanziato, non di un impianto finanziato con denaro pubblico! È una scelta della società, che ha voluto realizzare in proprio questo impianto per le proprie esigenze.

Si è verificato un problema molto serio per il limite costituito dalla provenienza extraregionale dei rifiuti. Questo è uno dei vincoli più insulsi che un sistema industriale si possa porre. Il problema dello smaltimento dei rifiuti industriali non può essere circoscritto al confine geografico regionale: altrimenti, di impianti per lo smaltimento di rifiuti industriali non se ne faranno mai, non ci sarà mai nessun imprenditore che si sentirà di correre il rischio di realizzare un impianto circoscritto fin dalla sua nascita ad un perimetro geografico ristretto.

Nel frattempo abbiamo avuto — lo dico a titolo di cronaca — anche un referendum impostato secondo questi termini: "Vuoi l’inceneritore o vuoi vivere?". Abbiamo avuto alcuni scioperi nelle scuole e qualche corteo, ma sono fatti di colore: che però stanno anche ad indicare una pesante carenza di cultura sul territorio per questo tipo di soluzioni. Tutto questo dopo che — lo ripeto — gli approfondimenti a livello di VIA erano stati veramente quanto di meglio si potesse pensare.

Le motivazioni di questa situazione? Ebbene, noi le abbiamo identificate in alcuni fattori. Il primo è in effetti la farraginosità dell’iter autorizzativo: questi passaggi tra Regione, Ministero, di nuovo Regione, commissioni, conferenze, comitati, richiedono decisamente dei tempi biblici, mentre un’iniziativa industriale richiede di avere esatte previsioni di tempi, di costi e di qualità del prodotto finale.

Il secondo fattore riguarda i conflitti tra indicazioni ministeriali e normative regionali, o comunque strategie a livello regionale. Il discorso della provenienza dei rifiuti da fuori regione è un masso
che si trova sulla strada di una soluzione industriale del problema dei rifiuti industriali: se non si supera questo, credo che non vi sia veramente nessuna possibilità di vedere in futuro il problema dei rifiuti industriali risolto in maniera razionale a livello nazionale.

Un terzo punto, sicuramente molto delicato, concerne la strumentalizzazione politica. Abbiamo sentito parlare oggi di poco gradimento dell’incenerimento da parte della pubblica opinione. È vero; anzi, un’iniziativa di incenerimento si presta facilissimamente ad essere strumentalizzata a seconda della corrente politica che la cavalca. Noi stessi dobbiamo dire modestamente di avere contribuito a qualche carriera politica grazie ai nostri impianti di incenerimento!

Infine, c’è una mancanza di cultura a tutti i livelli, a cominciare dal livello scolare, via via fino al livello del cittadino, dell’uomo della strada, della comunità, sul fatto che questi sono impianti consolidati, a tecnologia supersicura, in cui l’investimento è per due terzi, se non di più, destinato ai sistemi di abbattimento e di depurazione degli influenti dell’inceneritore e che si tratta di un sistema controllato, monitorato dagli enti pubblici di controllo e dunque assolutamente sicuro. Però, se lo dice l’imprenditore, ebbene l’imprenditore è sempre — leggo dalla relazione del Presidente Scalia — colui che propone un impianto di smaltimento che viene visto come un qualcosa che non sarà come quello che si propone, che farà crescere malattie e tumori, che inquinerà l’ambiente. Noi siamo stati accusati di fare aumentare i tumori nella zona in cui è presente il nostro inceneritore, e questo quando l’inceneritore era ancora in costruzione!

Scusate questa geremiade di amarezze, ma l’abbiamo vissuta in questi anni sulla nostra pelle!... Ma al di là della lamentazione, che mi vorrete consentire, cerchiamo di trarre qualche spunto dalla strada che abbiamo percorso. Sarebbe errato — l’ho detto e lo ribadisco — pensare di pianificare le strutture regionali di smaltimento sulla stessa base dei rifiuti urbani: tanti abitanti, tanto rifiuto, tanti impianti di smaltimento. Per i rifiuti industriali non può e non deve essere così. Debbono esserci impianti controllati — questo sì —, debbono esserci impianti testati su tecnologie consolidate; però, quando l’impianto è stato realizzato in maniera coerente e controllabile, allora non vi deve essere vincolo alla provenienza dei rifiuti. Questo, per me, non nasconde assolutamente il rischio di un eccesso di offerta: anzi, solo con un mercato che ha un’offerta disponibile si potranno avere anche delle tariffe adeguate.

Né si può pensare che il meccanismo delle deroghe che è previsto dalla vigente normativa possa essere messo in qualche modo in atto: mi riferisco alla deroga per il trasferimento da fuori regione. Non credo vi sia nessun amministratore pubblico — neppure io, forse, lo farei! — che voglia rischiare di farsi mettere alla gogna politica concedendo delle deroghe, specialmente a gruppi industriali, su questo fronte, correndo magari anche il rischio di essere accusato di qualcosa di peggiore!

Il problema, quindi, è di risolvere a monte la questione della provenienza dei rifiuti e del dimensionamento corretto degli impianti. Non può trattarsi, infatti, di impianti di piccola dimensione: anche la tesi che ogni regione possa autosoddisfarsi è un falso ideologico. Più gli impianti sono medio-grandi, più sono controllabili e facilmente verificabili.

Perché la gestione del rifiuti industriali possa diventare una realtà, nella nostra testimonianza, si richiedono alcune cose. In primo luogo — e scusate se può sembrare un’eresia — che il fatto decisionale su questo tipo di impianti venga allontanato dal livello locale. Più ci si allontana dal livello locale e più si ha la certezza che gli impianti si possano effettivamente fare; più ci si avvicina al tessuto locale e più (scusatemi il temine) ci si incasina. Potrà essere il Ministero dell’ambiente ad avere questa autorità, potrà essere un’Authority (chiamiamola come vogliamo), però rispetto all’ordinamento attuale forse è necessario fare qualcosa di diverso: il che non vuol dire una limitazione delle competenze regionali, perché alle regioni, ed agli enti locali, resterà sempre e comunque il compito del controllo. Controllo che deve essere serrato, costante, impegnato, affinché si sia sicuri che quello che si sta facendo non abbia impatto sull’ambiente.

Anche a livello di controllo forse sarebbe opportuna una semplificazione: nella nostra testimonianza, noi abbiamo la fila, alla porta del nostro impianto, di carabinieri, guardia di finanza, polizia, vigili urbani, guardie forestali, provincia (che poi è l’unica titolata a controllare), ai quali tutti non si può dire di no. Tutti hanno il sacrosanto diritto di entrare e controllare: ma sembra che sia diventata una specie di sport, a cui nessuno vuole sottrarsi!

In conclusione, credo che la soluzione industriale del problema dei rifiuti industriali richieda una revisione di tutti gli aspetti indicati, sempre nel rispetto dei sacrosanti standards ambientali, che sono irrinunciabili. Un imprenditore che voglia investire — e credo che ve ne siano di disponibili, ma avendo delle certezze, non in una situazione fumosa come quella attuale — per risolvere il problema deve avere, appunto, la certezza di trovarsi in una situazione di mercato libero, su cui giocare le proprie carte, le proprie tecnologie, le proprie capacità: magari avendo anche qualche premio in termini di (chiamiamolo così) bonus ambientale se conseguirà con i suoi impianti degli standards migliori di quelli che gli sono stati autorizzati. Oggi il mercato sembra, invece, essere non libero e ipercontrollato, anziché libero e controllato come dovrebbe essere.

In sostanza, la nostra esperienza è servita a noi stessi per farci capire che in futuro, in casi analoghi, sicuramente dovremo adeguare qualche nostro comportamento rispetto alla situazione, ad esempio facendo maggiore informazione, maggiore cultura. Anche questo aspetto della cultura deve essere gestito al di sopra delle parti da qualcuno che non è l’imprenditore. Rammento quel ciclo di spot fatti dalla Presidenza del Consiglio su tutta una serie di argomenti, denominati "Pubblicità-progresso", se non ricordo male, che parlavano del riciclaggio, del casco e di altre cose: ebbene, uno di questi argomenti potrebbe essere (perché no?) l’utilizzo della termovalorizzazione o dei combustori per lo smaltimento dei rifiuti. Credo che tornerebbe comodo sia all’ambito industriale che all’ambito pubblico: che comunque con questo tipo di impianti dovrà confrontarsi sempre. Infatti, se noi ci siamo indirizzati su questa strada e siamo una piccola parte dell’universo industriale, sicuramente altre decine di inceneritori dovranno nascere negli anni a venire. È chiaro che finché parliamo soltanto di deroghe alle discariche e cose del genere non ci si arriverà mai; però, prima o poi, bisognerà arrivarci.

Massimo SCALIA, Presidente della Commissione. La ringrazio. Volevo ricordare, visto che lei citava un passaggio della relazione, che abbiamo duramente contestato la sindrome di Nimby come Commissione, ricordando che vi sono però delle situazioni in cui le denunce e gli esposti che abbiamo sono del tutto giustificati. Ci sarà, poi, un qualche motivo per la sospettosità delle popolazioni.

Ci sono stati in passato — lo dicevamo — atteggiamenti troppo disinvolti, sia di amministratori, sia di imprese. Bisogna saper superare tutto questo sapendo che in Italia noi oggi abbiamo difficoltà a fare gli impianti di compostaggio, figuriamoci gli inceneritori! E non si possono fare con i carri armati! Però si riescono a fare: io citavo l’esempio della Calabria. In Calabria si faranno gli inceneritori (chiamiamoli così) e gli impianti di CDR a servizio: certo, dopo una conflittualità sociale forte, ma perché c’è stata l’azione di informazione capillare, di confronto quotidiano, con i comuni, con le autorità locali, con i cittadini. Io credo che questo sia imprescindibile.

La parola ora all’ingegner Natta.

Giuseppe NATTA, Consigliere delegato dell’Ecodeco. Utilizzo i miei cinque minuti per completare quanto dicevano Corazzari, Domenichini e Venturini a proposito dei rifiuti industriali. È un settore che conosco da venticinque anni. Noi, attualmente, abbiamo 18.500 clienti e smaltiamo quasi un milione di tonnellate. Diciamo quindi che abbiamo tanti dati sperimentali.

La cosa interessante — perché vi posso raccontare a consuntivo cosa è successo — è una storia che è stata risolta in gran parte dalle aziende: nel senso che, da quando smaltire i rifiuti è diventato costoso, le aziende si sono convertite. Ricordo che proprio alla Bocconi fu tenuto un convegno, nel 1979, in cui si formulò la previsione che i rifiuti sarebbero aumentati di dieci volte. In realtà, sono diminuiti ad un decimo: quindi la curva aveva un angolo giusto, ma un segno sbagliato! Questo per quale ragione? Perché le industrie si sono riconvertite, hanno cambiato i processi produttivi. È una storia che giustificherebbe un libro, un nuovo studio da parte delle associazioni industriali (che, tra l’altro, lo hanno fatto: la Federchimica ha scritto molto a tale proposito).

L’altro aspetto interessante è che anche il sistema dei rifiuti sta diventando efficiente. Abbiamo ad esempio un forno di incenerimento del 1979, che funziona ancora e però sta diventando obsoleto: nel senso che la diminuzione dei rifiuti e l’aumento dell’offerta sta provocando ciò che avviene in tutto il resto del mondo industriale. Si va, cioè, verso qualcosa di più efficiente. Un tempo era sufficiente poter smaltire, adesso bisogna poter smaltire guadagnando, quando gli altri perdono. Noi abbiamo un programma nuovo, di un forno di nuova generazione, e qui ci è di grande aiuto il CIP6, ossia la possibilità di avere un sistema di regolamentazione che permetta la vendita dell’energia ad un prezzo agevolato. Se non avessimo questo, non avremmo un sistema competitivo rispetto a sistemi magari meno efficaci (non uso la parola "abusivi" perché sarebbe eccessiva). Questo ci permette di essere efficienti, se noi arriveremo, nel nostro nuovo forno, ad incenerire i rifiuti ad un prezzo intorno alle 130 lire: che va paragonato al prezzo di 600 lire del 1979, quando abbiamo cominciato. Ciò vi dice quale enorme efficienza sta acquisendo l’industria in questo settore.

Così — purtroppo con grande ansia — sto cercando di modificare e migliorare tutti i nostri sistemi. Diciamo che, per agevolare l’efficienza, la libertà di movimento è un fattore importante, perché un centro efficiente in un posto rende inefficienti quelli degli altri siti. Diciamo che la pianificazione, divisa per bacini, è un modo positivo per esprimere il significato di produzione di monopoli. Il monopolio ha un significato negativo, la pianificazione ha un significato positivo, ma il risultato è lo stesso. Quando si pianifica, si libera il movimento delle merci, o dei rifiuti, che sono la stessa cosa, da possibilità di sopravvivere a ciò che localmente è inefficiente. Questo bisogna tenerlo ben presente. È chiaro: c’è molta gente favorevole a questo. Noi industriali siamo spesso contrari all’efficienza, perché è il fattore che rende obsolete le nostre imprese. Dico sempre che è raro che un imprenditore muoia ricco, perché l’innovazione tecnologica è più veloce, al giorno d’oggi, della vita di un imprenditore. Quindi, la cosa che temiamo è proprio la produzione di efficienza: tutto ciò che la inibisce, dunque, tra cui le leggi, a volte è a nostro favore. Ce ne lamentiamo, ma in realtà è la nostra salvezza. Dico la verità: se la Fiat avesse potuto operare con libertà, attualmente avrebbe impianti efficienti ed io sarei obsoleto da tempo…. Fortunatamente, ha un mucchio di grane, per cui io riesco a riconvertirmi con maggiore lentezza e forse arriverò prima della Fiat, che è più burocratica, sa fare meno con la gente, non riesce a colloquiare con il pubblico e di conseguenza è rallentata nella costruzione dei suoi impianti.

Dobbiamo anche tenere presente — e qui mi ricollego al concetto di rifiuto — che il concetto di rifiuto è un termine economico (se ne parlava poco fa), analogo al concetto di merce. L’unica differenza è che chi riceve una merce paga, chi riceve questo particolare tipo di merce è pagato. Di conseguenza, un materiale può essere rifiuto o merce a seconda dei casi. Il sistema europeo di definire i rifiuti attraverso una tabella è l’unico possibile, perché in un dato momento bisogna fare un elenco dei rifiuti: non c’è altro sistema. Fare una tabella significa dire: in questo momento i rifiuti sono questi. Ricordo che il problema dei rifiuti, rispetto alle merci, nasce proprio da questo. Perché l’oro, ad esempio, non dà problemi di smaltimento, rispetto alla plastica? Eppure, l’oro è inquinante come la plastica: si conserva per centinaia di anni, non inquina il suolo, semplicemente rimane a lungo in un posto. Il fatto è che, mentre tutti raccolgono l’oro, perché riescono a consegnarlo ad un orafo che lo usa, la plastica rappresenta un costo, perché bisogna metterla in un cassonetto o consegnarla a qualcuno. Di conseguenza, la plastica si dà volentieri all’ambiente, che per la sua passività è un ricevitore gratuito; un altro tipo di rifiuto, invece, lo possiamo dare a qualcuno che, essendo ricevitore di un’attività, ci paga. Questo è un concetto economico, qui siamo alla Bocconi e forse uno dei problemi maggiori nel campo dei rifiuti è che, occupandocene noi ingegneri, lentamente si è capito che il concetto di rifiuto è un concetto economico e non tecnico. Quindi il sistema di fare delle tabelle e dire che "al giorno d’oggi i rifiuti sono questi" è l’unico sistema possibile. E con questo ho concluso il mio intervento.

Massimo SCALIA, Presidente della Commissione. Debbo dire che il nostro convegno rischiava di essere un po’ pesante: lei ha provveduto a tirarlo un po’ su di spirito: la ringrazio molto!

Giuseppe NATTA, Consigliere delegato dell’Ecodeco. E di plastica ci se ne intende, in famiglia!

Massimo SCALIA, Presidente della Commissione. Ho il sospetto che il cognome Natta sia sufficiente! Do ora la parola al presidente dell’ANPA, Walter Ganapini.

Walter GANAPINI, Presidente dell’ANPA. Sono molto grato alla Commissione ed al suo Presidente, onorevole Scalia, ed al sottosegretario onorevole De Piccoli per l’invito.

Un primo tema: gestione industriale integrata. So che la Commissione ne è ben consapevole, tuttavia, essendo un europeista entusiasta e convinto, pongo un tema che dobbiamo avere ben presente: tra non molto, l’industria italiana non c’è più, in questo settore, avendo avuto delle punte di assoluta eccellenza nei decenni passati. Esiste quindi un tema generale di regolazione del mercato e della gestione dei rifiuti, esiste la necessità che il Governo ed il legislatore tengano in conto il fatto che sarebbe molto importante aiutare comunque il sistema paese a riposizionarsi, con adeguate politiche anche di rinnovazione, nel campo della ricostruzione di un patrimonio imprenditoriale.

Conosco benissimo ed apprezzo moltissimo l’imprenditoria che sta reggendo comunque la sfida ed è qui rappresentata dalla presidente Ferrofino e da Fise-Assoambiente, così come apprezzo il lavoro che fanno le ex municipalizzate, tutte in corso di trasformazione in società per azioni, per reggere lo scontro. Comunque, signor Presidente, bisogna chiedersi: esiste ancora un’industria italiana del settore, a parte Giuseppe Natta, che mi vanto di poter considerare amico da venticinque anni? Che cosa fare, allora, per un gestione industriale integrata dei rifiuti?

A me pare che non ci sia veramente nulla da inventare. Sta scritto, è nella gerarchia dell’Unione europea: leggerò con estrema attenzione il rapporto del professor Frey, che stimo moltissimo, ma credo che anche egli si sia attenuto a quello che è di fatto la gerarchia comunitaria, strutturalmente solidissima e dettata dall’area che in Europa, da sempre, dà il via, l’area del marco, l’area centro-settentrionale. Questa gerarchia, che ha valenza di gerarchia, dice: prevenire attraverso la riduzione all’origine dei flussi; recuperare materia, perché questo dice la termodinamica; recuperare energia, sotto forma di frazione che abbia un qualche valore combustibile presente nei rifiuti; e da ultimo smaltire in sicurezza (con un dettaglio di norme di contorno molto particolari) ciò che residua dalle tre prime priorità.

Se qualcuno dicesse che dobbiamo inventare l’acqua calda, io direi che siamo nella città che questa gerarchia applica, ancora oggi, con successo. Questa è, infatti, una città nella quale, comunque, non sarà più il 33 per cento, ma il 25 per cento di raccolta differenziata c’è, esiste un serio impianto di compostaggio, in un’ex area industriale molto importante esistono quattro stabilimenti, che trattano 2.000 tonnellate al giorno di rifiuti, e si sta realizzando un grande impianto di recupero di energia con preselezione, che sostituisce i due vecchi inceneritori. Globalmente, questa città è passata dall’emergenza all’autosufficienza più assoluta, nel silenzio più totale, nonostante tutte le tentazioni di strumentalizzazioni: parlo in casa di colui che poi ha presieduto l’azienda che ha gestito tutto questo, il professor Gilardoni.

Non c’è quindi molto da inventare. Su ognuno dei campi, la Lombardia per altro eccelle, da Bergamo a Brescia e così via.

I quattro punti, in concreto. Il primo. Come si fa a prevenire e a produrre meno rifiuti? Bisogna partire, certamente, dall’accettazione della sfida della qualità ambientale, di processi produttivi e prodotti, come sfida di mercato, come competizione sul mercato globale. Favorire, quindi, innanzitutto il ripensamento del flusso delle merci: e anche qui siamo nel luogo giusto. A Milano c’è il primo corso di laurea di disegno industriale, dove c’è il primo laboratorio in Italia di requisiti ambientali delle merci. Come ANPA, abbiamo favorito la diffusione di questo modello e stiamo finanziando i laboratori per i requisiti ambientali delle merci a Torino, a Firenze, a Pescara, a Napoli, perché si sviluppi, saldandosi con la straordinaria capacità italiana in ambito design e progettazione delle merci, la valenza ambientale relativa alle medesime, in modo da essere in grado di progettare ab origine le merci in funzione di quello che può essere il loro destino una volta esaurito il ciclo d’uso. Siamo nella città che ospita uno dei due clubs dell’eccellenza in tema di cultura industriale innovativa rispetto allo sviluppo sostenibile: a Milano ha sede il club dell’ecoefficienza, presso il Politecnico (so che la Bocconi sta pensando a qualcosa di simile e sono straordinariamente ben orientato al riguardo); l’altro, il Kyoto club, presieduto da Colomban, Danilo Tronchetti Provera e via discorrendo, ha sede nel prestigiosissimo nord-est, e dunque siamo in una delle zone dove vi sono questi punti di eccellenza. Bisogna dunque mettere innovazione anche nei processi di innovazione, di scelta dei processi produttivi, e così via.

Come si fa — secondo punto — a recuperare materia? Certamente attraverso la raccolta differenziata. Da questo punto di vista, esiste oggi, ed è in arrivo a tutti i sindaci, Presidenti di provincia e di Regione del nostro paese (sono partiti i cofanetti il 26 giugno scorso e stanno arrivando ovunque) il manuale per la progettazione e la gestione della raccolta differenziata, redatto da ANPA, con il supporto di punti di assoluta eccellenza — uno è presente in sala: il dottor Galli — che consentirà, in ogni luogo, di capire come si fa a fare questo mestiere, come si fa a progettare ed a gestire la raccolta: vetro, plastica, carta, alluminio, legno, l’organico, i rottami ferrosi, mono o multimateriale che dir si voglia. Si scelga il miglior metodo rispetto al tipo di conurbazione, al tipo di struttura del territorio: è tutto scritto, è tutto noto, è tutto modellizzato.

In questa sala, circa due settimane fa, assieme all’onorevole De Piccoli, abbiamo assistito alla presentazione di un primo rapporto straordinario CONAI-Bocconi sull’industria italiana del riciclo. È la prima volta che, finalmente, l’industria italiana del riciclo è stata studiata come industria, e come filiere: dalle materie prime ai cicli, all’occupazione, ai costi. Come ANPA, ci siamo impegnati con Bocconi e CONAI, a completare una pubblicazione, con Il Sole-24 Ore, che è diventato il nostro editore, affiche venga generalizzato questo concetto. Qui dentro, tutti i presidenti dei consorzi di filiera (e Bocconi ha detto che è così) hanno fatto presente di essere in deficit di materia prima, in quanto viene importata ancora carta, vetro, molto rottame ferroso; e dunque — è stato detto — bisogna massimizzare la raccolta differenziata ed il recupero, dato che buttiamo in discarica, stupidamente, materia prima utile per l’industria e l’occupazione di un grande paese trasformatore, quale l’Italia è da sempre in quanto povera di materie prime.

C’è un tema che incombe sul legislatore ed io mi auguro che si trovi in Parlamento la svolta necessaria: la precondizione che fa scattare tutto il meccanismo era, infatti, la nobilissima intuizione della tariffa rifiuti al posto della tassa. La tariffa rifiuti, infatti, serve a dare chiarezza allo schema dei costi industriali di gestione di un servizio, implementa l’attitudine del cittadino-utente ad impegnarsi nella raccolta differenziata, perché ogni chilo che va in raccolta differenziata è detratto, in quanto non più rifiuto, dalla tassa che pagherà. Questo è dunque un tema fondamentale e va rivisitato, come è stato dichiarato ancora ieri, in sede romana da parte di Assoplast. Va nobilitata anche la valenza, da parte del presidente dell’Osservatorio rifiuti, della tariffa come modalità essenziale di chiarezza industriale dei costi. Per fortuna centinaia di comuni sono partiti, a cominciare da Venezia, in fase sperimentale. Nel cofanetto che sta arrivando ai sindaci, Presidenti di provincia e Presidenti di regione, c’è anche il manuale ANPA, con il CD-Rom del piano finanziario attuativo, affinché chi lo vuole possa da subito decollare.

Rimangono due temi: l’organico e il combustibile. È totalmente evidente che sarà l’ingegner La Diega a trattare il tema dell’organico. A me compete solo di dire che ho ascoltato con straordinaria attenzione il presidente di Federambiente, Berro, sempre qui, farsi carico con grande forza di un tema di sistema-paese, rispetto alla sostanza organica. Cioè, il presidente delle municipalizzate aderenti alla CISPEL ha detto: sappiamo che esiste un tema desertificazione e di recupero di sostanza organica.

Prende atto dunque, un grande sistema di imprese, che questo Paese, non più per bubbole ma per convenzioni internazionali, da Cattolica a Santa Maria di Leuca, risalendo fino oltre i Campi Flegrei, ha tutto un sistema costiero in via di desertificazione più un imponente serie di aree interne che vanno dal Pesciatino pistoiese al Ferrarese e al Ravennate e così via. Dal punto di vista scientifico è a tutti noto che si va in predesertificazione quando si scende al di sotto del 2 per cento di sostanze organiche e dunque si assume da parte delle municipalizzate la sfida del recupero delle sostanze organiche per chiudere un circuito che altrimenti creerà problemi a non finire al limite della protezione civile perché terreni poveri e sempre più poveri di sostanze organiche diventano colabrodi rispetto alle falde sotterranee e così via.

Se dunque vi erano dubbi sull’utilità del recupero di sostanze organiche credo che ora siano totalmente decaduti; è del tutto evidente che è importante procedere alla raccolta in modo differenziato come accadeva un tempo solo a Milano ed ora in molti altri luoghi, ma va anche sfatato il tema (su questo con la Direzione generale XI nel mese di ottobre terremo un seminario europeo in Italia in vista della nuova direttiva compost) che non si possa recuperare sostanza organica da un flusso di tal quale. A parte il fatto che in Maserati ciò accade tutti i giorni, ma al di là di questo è totalmente evidente, ma questo vale per tutti i materiali, che anche nelle plastiche e nel vetro meglio sarebbe avere il polietilene da una parte, il pvc da un’altra, il pet da un’altra ancora, avere il vetro giallo separato dal bianco. Sarebbe ottimo, ma a volte accade che non si possa fare e addirittura si promuove la raccolta multimateriale che poi implica una separazione manuale e tecnologica a seguire. Anche nel campo dell’organico è scientificamente provato che si ottiene un materiale di assoluta utilità dal punto di vista del suolo attraverso la selezione meccanica e la successiva stabilizzazione.

Condivido molte delle preoccupazioni espresse dal Presidente Menini, però non sono d’accordo con la sua affermazione rispetto al CDR, nel senso che è uno dei tratti portanti del decreto legislativo n. 22 del 1997 (ancora una volta non è un problema di politica, né di ideologia, ma di termodinamica, di fisica e di termotecnica). Questo è un paese in cui si andava nei mercati e si raccoglieva il 95 per cento di frutta e verdura, andate a male, nelle cassette di legno, che poi veniva posta nelle fosse degli inceneritori creando percolato in fossa, spendendo energia per togliere l’acqua nel forno, producendo umidità relativa che poi per fenomeni di pseudocatalisi e pseudocondensazione sul circuito dei fumi rigenerava la formazione di composti indesiderati certamente con nessun contributo energetico. Bruciare l’organico è stupido, non lo fa nessuno; nelle nostre abitazioni nessuno di noi metterebbe nelle stufe, nei camini o nelle caldaie condominiali della frutta avariata composta per la quasi totalità da acqua.

Per logica, buon senso e per direttiva comunitaria il recupero energetico è il recupero della frazione che ha valenza energetica; quindi, un po’ di plastica, un po’ di legno, un po’ di tessuti, un po’ di carta. Posto x la produzione, meno 35 per cento la raccolta differenziata obiettivo al 2003 del decreto legislativo, uguale y; y fratto 2 uguale z, z va bruciato. Vuol dire che in Lombardia servono da 3 a 4 mila tonnellate al giorno di capacità di incenerimento su 9-10 mila tonnellate al giorno di produzione di rifiuti solidi urbani.

Il combustibile che può essere prodotto in Italia (massimo teorico) è di circa 10 milioni di tonnellate l’anno che a circa 4 mila chilocalorie per chilogrammo significa un costo per produrre questo combustibile da 70 a 85 lire al chilo, quando il carbone che l’ENEL compra sul mercato a 10 milioni di tonnellate l’anno a 5.500-6.000 chilocalorie al chilo costa 120 lire al chilo. Quindi, c’è un tema di produzione o di recupero della frazione energetica dei rifiuti e di sua utilizzazione in un paese notoriamente povero anche di materie prime energetiche.

C’è un importante punto di innovazione che vale per tutto il ciclo dei rifiuti; questo non l’ha prodotto Legambiente e neppure il WWF, ma la divisione cargo delle Ferrovie dello Stato che ci segnala che esiste mediamente almeno un 16.4 per cento di potenziale inutilizzato così stanti le reti, così stanti i convogli, che diventa del 30 per cento il lunedì, il 24 il martedì e così via discorrendo ritornando al sabato con una percentuale ancora più elevata come potenziale. Così come sta oggi la rete ferroviaria italiana e con il materiale che gira sulla stessa rete c’è un 16.4 per cento ancora da utilizzare. Per fortuna, grazie anche all’iniziativa del Presidente Scalia, del Comune di Roma, della Regione Lazio, eccetera, la divisione cargo sta stipulando finalmente contratti in tutta Italia per far decollare il trasporto ferroviario notoriamente migliore sul piano energetico, ambientale, della sicurezza.

Nel campo del combustibile il trasporto ferroviario è fondamentale perché come dice giustamente Cimoli il convoglio fa breecing and delivery, fa il magazzino viaggiante tra il punto di produzione del combustibile ed il destino finale che nel caso delle centrali dedicate, come dirò tra un attimo, ma anche su molti impianti centrali che possono andare in cocombustione ed anche su molti impianti dedicati, sono già legati alla rete, come lo era Maserati, mentre mancava un tratto di Lambrate per rendere possibile questa esperienza a Milano.

Nel luglio 1998 Pippo Ranci, Sergio Garribba e Giuseppe Massari hanno deliberato l’unificazione a circa 52-53 lire il chilowattora il conguaglio termico per l’ENEL che, vorrei ricordare, perde molto con il metano, con l’olio, un po’ meno con il carbone, mentre guadagna tanto con il Cdr, totalmente compatibile in co-combustione dal 10 al 30 per cento. In verità queste cose le dicevano il Politecnico di Milano, il CNR, Giacomo Elias, Giancarlo Chiesa fin nel 1978 nel progetto finalizzato "Energetica 1" del CNR, prove a Santa Barbara, centrale a lignite in Toscana con gli importantissimi servizi dell’ENEL di Pisa di allora.

Per quanto riguarda il recupero energetico non c’è dubbio che questo Cdr va bruciato per ricavarne energia termica ed elettrica; può essere utilizzato in impianti già esistenti, ed è il caso dell’ENEL per quanto riguarda Fusina mentre è pronto l’accordo di programma con Brindisi, ferrovie incluse, in modo che Brindisi sud accolga orientativamente 2.000 tonnellate al giorno di Cdr producibile in Regione Puglia, che sta cercando di reagire con forza alla situazione di emergenza. Ha reagito prima, si è data da fare sulla raccolta differenziata, sul compostaggio, ed ora con il prefetto Mazzitello sta spingendo verso l’ulteriore passaggio sul combustibile e così toglieremo 2.000 tonnellate al giorno alla Sacra corona unita, tendenzialmente grande operatore economico della zona. Lo stesso ragionamento vale per gli impianti dedicati.

Quando si dice che bisogna recuperare energia si dice l’una e l’altra cosa, c’è spazio per tutti; se una persona chiede a Walter Ganapini, non in qualità di Presidente Anpa, quanti impianti di recupero energetico vanno fatti secondo il suo parere nel nostro paese, fatto il famoso conto X–35%=Y/2=Z, dico che in Italia c’è spazio orientativamente per circa 150-180 impianti di recupero energetico di taglia minima 200 tonnellate al giorno, parte integrante della normale, corretta e pulita industriale gestione integrata dei rifiuti.

C’è poi un tema a se stante altrettanto buono che è quello dei cementieri dove vige il principio richiamato da Giuseppe Natta secondo il quale spesso vi sono già delle eccellenti eccezioni, penso a Robilante, al Gruppo Pesenti; nei cementieri in generale vi sono dei ragionamenti in base ai quali si ritiene di dover essere pagati in virtù di un’azione di smaltimento. No, signori, questo è un combustibile che sostituisce calorie che altrimenti comprereste sul mercato. Quando lavoravo con Umberto Colombo ho avuto la fortuna di stare qualche anno a Milano in stanza con Leonardo Biondi che il professor Vaccari ricorda bene. Biondi, liberista termodinamico in campo energetico, contrario ad ogni strategia dei prezzi amministrati, era favorevole ad una tecnica di under pricing e nello stesso tempo convinto che le imprese avrebbero dovuto tenere conto del fatto che non dovendo acquistare il combustibile da rifiuti devono acquistare qualche altra cosa.

Il Ministero dell’ambiente piano piano sta affrontando questo problema, ma non va dimenticato che i forni devono essere ben integrati all’interno di una strategia unitaria e che tra non molto vedremo i primi segnali di dumping sui prezzi per l’eccesso di potenzialità offerta sul mercato. In Lombardia quando si parla di questi problemi il pensiero di noi tutti corre a Rovato. Come è noto Brescia ha uno stand by combustorio forte che ostacola Marcegaglia che invece vorrebbe realizzare l’impianto di Rovato, perché probabilmente in quell’area c’è un eccesso di offerta di fuoco rispetto al potenziale produttivo.

Da ultimo: lo smaltimento residuo in sicurezza. Come tutti sanno è stata emanata la direttiva sulle discariche che prevede, come sapevamo, che il gestore della discarica è responsabile per 30 anni dalla fine della stessa degli effetti penali, civili, ambientali del sito medesimo, che occorre mettere da parte un fondo per il ripristino del sito e per la messa in sicurezza conclusiva, che bisogna deprivilegiare l’arrivo in discarica di rifiuti tal quali. Quello che dicevamo doveva accadere da anni, alla fine è accaduto.

Per concludere, vorrei spezzare una lancia in presenza dell’onorevole De Piccoli e del Presidente Scalia in ordine al tema degli inerti. Mi auguro che quanto prima si riesca a far decollare su questo tema l’industria italiana del settore che è pronta, che è forte e che vede anche i migliori dei cavatori, i quali si rendono conto che un recupero degli inerti da demolizione per certe attività, sottofondazioni, consente una vita più lunga alla loro risorsa primaria rappresentata dalla cava. Mi auguro che quanto prima si giunga all’accordo di programma per evitare di disperdere una risorsa.

Enrico BOBBIO, Presidente della Polieco. Intervenire dopo Walter Ganapini non è facile. Desidero innanzitutto esprimere un ringraziamento per la sensibilità dimostrata dal Presidente della Commissione ambiente e dai due vicepresidenti, senatore Specchia e onorevole Gerardini, nei confronti del nostro consorzio allorché l’anno scorso ci avete accolto in Commissione nella quale ci siamo autodenunciati in quanto carenti, non ancora operativi, ma con tutta una serie di implicazioni che hanno portato alla edizione del volume relativo alle sanzioni sul "Ronchi-quater".

Non intendo fare tutta la storia della vicenda, dico solo e lancio un messaggio alla sua sensibilità che il 1999 per il Consorzio Polieco è stato un anno di impostazione teorica del problema. Il 1999 è passato indenne grazie al costo della materia prima (il polietilene è giunto a circa 2.000-2.500 lire), che ha facilitato le operazioni di riciclaggio; attualmente il prezzo è in caduta e si presuppone che prima di settembre diminuisca di 300-400 lire il chilo. In questa condizioni siamo vicini al break-even della convenienza economica del riciclo e quando parlo di riciclo non mi riferisco a quello industriale. A questo punto è necessario che il consorzio abbia tutte le risorse finanziarie ed operative per poter far fronte a questo momento. Lancio questo accorato messaggio perché a settembre-ottobre se non decolleremo avremo dei problemi.

Luigi MUSI, Chemical engineer. Non credo di dover aggiungere molte cose a quelle per altro interessanti che oggi sono già state dette. Credo di dover riprendere un istante la relazione introduttiva del Presidente Scalia, per chiarire quello che a me sembra l’aspetto fondamentale. Non credo esista una via amministrativa concreta per combattere l’ecomafia se non si tagliano i mezzi di sostentamento di questo tipo di pratiche, cioè la confusione normativa, la disponibilità e circolazione di flussi di capitale difficilmente controllabili.

Da questo punto di vista credo abbia ragione Walter Ganapini quando dice che abbiamo un paese con una capacità trasformativa storica tradizionale, perché di questo abbiamo dovuto vivere non avendo risorse interne. Se queste capacità ci sono dovremo essere capaci di affrontare il mercato; quindi, il mercato delle materie riciclabili, così come quello del recupero energetico deve essere in grado di sostentarsi. Se finanziamenti vi sono è giusto che circolino nella direzione della capacità di controllo indiretto, cioè nella ricerca tecnologica, se di affinamenti in questo senso abbiamo bisogno, della capacità di diffondere una maggiore educazione nella gestione dei rifiuti, cosa sulla quale convengono tutti.

In questi settori sarebbe opportuno che le risorse fossero messe a disposizione, mentre sul versante delle materie da recuperare si dovrebbe giungere ad una situazione di autosostegno da parte di coloro che intendono investire. L’impedimento verso questo tipo di sviluppo non credo sia un problema di natura economica, ma di carattere normativo. Se le regole non sono chiare è difficile che un imprenditore investa nel medio e lungo periodo per realizzare un impianto di trattamento o di riciclaggio di materiali di rifiuto. Da questo punto di vista credo debba essere affinato e debba evolvere con rapidità un tavolo tecnico che non è quello che mi dice semplicemente che devo arrivare a recuperare il 35 per cento dei rifiuti; esisteranno delle realtà nelle quali è possibile recuperare il 50 per cento dei rifiuti e situazioni nelle quali recuperarne il 20 è già una soluzione miracolosa. Laddove ciò viene fatto con la giusta sensibilità deve essere comunque considerato soddisfacente. In caso contrario ci troveremo ad affrontare realtà distorte sulla base delle quali gli amministratori saranno comunque tenuti a correggere nei limiti del ragionevole e del possibile i dati per far vedere che sono riusciti a fare cose che in realtà diventano delle partite di giro. A mio avviso, ci sono oggi realtà paraindustriali di plastica recuperata, che viene poi lavorata in conto terzi a cifre dell’ordine delle 300 lire al chilo per la sola separazione pet bianco, pet colorato, dopo di che si dovrebbe ripartire per una ulteriore fase di trattamento. Se si fanno i conti dell’intero riciclo di questo materiale ci si rende conto che alla fine dal punto di vista economico ed ambientale il consumo di risorse è confrontabile con quello della partenza della materia prima. Vi sono altre realtà, come ad esempio quella del vetro o di certe frazioni della carta che danno risultati molto più interessanti ed incoraggianti. Credo si debba riuscire a tarare tutte le forme possibili di trattamento e smaltimento sulla base delle possibilità reali, altrimenti continueremo ad essere quel paese, come è avvenuto fino agli anni Settanta, che importava materie prime dall’estero, le trasformava tenendosi gli scarti e di ciò stiamo pagando lo scotto con realtà di una certa consistenza. Oggi corriamo il rischio di diventare un paese che raccoglie materiali di rifiuto da mezza Europa, trattenendo ancora una volta i rifiuti di trattamento o in ogni caso smaltendo i residui a paesi terzi, in un mercato difficilmente controllabile.

Giulio CAMBIUZZI, Rappresentante della Società Pellicano. Attualmente ci stiamo attivando per mettere in moto un sistema diverso da quelli normalmente utilizzati. Per la raccolta del materiale non utilizziamo cassonetti, ma contenitori sotterranei (larghi un metro e mezzo, lunghi tre metri) dotati di tramoggia; alle 22 inizia la fase della macinazione al termine della quale la polvere ottenuta mista ad acqua produce una poltiglia. Una volta alla settimana questi contenitori vengono svuotati utilizzando delle comuni cisterne.

Questa poltiglia liquida pompabile viene immessa nei pozzi vuoti di petrolio; in Italia abbiamo circa 1.500 pozzi disponibili tra quelli vuoti e quelli della ricerca. In realtà, i pozzi della ricerca sarebbero 6.000, ma quelli idonei allo stoccaggio di questa poltiglia sono circa 1.500.

Questa poltiglia una volta stoccata a qualche chilometro di profondità fermentando produce gas che può essere poi tranquillamente utilizzato. In questo modo siamo riusciti a dimezzare i costi dello smaltimento.

Con questa procedura abbiamo risolto il problema del pattume urbano; per quello industriale il processo utilizzato è diverso. Infatti, stocchiamo in tre pozzi diversi per problemi di incompatibilità delle reazioni chimiche. In Italia abbiamo pozzi molto grandi; addirittura in un pozzo sarebbe possibile stoccare il pattume del nostro paese per 300 anni.

Fino ad ora non abbiamo potuto utilizzare questo sistema in quanto il "decreto Ronchi" lo vietava a differenza della CEE.

In questo modo è possibile stoccare il materiale con un costo di 100-150 lire il chilo, con la possibilità del recupero del gas prodotto dalla fermentazione.

Con questo metodo si eliminano i cassonetti, le discariche, gli inceneritori e tutti i problemi che prima o poi si è costretti ad affrontare con le normali procedure di smaltimento utilizzate fino ad ora.

Per tutti coloro che sono interessati possiamo mettere a disposizione una video-cassetta e del materiale illustrativo.

Massimo SCALIA, Presidente della Commissione. Do ora la parola al sottosegretario De Piccoli per le considerazioni finali.

Cesare DE PICCOLI, Sottosegretario di Stato all’industria. Dobbiamo essere grati innanzitutto al Presidente, onorevole Scalia, non solo per questa iniziativa, ma per l’opera meritoria che sta svolgendo con la Commissione che presiede. Quella che sta portando avanti è un’attività incessante non solo nelle sedi istituzionali, ma in tutto il territorio con un’opera di promozione, divulgazione, orientamento su una tematica quanto meno complessa, conflittuale, che può essere affrontata con punti di vista diversi.

In questo nuovo incarico mi capita di partecipare ad una serie di iniziative di questo tipo in cui probabilmente rappresento l’ala dialettica di un ruolo che in maniera molto più importante viene affidato al Ministero dell’ambiente. Forse c’è anche un tentativo di "ambientalizzarmi" per rendermi partecipe e consapevole delle varie problematiche. Come ho ricordato in altre occasioni ognuno di noi prima di una certa data ha fatto qualche altra cosa; ho la fortuna di vivere in una cittadina in cui si attua la raccolta differenziata e in qualità di amministratore del Comune di Venezia nel 1986 ho disposto la chiusura dell’inceneritore di Sacca Fisola, di fronte alla Giudecca, perché produceva diossine.

La tematica, quindi, non mi è estranea.

Devo dire che resto sempre molto affascinato oltre che da una serie di interventi, dai quali si apprende sempre qualche cosa, dagli scenari che illustra Walter Ganapini, che quasi ci fa toccare con mano le potenzialità enormi che potrebbero esserci su questo fronte. Sappiamo tutti che la realtà di tutti i giorni purtroppo è più contraddittoria e coloro che hanno responsabilità politiche devono porsi il problema di realizzare un cambio di cultura che poi diventa costume perché non è sufficiente approvare solo delle leggi, sulle quali poi tornerò.

La premessa del ragionamento sta nel verificare se nel nostro paese c’è un’industria di gestione dei rifiuti; un paese con 60 milioni di cittadini consumatori, sesta o settima potenza industriale del mondo, che non dispone di un’industria di questo genere, è destinato alla bancarotta. Credo che il nostro paese disponga di un’industria di gestione di rifiuti, ha il dovere di averla, ma dobbiamo interrogarci seriamente sul cosa fare per averla a quel livello.

Siamo nella fase in cui è necessario cominciare a definire un corpus di regole e di comportamenti omogenei validi su tutto il territorio nazionale, altrimenti vivremo sempre di sperimentazioni e di fatti anche emblematici ma che non producono la necessaria massa critica. I fatti industriali non sono altro che regole economiche ben precise e quindi il business deve essere remunerativo. Questa regola qualche volta è stata sottovaluta, mentre una moderna, consapevole, matura cultura ambientalista e dello sviluppo sostenibile deve essere intimamente alleata a questo tipo di industria. Se non c’è un’industria che ne trae vantaggio economico vuol dire che siamo in presenza di un qualche cosa che non funziona, vuol dire che entrano in gioco le sovvenzioni dello Stato o altri meccanismi.

Quindi, oltre che un fatto di cultura industriale, che sempre di più deve essere meno "industrialista", deve avvenire un salto di cultura ambientale che sempre di più deve farsi carico di queste tematiche se vuol far crescere una cultura industriale e quindi una presenza industriale. Devono farsi carico di questi problemi proprio coloro che hanno una cultura ambientale.

Dico ciò perché possiamo anche dividerci presentando centinaia di emendamenti sul "decreto Ronchi-quater" sul concetto di rifiuto, ma la sostanza rimane; il rifiuto è ciò di cui ci si vuol disfare dal momento che non può essere riutilizzato e che può originare un mercato importante di materie prime e seconde, di cui abbiamo estremo bisogno. Da molto tempo si discute intorno alla definizione di questo concetto e su questi temi addirittura è stata instaurata una procedura di infrazione di fronte alla Comunità europea, anche qui con opinioni contrastanti.

Dal momento che i convegni servono per compiere passi in avanti, per consentire al "Ronchi-quater" di concludere il suo iter entro questa legislatura, dovremmo giungere ad una definizione consolidata sul concetto. Da questo elemento di certezza scaturiranno certamente moltissime conseguenze.

Nel corso di un precedente convegno l’Assovetro ha portato dei dati molto interessanti. Non c’è dubbio che alla base di qualsiasi ragionamento vi è il concetto di raccolta differenziata che in questo momento viene attuata per il 75 per cento al Nord, per il 18 per cento nelle regioni del Centro e per il 7 per cento in quelle meridionali. Se nel giro di x anni la raccolta differenziata non diverrà un modello sufficientemente diffuso sul territorio nazionale non avremo un presupposto fondamentale per realizzare un passaggio di organizzazione in ordine alle modalità di smaltimento o di riuso delle materie che qui venivano ricordate.

A questo riguardo c’è una responsabilità importante dei comuni e degli enti locali in generale e in un processo di decentramento federativo il rapporto con il territorio e l’esperienza delle amministrazioni diventa decisivo. La liberalizzazione dei servizi locali non è solo un problema di nuove modalità con cui procedere alle deleghe e quindi di modificare gli articoli 21 e 23 della legge n. 142, perché deve diventare qualche cosa di diverso. La trasformazione delle municipalizzate in spa non è solo un fatto giuridico e di modernità dal punto di vista del diritto societario, ma deve diventare anche un cambio di cultura che inglobi il concetto di tariffa, con un management diverso. Così come c’è stata la logica del monopolista di Stato, c’è anche la logica del gestore della municipalizzata ed allora una capacità competitiva anche a livello territoriale presuppone un salto di managerialità, di formazione, di management; probabilmente presuppone un rapporto diverso dell’ente locale che fino a ieri trovava comodo attraverso una municipalizzata di deresponsabilizzarsi di tutta una serie di incombenze che invece gli erano proprie e che in qualche modo devono tornare in campo dal punto di vista della capacità di indirizzo e di controllo.

Sono d’accordo con l’affermazione contenuta nella relazione dell’onorevole Scalia quando dice che nel nostro paese siamo sempre unilaterali. Questa mattina ho partecipato ad un convegno di industrie energivore che pagano il costo della bolletta energetica a livelli orami pesantissimi con interi settori produttivi che rischiano di andare fuori mercato rispetto ai concorrenti europei e quindi vedo con favore tutte le acquisizioni sul tema della termocombustione che non è più il vecchio inceneritore, ma un impianto moderno che non produce diossine e che dà un contributo importante per la bolletta energetica evitando di passare da un concetto che mandava tutto in discarica ad un altro che privilegia la termocombustione. Credo che una discussione matura e consapevole dovrebbe sforzarsi di trovare il giusto mix, non solo codificato per legge ma con una determinata organizzazione sulla quale impostare il sistema industriale.

Le ultime due considerazioni si riferiscono alle nostre competenze; del resto questi convegni rappresentano dei momenti di riflessione. Avviandoci al termine della legislatura consegneremo il testimone a chi ci sostituirà. Credo che si siano fatti passi importanti sul complesso normativo se è vero che stiamo abbandonando la cultura da far-west esistente nel nostro paese fino a qualche tempo fa. Provengo da una regione che fino a qualche anno fa, nonostante fosse la terza dal punto di vista dell’industrializzazione, non aveva un impianto a norma di trattamento e smaltimento rifiuti tossici industriali. Quando si sottolineano i ritardi non possiamo dimenticare la realtà dalla quale proveniamo e nello stesso tempo dobbiamo raccogliere la preoccupazione che proviene dal sistema delle imprese che vogliono diventare un settore su cui costruire un futuro imprenditoriale per migliaia e migliaia di imprenditori. Per fare questo è necessario un quadro legislativo di certezze che tuttavia necessita di alcuni adempimenti molto precisi. Alla luce del complesso delle norme esistenti è di tutta evidenza la necessità nel corso della prossima legislatura di predisporre testi unici; così come abbiamo fatto in altri settori ci troviamo di fronte ad un problema di semplificazione e di certezza normativa anche al fine di agevolare i rapporti tra l’amministrazione centrale e territorio e addirittura all’interno delle stesse amministrazioni. Credo che la certezza delle norme e la semplificazione delle stesse sia un punto importantissimo, così come è indispensabile un maggiore raccordo tra la produzione legislativa nazionale e quella regionale. Non è vero che bisogna essere originali a tutti i costi elaborando norme diverse da quelle esistenti; un simile comportamento a volte produce solo confusione.

Sulla base dell’esperienza fatta nel Parlamento europeo, (per un certo periodo ho fatto parte della Commissione ambiente) voglio sottolineare l’importanza di recepire le direttive comunitarie che non devono necessariamente essere modificate. In tema di trattamento dei rifiuti pericolosi provenienti da operazioni di bonifica l’esperienza ci dimostra che molto spesso siamo nella necessità di prevedere delle proroghe. Nei casi in cui ciò si verifica non credo che l’amministrazione dia un buon esempio. Il nostro paese parte da una situazione talmente arretrata in tema di trattamento di rifiuti rispetto ad altri paesi europei che recepire bene le direttive europee rappresenta un risultato importantissimo. Quando faccio queste affermazioni ho ben presente la realtà di alcuni settori industriali (penso al legno, al vetro) che in questo modo si trovano in una situazione di svantaggio rispetto ad altri paesi. Mentre noi auspichiamo alcune direttive sulle materie prime e seconde, altri paesi resistono perché le loro industrie non sono pronte per le scadenze previste e si dimostrano pronte a chiudere i tavoli tecnici solo quando ciò fa loro comodo. Cominciamo anche noi a fare un po’ un gioco di squadra. Delors ce lo ha insegnato: l’Europa non fa finire gli interessi nazionali, almeno per tutta una stagione storica. Ed allora da questo punto di vista credo si debba prestare attenzione a quello che si muove in termini di rapporti con la Comunità. Non voglio apparire revanchista, ma non è un caso che nella direzione n. 11, sull’ambiente, non sia presente alcun italiano, mentre vi sono tre francesi, tre tedeschi, due inglesi. Molta parte di queste direttive la fanno i funzionari delle varie amministrazioni sui tavoli tecnici e non nel Parlamento europeo dove i giochi sono già fatti ed è necessario essere presenti in maniera concertata. Ho approfittato della presenza del ministro Mattioli per impostare una concertazione e presentarsi "chiusi" a Bruxelles.

Concludo, sottolineando l’opportunità di utilizzare la finanziaria, che rappresenta un’occasione significativa, ma non dal punto di vista elettoralistico, per avviare un’efficace politica in questo settore. Devo dire che trovo curiosa una polemica di questo genere, soprattutto se mossa nei confronti di forze politiche che nei primi tre anni della legislatura hanno approvato manovre finanziarie per 120 mila miliardi. Da questo punto vista sarebbe ben strano non cogliere fino in fondo questa opportunità per favorire un processo di ripresa che è in atto nel paese, assecondarlo e cominciare a distribuire il dividendo di questo vantaggio. Non c’è niente di elettoralistico in tutto questo; ma soprattutto non dobbiamo mai dimenticare che i sacrifici fatti negli ultimi quattro-cinque anni sono stati sopportati dagli italiani e non dal ceto politico. Tanto meglio se possiamo approvare una finanziaria che metta in condizione il paese di essere competitivo e nello stesso tempo consegnare il paese, alle forze politiche che saranno chiamate a governarlo, in condizioni migliori rispetto a quelle in cui si trovava nel 1996. Sarebbe auspicabile, in questa fase finale della legislatura, anche con il ruolo non secondario del Presidente Scalia, raggiungere alcuni traguardi sia nel rapporto tra il Ministero dell’ambiente e dell’industria e nella collegialità di Governo, rispetto ad alcune preoccupazioni che qui venivano richiamate.

Massimo SCALIA, Presidente della Commissione. Chiudiamo in bellezza con il professor Vaccà.

Sergio VACCÀ, Direttore IEFE Bocconi. Sento il dovere di ringraziare la Commissione presieduta da Scalia, che ci ha aiutato in modo determinante nell’organizzare questo convegno e sento di dover ringraziare a nome dell’Università Bocconi e dell’Istituto di economia delle fonti di energia, tutti gli amici che hanno partecipato alla discussione o come relatori, penso ai ricercatori, penso a Ganapini, Natta, al sottosegretario che ha parlato da ultimo.

Dal nostro lavoro credo siano emersi interessanti quesiti ed obiettivi che senza dubbio contribuiranno a far crescere non solo la cultura, ma anche la volontà intesa a migliorare la situazione dell’igiene urbana ed in genere della raccolta e del trattamento dei rifiuti urbani nel nostro Paese. Io mi auguro che lo IEFE possa tra un anno fare un altro rilancio come quello di oggi, perché quella odierna è stata un’esperienza particolarmente felice. Devo dire che in questi trenta giorni questo è il terzo convegno che lo IEFE organizza qui. Ne abbiamo tenuto uno importante sulla crisi del lavoro e del sindacato, ne abbiamo tenuto un secondo con Mario Monti sulla liberalizzazione del mercato dell’energia elettrica e del gas, abbiamo tenuto oggi il vostro, adesso chiudiamo per le ferie e per riposare un po’ e far riposare anche le nostre figliole e i nostri ricercatori. Vi ringrazio di cuore e penso che abbiamo fatto tutti insieme un lavoro utile, che servirà senz’altro per far progredire le idee e anche l’azione di cui abbiamo bisogno. Il sottosegretario ha fatto dei riferimenti abbastanza precisi anche ai nostri rapporti in ambito comunitario, che ci esortano ad essere ancora più attivi e più impegnati in questa direzione