Michele Pinto, Presidente della Commissione giustizia del Senato della Repubblica. Ho accolto con doverosa prontezza e puntualità questo invito, in quanto esso rappresenta per me l’occasione non soltanto di portare una testimonianza (come, in maniera precisa e brillante, ha testé fatto il dottor Ceglie) e di tentare di dare un contributo, ma soprattutto quella di ricevere indicazioni sui doveri che ci aspettano. Guardo a questo importantissimo forum e al suo titolo — nonché alle conclusioni cui si dovrà pervenire — da un lato con la continuità delle responsabilità, che sono cessate qualche mese fa, come Ministro delle politiche agricole, dall’altro con le responsabilità connesse al ruolo di Presidente della Commissione giustizia del Senato, richiamato prima dal Presidente Scalia.

Credo che questa sia un’occasione molto importante. Vorrei portare qui anche una testimonianza della mia lunghissima esperienza parlamentare, nel corso della quale ho appreso che, tutte le volte che in Parlamento (e questo possono confermarlo sia il Presidente che gli amici e colleghi senatore Lubrano Di Ricco ed onorevole Procacci, presenti in sala) nasce una Commissione parlamentare d’inchiesta — solitamente proposta dall’opposizione, dalla minoranza — questa viene accolta sempre con un senso di fastidio, come se fosse una molestia, in quanto crea problemi a chi governa, e, contestualmente, sottrae compiti alle commissioni ordinarie, accrescendo in tal modo il lavoro complessivo dei parlamentari. Tuttavia, c’è da dire che, una volta istituite, le commissioni d’inchiesta svolgono come sempre lodevolmente il proprio lavoro, terminando il loro ciclo con la consegna delle proprie conclusioni.

Vorrei ricordare che la Commissione d’inchiesta non ha concluso i propri lavori con il documento, brillante ed importantissimo, che il senatore Lubrano Di Ricco ha redatto e che è stato approvato — credo — all’unanimità dalla stessa Commissione, ma continua il suo lavoro, attraverso una sensibilizzazione che vuole essere un modo per ricordare a ciascuno lo spessore accresciuto — perché più consapevole — dei propri doveri.

È su questa scia che intendo formulare qualche brevissima osservazione. La prima — che vorrei indirizzare anche al dottor Ceglie — riguarda il fatto che molto spesso ci interroghiamo, talvolta ripetendoci (ma non è il suo caso), sulla drammaticità, in qualche caso sulla irreversibilità del grado di sfacelo dell’ambiente, cercando di capire quali siano state le ragioni che hanno determinato tutto questo.

Credo di non scoprire l’America o l’acqua calda quando attribuisco al notevole ritardo, con cui la tematica ambientale è giunta all’attenzione e al senso di responsabilità del nostro paese, la causa dello sfacelo ambientale, il che, di conseguenza, impone la necessità e l’urgenza di recuperare, sia a livello di istituzioni, sia soprattutto di pubblica opinione, quella consapevolezza, che nel passato è andata sostanzialmente dimenticata. Non vorrei dare dati, conosciutissimi da un’Assemblea così qualificata, ma vorrei ricordare che il Parlamento, dopo reiterati e falliti tentativi, fatti a cavallo tra l’undicesima e la dodicesima legislatura, ha finalmente approvato la prima legge sulle aree protette e vorrei ricordare che il primo disegno di legge, relativo a questa tematica, risale al periodo in cui Benedetto Croce era Ministro della pubblica istruzione. Venendo da una provincia ed avendo rappresentato, per quattro legislature, un collegio elettorale che comprendeva al suo interno ottanta piccolissimi comuni, conosco bene le conseguenze legate all’indicazione di un’area protetta, con il conseguente e immediato regime vincolistico, mentre gli interventi provvidenziali di sostegno vengono tardi e mal si conciliano con il primo impatto dell’area protetta. Ebbene, nelle aree protette sorgevano i comitati contro il parco, come retaggio di una certa mentalità, adusa ad intendere il diritto di proprietà di fondi, rustici e non, come sovrano e certamente non contenibile. Credo che questa sia la ragione, se non sostanziale, almeno principale di certi ritardi. Tuttavia, vorrei parlare anche di un’altra verità che è insita nella nostra Carta costituzionale, che è tra le migliori del mondo ed imitatissima tra le democrazie che avanzano. Nella prima parte di essa, che si dice immodificabile e intangibile, ci si è però distratti rispetto al problema fondamentale dell’ambiente, nei confronti del quale vi sono dei cenni che occorre ricavare, in quanto non esplicitati, né in termini prospettici, né soprattutto in termini immediatamente precettivi e vincolanti.

Ritengo che la Commissione abbia ragione quando sostiene che il quadro dell’attuale legislazione sia non solo omogeneo, ma addirittura anche scarsamente o per nulla coordinato. Non intendo soffermarmi su considerazioni relative all’entità e alla irreversibilità del danno ambientale e di sua ricaduta in termini di danno ambientale e di salute pubblica, in quanto questo è già stato efficacemente accennato ed un mio intervento in tal senso si rivelerebbe inutile, ripetitivo, ultroneo e addirittura noioso, mentre vorrei fare un riferimento al problema relativo al sistema sanzionatorio (anch’esso oggetto, stamani, di una serie di interventi e di una brevissima, ma efficace ricapitolazione, che il Presidente ha avuto l’amabilità di riferirmi).

Sappiamo tutti quanto il sistema sanzionatorio sia, in effetti, prevalentemente basato su un sistema contravvenzionale e questo in un momento in cui si discute addirittura se mantenere o meno la figura giuridica della contravvenzione all’interno del nostro codice penale. Esiste una istanza molto forte verso l’eliminazione di essa, perché non si individua ancora la ragione sostanziale se non attraverso le pene che sono previste, cioè l’arresto e l’ammenda, la reclusione e la multa. Tuttavia, a prescindere da questi riferimenti, è utile poter dire che la proposta di colmare queste lacune, di individuare e definire determinate fattispecie criminose, avanzata dalla Commissione, costituisce un fatto di grande utilità. Gli amici del gruppo verde del Senato hanno esperito il tentativo — per altro, nobilissimo e generoso — di inserire nel disegno di legge sulla depenalizzazione dei reati minori, che è ancora in corso di discussione e che sta incontrando difficoltà ( l’intera giornata di ieri, per esempio, è stata spesa per approvare due articoli e mezzo ed essendo poi mancato il numero legale, alle 19, si è deciso di sciogliere la seduta), nuove figure criminose non marginali, ma di grosso rilievo,quali l’individuazione del concetto di ecomafia, dell’associazione per delinquere a scopo ecomafioso, e via di seguito.

Senza voler anticipare le conclusioni alle quali spetterà al Senato dover pervenire, in questa sede sarà difficile giungere alla valorizzazione di queste figure criminose, pur senza deflettere dall’indicazione di alcuni emendamenti che portano la firma del senatore Lubrano Di Ricco e che io condivido (mi riferisco a quelli relativi alla compressione ed alla riduzione dell’area di depenalizzazione, soprattutto nel settore ambientale). Questo non significa certamente che occorrerà stralciare tutto e dimenticarsene. Ritengo infatti che grazie ad un impegno molto preciso — formale e sostanziale — l’intera problematica, e non soltanto quella sanzionatoria, troverà all’interno del Parlamento l’occasione e lo spunto di un dibattito approfondito, ma soprattutto vicino, in maniera che le risposte possano essere coerenti e soprattutto adeguate. Tuttavia, mi chiedo ancora, consapevole di non poter abusare della cortesia di quanti in questo momento mi onorano della loro attenzione, se sia possibile — ed in questo ha ragione il consigliere Ceglie — aspettarsi che la risposta ai così gravi problemi della turbativa ambientale e della salute pubblica sia soltanto quella giudiziaria o non occorra fare meglio e di più rispetto al passato.

Ritengo che su questo punto non ci sia molto da inventare, perché so anche che chi è chiamato a rivestire una funzione altissima come quella del magistrato sia portato a cogliere le insufficienze e talvolta anche le inadeguatezze della legislazione. Tuttavia, non bisogna dimenticare (e affermo ciò per darvi forza o anche per esprimere un auspicio e un augurio) che in pochissimi anni sono stati compiuti passi consistenti e notevoli e che vi sono punti di riferimento per quanto riguarda la restituzione di questo riconoscimento e di questo merito. Senza creare gerarchie nel ricordo, mi riferisco alla sensibilità di determinati gruppi di associazioni, che nel loro impegno quotidiano, legislativo, politico e sociale indicano la tutela dell’ambiente come bene primario. Non bisogna dimenticare nemmeno l’impegno delle forze dell’ordine — così autorevolmente testimoniato in questa sala — alle quali dobbiamo i risultati consistenti a cui siamo pervenuti. Si è trattato di un’attività ancora più faticosa se si pensa al fatto che esse hanno lavorato in un settore che fino a poco tempo fa poteva essere considerato nuovo, acquisendo una professionalità, una capacità e un impegno additivi rispetto ad altri, in quanto nessuno, tra i rappresentanti delle forze dell’ordine qui presenti, svolge solo ed esclusivamente la funzione di tutela ambientale.

In qualità di Ministro per le politiche agricole, ho avuto occasione di occuparmi del Corpo forestale dello Stato (tra l’altro, sono lieto di vedere il Vicedirettore generale del Ministero, il dottor Caruso, che è anche tra i relatori) e posso dire di aver sostenuto, per due anni e mezzo, una difficile battaglia — che non ho ancora vinto, ma neppure perso — contro quanti auspicavano lo spezzettamento e la regionalizzazione del Corpo forestale dello Stato. Si era pensato di distribuire i 6.500 addetti al Corpo forestale dello Stato tra quindici o sedici regioni — le altre hanno già un proprio corpo regionale — in modo di creare tanti piccoli corpi forestali al servizio delle singole regioni. Non ho mai misconosciuto l’importanza del ruolo svolto dalle regioni, soprattutto riguardo ai compiti istituzionali ad esse assegnati dalla Carta costituzionale e dalle leggi che ne sono un’emanazione, tuttavia credo che in questo settore, mai come in questo momento con l’auspicio di un coordinamento, sia giusto — ed è bene farlo — riconoscere al Corpo forestale dello Stato il merito che gli spetta per aver svolto un’azione di collaborazione con la Magistratura e le altre forze dell’ordine: è un apporto, questo, che a mio avviso non può e non deve essere assolutamente considerato secondario.

Quando, poco prima, parlavo di passi in avanti, intendevo riferirmi anche a quello effettuato sul piano legislativo ed in particolare, per esempio, prevedendo la possibilità per lo Stato del sequestro. Giustamente, poc’anzi sono state individuate e lamentate non solo carenze e dissonanze, tanto che alcune infrazioni vengono trattate con una severità eccessiva rispetto al concetto di libertà, ma anche dimenticanze, tolleranze, abulie rispetto ad altri interessi, che pure sarebbero meritevoli di maggiore attenzione. Per nostra fortuna, la legislazione non si chiude e le legislature non si comprimono, e questi sono fenomeni molto interessanti: va detto, però, che qualche occasione è andata perduta, come è avvenuto per esempio nel caso della legge del dicembre 1998, che ha modificato la legge istitutiva delle aree protette (cui, prima, facevo riferimento) e che contiene già qualche norma auspicata dalla Commissione, nel senso che determinati benefici possono essere condizionati a determinati comportamenti, che esprimano non soltanto riparazione attuosa, ma anche la restituzione dell’area vulnerata nei termini originari. Certamente avremmo potuto fare di più, anche se ciò non significa che questo di più non possa o non debba essere fatto.

Vorrei fare un ultimo riferimento, prima di concludere. Quando, soprattutto da parte delle forze dell’ordine e della Magistratura, che con sensibilità crescente su questo problema stimola il Parlamento e raccoglie le indicazioni, anche quelle delle parti più sensibili delle associazioni impegnate in questo settore, si parla di “legalità organizzata”, un’espressione che, pur essendo molto sintetica, esprime tutto un programma e che va ascritta a merito del procuratore Vigna, lo si fa per contrapporre tale legalità organizzata alla illegalità organizzata diffusa sul territorio, nel senso che non ci deve essere un granello di sabbia sottratto alla presenza dello Stato e delle istituzioni. Tuttavia, va detto che arriviamo sempre, purtroppo, con un qualche ritardo, anche se qualcosa si fa.

Vorrei portare una testimonianza di un fatto che si è realizzato nella mia provincia e ascriverla a merito della Legambiente, come riconoscimento non solo per quello che ha saputo proporre, ma anche per ciò che ha saputo realizzare. Il 15 febbraio scorso (non mi riferisco ad anni fa, ma a pochi giorni fa, ad una settimana fa, per l’esattezza) è stato presentato il rapporto sulla provincia, che costituisce un’emanazione ed, in parte, un segmento del rapporto più ampio del 1998. Non vorrei infastidire questo uditorio declamando dati, ma uno è molto importante e si riferisce alla crescita continua delle indicazioni della violazione della legge, il che dimostra, da un lato, l’attivismo e la capacità di quanti sono preposti alla individuazione delle irregolarità e quindi alla loro denuncia, ma, dall’altro, anche il fatto che l’atmosfera non si sia ancora calmata o sopita.

Colgo l’occasione per salutare il carissimo Ministro Ronchi ed augurargli il risultato che merita, per la sua capacità, per quanto ha fatto e continua a fare, per il suo impegno.

Lo stesso rapporto fa riferimento ad una iniziativa molto importante, che è già partita (non so se realizzata anche in Basilicata), quella relativa all’osservatorio sulla criminalità ambientale. Esso, che ha sede presso l’amministrazione provinciale, ha attuato un coordinamento, che forse non spetterebbe neanche all’amministrazione provinciale. Credo che sia certamente presente qualche rappresentante di Legambiente, al quale, accanto all’apprezzamento che io rinnovo, vorrei rivolgere una sollecitazione ed una preghiera. All’interno di questo coordinamento, è prevista la presenza di tutte le forze dell’ordine — nessuna esclusa e tutte capaci — quella delle associazioni ed anche dei sindacati (tutti portatori di sensibilità ed impegno), nonché quella del Procuratore della Repubblica di Salerno. Tutto questo mi sta bene, tuttavia mi chiedo se, accanto al procuratore di Salerno (dal momento che questa provincia è onorata di ben quattro presîdi e quattro tribunali), non sia il caso di includere all’interno di questo coordinamento anche i procuratori della Repubblica come persone e come istituzioni, nonché quelli dei tribunali cosiddetti periferici, i quali non per questo hanno meno problemi: anzi, talvolta, l’essere periferico rispetto al centro costituisce l’occasione, per gente senza scrupoli, di realizzare con maggiore facilità il proprio risultato.

In conclusione, vorrei sottolineare ancora una volta che ci troviamo di fronte al compito enorme di superare l’emergenza, un compito questo al quale non si può, né si deve rinunciare. Non occorre che in proposito io ricordi indiscutibili testimonianze, quali quella relativa al documento del Governo Prodi dell’8 agosto 1998, redatto con parole di fuoco, severissime, che, proprio perché espressione dei vertici del Governo, esprimono quella consapevolezza, nonché il rapporto del dicembre 1998, redatto dal ministro dell’interno e centrato sullo stesso argomento. Voglio dire che non abbiamo più nulla da apprendere e che, da questo momento in poi, occorrerà passare alle vie di fatto e ciò non soltanto attraverso l’azione giudiziaria, ma anche attraverso la prevenzione, che è ancora possibile e, anzi, più doverosa di prima.

Massimo Scalia, Presidente della Commissione. Ringrazio il senatore Pinto. Adesso chiedo di intervenire al generale Blasi, dell’Arma dei carabinieri, in modo di alternare voci provenienti da diverse esperienze.

Claudio Blasi, Comandante della III divisione dell’Arma dei carabinieri. Esprimo anzitutto un indirizzo di saluto da parte del signor comandante generale dell’Arma, che qui rappresento, e la soddisfazione che proprio a Napoli, città unica per il suo scenario naturale, venga trattato un tema così importante per il futuro della nostra terra e quindi delle generazioni che ci seguiranno.

La materia è complessa ed affascinante, con implicazioni rigorosamente scientifiche ma con tante reminiscenze classiche.L’Arma dei carabinieri ha dato e dà un importante contributo alla prevenzione ed alla repressione degli abusi ambientali, spendendo con ragionata consapevolezza non poche risorse della propria linea territoriale ed il suo reparto settoriale di punta: il Nucleo operativo ecologico.

Entrando direttamente nel tema, mi pare pleonastico ma non inutile ribadire come il crimine ambientale costituisca, oggi più di ieri, una minaccia per le condizioni della salute e della sicurezza pubblica e travalichi da tempo gli stessi confini nazionali, ponendosi quale problema per l’intera collettività internazionale.

Il fenomeno, oltre a manifestarsi attraverso le attività della criminalità organizzata, richiamata dagli ingenti profitti, racchiude anche tutte quelle situazioni di corruzione diffusa, di imperizia, di mancanza di scrupoli e di carenza di controlli che spesso invogliano alla violazione delle regole chi sia proiettato alla ricerca di facili guadagni.

Si tratta, in sintesi, di una realtà complessa nella quale le organizzazioni mafiose e non, talune società specializzate, imprenditori spregiudicati ed amministratori locali a dir poco disinvolti operano autonomamente o in concorso tra loro, provocando il dissesto del territorio con danni talvolta irreparabili.

L’esame dei dati statistici offre la conferma di come l’inquinamento, nelle sue varie forme, continui a rappresentare una realtà tragicamente presente nella società contemporanea, nonostante l’attenzione crescente mostrata dalle pubbliche autorità, la normativa conseguentemente introdotta e l’accresciuta sensibilità dell’opinione pubblica.

Per limitarmi ai numeri più significativi relativi agli accertamenti svolti dall’Arma, nell’anno testé trascorso ben 3549 sono state le violazioni rilevate nel settore dell’inquinamento da rifiuti solidi e 2642 quelle connesse ai rifiuti liquidi; 322 le inosservanze registrate in materia di inquinamento atmosferico e 86 da rumore; 965 le infrazioni alla normativa paesaggistica ed ambientale.

Ma, dato ancor più allarmante, anche se espresso in piccoli numeri, sono i 27 casi accertati di maxi inquinamento ad opera di raffinerie, stabilimenti petrolchimici e fabbriche a rischio e 15 le violazioni in tema di rifiuti radioattivi.

È un panorama davvero avvilente, che non può che mobilitare le coscienze.

Di grande valenza è il coinvolgimento dei sodalizi di stampo mafioso soprattutto nel trasporto e nello smaltimento dei rifiuti. In tale settore un sistema legale rivelatosi inadeguato ed una minore coscienza ecologica hanno di fatto favorito la criminalità organizzata ed in particolare la camorra campana, che per anni ha gestito e continua a gestire un flusso enorme di rifiuti dal nord al sud del paese con metodologie imprenditoriali ed ingenti profitti. Prova ne è il recente rinvenimento nell’alveo dei Regi Lagni di numerosi sacchi, per oltre cento tonnellate di scorie di fonderia, stoccati da una ditta di Brescia e lì abbandonati da trasportatori in via d’identificazione.

Questa spregiudicatezza ha prodotto effetti devastanti, talvolta insanabili, con l’inquinamento delle falde acquifere, emissioni gassose o di polveri in atmosfera quando non anche la riconversione a coltura dei terreni e cave già abusivamente usati come discariche, come ricordava questa mattina il Presidente, onorevole Scalia.

Strettamente correlato all’improprio utilizzo delle cave si è rivelato il cosiddetto “ciclo dei cemento“, con la sua attività estrattiva e di movimento terra, talvolta selvaggia, che per associazione di idee richiama l’abusivismo edilizio. Gli effetti sono deprimenti. Chi ha la ventura di sorvolare l’area vesuviana o il litorale domizio nel tratto terminale del Volturno e dei Regi Lagni ha l’immediata percezione dello scempio della natura provocato dalle migliaia di costruzioni irregolari e dalle numerose cave (419 censite nella sola Campania). Poco fa il sostituto procuratore di Santa Maria Capua Vetere ricordava il numero delle cave della provincia di Caserta: nella Campania ce ne sono complessivamente il doppio. È facile allora immaginare anche i conseguenti scompensi idrogeologici, che unitamente ad un eccesso di cementificazione del territorio costituiscono causa non ultima di sempre più frequenti fenomeni alluvionali.

Ho già fornito alcuni dati relativi al traffico accertato di materiale radioattivo nucleare ed all’allarmante incremento di esso negli ultimi tempi. Questa nuova realtà rende ipotizzabile una serie di scenari a rischio, tra i quali il prevedibile inserimento della criminalità organizzata. In tale contesto s’inquadrano alcuni recenti sequestri di partite di materiale fissile, come quello operato dai carabinieri a Roma, lo scorso gennaio, di un contenitore d’acciaio che custodiva sette barre di materiale identificato in cobalto 60 ed una sorgente di cesio 137, la cui attività è stata misurata in 1500 curie.

In collaborazione con l’Agenzia nazionale per la protezione dell’ambiente, l’Arma ha avviato una vasta attività di vigilanza presso le aziende metallurgiche, al fine di evitare l’avvio alla fusione di materiali provenienti dallo smontaggio di centrali nucleari dei paesi dell’est. Nel biennio 1996-97 la sola dogana di Gorizia ha respinto 268 vagoni ferroviari, giunti dall’Europa orientale, che trasportavano rottami ferrosi contaminati.

Altre peculiari forme di rischio per il nostro paese sono rappresentate dall’emissione nell’atmosfera di sostanze nocive e dalla commercializzazione clandestina dei gas banditi dalle convenzioni internazionali perché dannosi all’ozono, quali gli halons ed i clorofluorocarburi, meglio conosciuti come CFC. Gli accertamenti svolti hanno posto in luce tra l’altro una rete di traffici illegali verso il Belgio e gli Stati Uniti d’America da parte di numerose aziende autorizzate al recupero ed alla termodistruzione di tali sostanze.

Negli ultimi mesi dell’anno scorso inoltre l’Arma, in collaborazione con la polizia olandese, ha neutralizzato un intenso traffico di CFC prodotti nella Repubblica popolare cinese. L’organizzazione, nel solo 1998, aveva importato clandestinamente undici containers, ciascuno con mille bombole da 13 chilogrammi (per un totale di quasi 150 tonnellate) di CFC destinato ad aziende italiane, che operano nel campo della refrigerazione e del condizionamento dell’aria.

In tale delicato settore effetti decisivi possono essere conseguiti solo se i paesi più industrializzati avranno la forza e la volontà di rendere operativi gli impegni previsti dal protocollo di Kyoto.

Non mi soffermo oltre, in quanto i dati che ho fornito e tutto quello che abbiamo già sentito e sentiremo sulla minaccia dei danni da ecomafia rappresentano un ben sufficiente e purtroppo reale motivo di allarme e di preoccupazione.

Prima però di procedere, vorrei richiamare l’attenzione su un altro pericolo, che ritengo persino più dannoso, perché più radicato e subdolamente sottile, della minaccia rappresentata dalla criminalità organizzata. È quello che ogni giorno, furbescamente ed incoscientemente, uno, cento, mille soggetti, che mi piace definire “ecomariuoli“, pongono in essere sul territorio, attraverso comportamenti dettati da piccole logiche economiche o di comodo, dall’incuranza per la natura e per il prossimo quando non anche da gretta maleducazione, e che producono continui inquinamenti delle nostre piazze, dei nostri mari, delle nostre campagne e persino delle nostre una volta incontaminate montagne; uno, cento, mille piccoli inquinamenti che quasi sempre sfuggono alla repressione ma che alla fine, sommati, rappresentano un’unica grande minaccia alla nostra vita.

Passando all’azione di contrasto, vorrei ricordare che l’Italia è stata la prima in Europa ad avvertire la necessità di creare organismi specializzati per il contrasto al crimine ambientale, affidando all’Arma dei carabinieri la costituzione di un reparto a competenza esclusiva.

Con la legge n. 349 del 1986, che ha istituito il Ministero dell’ambiente, ha infatti preso vita anche il nucleo operativo ecologico dei carabinieri, posto alle dipendenze funzionali del citato dicastero con compiti di vigilanza, prevenzione e repressione delle violazioni compiute in danno dell’ambiente. Nel tempo, dall’iniziale ridotta struttura centrale, sono sorte sezioni distaccate in quasi tutti i capoluoghi di regione e da ultimo, nel giugno 1998, stante la particolare situazione di degrado ambientale, è divenuto operativo a Caserta un distaccamento della sezione di Napoli.

È comunque prevista a breve termine l’istituzione di cinque nuove sezioni a Genova, Udine, Ancona, Pescara e Potenza, con il completamento della rete regionale che consentirà al Nucleo una più organica osmosi operativa con i reparti dell’organizzazione territoriale.

A proposito di quest’ultima, le stazioni, le compagnie, i comandi provinciali, presso i quali prestano servizio militari che hanno frequentato appositi corsi di normativa ambientale, assicurano un gran numero di interventi, soprattutto nel campo dell’inquinamento da rifiuti solidi o liquidi e dell’abusivismo edilizio.

Nel 1998, per dare qualche cifra sui risultati conseguiti, i reparti dell’Arma hanno effettuato oltre trentamila ispezioni. Il numero delle persone segnalate, poco meno di seimila, è circa il doppio di quello relativo al 1997. I sequestri effettuati, oltre novecento, mostrano un trend che vede ogni anno il numero degli interventi aumentare rispetto all’anno precedente. Notevole infine è il valore dei beni sequestrati, passato dai 237 miliardi del 1994 ai 507 miliardi dello scorso anno.

Non renderei un buon servizio alla causa dell’ambiente se non accennassi in chiusura all’inadeguatezza dell’attuale quadro normativo. Se è vero che la salvaguardia del patrimonio ambientale necessita soprattutto di attività di prevenzione gli interventi riparatori non cancellano mai i danni subiti è altresì indispensabile promuovere, in campo nazionale, la tempestiva emanazione di strumenti giuridici idonei a combattere efficacemente una minaccia sempre più virulenta.

La legge n. 915 del 1982, che sino a due anni fa costituiva l’unica normativa organica di riferimento, punisce la maggior parte dei comportamenti illeciti con fattispecie di natura contravvenzionale, talché le irrisorie sanzioni previste e la durata dell’istruttoria dei procedimenti che nella maggior parte dei casi producono la caduta in prescrizione dei reati stessi rendono evanescente la pena e pressoché nullo ogni timor di castigo. È proprio il caso di dire che in questo campo l’illecito paga e molto!

Il decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22, meglio conosciuto come “decreto Ronchi”, costituisce sicuramente un passo in avanti rispetto al passato, perché ha fornito gli strumenti per colpire alcune modalità operative utilizzate per eludere la normativa vigente (bolle false, miscelazione dei rifiuti, eccetera). Più oltre non si è però potuto andare, anche perché la delega del Parlamento non lo consentiva. La conseguenza è stata che la quasi totalità dei reati previsti dalla vigente normativa continua ad essere di natura contravvenzionale.

Pensare quindi che sia possibile incidere su questa forma di illegalità con arresti ed ammende è, come sopra accennato, pura utopia.

Il quadro indicato potrebbe invece migliorare in modo significativo qualora venissero introdotte nel codice penale le modifiche proposte, da ultimo, anche dalla Commissione parlamentare, cui oggi va il merito di aver organizzato questo forum.

La previsione di un apposito titolo VI-bis denominato “dei delitti contro l’ambiente”, con autonome forme di reato ed un idoneo sistema sanzionatorio, consentirebbe infatti risultati molto più significativi e valorizzerebbe in modo adeguato l’attività di quanti operano in difesa dell’ambiente.

Ecco dunque dischiudersi, per contrastare taluni devastanti disegni criminali, la possibilità di utilizzare metodologie investigative attualmente precluse, quali intercettazioni telefoniche ed ambientali, acquisti simulati e consegne controllate. Ciò, fra l’altro, consentirebbe anche il ricorso alla collaborazione internazionale attraverso gli strumenti della cooperazione di polizia e delle rogatorie, oggi inibite.

Al riguardo è opportuno ricordare che Europol, il nuovo organismo di polizia europea sorto ufficialmente il primo ottobre dello scorso anno, estende la sua competenza alla lotta al traffico di materiali nucleari o radioattivi, ed è quindi in grado di offrire significativi contributi operativi in termini di analisi e di scambio informativo.

Vorrei concludere con la notazione che l’ecosistema è soggetto alla duplice aggressione proveniente da un lato dell’inarrestabile sviluppo industriale e tecnologico e dall’altro da una serie di soggetti criminali e non.

Alla difesa di questo grande patrimonio siamo chiamati tutti: stati, imprese, singoli cittadini. I segnali sembrano positivi anche se molto è ancora da fare: da una politica ambientale più attenta ed incisiva in fatto di cambiamenti climatici, di gestione del territorio, di tutela del paesaggio, al nuovo modo delle industrie, specie quelle che operano nel mercato mondiale, di rapportarsi con l’ecologia, oggi diventata fattore di competitività, al maturare infine in ciascuno di noi di una specifica sensibilità che ci porti a considerare l’ambiente non come res nullius, ma un bene anche nostro.

E l’Arma, come vuole la tradizione, si inserisce a pieno titolo in questa sfida epocale per la tutela di una risorsa irrinunciabile per la collettività, che altrimenti rischia di rimanere vittima del suo stesso sviluppo.

Massimo Scalia, Presidente della Commissione. Ringrazio il generale Blasi e do la parola al collega Paolo Russo.

Paolo Russo, Deputato, componente della Commissione. Nel ringraziare, vorrei dare atto al Presidente Scalia di aver condotto la Commissione parlamentare di inchiesta sul ciclo dei rifiuti — attraverso un’analisi sapiente e, per alcuni aspetti, problematica — ad una produzione intelligente e ad una proposta concreta. I dati qui espressi — pur nella loro drammaticità e crudezza — rappresentano certo, forse in modo icastico e diretto, la vera drammaticità della questione e la peculiarità stessa del reato ambientale, ma soprattutto quest’oggi è emersa una sintonia positiva — che va colta — tra le risultanze stesse della Commissione d’inchiesta, il mondo politico in senso più vasto, nonché tra gli operatori del settore ed il mondo che si occupa concretamente di questi crimini, così come è emersa la necessità di un quadro normativo di maggiore certezza e di un inasprimento di esso, attraverso un’indicazione precisa e certa dei reati e delle pene. In questo senso, mi pare utile e particolarmente intelligente la notazione fatta dal dottor Ceglie, quando sottolineava come la prescrizione del reato — non solo rispetto ai reati ambientali, ma anche al vivere civile — costituisca la distruzione stessa del rapporto civile di convivenza. Ovviamente, l’arresto verso il quale pur sarebbe necessario andare, di per sé non risolverebbe la questione, in quanto ad esso seguirebbe una scarcerazione e, comunque, una successiva prescrizione, col risultato di aver aggiunto la beffa al danno. Né la questione può essere posta solo attraverso lo sciopero, pur legittimo, degli avvocati, ma semmai ponendo, a monte, la condizione per creare un esercizio della funzione giurisdizionale ancor più compiuto e, soprattutto, dotando i tribunali e le procure di trincea, rispetto a questa vicenda specifica, di mezzi e di uomini, sotto l’aspetto sia quantitativo, sia organizzativo in senso più ampio. In questo senso, credo che la nostra Commissione debba offrire una riflessione.

La capacità mutagena delle organizzazioni criminali si rivolge ad una valutazione sempre più immediata, quella del rapporto rischio-profitto. Le diverse organizzazioni criminali (la camorra e le varie mafie) tendono ad orientarsi verso settori in cui questo rapporto è basso e ovviamente, con questo quadro normativo, il rischio appare basso, dunque la capacità di incisività, da parte di queste organizzazioni criminali, diviene sempre più devastante.

Ritengo che, a questo punto, sia necessario cogliere alcuni spunti positivi. In primo luogo, rispetto al passato, mi pare ci sia ora un’attenzione più forte da parte delle pubbliche amministrazioni e soprattutto una maggiore capacità di concertare (ovviamente, ragionando per grandi numeri). Occorre dire anche, con franchezza, che l’attività criminale viene esercitata con grande facilità rispetto ad una certezza, ma a volte questa certezza non è nemmeno officiata. Per esesempio, in alcune regioni, ci si trova di fronte ad incerti piani di smaltimento dei rifiuti e a gestioni commissariali tanto necessarie quanto lontane dalla gente e viste talvolta come distanti nel senso deteriore. Infatti puntualmente ad ogni piano, ad ogni soluzione, rispetto alla politica di gestione del rifiuto si pone sempre la questione del sito della discarica tradizionale, dell’inceneritore, del termovalorizzatore, dell’impianto di compostaggio, cioè si pone una questione locale pur legittima, ma di fatto una condizione obiettiva di disagio, rispetto ad una pianificazione su scala più ampia.

Devo significare che l’azione delle forze dell’ordine — mi pare — è in rapida crescita, per quanto attiene la capacità di incisività e che la questione va posta anche attraverso macroanalisi. Se è vero che poco meno di un decimo dei rifiuti tossici, nocivi e ospedalieri prodotti viene in qualche modo ritrovato, trattato o smaltito, è altrettanto vero che esiste la necessità di un’azione maggiormente incisiva a monte e, in questo senso, mi sembra che il “decreto Ronchi” abbia dato un’indicazione positiva.

A tal proposito, vorrei aggiungere che quella è una strada intelligente, entro la quale muoversi, così come la Commissione bicamerale di inchiesta si sta attivando. Non so se l’esercito — lo dico senza timore di scandalizzare — possa sempre e dovunque risolvere i problemi, anzi credo che la soluzione emergenziale, il più delle volte, non sia la soluzione definitiva. Non so se la stagione dei “Vespri siciliani” sia tutta da leggere in termini positivi, per quanto attiene l’esperienza fatta dall’esercito, ma quando vaste aree del territorio sono state violentate, vandalizzate, bucate, scavate e riempite senza criteri di protezione e di controllo, quando ancora oggi, in provincia di Napoli, in vaste aree del Mezzogiorno, reflui e rifiuti industriali di ogni natura vengono continuamente abbandonati — nottetempo e non solo — in aree più o meno definite; quando il rinvenimento quotidiano di questi rifiuti industriali appare quasi routine, ebbene, non ci troviamo al cospetto di un reato telematico o di un clic di un computer, ma dinanzi ad un atto certo, ad un dato visibile, rispetto al quale probabilmente è necessario atteggiarsi ed attrezzarsi, di fronte ad una condizione di fatto emergenziale. In tal caso, ritengo possa essere utile — come si tenta di fare — un programma di intervento organico, di bonifica e ripristino, a tutela della salute umana, ma ancor di più è necessario un controllo coordinato, da parte di tutte le forze dell’ordine, del Corpo forestale dello Stato, persino dei vigili urbani e delle associazioni di volontariato, come quelle ambientaliste, quelle venatorie, tutte unite insieme in un ragionamento che è sociale e civile, e attiene ad un vivere educato.

Accanto a questo, perché non si potrebbe cominciare a ragionare in termini di protezione del nostro territorio creando un meccanismo di ronda su di esso, al fine di evitare che quei TIR, che nottetempo giungono sul nostro territorio, incontrino solo dopo la macchina della giustizia? Perché non pensare anche ad una soluzione emergenziale di questo tipo?

Sono certo che questa è una partita che si può vincere lavorando insieme, soprattutto attraverso il raggiungimento di una condizione di forte sensibilizzazione sociale e, a quel punto, di certo il quadro normativo più cogente rappresenta la prima emergenza, ma accanto ad essa è altrettanto necessario che ciascuno di noi — il mondo politico, quello associativo, quello del volontariato e, mi si consenta, anche le famiglie e la scuola — sappia fare la propria parte in termini di sensibilizzazione.

Massimo Scalia, Presidente della Commissione. Do ora la parola al dottor Caruso, vicedirettore del Corpo forestale dello Stato, che oggi è stato citato più volte. Successivamente interverrà il ministro Ronchi.

Camillo Caruso, Vicedirettore generale del Corpo forestale dello Stato. Dobbiamo essere tutti consapevoli che le risorse ambientali sono beni comuni, patrimonio dell’umanità, a prescindere dalla loro dislocazione territoriale e che esse si tutelano meglio se sono sottratte all’esclusiva responsabilità degli enti locali, anche se è necessario includere le comunità locali nella partecipazione alla loro gestione. L’ambiente è un insieme di valori paesaggistici, culturali, storici, naturalistici e biosferici con valenza turistica, ricreativa ed economica, rappresenta un interesse primario la cui tutela spetta prioritariamente allo Stato. Le regioni e gli enti locali, senza confusione di competenze, in attuazione dei principi di sussidiarietà e responsabilità, devono svolgere ruoli definiti di rilevanza locale, armonizzati organicamente con il ruolo dello Stato. Questo orientamento è stato più volte affermato dal legislatore, che ha affidato compiti di sorveglianza ambientali ad organismi statali, pur prevedendo il decentramento di funzioni gestionali, tecniche ed amministrative. La stessa “legge Bassanini”, nel prevedere il conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed agli enti locali per la riforma della pubblica amministrazione e per la semplificazione amministrativa, riserva allo Stato alcune funzioni, tra le quali i compiti di rilievo nazionale per la tutela dell’ambiente e della salute.

La valenza statale dei beni ambientali discende anche dalla considerazione che gli accordi internazionali in questa materia sono sottoscritti dallo Stato e da essi discende poi l’obbligo di onorare gli impegni assunti. Anche per questo è necessario che lo Stato rafforzi la propria task force ambientale, migliorandola dal punto di vista dell’efficienza operativa.

Un aspetto della tutela dell’ambiente, di cui questa mattina si è parlato anche in questa sala, è la lotta contro gli incendi boschivi, nell’ambito della quale il Corpo forestale dello Stato da sempre svolge un ruolo fondamentale, seppure con un organico e mezzi limitati rispetto alla dimensione attualmente assunta dal fenomeno e in assenza di norme di legge che ne prevedano un diretto coinvolgimento. È indispensabile stabilire per legge, in maniera chiara e definitiva, i ruoli e le responsabilità di ciascuno: chi deve coordinare le operazioni, chi deve assumere decisioni, a quale amministrazione devono essere attribuite le risorse fianziarie, in pratica chi deve fare cosa.

Nel luglio scorso, mentre divampavano incendi in tutta Italia, durante un’audizione del senatore Pinto, allora Ministro delle politiche agricole, presso le Commissioni riunite agricoltura ed ambiente del Senato, vennero sottolineate la “carenza organizzativa”, la “confusione di competenze”, l’”assenza di una chiara identificazione delle responsabilità e delle competenze”, il “superamento dell’incrocio di competenze”, la “sovrapposizione di competenze” e quindi l’esigenza di “unificare le competenze”. L’accento va posto sulla prevenzione e quindi sulla ripulitura e sulla manutenzione dei boschi, oltre che sull’informazione e sullla sensibilizzazione dell’opinione pubblica, coinvolgendo il mondo della scuola e le associazioni ambientaliste.

C’è poi un aspetto particolare che merita attenzione e che riguarda il catasto delle aree percorse dal fuoco, previsto dall’articolo 1-bis della legge
n. 428 del 1993. Perchè non affidare al Corpo forestale dello Stato il compito di effettuare la perimetrazione delle aree bruciate, affinché nel tempo non si perda la memoria delle aree forestali colpite dal fuoco e possa esserne garantita la destinazione forestale in futuro, così come prevede la legge? La legge oggi attribuisce tale funzione ai comuni, ma in pratica nessuno la esercita.

La crescente attenzione dell’opinione pubblica per l’ambiente, il timore per la sua conservazione, la reazione per i danni che ad esso vengono inferti sia da singoli che da gruppi organizzati, la legislazione di settore nazionale e regionale, i regolamenti, e le direttive comunitarie e le convezioni internazionali, tutto questo ha determinato un più massiccio impegno del Corpo forestale dello Stato per la tutela ambientale. Assidua è la nostra collaborazione con le autorità giudiziarie. Sebbene le norme di attuazione del codice di procedura penale non prevedano l’attivazione di sezioni di polizia giudiziaria del corpo presso le procure, molti procuratori generali hanno chiesto il distacco di ufficiali, ispettori, sovraintendenti ed agenti del corpo, avvalendosi dell’articolo 5, comma 2, del decreto n. 271. Attualmente, sono oltre cento le unità di personale del Corpo che operano stabilmente alle dirette dipendenze di circa cinquanta procure. Abbiamo chiesto di emendare l’articolo 77 della proposta di legge di modifica del codice di procedura penale, l’atto Camera n. 411 ed abbinati, per prevedere la costituzione di sezioni di polizia giudiziaria stabili presso le procure della Repubblica anche per il Corpo forestale dello Stato.

L’autorità giudiziaria ha chiesto, e chiede, la collaborazione del Corpo poiché essa evidentemente si è rilevata utile ed efficace per contrastare il crimine ambientale. Del resto, il Corpo dispone di professionalità diversificate, laureati in scienze forestali, in scienze agrarie, in scienze biologiche, in ingegneria, in medicina, in veterinaria e in zoologia. Nelle nostre scuole per agenti, sovrintendenti ed ispettori vengono insegnate materie come botanica forestale, silvicoltura, zoologia, biologia, e viene formato personale che esprime professionalità e sensibilità particolari per la tutela del patrimonio naturalistico ed ambientale nazionale.

Il Corpo forestale dello Stato, tuttavia, sta attraversando uno dei momenti più delicati della sua storia. Due decreti legislativi scaturiti dalla “legge Bassanini”, il n. 143 del 1997 ed il n. 112 del 1998, ne hanno riaffermato la statualità. È fin troppo evidente che l’eventuale smembramento di tale Corpo provocherebbe un inspiegabile indebolimento del sistema di difesa ambientale. Come si può conciliare l’affermazione che l’ambiente è bene sovranazionale da proteggere con l’eventuale smantellamento di un valido ed efficiente strumento di presidio e di salvaguardia?

Colgo l’occasione per ringraziare dell’apprezzamento e della solidarietà espressi ancora una volta dal senatore Pinto, nel suo intervento di poco fa.

Il contrasto alla criminalità ambientale, per essere efficace, non può arrestarsi ai limiti amministrativi di una regione. I trafficanti di rifiuti spaziano da una regione all’altra e spesso da uno Stato all’altro, come abbiamo sentito. Abbiamo svolto delicate indagini in collaborazione con l’autorità giudiziaria, che hanno avuto origine in un angolo d’Italia; poi l’attività investigativa si è trasferita in regioni molto lontane rispetto a quella di partenza ed anzi, quanto più rilevante era la quantità e la pericolosità del rifiuto, tanto più distante dalla zona di produzione è stata la dispersione di esso sul territorio, senza alcuna distizione di limiti amministrativi regionali. Lunedì scorso, 22 febbraio, le agenzie, riprendendo le preoccupazioni espresse dai servizi segreti, hanno diffuso la notizia che la tutela dell’ambiente e della salute sono oggetto di aggressione da parte di soggetti ed organizzazioni illecitamente operanti nell’ambito della produzione e dello smaltimento di rifiuti e sostanze nocive. I servizi segreti hanno registrato il crescente coinvolgimento della criminalità organizzata, anche in ragione della blanda capacità deterrente del regime sanzionatorio, specie se comparato con i cospicui profitti conseguibili dalla gestione dei traffici di rifiuti pericolosi. Lo spazio rurale, le cave, i boschi, le terre abbandonate, la montagna sono il luogo privilegiato della consumazione di queste pericolose attività. Il 93 per cento del territorio nazionale, ossia 28 milioni di ettari, è costituito da superficie agricola o forestale, in pratica spazio rurale, che rappresenta la zona di elezione per l’operatività del Corpo. Tale spazio rurale purtroppo è anche la sede privilegiata dei più spregiudicati crimini contro l’ambiente. Preoccupante è il movimento dei rifiuti ad elevata tossicità da nord verso sud, anche in considerazione del fatto che nel Mezzogiorno più forte è la presenza delle organizzazioni criminose.

Se è vero che la missione fondamentale delle forze di polizia consiste nel vigilare sul rispetto della legalità, nell’assicurare ai cittadini un accettabile standard di sicurezza ed un’ordinata e civile convivenza; se è vero che la sicurezza e l’ordinato vivere civile sono correlati anche alla condivisione di valori radicati, dal momemto che l’attenzione della cosidetta società civile verso le tematiche ambientali è crescente e che grande è la preoccupazione per il degrado ambientale, sottopongo alcune domande alla vostra riflessione.

Desta maggiore allarme sociale il traffico di autoveicoli rubati o il traffico di rifiuti pericolosi? Gli incendi boschivi e l’abusivismo edilizio o il dissesto idrogeologico con i connessi fenomeni di frane e alluvioni? La salute, la sicurezza ed il benessere dei cittadini non sono minacciati anche dall’inquinamento del terreno e delle falde acquifere, conseguenti ad errate pratiche agronomiche o allo smaltimento illegale dei rifiuti pericolosi, tossici e nocivi? La difesa del patrimonio naturalistico e paesaggistico, la lotta contro il traffico illecito di animali e vegetali in via di estinzione o contro la caccia illegale non meritano un’attenzione pari a quella dedicata alla difesa del patrimonio artistico e culturale del paese?

Se un tempo la criminalità ambientale poteva essere considerata secondaria rispetto ad altri fenomeni delittuosi, oggi non è più così. Tra l’altro, è ormai acclarato che il danno ambientale è anche danno economico e può nuocere gravemente alla salute. Il crimine ambientale ha spesso natura internazionale; questo aspetto è stato posto in rilievo il 5 aprile scorso nel castello di Leeds in Gran Bretagna, in occasione dell’incontro di tutti i ministri dell’ambiente degli otto paesi maggiormente sviluppati. In quell’occasione è stata evidenziata la necessità di potenziare le forze dell’ordine specializzate nel “crimine verde” ed è stata sollecitata la creazione di una Interpol ambientale collegata ai cittadini da linee telefoniche gratuite.

Eppure, nel provvedimento istitutivo dell’Europol, l’atto del Consiglio dell’Unione europea del 26 luglio 1995, le problematiche connesse alla criminalità ambientale (cioè il traffico illecito di rifiuti pericolosi, di specie animali protette e di essenze vegetali minacciate di estinzione), le cosiddette ecomafie, sono state poste in terzo piano. In primo piano, fra gli altri reati, figura il traffico internazionale di veicoli rubati.

L’articolo 2, che individua gli obiettivi prioritari dell’Europol, solo in maniera subordinata (occorre infatti la deliberazione unanime del Consiglio dei ministri) prevede che l’Europol possa occuparsi di criminalità ambientale. Conseguentemente, in questa fase, l’Europol non se ne occupa.

A nostro avviso, esistono le condizioni perché il Consiglio dell’Unione europea estenda le competenze dell’Europol, comprendendo, accanto ai reati già affidati, anche i fenomeni di criminalità ambientale.

Qualche considerazione vorrei fare al riguardo del coordinamento delle forze in campo. Si parla spesso di coordinamento, anche se esso viene poco praticato; non dobbiamo però stancarci di insistere affinchè si diffonda e si radichi la cultura del coordinamento tra le forze di polizia. Il coordinamento del resto è lo strumento per ricondurre ad unità le diversità e le specificità, che beninteso sono una risorsa da salvaguardare e sviluppare. Le forze in campo devono dialogare fin dall’impostazione dei programmi di lavoro, scambiandosi informazioni ed esperienze. Non è sufficiente il coordinamento assicurato dall’autorità giudiziaria, che interviene quando si palesa ormai la notitia criminis. Occorre coordinare le risorse umane strumentali, assegnare compiti, responsabilità in funzione delle professionalità e delle specificità di ciascun Corpo; pianificare la ripartizione degli obiettivi, tenendo conto anche della distribuzione territoriale, delle risorse umane e strumentali, per impedire incresciosi episodi di incomprensione, possibili discrasie di interventi, diseconomie ed interferenze, sovrapposizioni o carenze di intervento.

Abbiamo molto apprezzato, Presidente Scalia, il documento adottato dalla Commissione parlamentare sul ciclo dei rifiuti. A lei, Presidente, che con passione e competenza ha coordinato e presieduto la Commissione giungendo a conclusioni concrete ed efficaci, va il ringraziamento mio personale e del Corpo forestale dello Stato. Nel documento parlamentare è stato giustamente evidenziato che l’effetto deterrente e repressivo dell’attuale normativa in materia ambientale è scarso o nullo. Modeste, infatti, sono le sanzioni, inadeguate a scoraggiare le attività illecite, tanto più che si tratta di attività capaci di determinare enormi vantaggi economici e di effetto devastante per l’ambiente e talora per la salute dei cittadini. Il crimine ambientale, in paticolare il traffico dei rifiuti, è diventato un grande affare individuale e di gruppo, quasi uguale a quello della droga, con il vantaggio però di far correre rischi molto bassi o inesistenti, e quindi con effetti repressivi inavvertiti. L’adeguamento legislativo proposto dalla Commissione è veramente necessario.

Massimo Scalia, Presidente della Commissione. Ringrazio il dottor Caruso e do la parola al ministro Ronchi.

Edo Ronchi, Ministro dell’ambiente. I dati che ci vengono forniti sul volume economico in Italia pari a decine di migliaia di miliardi di lire ogni anno — determinato dalla speculazione illegale a danno dell’ambiente e il perdurare da anni di una simile situazione denunciano l’esistenza di un problema di rilevante allarme sociale.

L’ampio margine di profitto, la scarsa deterrenza delle pene, l’impossibilità di attivare sistemi di indagine più idonei e la non facile attivabilità di strumenti utili per ottenere un congruo e veloce risarcimento del danno ambientale costituiscono tutt’oggi un incentivo a tale spinta speculativa.

L’aspetto più preoccupante della situazione è dato dal fatto che le cause appena elencate hanno mosso l’interesse delle organizzazioni criminali verso questo settore, per cui oggi si denuncia, accanto a una illegalità diffusa e di ordine minore, l’esistenza di un’azione organizzata dalle associazioni di stampo mafioso, che richiede interventi incisivi affinché essa sia neutralizzata.

Come Ministro dell’ambiente ho provveduto a riordinare la materia che disciplina il settore dei rifiuti, in modo tale da rendere più trasparente l’intero ciclo della gestione degli stessi e, conseguentemente, far emergere i casi di illegalità diffusa.

Oggi, infatti, la disciplina sulla gestione dei rifiuti è stata riordinata in attuazione delle direttive comunitarie secondo i seguenti principi: prevenzione della quantità della produzione dei rifiuti; previsione del loro recupero, quindi il loro riutilizzo e riciclaggio, relegando lo smaltimento in discarica a soluzione residuale; incentivazione degli accordi negoziati, degli strumenti ecolabel e audit ambientale e degli ecobilanci; obbligatorietà della raccolta differenziata, attraverso l’indicazione di percentuali minime da raggiungere; regolamentazione della gestione degli imballaggi e dei rifiuti da imballaggio, i cui costi vengono posti a carico dei produttori e degli utilizzatori, in modo tale da responsabilizzare il sistema produttivo, per favorire la riduzione della produzione degli imballaggi ed il loro recupero e riutilizzo; promuovere l’autosufficienza nella gestione dei rifiuti per ogni ambito territoriale, limitando in tal modo il loro trasporto e favorendo il controllo sulla loro circolazione.

Per favorire un riordino di un settore spesso viziato dalla presenza di infiltrazioni da parte della criminalità organizzata, come Ministro dell’ambiente ho promosso l’emanazione di apposite ordinanze per attribuire poteri straordinari a commissari ad acta, con l’obiettivo di garantire l’attuazione del sistema integrato della gestione dei rifiuti secondo i principi della riforma; in particolare per garantire l’attivazione della raccolta differenziata ai fini del conseguimento degli obiettivi percentuali minimi stabili e per controllare tutte le fasi e le modalità dello smaltimento e del riutilizzo dei rifiuti.

Nel riordino della materia si è intervenuti anche sotto il profilo penale. Il decreto legislativo n. 22 del 1997 ha infatti reso obbligatorio il sequestro da parte della polizia giudiziaria dei veicoli utilizzati per il traffico illecito nei casi di flagranza di reato oppure, in seguito, su ordine del pubblico ministero durante la fase delle indagini. In tal modo si è aperta la strada alla confisca di tali mezzi, il che permette oggi di sottrarre definitivamente, indipendentemente dalla quantità o dalla qualità della sanzione irrogata o patteggiata, dal patrimonio del soggetto responsabile del reato uno strumento che potrebbe essere riutilizzato per commettere nuovamente il fatto illecito.

Lo stesso strumento della confisca può essere, inoltre, attivato per le aree di scarico abusivo dei rifiuti facendo ricadere l’onere del ripristino sul titolare dell’area e su chiunque, dolosamente o colposamente, ha concorso al reato. Il peso economico di tali misure sicuramente costituisce un deterrente al compimento di attività illecite compiute nel settore della gestione dei rifiuti.

Gli stessi principi sono stati posti alla base della normativa di riordino della legge a tutela delle acque dall’inquinamento (oggi al parere del Parlamento), spostando la prospettiva della tutela ambientale dal singolo scarico alla qualità ecologica del corpo recettore dello stesso scarico. In tal modo sarà possibile definire l’effettivo danno al bene ambiente e, conseguentemente, sarà più facile determinare l’ammontare del danno dal momento che il monitoraggio del corpo recettore consente una più completa valutazione delle ripercussioni negative prodotte da uno scarico non consentito.

Con la nuova legge n. 426 del 1998 ho promosso, inoltre, una modifica della normativa relativa agli abbattimenti delle costruzioni abusive all’interno delle aree protette, con il precipuo scopo di rompere quella spirale perversa che ha impedito fino ad oggi l’abbattimento e la riduzione in pristino dello stato dei luoghi, nonostante fosse già stata accertata l’illegittima edificazione. Tuttavia tali misure non sembrano sufficienti per contrastare un fenomeno così complesso e organizzato, quale quello delle ecomafie. Abbiamo, infatti, dovuto constatare come sia stato necessario ricorrere ad una normativa speciale per contrastare la malavita organizzata. Appare chiaro, quindi, che un sistema sanzionatorio come quello attuale non consente di poter condurre una simile lotta anche nei riguardi delle aggressioni all’ambiente operate da simili organizzazioni, che richiedono non solo sanzioni appropriate, ma anche idonee modalità di indagine, sia nella durata, sia nei mezzi.

Occorre, infatti, rilevare che la quasi totalità dei reati previsti dalle normative di settore rientrano nella categoria di quelli contravvenzionali, ossia fra quelli che esprimono un minor grado di pericolosità dell’infrazione, a dispetto del pericolo realmente sotteso.

Occorre precisare che in tal modo si consente al soggetto attivo del reato di poter invocare benefici procedimentali, che permettono di ridurre ulteriormente il livello della sanzione rispetto a quella indicata dalla legge, consentendo di monetizzare anche l’eventuale pena detentiva, ma molto più spesso facendo risultare la pena pecuniaria di valore inferiore rispetto a quello offerto dal profitto generato dalla condotta illecita.

È, pertanto, evidente che l’ammissibilità nel nostro ordinamento di un assetto sanzionatorio, che consenta anche laddove si giunga a perseguire fattivamente una condotta illecitamente mirata a danno dell’ambiente all’infrattore di godere comunque di un margine di profitto, risulta essere insufficiente al raggiungimento degli obiettivi che l’ordinamento penale dovrebbe porsi in via preventiva, ossia la capacità di operare come deterrente.

A ciò si aggiunga che il fatto che per le ipotesi di reato di non particolare gravità ossia tutte quelle riguardanti la tutela dell’ambiente non viene consentito il ricorso a mezzi di indagine più efficaci, quali, ad esempio, le cosiddette intercettazioni ambientali o la custodia cautelare. Ciò significa che per il perseguimento dei reati a danno dell’ambiente viene inibita la possibilità di utilizzare strumenti più stringenti per ricercare e acquisire le prove, per prevenire l’evento o per l’impedire che questo crei ulteriore danno.

La consapevolezza di una simile situazione mi ha spinto ad assumere un’iniziativa in merito per fornire una soluzione utile ad un così complesso problema. È per questo che nel 1997 ho costituito un’apposita Commissione, composta da giudici penali, penalisti e rappresentanti dei Corpi di polizia, alla quale è stato attribuito il compito di evidenziare le opportune modifiche al sistema sanzionatorio vigente, al fine di proporre l’introduzione di norme penali, sia sostanziali che processuali, atte a reprimere efficacemente i reati compiuti a danno dell’ambiente e il rilevante fenomeno dell’infiltrazione mafiosa nella gestione delle attività connesse ai vari settori della tutela ambientale.

I lavori presentati da questa Commissione sono stati portati all’attenzione del Ministero di grazia e giustizia, ossia all’amministrazione competente nella proposizione di norme in materia penale, per promuovere il concerto necessario alla presentazione di un apposito disegno di legge al Consiglio dei ministri e alla successiva presentazione al Parlamento.

La proposta, dopo diverse modificazioni, sembra finalmente giunta ad una formula condivisa dalle due amministrazioni. Ieri sera c’è stata la comunicazione formale del concerto sul testo da parte del Ministro di grazia e giustizia.

Massimo Scalia, Presidente della Commissione. Allora a questo punto possiamo suonare le campane!!

Edo Ronchi, Ministro dell’ambiente. La proposta tende ad avvicinare la normativa penale italiana a quella degli altri stati europei, che individuano negli atti di aggressione all’ambiente il giusto grado di pericolosità sociale. Viene, pertanto, proposta l’introduzione di nuove fattispecie delittuali in un apposito titolo VI-bis, nel II libro del codice penale, denominato: “Delitti contro l’ambiente”, subito dopo il titolo dedicato ai delitti contro l’incolumità pubblica.

A seguito di ciò si avrebbe la concomitanza delle sanzioni contravvenzionali, oggi vigenti in materia di tutela dell’ambiente, con quelle nuove delittuali, indicate dal progetto di riforma. Rimarrebbe comunque un elemento distintivo tra le due categorie sanzionatorie, dato dal fatto che le prime reprimono i casi di pericolo astratto, mentre quelle delittuali i casi di pericolo concreto, oltre ai casi in cui si verifica il danno.

Il momento più rilevante della proposta consiste nel riconoscimento anche in sede penale dell’ambiente come bene giuridico autonomo. Sulla scorta delle normative già in vigore in altri paesi, come la Spagna e la Germania, la proposta, infatti, individua nella nozione dell’ambiente un valore a sé stante, autonomo da ogni parametro meramente economico, che ricomprende, oltre ai tradizionali elementi dell’aria, dell’acqua o del suolo, anche il patrimonio naturale, archeologico e storico-artistico.

Attraverso questo riconoscimento vengono introdotti i delitti di “inquinamento ambientale” (articolo 452-bis) e di “distruzione del patrimonio naturale” (art. 452-ter), nel quale vengono ricondotti anche i valori paesaggistici, storici e archeologici, prevedendo, oltre alla sanzionabilità del comportamento che provochi un pericolo concreto, anche due ipotesi di reato aggravato dall’evento, nel caso in cui si verifichi l’evento dannoso o addirittura il disastro ambientale.

Inoltre, si presenta la necessità di introdurre un’ulteriore ipotesi delittuosa relativa al “traffico illecito dei rifiuti”. Essa si rende necessaria, in quanto una corrispondente ipotesi contenuta nell’articolo 53 del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22, di natura contravvenzionale, non risulta idonea a contrastare fenomeni di particolare rilevanza e ramificazione. È stata, inoltre, prevista un’ipotesi aggravata, nel caso in cui oggetto del traffico siano rifiuti ad alta radioattività.

Quale ultima nuova fattispecie criminosa è stato proposto, infine, il delitto di “frode in materia ambientale”, che incrimina non solo la falsificazione, ma anche l’omissione della documentazione prescritta dalla normativa ambientale, nonché il far uso di tale documentazione al fine di commettere uno dei reati in precedenza descritti ovvero di conseguirne l’impunità.

Raccogliendo l’istanza di combattere più efficacemente le “ecomafie”, si è avvertita la necessità di introdurre un’ulteriore specifica fattispecie associativa in materia ambientale, seguendo il modello delle cosiddette associazioni criminose a struttura mista, in cui per la punibilità è necessario che l’associazione abbia già svolto attività diretta a commettere uno dei delitti previsti dal titolo: “Delitti contro l’ambiente”.

È stata, inoltre, prevista una circostanza attenuante per coloro che si siano efficacemente adoperati per evitare che l’attività delittuosa venga portata ad ulteriore compimento, anche mediante un aiuto concreto all’autorità di polizia o all’autorità giudiziaria nella ricostruzione del fatto e nella scoperta degli autori dello stesso.

Con un altro articolo viene disposta la punibilità delle medesime fattispecie di reato in precedenza descritte, laddove esse siano commesse per colpa, prevedendo in tal caso la diminuzione della pena da un terzo alla metà.

Infine sono state disciplinate le pene accessorie applicabili nel caso di condanna per uno dei reati previsti dal titolo. Viene, così, imposta l’interdizione temporanea dai pubblici uffici, l’interdizione temporanea dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese e l’incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione.

Ha costituito un punto di discussione l’inserimento di una norma che preveda l’obbligo di riduzione in pristino dello stato dei luoghi da imporre a seguito della sentenza di condanna o della pronuncia prevista dall’articolo 444 del codice di procedura pe-
nale (il cosiddetto patteggiamento). Come rappresentante dell’amministrazione deputata alla tutela dell’ambiente ritengo fondamentale che, oltre alla previsione della punibilità degli atti o dei fatti contro l’ambiente, venga anche imposto il dovere di procedere alla riparazione del danno a carico del responsabile, nella maniera e nella misura più veloce e completa.

Sembra, invero, raggiungibile questo obiettivo solo se si attribuisce già al giudice penale, senza attendere l’ulteriore e comunque successiva conclusione del rito civile, il potere di imporre tale obbligo al responsabile, soprattutto quando questi, avvalendosi dei riti premiali, possa beneficiare della sospensione condizionale della pena o della convertibilità della misura detentiva in quella pecuniaria.

Mi auguro, in proposito, che il Ministero di grazia e giustizia abbia accolto questa nostra richiesta all’interno del disegno di legge da portare all’approvazione del Consiglio dei ministri.

Nel progetto originario erano state inoltre inserite, sulla scorta delle esperienze maturate nella legislazione penale tedesca e francese, delle sanzioni applicabili anche nei confronti delle persone giuridiche per tutti i casi in cui i reati di inquinamento ambientale e distruzione del patrimonio naturale fossero conseguenza di comportamenti omissivi, dolosi o colposi, da parte degli organi dell’impresa, prevedendo in tal caso come sanzione la multa, l’esclusione dai pubblici appalti, il divieto di contrattare con imprese straniere, il commissariamento giudiziale, la chiusura dello stabilimento o la sospensione dell’attività dell’impresa.

Come detto, si tratta di norme che trovano la loro cittadinanza già negli ordinamenti di altri paesi della Unione europea, ma che oggi non trovano ancora e non hanno trovato il necessario consenso nel nostro. È rimasta una proposta sulla quale vale approfondire la riflessione, non è compresa fra le norme che saranno varate dal Governo. Si sente, quindi, la necessità di far maturare maggiormente le coscienze su questi temi per poter introdurre anche nel nostro ordinamento simili ipotesi sanzionatorie.

Faccio, tuttavia, presente che in sede internazionale è già dato registrare una maturazione di questa coscienza. Ricordo, infatti, che all’articolo 9 della proposta di “Convenzione della protezione dell’ambiente attraverso il diritto penale” elaborata dagli Stati membri del Consiglio d’Europa, si raccomanda agli Stati firmatari l’adozione di misure appropriate “che potrebbero essere necessarie per infliggere sanzioni e misure penali o amministrative alle persone giuridiche” per infrazioni contro l’ambiente commesse “da loro organi, da un membro dei loro organi o da altri rappresentanti”.

Al di là della previsione di misure sanzionatorie nei confronti delle persone giuridiche da parte della proposta di convenzione internazionale sulla protezione penale dell’ambiente, merita di per sé particolare considerazione la convenzione medesima. Infatti essa sostanzialmente indica che la comunità internazionale sta percorrendo un cammino inverso a quello che si sta seguendo mediante il disegno di legge sulla depenalizzazione dei reati minori, all’interno del quale, a differenza di quanto era previsto dal testo licenziato dalla Camera dei deputati, sono state introdotte dalla Commissione giustizia del Senato modifiche anche in materia ambientale, che suscitano la mia preoccupazione.

A maggiore ragione, se tali depenalizzazioni fossero approvate senza l’introduzione di nuove fattispecie delittuose a tutela dell’ambiente da me promossa ed in precedenza illustrata , si potrebbe creare un vuoto all’interno del nostro ordinamento, del quale verrebbero sicuramente a beneficiare le strutture malavitose organizzate.

Come ho detto all’inizio dell’intervento, esiste oggi in Italia la possibilità di lucrare sull’illecito ambientale, anche nel caso in cui venga ad essere perseguito il responsabile. Se dovesse quindi venire meno, anche se per un breve periodo, il sistema sanzionatorio penale oggi esistente, verrebbe sicuramente aumentato il margine di profitto derivante da fatto illecito e, dunque, si correrebbe il rischio di dover affrontare una stagione emergenziale, i cui costi ricadrebbero sull’intera collettività, rimettendo in discussione i significativi passi in avanti che sono stati effettuati, con il contributo ed il concorso, in particolare, delle forze dell’ordine e di non pochi amministratori.

Massimo Scalia, Presidente della Commissione. Il Ministro ci ha portato almeno una buona notizia. Uno degli obiettivi di questo forum era esattamente una sollecitazione nei confronti del Governo, perché vi fosse il concerto del Ministero di grazia e giustizia, e venisse presentato ed approvato il famoso disegno di legge in sede di Consiglio dei ministri, sui contenuti del quale ci intratteniamo da questa mattina.

Do ora la parola al dottor Alfiero.

Carlo Alfiero, Direttore della Direzione investigativa antimafia. La ringrazio innanzitutto per l’invito cortesissimo, che mi dà la possibilità di evidenziare anche in questa sede un’attività della direzione investigativa antimafia che rischia di passare inosservata, proprio perchè forse non direttamente chiamata in causa di volta in volta. Io svolgerò come tema proprio questo, l’attività della Dia nel campo delle ecomafie, e cercherò di spiegare quale sia la nostra competenza e quali i motivi per i quali la Dia è particolarmente interessata a questo fenomeno.

Partirei proprio da alcune caratteristiche delle ecomafie, un fenomeno nuovo, multiforme, con attività illecite di difficile controllo, con una valenza internazionale. Mi serve dire queste banalità, perché ad esse mi debbo agganciare. La criminalità organizzata considera attualmente l’ecologia una delle occasioni più proficue di accumulazione di capitali per il rischio relativamente basso, per una presunta maggiore impunità rispetto ad altri reati in qualche modo più rischiosi, per costi complessivamente meno elevati rispetto all’impiego delle risorse dedicate. Probabilmente ci troviamo di fronte ad una situazione analoga a quella degli anni settanta-ottanta, quando le mafie fecero il grande salto di qualità attraverso la droga, da mafia tradizionale a mafia imprenditoriale. A me sembra di notare nell’attività attuale un’occasione analoga: l’ambiente potrebbe costituire un’occasione di un altro salto della mafia, che da imprenditoriale diventa mafia dei servizi. Ed è inutile che io mi soffermi su questo tema più di tanto. Basti pensare che la nostra società si sta sempre più avviando a divenire una società di servizi.

Come si pone la direzione investigativa antimafia davanti a questo fenomeno? In primo luogo, c’è una competenza per materia: l’ecomafia per natura, dimensione e struttura riguarda soprattutto la criminalità organizzata e la Dia è l’organismo specifico previsto dalla legge per la lotta a questo tipo di criminalità. Rispetto alla novità del fenomeno — abbiamo appunto detto che è un fenomeno nuovo — la Dia, proprio perchè anch’essa giovane, autonoma, agile, riesce a proporre temi e soprattutto tempi di risposta adeguati al continuo evolvere della minacca delle ecomafie. Inoltre c’è la multiformità di questo tipo di criminalità, multiformità che significa attacco sotto vari profili. Il primo profilo è quello fisico, il controllo del territorio di cui tanto si parla: è evidente che su questo aspetto saranno le forze territoriali a contrastare l’ecomafia. Però ricordiamoci che anche in questo settore la Dia può dare un grosso supporto alle forze territoriali, quale elemento di raccordo dell’attività informativa e di sviluppo della stessa e poi di ricaduta di quest’attività informativa sulle stesse forze che le hanno proposto i temi.

C’è un altro aspetto dell’ecomafia, quello funzionale: qui il settore diventa specificamente nostro. Si tratta del reinvestimento di capitali illecitamente acquisiti in attività di per sè apparentemente legittime. Da questo punto di vista, il contrasto si può compendiare in una serie di attività che vanno dallo stoccaggio allo smaltimento, all’intermediazione, ai trasporti dei materiali di risulta. La Dia inoltre si proietta nel campo finanziario. Voi sapete che per un terzo la Dia è costituita da personale proveniente dalla Guardia di finanza e quindi è in grado di procedere all’individuazione dei flussi dei capitali e a seguire questi flussi, per vedere come, quando, perchè certi capitali si accrescano.

L’ultimo elemento che abbiamo messo in evidenza era l’internazionalità, la tendenza alla globalizzazione dell’ecomafia: anche qui la Dia ha per legge una competenza a dialogare in campo internazionale con gli organismi omologhi e quindi anche qui siamo capaci di un contrasto.

Questa corrispondenza tra caratteristiche delle ecomafie ed alcune caratteristiche della Dia hanno portato finora a buoni risultati, che noi consideriamo comunque di approccio al problema e che speriamo di sviluppare ulteriormente, sia nel campo preventivo — che è quello di maggior attinenza con le nostre competenze — sia in quello delle investigazioni giudiziarie. Nel campo preventivo, si trattava di inquadrare il fenomeno, considerare l’evoluzione dello stesso, esaminare alcune aree geografiche, scendere nel dettaglio, individuare i singoli gruppi criminali e da questo trarre le deduzioni. È questo un classico lavoro di elaborazione dei dati, di analisi, quella che oggi con una voce straniera si chiama intelligence. In particolare, lo studio ha riguardato le province di Napoli, Caserta e Salerno. Sono state individuate le discariche, le società che le amministrano, sono state studiate le modalità di gestione, è stato monitorizzato il ciclo dei rifiuti; in particolare è stata anche dedicata una particolare attenzione alla concessione ed alla gestione dei relativi appalti. Nel campo delle investigazioni giudiziarie, ovviamente, abbiamo supportato le autorità giudiziarie che in questo ci hanno sostenuto, attraverso attività che tra il 1993 al 1998 hanno portato a risultati piuttosto notevoli. Soprattutto, si è raggiunta, per quanto ci riguarda, l’individuazione di alcuni siti industriali ad alto tasso di smaltimento, soprattutto in Toscana e nel Veneto, e di una certa attività della camorra sulle amministrazioni locali, al fine di offrire servizi illeciti e supporto per veicolare i rifiuti in Campania. Sono stati colpiti diversi gruppi criminali, soprattutto dell’area occidentale della città, nonché il famigerato “clan dei casalesi” operante nella zona di Casal dei Principi, come certamente sapete. Soprattutto, la Dia però ha lavorato in un settore che è poco noto, quello del gruppo di lavoro interforze per la TAV, i lavori dell’alta velocità ferroviaria sulla tratta Roma-Napoli. Attualmente competenze analoghe sono state estese anche alle risorse idriche del Mezzogiorno.

Questa struttura ha costituito un patrimonio informativo rilevantissimo. Vi do qualche cifra approssimativa, per ovvi motivi. Si parla di oltre 800 imprese monitorizzate e di quasi 10 mila soggetti analizzati, e voi capite che questo costituisce un patrimonio informativo utilissimo non solo alla Dia, ma anche a tutte le altre polizie che a noi possono far capo.

Abbiamo esaminato per sommi capi le caratteristiche della criminalità dell’ecomafia, le caratteristiche e l’attività svolta dalla Dia.

Ovviamente auspichiamo i provvedimenti legislativi di cui ha parlato il ministro. Dal punto di vista specifico, noi non vedremmo male un raccordo di tutti gli specifici reparti che nelle varie forze di polizia si interessano del fenomeno; e soprattutto la creazione di un sistema organico di circuitazione informativa, perchè così noi, con l’esperienza già maturata nel campo più generale della criminalità organizzata, potremmo costituire quel collettore di raccordo e di sviluppo che potrebbe dare notevoli risultati soprattutto nel prevenire il fenomeno e nell’inquadrarlo nella sua interezza.

Altrettanto dicasi in campo internazionale: noi auspichiamo, all’interno di tutti gli accordi bilaterali e multilaterali, la previsione di protocolli di intesa operativa che agevolino al massimo le attività investigative ed informative tra i vari paesi proprio nel settore dell’ecomafia.

Ecco, questo è il quadro che ho voluto darvi di questa nostra struttura, sulla quale il legislatore tanto contava e nella quale, vi assicuro, c’è personale particolarmente dedicato, che appassionatamente cerca di rendere al massimo, al servizio del paese.

Massimo Scalia, Presidente della Commissione. La ringrazio, dottor Alfiero, e vedo una piacevole concorrenza tra diversi settori nel mettere in piedi dei data base per avere un quadro delle società, dei nomi; anche se ci facciamo concorrenza, spero che poi questa concorrenza confluisca in un coordinamento, il che andrebbe benissimo.

Credo che nessuno possa avere niente in contrario se, non rispettando l’ordine alfabetico degli interventi, darò la parola al dottor Monaco, il quale mi ha pregato di avere subito la parola, avendo successivamente impegni urgenti.

Rino Monaco, Vicecapo della polizia di Stato. Signor Presidente, la ringrazio innanzitutto per avermi invitato e per aver consentito di elaborare alcune riflessioni su una tematica così importante, così attuale e con riflessi di grosso impatto sulla sicurezza e la salute dei cittadini. Proprio in virtù del mio incarico dipartimentale volevo accennare ai problemi del coordinamento in questo settore, che credo siano sicuramente prioritari per migliorare l’attività delle forze di polizia, in un contesto che sicuramente si presenterà sempre più oscuro nei prossimi anni per i rilevanti interessi economici che gravitano attorno al ciclo dei rifiuti.

È indubbio che anche nel nostro paese, sia nella società civile, sia nelle istituzioni, è stata acquisita una nuova sensibilità nei confronti delle problematiche e della salvaguardia dell’ambiente.

L’ambiente, che fino a poco tempo fa non rappresentava neppure l’oggetto di un’autonoma attenzione, assurge oggi al ruolo di valore primario da salvaguardare per la tutela delle generazioni attuali e future, come riconoscono ormai le costituzioni materiali della maggioranza dei paesi e dell’Unione europea.

Tale nuovo sentire è patrimonio delle diverse componenti del corpo sociale (istituzioni, imprenditoria, enti locali, associazionismo) e si è tramutato in un rilevante impegno complessivo sotto il piano delle risorse impiegate e da impiegare.

Ne è una prova evidente l’attenzione che il legislatore dedica alle tematiche ambientali, avendo cura, accanto alla definizione degli impegni programmatici ed alla individuazione degli interventi emergenziali, di perfezionare il quadro delle misure di contrasto in termini di efficienza ed efficacia.

È recente, infatti, l’entrata in vigore della legge
9 dicembre 1998, n. 426, sui “Nuovi interventi in campo ambientale”, che ha apportato, tra l’altro, un aggiornamento al decreto legislativo n. 22 del 1997, di recepimento della normativa europea in materia di rifiuti, rifiuti pericolosi ed imballaggi. In tale contesto spiccano per importanza sul piano del potenziamento delle misure operative: la modifica al comma 1 dell’articolo 51 del decreto legislativo testé citato, che subordina, in caso di patteggiamento, il beneficio della sospensione condizionale all’esecuzione degli interventi di messa in sicurezza, bonifica
e ripristino ambientale; l’impiego dell’amministrazione della difesa per la demolizione di manufatti abusivi nelle aree protette nazionali. Contestualmente, è in fase avanzata la discussione in Parlamento di un provvedimento per l’introduzione di una specifica normativa penale in tema di delitti contro l’ambiente, che copra la vasta gamma delle ipotesi che vanno dall’abbandono di rifiuti fino alla cosiddetta “ecomafia”.

Anche l’Unione europea ha avvertito l’esigenza di tutelare il “valore ambiente” con l’introduzione di disposizioni penali che permettano di comminare sanzioni efficaci e dissuasive, quando si inquinino gravemente aria, acqua, suolo o sottosuolo in modo da causare danni rilevanti o da provocare un manifesto pericolo per l’ambiente.

Il livello di sensibilità europea è testimoniato, tra l’altro, dallo stimolo ad approfondire la possibilità di perseguire penalmente anche le persone giuridiche responsabili di danni all’ambiente.

Non è casuale, al riguardo, che i ministri dell’interno e della giustizia dell’UE, nella recente riunione di Berlino, abbiano ritenuto di inserire la tutela dell’ambiente tra le priorità dell’azione europea. Non vi è, del resto, contesto europeo nel quale si dibatta di sicurezza che non affronti il tema della sicurezza e della criminalità ambientale.

Invero, l’esigenza di conciliare lo sviluppo socio-economico con la salvaguardia del contesto ambientale ha fatto crescere, in progressione geometrica, il giro d’affari che ruota attorno alla raccolta, al trattamento ed allo smaltimento dei rifiuti, attirando talora appetiti ed interessi non sempre trasparenti.

La comprovata interessenza nel settore di strutture criminali organizzate è alla base della stessa etimologia del termine “ecomafia”, coniato solo pochi anni fa ed oggi già diffuso non solo tra gli addetti ai lavori per sottolineare il doppio pericolo che ne promana, sia per la sicurezza pubblica, sia per quella ambientale.

Storicamente, non sarebbe la prima volta che la grande criminalità impiega le proprie capacità di intimidazione e condizionamento delle strutture pubbliche e degli operatori economici per sfruttare le possibilità di arricchimento offerte dal settore degli appalti e dei lavori pubblici.

Vicende come quelle del “sacco di Palermo”, del quinto centro siderurgico di Gioia Tauro, della ricostruzione post terremoto nell’area napoletana fanno parte della storia stessa della mafia più recente.

Ora va però bene considerata la minaccia (per la stessa salute dei cittadini) di una escalation delle attività di impatto ambientale del crimine organizzato, che possa condurre ad un perverso, stabile legame con industrie senza scrupoli per l’occultamento o il trasferimento di sostanze tossiche o nocive.

È lo stesso livello della minaccia che impone, ora, di superare un approccio meramente “occasionale” ed “episodico” al crimine ambientale, per ricondurre gli interventi di settore nel quadro di una integrazione delle diversificate attività che, salvaguardando l’ambiente, tutelino anche il bene della sicurezza pubblica. In questo senso è fondamentale che vengano convogliate sulle autorità di pubblica sicurezza tutte le informazioni necessarie ad una coordinata, quotidiana e diffusa opera di prevenzione.

A titolo di esempio, il poter disporre di un completo e costante monitoraggio delle situazioni e delle stesse imprese potenzialmente “a rischio” (perché producono o impiegano sostanze tossiche di difficile smaltimento), consentirebbe una accorta opera di pianificazione e di programmazione degli interventi, ottimizzando l’impiego delle risorse disponibili, sia quelle a carattere più specialistico, sia quelle generiche di polizia.

D’altro canto appare a tutti chiaro che la salvaguardia dell’ambiente rappresenta una sfida ancora più ampia della stessa criminalità mafiosa, che, invero, costituisce solo una parte della minaccia complessiva.

Non a caso, infatti, questo forum nazionale giustappone, ma non sovrappone, il problema generale dei crimini ambientali con quello più specifico dell’ecomafia, da intendere come diretta ingerenza della criminalità organizzata in campo ambientale.

Le due questioni, infatti, sono strettamente correlate. Ciò appare, del resto, evidente esaminando le più recenti ipotesi di aggiornamento normativo in tema di prevenzione e repressione dei crimini ambientali in discussione in Parlamento, laddove la lotta all’ecomafia è sempre inserita nel contesto più vasto del contrasto agli illeciti contro l’ambiente. Per fare un esempio concreto, sull’inquinamento del mare influiscono sia le navi “dei veleni”, sia le petroliere che lavano le cisterne, sia gli scarichi abusivi di imprese, abitazioni e strutture turistiche, sia le inciviltà di turisti e villeggianti. È altrettanto chiaro, allora, che gli strumenti operativi concretamente applicabili devono adattarsi ad una realtà estremamente frastagliata, che offre una pluralità di situazioni rilevanti sotto il profilo della tutela ambientale.

Certamente occorreranno approcci strategici e metodiche di intervento differenziate laddove si operi nei confronti di situazioni di mero degrado o di criminalità diffusa, istituzioni locali inadempienti delle disposizioni di legge circa lo smaltimento dei rifiuti e gli scarichi fognari, imprenditori inadempienti degli obblighi verso l’ambiente, organizzazioni di tipo mafioso o altre strutture criminali la cui attività comporti danni per l’ambiente (si pensi a trafficanti di uranio o di sostanze velenose).

Non è facile esprimere giudizi di priorità su quale di questi quattro momenti rappresenti il pericolo (quantitativamente e qualitativamente) maggiore per la tutela dell’ambiente e della salute.

Appare, comunque, indubitabile che la lotta all’ecomafia in senso stretto (ossia alla mafia che danneggia l’ambiente) deve anche tenere conto dell’ulteriore minaccia, che già promana dall’organizzazione criminale in sé. L’ecobusiness, infatti, è solo uno tra i più recenti settori di interesse della malavita organizzata, sempre alla ricerca di nuove opportunità di profitto offerte dai diversi contesti economico-
sociali, che si sono storicamente succeduti.

Nel settore ambientale, la criminalità mafiosa può sfruttare le imponenti disponibilità economiche da provento illecito, che la pongono al di sopra delle regole della concorrenza; la gestione del “controllo criminale del territorio” in termini di siti per lo stoccaggio e la dispersione dei rifiuti; la parallela gestione di canali polivalenti per traffici illeciti (droga, armi, esseri umani), che possono risultare utili nei traffici ambientali (rifiuti urbani, tossici, radioattivi, eccetera); la disponibilità di imprese e di professionalità da impiegare nel settore; il potere di intimidazione nei confronti delle altre imprese e degli altri operatori impegnati in tali contesti; le contiguità e le infiltrazioni all’interno degli organismi locali e dell’apparato istituzionale per ottenere l’assegnazione degli appalti desiderati ed evitare accertamenti approfonditi.

Tuttavia, può sembrare un paradosso, proprio nei confronti degli illeciti ambientali riconducibili alle tradizionali consorterie di tipo mafioso è giusto nutrire una qualche maggiore aspettativa di concreti risultati ottenibili sul fronte dell’azione di contrasto. È possibile, infatti, ricorrere alla positiva ultradecennale esperienza operativa di lotta alla mafia che si giova di un quadro legislativo efficace e costantemente aggiornato, un patrimonio informativo sedimentato sulle organizzazioni ed i loro affiliati, strutture investigative altamente qualificate.

Il completamento, ad opera del legislatore, delle misure preventive e repressive afferenti agli interessi della criminalità mafiosa in specifiche attività illecite di rilievo ambientale consentirà di innalzare un ulteriore argine a supporto dell’azione contro le organizzazioni mafiose. Ciò consentirebbe infatti di perpetuare la positiva esperienza di interventi legislativi ad hoc su settori sensibili (appalti, estorsione, riciclaggio, usura, stupefacenti, immigrazione) accanto all’aggressione all’organizzazione criminale in sé.

Su un piano più generale, comunque, proprio la dinamicità del “mercato dei rifiuti”, la sua sempre più spiccata dimensione internazionale, la competenza tecnica necessaria per operare in determinati campi di rilievo ambientale, fanno ritenere ormai conveniente superare lo stretto riferimento alla criminalità di tipo mafioso così come la definisce l’art. 416-bis del codice penale, per affrontare, in un più ampio contesto unitario, la minaccia per l’ambiente apportata dalla criminalità. Ciò eviterebbe di condizionare l’applicazione delle sanzioni più gravi e l’utilizzo degli strumenti investigativi più avanzati al previo accertamento della “mafiosità” della struttura criminale. Detto accertamento è forse più agevole in determinate realtà geo-criminali, ma è sicuramente più complesso in contesti territoriali diversi, specie in assenza di precedenti specifici. Mi riferisco alla Sardegna, in cui nei mesi scorsi vi è stato un grosso pericolo per i parchi che debbono essere istituiti, con incendi numerosissimi, sicuramente ad opera della criminalità. Gli investigatori trovano difficoltà a contrastare questo fenomeno con gli strumenti legislativi approntati per affrontare fenomeni di stampo mafioso. Eppure in Sardegna non è stata ipotizzata un’associazione di stampo mafioso, perché la cultura sarda fa da freno a che in quell’isola si ipotizzi un’associazione di questo tipo.

Si avverte, in sostanza, l’esigenza di perseguire in termini di massima efficacia, al di là dei singoli illeciti, tutte le realtà organizzate che pongono in essere stabilmente comportamenti rilevanti a danno dell’ambiente. La scelta appare in linea con i più recenti strumenti di intervento per la lotta alla criminalità organizzata adottati o di prossima adozione, in ambito internazionale ed europeo, laddove è chiara la coscienza della minaccia mondiale che promana dalla “criminalità organizzata” nel suo insieme, rispetto alla quale la malavita di tipo mafioso, con le sue rigide sovrastrutture, rappresenta solo una delle componenti.

Può essere ricordato, al riguardo, l’impegno delle Nazioni Unite per una convenzione contro la criminalità organizzata, nonché l’adozione, nel decorso anno, da parte dei ministri degli affari interni e di giustizia dell’Unione europea, dell’azione comune che sancisce la punibilità della partecipazione ad un’associazione criminale.

Con questo non si vuole certo stornare l’attenzione dalla grande criminalità di tipo mafioso, che resta sempre una delle massime priorità di intervento del dipartimento della pubblica sicurezza, che va combattuta come mafia e come ecomafia.

Si deve, comunque, prendere atto che, negli ultimi anni, il panorama della grande criminalità nel nostro paese è mutato con l’avvento dei gruppi etnici ed il ruolo crescente di centrali criminali internazionali nella gestione dei grandi flussi illeciti.

ln questa prospettiva, saranno sempre minori le attività che resteranno di esclusivo appannaggio della malavita organizzata tradizionale, mentre cresceranno gli attori criminali con interessi nei settori dell’illecito più proficui: tra questi, senz’altro quello ambientale. Del resto, già attualmente si riscontra un aumento delle interconnessioni e delle contiguità tra le diverse componenti dello scenario criminale.

Non a caso vanno sempre più sfumandosi i confini che separano, nell’ambito della criminalità organizzata, quella di tipo mafioso, quella su base etnica e le organizzazioni straniere operanti a livello internazionale. Sempre meno distinto, inoltre, appare anche il legame tra crimine organizzato e criminalità diffusa, con importanti momenti di osmosi e sinergia tra le due realtà.

In tale prospettiva assume un significativo rilievo il diffondersi nel corpo sociale di quella “cultura della legalità” che non è solo rispetto e condivisione delle regole, ma è anche e soprattutto impegno nel segnalare alle autorità competenti situazioni di degrado o disagio ancor prima che si incancreniscano, divenendo terreno fertile per lucrosi affari illeciti.

Allo stesso tempo crescono i rapporti tra malavita organizzata e criminalità “dei colletti bianchi“. È forse questo lo snodo più sensibile per il settore degli illeciti ambientali, in cui possono incontrarsi interessi di imprenditori senza scrupoli e di strutture criminali.

In sintesi, proprio affrontando problematiche trasversali come quella dei crimini contro l’ambiente con la quale si impone di ricondurre ad un denominatore unico illeciti strutturalmente e giuridicamente ben diversi non si può non avvertire come superato un approccio impostato sulla natura mafiosa dell’organizzazione. Mi riferisco all’abusivismo edilizio, al “ciclo del cemento”, al “ciclo dei rifiuti”, allo smaltimento di sostanze tossiche, pericolose o radioattive, ad attività in danno della flora e della fauna, eccetera.

Se la mafia è sicuramente ancora la forma più pericolosa di criminalità organizzata attiva nel nostro paese, non è però altrettanto certo che essa sia il pericolo maggiore per l’ambiente, dal momento che sovente essa rappresenta solo una delle componenti pericolose di un minaccia più complessa.

E partendo da tale convinzione che è possibile indicare le direttrici essenziali per un’azione di contrasto che sappia essere efficace ed efficiente, contemperando una visione strategica unitaria dei vari aspetti della salvaguardia ambientale che incidono sul più vasto contesto della tutela della sicurezza pubblica e su quello più ristretto della lotta alla criminalità organizzata; una capacità di intervento specializzato nei diversificati settori di rilievo ambientale.

Nella sostanza, una risposta vincente sul piano dell’attività di polizia non può che essere quella di rendere maggiormente disponibile, per l’attività di prevenzione e contrasto, il patrimonio informativo in materia di crimini ambientali; sviluppare più intense sinergie info-operative tra gli organismi deputati al controllo ed all’accertamento delle violazioni; sollecitare la collaborazione della collettività affinché vengano segnalati per tempo quegli illeciti diffusi (oggi non ancora avvertiti come emergenza), costituenti il terreno fertile su cui si radicano crimini ambientali di più ampio spessore.

Appare, quindi, possibile delineare fin d’ora le direttrici di intervento da perseguire, la cui attuazione è già in parte avviata: definire uno stabile raccordo informativo con gli organismi statali (Ministero dell’ambiente, Agenzia nazionale per la protezione dell’ambiente) e locali (Agenzie regionali per la protezione dell’ambiente, enti locali, organismi di polizia locale), cui affluiscono le informazioni fornite dalla pubblica amministrazione o raccolte sul territorio; perfezionare il coordinamento informativo ed operativo tra le varie strutture di polizia, compresi il Corpo forestale dello Stato e le polizie locali, affinché, nel rispetto e nella valorizzazione delle competenze specialistiche di ogni organizzazione, possano essere adeguatamente sfruttati i margini investigativi che vanno oltre l’illecito meramente ambientale, per coinvolgere contesti più ampi (criminalità organizzata, corruzione, criminalità economica, traffico internazionale di sostanze pericolose, eccetera); coinvolgere, ancora di più, gli uffici specializzati nella lotta al crimine organizzato, resi oggi ancora più vicini al territorio con la direttiva del ministro Napolitano; definire, a livello locale e nazionale, stabili raccordi tra le strutture deputate alla tutela della sicurezza pubblica e quelle della pubblica amministrazione che hanno competenze in campo ambientale, sia per il supporto degli organismi operativi ed investigativi, sia per la rapida gestione delle emergenze sul piano della tutela della sicurezza pubblica; ripartire, sul territorio, le attività di verifica agli impianti di raccolta e smaltimento dei rifiuti e delle altre attività sensibili sul piano ambientale, per il riscontro costante della persistenza dei previsti requisiti tecnici e morali; riscontrare, nel tempo, l’adempimento degli obblighi di riduzione in pristino, in relazione a situazioni illegali già accertate e sanzionate; perfezionare lo specifico bagaglio professionale degli operatori di polizia, non solo per l’impiego nelle unità specializzate, ma anche per una diffusiva azione a tutela dell’ambiente nel corso degli ordinari servizi di prevenzione e controllo del territorio ovvero di controllo sui flussi stradali, ferroviari, marittimi ed aerei.

Di tutte queste iniziative ed adempimenti il dipartimento della pubblica sicurezza, quale organismo tecnico a cui è affidata la realizzazione degli indirizzi politici del ministro dell’interno nel campo della sicurezza pubblica, si farà sicuramente interprete con la massima disponibilità, senza preconcette rivendicazioni di principio o di privilegio, nell’ottica di realizzare la migliore sinergia tra tutti gli operatori per il raggiungimento del bene di tutti.

Massimo Scalia, Presidente della Commissione. Dottor Monaco, la ringrazio e prego lei e gli altri relatori di consegnare, se non l’avessero già fatto, gli interventi scritti alla segreteria, in modo di averli a disposizione ai fini della pubblicazione degli atti del forum.

Vedo il prefetto Luigi Rossi del SECIT e lo ringrazio per la sua presenza.

Invito il dottor Cottone a prendere la parola.

Tommaso Cottone, Viceprocuratore generale della Corte dei conti. Alcuni elementi contenuti nella relazione del Presidente Scalia legittimano e danno significato a questa mia partecipazione al forum, la partecipazione, cioè, di un magistrato della Procura della Corte dei conti, ed offrono gli spunti di riflessione che intendo sviluppare.

In effetti, la specificità del convegno che impegna i temi della criminalità ambientale e della lotta alle ecomafie, sembra, se non escludere, quantomeno emarginare, ruoli di operatori diversi da magistrati penali e forze dell’ordine, di operatori, cioè, non direttamente coinvolti in attività di contrasto di carattere giudiziario e militare. Ed anche in questo stesso forum, dove pure è dato cogliere segnali di attenzioni e di strategie diverse, è assai debole la presenza di soggetti portatori di esperienze e di attribuzioni estranee a quei tipi di attività di contrasto. Anche in questa importante occasione, che ha il pregio di raccogliere, al livello più alto, le realtà più significative che si occupano di criminalità organizzata, appare ancora radicata una cultura di osservazione del fenomeno mafioso affidata allo scontro militare ed agli strumenti processuali.

Peraltro, che una sorta di “panpenalismo” sia tuttora imperante nella coscienza comune, lo testimoniano anche le proposte e le analisi che provengono dalle forze politiche, dalla società civile e dagli stessi organi inquirenti, i quali tutti, con toni più o meno convinti, richiedono l’inserimento nel sistema di nuove tipologie di reato; rivendicano inasprimenti di pena ed invocano potenziamenti delle forze dell’ordine. Rimedi, questi, tutti legittimi, da meditare e possibilmente da accogliere perché non è revocabile in dubbio che il sistema processuale e la organizzazione delle forze di polizia, richiedono pronti e radicali interventi; che esistono difficoltà nel perseguire, con un esercizio dell’azione penale compatibile con i problemi delle prescrizioni e delle decadenze, gran parte dei comportamenti criminosi perpretati in campo ambientale. Ma ancora, a mio avviso, si tratta di rimedi che, nella situazione attuale e sulla base delle esperienze acquisite sul campo, appaiono inadeguati ed incapaci di colpire il motore che muove gli interessi criminali.

Nonostante, infatti, i tentativi di analisi diverse che spostano l’osservazione del fenomeno dai comportamenti criminali ai processi economici ed agli interessi dell’imprenditoria, le riflessioni e le proposte rimangono ancora affidate alle tradizionali forze di contrasto che, ovviamente, risentono e privilegiano culture di contrasto fondate, come si è detto, su strumenti processuali e militari. Peraltro, in presenza di formule organizzatorie confuse, di carenza di coordinamenti, di incertezze nella definizione di competenze, di crisi di ruoli da parte di organismi istituzionali, di mancate attuazioni o di non sufficienti sperimentazioni dei nuovi meccanismi legislativi, appare ancora non cessato il regime di delega alla magistratura di funzioni di controllo proprie di altri organi con l’assunzione, da parte della stessa, di poteri vicari di altre realtà istituzionali.

Da più parti è stato denunciato che la criminalità nel settore dei rifiuti rappresenta un enorme affare e che in questa particolare attività economica, più che in altre attività, hanno trovato ospitalità intrecci di interessi tra imprenditoria deviata, operare della pubblica amministrazione e criminalità organizzata. Il perenne stato di emergenza nel quale operano le amministrazioni locali, la richiesta di servizi efficienti ed economici da parte dell’utenza, le resistenze delle popolazioni locali a consentire localizzazioni di impianti di smaltimento e discariche, la onerosità della normativa, la gravosità dei costi, l’accavallarsi delle competenze, l’eccessiva condivisione delle responsabilità, la farraginosità dei controlli, hanno di fatto creato un humus ideale per l’operare nell’illegalità e per l’allignare degli interessi criminali.

Non è certo questa la sede, dopo tante autorevoli analisi svolte da osservatori privilegiati provenienti dalla politica, dall’amministrazione attiva e dalla magistratura ordinaria, per ricostruire storicamente la nascita della presenza mafiosa nel settore rifiuti. Richiamo solo l’attenzione sul fatto che, prima di sviluppare qualunque strategia di contrasto, occorre prendere coscienza che la criminalità organizzata, in questa come in altre attività d’impresa, non ha vocazioni specifiche o preferenze particolari. L’imprenditoria mafiosa, alla pari della imprenditoria sana, procede ad analisi di mercato; studia i meccanismi legislativi e le regole che disciplinano il settore; individua i soggetti concorrenti e le possibili alleanze; valuta la forza e la capacità manageriale della committenza; stima i costi e le risorse da impegnare; apprezza le possibilità di finanziamenti e gli incentivi pubblici; misura la capacità di contrasto delle istituzioni pubbliche ed il sistema dei controlli; valuta i rischi; sperimenta la penetrazione in località favorevoli dove controlla in modo più intenso il territorio ed, infine, lancia la sua iniziativa imprenditoriale
su larga scala impadronendosi, via via, degli altri mercati.

Si tratta, quindi, di una vera e propria strategia imprenditoriale che richiede, per essere utilmente contrastata, la piena comprensione dei meccanismi del mercato e l’adozione di contromisure tali da eliminare o quantomeno ridurre l’interesse economico. Ed in tale logica, occorrono non solo altre letture ed analisi, ma anche l’utilizzo competenze e di strumenti diversi da quelli tradizionali fin qui usati.

Cercherò di indicare brevemente alcune possibili strade da seguire per conseguire tale obiettivo, precisando fin d’ora che i diversi percorsi investigativi e di intervento che saranno proposti non pretendono certo di essere sostitutivi delle attività della magistratura e delle forze dell’ordine. Si tratta di ulteriori strumenti da utilizzarsi, come si vedrà, sia autonomamente, sia a supporto dell’azione dell’autorità inquirente.

Il primo strumento da scoprire ed utilizzare è quello del fisco e delle articolazioni dell’amministrazione finanziaria. In proposito, occorre innanzitutto ricordare che in taluni paesi, come ad esempio gli Stati Uniti d’America, l’asse della lotta alla criminalità economica si è spostato dalle articolazioni delle amministrazioni degli interni e della giustizia a quelle del tesoro e delle finanze. Ciò nella considerazione che, trattandosi di fatti attinenti al mondo dell’economia e della finanza, occorrono professionalità specifiche per interpretare gli interessi che muovono i flussi d’investimento da un settore ad un altro, da un paese ad un altro.

In un recente convegno sul riciclaggio promosso a Palermo dalla Commissione parlamentare antimafia, questo modo di procedere è stato presentato come la vera possibilità ed occasione di contrasto alla criminalità organizzata ed è stato salutato con grande interesse l’annuncio del ministro delle finanze Visco di avere costituito, presso il Corpo degli ispettori tributari del SECIT, un pool di esperti tributari per studiare comportamenti, procedure e modalità di presenza nei mercati di soggetti esercenti attività economiche a rischio, cioè attività nelle quali più forti sono gli interessi ed il controllo dell’imprenditoria mafiosa. In effetti, sulla base di espresse indicazioni della direzione nazionale antimafia, quel pool sta conducendo, in questa prima fase di lavoro, una indagine a tappeto su tutte le imprese operanti nelle regioni a rischio nel settore della raccolta, trasporto e smaltimento dei rifiuti solidi urbani, speciali e pericolosi, nonché nei settori del movimento terra e dell’autotrasporto.

I primi risultati delle analisi, che vengono compiute per lo più con l’utilizzo delle notizie presenti nei sistemi informativi dell’anagrafe tributaria e delle camere di commercio, offrono già spunti di estremo interesse in quanto rivelano lo spaccato di un operare imprenditoriale incredibilmente anomalo ed allarmante. Ad esempio, nella provincia di Caserta, operano oltre settanta imprese nel settore rifiuti. Di queste, gran parte non hanno neppure un dipendente e non possiedono neppure un mezzo di trasporto. Numerose imprese non si sono aggiudicate mai un appalto. Alle gare di appalto per il settore dei rifiuti bandite dalle varie committenze pubbliche che risiedono nella provincia (soprattutto dai comuni e dalle ASL) partecipano normalmente moltissime imprese e le gare vengono vinte con percentuali di ribasso incredibilmente basse, che fanno presumere accordi per governare ed alterare le gare. Ad esempio, in un comune è risultata aggiudicataria di una gara, cui hanno partecipato ben venti ditte concorrenti, una ditta che ha presentato un ribasso di appena lo 0,4 per cento, un ribasso cioè che chiaramente testimonia, a monte della procedura concorsuale, un totale controllo dei meccanismi di gara, un totale controllo delle offerte.

Se, poi, si passa alle analisi del soggetti titolari delle imprese ed alle composizioni societarie, si rinvengono nominativi di soggetti (alcuni dei quali legati da vincoli di parentela od affinità con noti mafiosi) che hanno interessi diretti ed indiretti in moltissime imprese. Insomma, il quadro che se ne ricava, è tale da fare prefigurare non la presenza di un mercato libero in cui regnano i meccanismi della domanda e dell’offerta, ma regimi di vero e proprio monopolio o, quanto meno, di oligopolio.

Ed, ancora, se si intrecciano i dati provenienti da queste semplici rilevazioni con i dati che con grande intelligenza investigativa sta raccogliendo la Commissione parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti, si intravede che queste stesse ditte e soggetti operano anche in altre realtà territoriali, talvolta assai lontane dalla casa madre, sicché diventa possibile disegnare una mappa di presenza imprenditoriale e di controllo del mercato di estremo interesse perché coincidente, per la parte che sarà resa estensiva nel momento del completamento della complessa indagine, con la presenza e l’infiltrazione mafiosa nell’intero territorio nazionale.

Quando saranno definiti i criteri per selezionare le aziende che dovranno essere controllate dalla guardia di finanza, secondo l’espressa direttiva del Ministro delle finanze che ha inserito nel programma degli accertamenti di quest’anno tali tipi di controlli, sicuramente emergeranno ulteriori intrecci societari e presenze imprenditoriali che consentiranno di rendere più definito il quadro dei rapporti tra imprenditoria deviata, operare della pubblica amministrazione e criminalità organizzata. Laddove, poi, i controlli fiscali non faranno emergere alcuna situazione di rilevanza penale, rimarrà pur sempre l’esercizio di un potere di controllo su di una attività che, a prescindere da quegli allarmi, richiede una intensa azione di vigilanza in quanto si esplica, come da più parti è stato denunciato, con gravissime irregolarità che pongono a rischio ed in pericolo l’integrità dell’ambiente e la salute pubblica.

Lo strumento fiscale, infatti, non si limita ai soli fini conoscitivi ed alle analisi delle presenze imprenditoriali; né può risolversi in una sola attività servente la giustizia. Serve da riequilibrio e da ripristino delle alterazioni del mercato prodotte dall’operare nella illegalità. È uno strumento per restituire ai mercati le regole della concorrenza e per ricondurre in condizioni di parità gli operatori economici. Ed, infatti, per ciascuna azienda gli oneri fiscali rappresentano un importante elemento di costo; una componente che, se ridotta od eliminata, può consentire attività a taluni soggetti ed escludere altri. Le aziende sane che operano nella trasparenza e nella legalità, in un settore così complesso e delicato qual è quello dei rifiuti, soffrono di svantaggi così rilevanti nei confronti dell’altra imprenditoria, che spesso vengono espunti dai mercati. Sicchè, spesso, l’operare nella illegalità diventa una necessità. Ed una volta intrapresa quella strada occorre poi intervenire per ammorbidire i controlli, per non riconoscere ai lavoratori le indennità previdenziali ed assistenziali, per governare le gare.... e così via, fino a che, a prescindere dai morti ammazzati, non vi è più alcuna differenza tra l’operare mafioso e l’operare della imprenditoria deviata. Il terreno di coltura diventa sempre più fertile e la mobilitazione di eserciti di carabinieri e poliziotti non varrà a ricomporre le lacerazioni prodotte ai mercati ed alla società civile.

Il secondo filone di riflessione attiene al sistema dei controlli.

Il Presidente Scalia, nella sua articolata e profonda prolusione, ha ricordato quanti e quali controlli sono presenti nell’esercizio delle varie attività connesse al ciclo dei rifiuti. Questo farebbe presumere che il settore sia tenuto sotto stretta vigilanza e che, quindi, siano improbabili, o quantomeno difficili, attività illecite. La realtà, invece, è del tutto diversa. Gli sfasci prodotti all’ambiente ed alla salute pubblica dalle attività connesse al ciclo dei rifiuti sono esperienza di ogni osservatore.

La relazione introduttiva ha tentato una elencazione dei vari organismi e soggetti preposti ad attività di controllo nel settore rifiuti, elencazione che, tuttavia, nonostante lo sforzo sistematico, ha confessato la difficoltà di ricomprendere ogni fattispecie che riguarda i singoli segmenti del processo produttivo attinente al ciclo.

Il quadro che ne è scaturito, tuttavia, è oltremodo significativo perché denuncia chiaramente come la congerie di soggetti e strumenti di controllo che caratterizzano questa attività crea, nella realtà, un accavallarsi di competenze, un intreccio di interessi, un distinguo di adempimenti ed un concorso di responsabilità così fitti che lasciano, di fatto, amplissime zone bianche dove l’affollamento delle competenze offre spazi ad omissioni di interventi, a discarico di responsabilità, a dotte ma sterili disquisizioni su rivendicazioni o negazioni di attribuzioni, che, il più delle volte, nascondono timidezze o volontà negative di volere veramente esercitare funzioni di controllo. Il problema dei controlli non è perciò nella carenza di soggetti preposti, ma nell’affollamento di troppi soggetti.

Il sistema, dunque, è molto carente e farraginoso, improduttivo ed inefficiente. Riesce a dirigersi soltanto nei confronti di chi vuole operare nella legalità e, così come è congegnato, risulta persino di grave intralcio e d’ostacolo alla imprenditoria sana ed alla pubblica amministrazione attenta. Paradossalmente, l’esercizio censorio dell’azione di controllo nei confronti dell’imprenditoria sana vuole operare nel pieno rispetto della normativa, risulta alleato della imprenditoria deviata alla quale offre maggiore capacità di presenza nel mercato.

In effetti, il legislatore nazionale e regionale, soprattutto in questi ultimi anni ha interpretato la regolamentazione della funzione di controllo assegnando disordinatamente, ai più svariati soggetti, funzioni e poteri specifici riferiti alle singole attività ed ai singoli processi produttivi. Ne è scaturito un sistema eccessivamente frazionato che riesce quasi impossibile ricondurre ad unità ai fini della verifica del conseguimento degli obiettivi dell’attività e della ricerca delle responsabilità derivanti dal mancato conseguimento degli obiettivi medesimi. Ed infatti, il più delle volte ci si trova ad indagare su eventi dannosi per l’ambiente e nocivi per la salute, dove i singoli segmenti di attività (amministrativa e produttiva) escono indenni dal vaglio dei controllori mentre l’intero processo genera danni gravissimi. Il frazionamento e la disarticolazione della funzione non riescono a cogliere l’intero processo; non riescono a collegare le singole attività al risultato finale, non collegano l’azione di controllo alla ricerca delle responsabilità ed all’esercizio dell’azione di responsabilità.

Peraltro, questo modo di interpretare l’attività di controllo, assegnando compiti sempre più specifici a soggetti sempre più specialistici, non si rinviene soltanto nel governo delle attività connesse al ciclo dei rifiuti. È un indirizzo generale che caratterizza la normativa di questi ultimi anni, nel corso dei quali si è assistito (e, a quanto sembra, il processo non si è arrestato) ad una disarticolazione della funzione di controllo e ad un proliferare di competenze (si pensi, ad esempio, al moltiplicarsi delle authorities) che — unitamente alla perdita di osservatori competenti e professionali, aventi i medesimi referenti istituzionali — non solo non hanno consentito la nascita di culture di controllo, ma anche hanno mortificato quei soggetti istituzionali che esercitavano funzioni generali di controllo caratterizzate da autonomie ed indipendenze tutelate da norme primarie e costituzionali. La funzione di controllo, infatti, non può essere frutto di improvvisazioni né può essere svolta da soggetti non investiti di autonomia e di indipendenza. La funzione di controllo non può seguire gli umori e le emergenze dei disastri o disfunzioni che di tanto in tanto si registrano. Non può subire le emozioni delle urgenze ed essere affidata ad organi inventati sull’onda dello scandalo o dello scoop investigativo o giornalistico.

La funzione di controllo appartiene allo “Stato comunità” e deve essere affidata ad organi dello “Stato comunità”, che non godano o soffrano degli effimeri consensi delle maggioranze del momento, che non siano gregarie degli organi di amministrazione attiva.

Per questi motivi, ritengo che, per rimediare all’attuale sostanziale carenza di controlli, occorra procedere ad un profondo ripensamento della funzione e tentare una ricomposizione, attorno a pochi e definiti organismi, dei segmenti nei quali si articola l’intera attività, assegnando ai soggetti controllori compiti lontani da commistioni con responsabilità gestionali, dimensioni di neutralità rispetto ai poteri degli esecutivi, nazionale e regionali, ed interlocutori istituzionali rapportati ai soli livelli del Parlamento e delle assemblee territoriali. Al di là di ogni ipotesi centralista di ricondurre i controlli in articolazioni lontane dalla periferia, ritengo che l’organizzazione dei controlli, soprattutto in campo ambientale e nello specifico settore dei rifiuti, debba definitivamente abbandonare le scelte “democraticiste” della diffusione ed il frazionamento tra tanti soggetti per ricercare invece, con l’ausilio di organi tecnici specializzati, forme di concentrazione in grado di seguire e comprendere i processi unitari e di intervenire attivando, ove i casi lo richiedano, azioni di responsabilità nei confronti sia di chi agisce in dispregio alle leggi e procura danni alla collettività, sia nei confronti di chi, investito di compiti di vigilanza e controllo, non esercita tali compiti nelle forme dovute e con i risultati attesi. La democrazia si misura nell’assunzione delle responsabilità, non con la diffusione e la dispersione della funzione.

Il terzo elemento di riflessione riguarda l’azione di danno ambientale.

Ricordo a tutti noi che, prima dell’entrata in vigore della legge istitutiva del Ministero dell’ambiente, questa azione era consegnata alla competenza della procura generale della Corte dei conti, che aveva l’obbligo (non la discrezionalità) di attivarla in presenza di ipotesi di responsabilità di natura amministrativo-contabile da parte degli amministratori e funzionari pubblici che, con comportamenti colposi o dolosi, avevano causato danni all’ambiente. In virtù di tali attribuzioni, l’ambiente disponeva di un organo del pubblico ministero che dava, lo si ripete, obbligatoriamente, avvio ad indagini e procedure giurisdizionali dirette ad accertare e colpire i comportamenti dannosi: una pressione fortissima sugli amministratori pubblici che dovevano dare conto degli effetti della loro attività amministrativa ad una magistratura attenta, oltrechè, naturalmente, autonoma e neutrale.

Peraltro, l’azione giudiziaria il più delle volte seguiva e completava l’azione di controllo, svolta dalla stessa Corte dei conti, sugli atti e le attività di tutte le amministrazioni centrali, regionali e locali, e sulle altre articolazioni della finanza pubblica assoggettate al suo controllo. Ed ancora, quell’azione di danno, avente mero carattere patrimoniale e risarcitorio, non soffriva delle difficoltà processuali del giudizio penale perché non era legata ai pesanti oneri probatori di quel processo, non dovendo dimostrare alcuna intenzionalità dell’evento ma soltanto la negligenza, l’imperizia, la superficialità e l’incompetenza nell’operare amministrativo.

La procura generale della Corte dei conti si era attrezzata a svolgere questo delicato incarico; aveva attivato moltissimi procedimenti giudiziari per danno ambientale; davanti a notitiae damni aveva dato avvio ad inchieste che spesso avevano prevenuto ed interdetto azioni dannose; in sintesi, aveva scoperto una vera e propria vocazione ambientalista a difesa degli interessi dello “Stato comunità”, interessi soprattutto diretti a buone azioni di governo atte a prevenire comportamenti in danno all’ambiente più che a richiedere, a disastri avvenuti, risarcimenti o pene detentive.

Mi si consenta di osservare che questo prezioso strumento di prevenzione e di contrasto, a causa di una non calibrata scelta legislativa, è andato irrimediabilmente perduto. La legge istitutiva del Ministero dell’ambiente, infatti, ha privato la Corte dei conti della giurisdizione sul danno ambientale, consegnandola al giudice ordinario il quale, ovviamente, per i profili meramente risarcitori, non disponendo di un organo del pubblico ministero che dia avvio all’azione, necessita di un soggetto (il danneggiato) che invochi le misure patrimoniali nei confronti di altro soggetto (il danneggiatore). È esperienza comune che per le fattispecie di danno ambientale i comportamenti dannosi, normalmente, fanno carico agli amministratori, a quegli stessi soggetti, cioè, che avrebbero titolo a dare avvio all’azione di danno; azione che, dunque, dovrebbero promuovere contro se stessi. Che tale meccanismo legislativo non possa funzionare è di immediata comprensione. E lo dimostra il fatto che nella pratica, da quando la procura generale della Corte dei conti non ha più potuto occuparsi di danno ambientale, l’azione giudiziaria non è stata quasi più promossa. Con grande sollievo e soddisfazione degli amministratori locali, disattenti, incompetenti o collusi, i quali non vedono più in pericolo i loro patrimoni personali a copertura dei danni provocati dalle loro gestioni dannose. Né, come è stato denunciato più sopra, tali soggetti temono l’azione penale, il cui esito appare assai improbabile a causa sia degli oneri probatori che gravano sulla pubblica accusa, sia della diffusione delle responsabilità personali, sia dell’inadeguatezza della normativa che spesso rende l’utile avvio del processo penale incompatibile con le scadenze prescrizionali previste per gli specifici reati ambientali. Tanto meno appare credibile e praticabile la proposta formulata poco fa dal ministro Ronchi di affidare anche l’azione risarcitoria al giudice penale. Si seguita a percorrere la sterile e perdente via del “centropenalismo” che, nonostante tutti ne indichino i limiti, continua ad essere invocato.

A mio parere, dunque, lo Stato, con l’essersi di fatto privato della possibilità concreta di perseguire le ipotesi di danno ambientale mediante l’organo del pubblico ministero della Corte dei conti, ha rinunciato ad un formidabile vero strumento di contrasto al malgoverno e, quindi, alla criminalità organizzata. Un’occasione perduta ma che, con un sereno ripensamento del legislatore, può essere ancora recuperata.

Da ultimo, ritengo opportuno fare cenno alle possibilità investigative ed alle capacità di intervento che possono derivare da un’intelligente e coordinata azione di organi delle pubbliche amministrazioni diversi dalle tradizionali forze di polizia.

Innanzitutto, per tornare alle potenzialità che può esprimere l’amministrazione finanziaria, occorre prendere in considerazione l’organizzazione doganale che, allo stato attuale, possiede una struttura ed un sistema informativo in grado non solo di controllare tutte le merci che attraversano il paese, ma anche è in grado di bloccare in tempi reali qualunque transito di merci irregolari o sulle quali bisogna effettuare accertamenti.

La Commissione parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti ha avuto modo di accertare che l’intero territorio nazionale è solcato, per terra e per mare, da traffici di rifiuti provenienti anche da paesi esteri ovvero diretti in paesi extracomunitari. Si tratta per lo più di rifiuti speciali e pericolosi che viaggiano con bolle di accompagnamento contraffatte, che consentono mediante semplici modifiche di trasformare i rifiuti speciali in rifiuti solidi urbani da gettare in discarica, con danni gravissimi al territorio, alle falde acquifere ed alla salute dei cittadini. Si tratta di un affare enorme governato dalla criminalità organizzata, che si avvale di un’imprenditoria deviata, di protezioni e collusioni con pubbliche amministrazioni e produttori senza scrupoli.

Questi traffici avvengono in assenza di controlli adeguati, in quanto i soggetti preposti al controllo non dispongono di strumenti idonei a valutare le varie tipologie di rifiuto e quindi a contestare le infrazioni ed i reati. Ritengo di estremo interesse, ai fini della lotta alla criminalità organizzata che opera in questo settore, ipotizzare un utilizzo cooperativo dell’organizzazione doganale, di un’organizzazione, cioè, che possiede professionalità tecniche specifiche (possiede laboratori merceologici attrezzati a qualunque tipo di analisi), ricchissimi mezzi strumentali ed una diffusione assai articolata in tutto il territorio nazionale. Peraltro l’amministrazione doganale, oggi, dopo la costruzione di una più penetrante azione europea, ha liberato grandi disponibilità di risorse e ben potrebbe ricoprire questo rilevante compito.

Altri interventi che andrebbero valutati e valorizzati sono quelli che derivano dalle competenze delle polizie municipali e dai compiti di controllo affidati ad alcune articolazioni della polizia di Stato, quali, ad esempio, la polizia stradale. Sempre sul terreno dei traffici, opportune sensibilizzazioni, coinvolgimenti nella definizione e nella responsabilità degli obiettivi ed accorte politiche di coordinamento, possono contribuire a rendere meno improbabili e più efficaci i controlli.

Da ultimo, ma senza anche qui avere la pretesa di avere esaurito l’analisi di tutti gli organi che possono svolgere un ruolo attivo nella lotta alla criminalità organizzata, occorre fare cenno ai compiti ed all’articolazione del Corpo forestale dello Stato. A tale proposito, non possono non manifestarsi vivissime preoccupazioni sui recenti orientamenti governativi che intendono affidare i compiti del Corpo alle regioni. Si tratta di un progetto, è bene chiarire, che va ad attuare, sia pure con gravissimi ritardi, la previsione costituzionale della regionalizzazione del Corpo e che, pertanto, non appare opportuno contrastare. Tuttavia, in tale processo occorre considerare che il CFS in questi ultimi anni ha sviluppato competenze e culture investigative in campo ambientale che hanno consentito di conseguire importanti risultati. Allo stato attuale, la professionalità e l’organizzazione del Corpo forestale dello Stato assicurano alla magistratura inquirente strumenti d’indagine irrinunciabili. Un indiscriminato processo di regionalizzazione porterebbe a far perdere irrimediabilmente attribuzioni di organi di polizia giudiziaria al Corpo. Si tratta, infatti, di attribuzioni che, se anche dovessero essere conservate in un’articolazione regionale, non potrebbero più rappresentare, come all’attualità, momenti di garanzia all’agire in posizione di autonomia e di indipendenza al solo servizio della magistratura.

Appare assai strano che, proprio in un momento in cui si proclama una maggiore forza e competenza investigativa, la Magistratura venga privata di uno strumento investigativo di tale rilievo. Un’ulteriore disattenzione od una scelta in odio alla magistratura inquirente?

Un cenno all’azione politica consente di concludere riprendendo il motivo principale di questo intervento.

Il presente stato della lotta alla così detta ecomafia, soprattutto quella che opera nel settore dei rifiuti, denuncia con estrema chiarezza la debolezza di un sistema ancora tutto imperniato su azioni di contrasto di carattere militare e giudiziario. La cultura politica che è responsabile del sistema medesimo sembra ancora fare affidamento su tali azioni e la stessa magistratura e le forze dell’ordine, pur riconoscendo di non essere in grado di svolgere a pieno i compiti loro affidati, sembrano non gradire interventi di altri organismi di contrasto e si muovono con diffidenza alla ricerca di altre collaborazioni.

Tali atteggiamenti sembrano dovuti, più che a sottovalutazioni delle capacità operative dei vari organismi, alla non conoscenza delle attribuzioni e delle possibilità che ciascuno di questi presenta. Occorre, pertanto, innanzitutto superare il gap di informazioni e fornire ad ognuno una chiara visione delle possibilità operative e conoscitive che offre l’intero quadro istituzionale. Poi, occorrerà una seria azione di coordinamento che consenta il pieno e proficuo utilizzo delle risorse. Infine, bisogna operare nella cultura degli attuali protagonisti, perché vengano del tutto superati gli attuali comportamenti e moduli operativi ispirati a separatezze, gelosie di mestiere e difese di competenze.

Ma a monte di questa grande ed indispensabile operazione culturale, che, lo ripeto, tende a spostare l’asse della lotta alla criminalità organizzata dallo strumento giudiziario a quello economico e finanziario e ad interpretare l’impresa criminale quale mera impresa economica, sta un profondo ripensamento ed un grande sforzo di analisi e di comprensione del problema da parte del legislatore, che non può più puntare, per contrastare i complessi fenomeni della criminalità economica, sui soli spuntati strumenti del codice e del processo penale. In assenza di tale riconsiderazione e ripensamento, rimangono le responsabilità di natura politica, che non potranno più risolversi con l’addossare a questo od altro organismo colpe ed accuse di fallimento.

Massimo Scalia, Presidente della Commissione. Nell’economia dei nostri lavori, per mantenere l’attenzione in sala, invito coloro i quali debbono ancora intervenire ad adottare criteri ispirati alla massima sintesi possibile.

Do la parola al generale D’Isanto.

Francesco D’Isanto, Ispettore della Guardia di finanza per l’Italia meridionale. La Guardia di finanza presta da sempre notevole attenzione alla tutela delle risorse naturali attraverso un’azione di vigilanza incisiva e costante, espletata in forma sinergica con la maggior parte degli altri servizi istituzionalmente ad essa affidati.

In quanto organo di polizia dalla spiccata caratterizzazione economica, il Corpo è, infatti, chiamato ad una funzione importante nel settore ecologico, posto che le risorse ambientali costituiscono una componente tutt’altro che marginale della ricchezza del paese e la relativa tutela rappresenta un aspetto imprescindibile di una corretta politica economica. In tale prospettiva, l’attività della Guardia di finanza nella difesa dell’ambiente discende direttamente dalla legge ordinativa (legge 23 aprile 1959, n. 189), che affida all’istituzione il compito di “vigilare, nei limiti stabiliti dalle singole leggi, sull’osservanza delle disposizioni di interesse politico-economico” (articolo 1, secondo comma). Correlativamente, la legge n. 349 del 1986 istitutiva del Ministero dell’ambiente, all’articolo 8, quarto comma, prevede che per la vigilanza, la prevenzione e la repressione delle violazioni compiute in danno dell’ambiente, il ministro possa avvalersi, oltre che degli organismi specializzati, anche del nucleo operativo ecologico dell’arma dei carabinieri nonché del Corpo forestale dello Stato, degli appositi reparti della Guardia di finanza e delle forze di polizia, previa intesa con i ministri competenti. Peraltro, talune competenze del Corpo in materia ambientale scaturiscono dalla sua qualità di struttura operativa del servizio nazionale di protezione civile. Il Corpo ha anche aderito alla campagna di sensibilizzazione avviata dal consorzio obbligatorio degli oli esausti in merito alla tematica dello smaltimento di tal genere di prodotti.

La rilevante attività istituzionale esercitata dalla Guardia di finanza nel particolare settore ha trovato inoltre un importante riconoscimento con la stipula, nel 1997, di un’intesa tra il comando generale ed il WWF, con cui sono stati individuati numerosi punti di sinergia operativa e di principio nel settore della prevenzione e repressione dei reati in materia ambientale. In tale ambito, il Corpo esplica la propria collaborazione a favore del predetto ente in forma sinergica con la maggior parte degli altri servizi istituzionalmente demandatigli. Dal punto di vista organizzativo, fermo restando l’obbligo di vigilanza generica che fa carico a tutti i reparti della Guardia di finanza nel contesto delle prioritarie attività istituzionali, le articolazioni maggiormente idonee ad assicurare una efficace azione di contrasto sono state individuate nelle sezioni aeree, nelle stazioni navali e nelle compagnie ex sezioni mobili, ciò al duplice fine di dare concreta attuazione al disposto della legge n. 349 del 1986 e di realizzare gli obiettivi di tutela attraverso l’utilizzo di dispositivi di contrasto che, per le loro caratteristiche di mobilità, sembrano meglio rispondenti alla natura degli interventi richiesti. In particolare, le unità aeree, in concomitanza con i normali servizi di ricognizione, procedono alla individuazione di discariche abusive e di tracce di dispersione illecita dei rifiuti nell’ambiente, avvalendosi anche del modernissimo sistema di telerilevamento “Daedalus” per il monitoraggio dell’inquinamento da idrocarburi tanto nelle aree marine, quanto in quelle terrestri.

Le unità navali, invece, contribuiscono ad assicurare in mare la prevenzione e la repressione dei reati contro l’ecosistema nel corso della navigazione svolta nelle acque territoriali ed internazionali, prioritariamente finalizzata alla repressione del contrabbando e della immigrazione clandestina.

L’attività di tutela dell’ambiente si presta, comunque, a sviluppare notevoli sinergie anche con gli altri servizi istituzionalmente espletati dal Corpo in via prioritaria. È il caso delle compagnie territoriali, che svolgono attività investigativa nel settore extratributario, dando origine ad un sistema integrato di controlli, oppure delle stazioni SAGF (soccorso alpino della Guardia di finanza), che assumono un ruolo importantissimo nella prevenzione dei danni al patrimonio boschivo ed alla fauna. Va, inoltre, rimarcata l’attività dei reparti che svolgono prevalentemente servizi di polizia tributaria, i quali, in concomitanza dei controlli di natura strettamente fiscale effettuati nei confronti di aziende operanti nel settore (in particolare raffinerie e depositi di oli minerali), verificano anche il corretto adempimento degli obblighi previsti per le attività industriali cosiddette “a rischio di incidente rilevante”.

Al riguardo, gli esercenti sono tenuti a trasmettere una notifica ed un rapporto di sicurezza ai Ministeri dell’ambiente e della sanità, nonché alla regione, nel caso in cui, per impianti corrispondenti alle caratteristiche previste dalla legge, la quantità di sostanze tossiche, esplosive ed infiammabili superi i valori di soglia stabiliti. In concomitanza con la predetta attività di polizia tributaria presso complessi aziendali che producono scarichi e residui inquinanti, la Guardia di finanza accerta, inoltre, l’osservanza delle disposizioni dettate dalla cosiddetta “legge Merli”, non essendo infrequente lo scarico di liquami e residui di lavorazione direttamente in mare, nei fiumi o nei laghi.

In ogni caso, in piena sinergia con l’effettuazione degli interventi di natura fiscale nei confronti di aziende che, pur non presentando rischi di “incidente rilevante”, svolgono attività industriali o artigianali che costituiscano comunque una minaccia per l’ambiente (per la natura del processo produttivo, per la specificità delle lavorazioni e per il tipo dei beni prodotti), i reparti del Corpo procedono anche al controllo dell’osservanza delle vigenti disposizioni in materia di smaltimento dei rifiuti. Il controllo sul corretto svolgimento di tale attività viene esercitato soprattutto nel corso dei servizi su strada prioritariamente demandati alla Guardia di finanza nell’ambito dell’attività anticontrabbando o, più in generale, di controllo del territorio. In tali circostanze operative, le pattuglie operanti prestano particolare attenzione al trasporto di carichi di rifiuti tossico-nocivi (che devono essere sempre scortati da appositi formulari d’identificazione), relativamente ai quali è stato più volte rilevato che, sebbene cartolarmente destinati all’incenerimento, erano stati invece dirottati presso discariche abusive o, talvolta, non venivano smaltiti affatto.

Tale funzione di vigilanza si esplica anche nel corso di controlli di natura fiscale effettuati nei confronti di imprese che svolgono attività di smaltimento per conto terzi, atteso che numerose esperienze operative maturate nel settore hanno consentito di individuare imprenditori senza scrupoli i quali, al fine di lucrare fraudolentemente elevati profitti, costituiscono aziende in grado di provvedere esclusivamente alla raccolta dei rifiuti speciali e tossico-nocivi (interrati in zone boschive defilate o in cave abbandonate) e non anche al regolare e definitivo smaltimento degli stessi.

Dal punto di vista operativo, la Guardia di finanza interviene nella tutela dell’ambiente avvalendosi degli strumenti investigativi ad essa riconosciuti dall’ordinamento vigente tipici della polizia giudiziaria e tributaria, utilizzati nell’ambito delle prioritarie attività istituzionali.

Per esempio, dal riscontro delle operazioni fittizie di smaltimento possono emergere costi non sostenuti, ancorché portati in deduzione dall’impresa produttrice dei rifiuti o l’utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti, aventi il duplice scopo di documentare il conferimento dei rifiuti ad imprese autorizzate (in realtà mai avvenuto) e di realizzare una cospicua evasione delle imposte sui redditi e sul valore aggiunto.

Particolare valenza assume l’impegno del Corpo a tutela dell’ambiente nella vigilanza presso le dogane, ove i finanzieri procedono al controllo delle autorizzazioni prescritte dalla legge per le spedizioni transfrontaliere di rifiuti prodotti in italia.

Dal quadro di insieme sino ad ora delineato, emerge con chiarezza che l’ambiente dispone di una propria dimensione economica la cui gestione, se lasciata nelle mani della criminalità organizzata assicura ingenti profitti illeciti, che sottraggono ricchezza alla società civile, ricchezza che potrebbe essere tratta invece dallo sfruttamento lecito dei beni ambientali a fini turistici e produttivi. A tal proposito, va innanzitutto rilevata l’inadeguatezza del regime sanzionatorio attualmente applicato agli illeciti ambientali, eccessivamente sbilanciato a favore di misure amministrative e contravvenzionali.

In merito, sarebbe auspicabile la definitiva introduzione della nozione di “reato ambientale” nel codice penale vigente, perseguendo a fondo la strada della criminalizzazione di tale illecito mediante la qualificazione come “delitti” delle fattispecie più gravi, consentendo così alle forze di polizia un’azione di contrasto maggiormente incisiva.

In questo modo si favorirebbe, peraltro, anche una maggiore attività di cooperazione internazionale, atteso che la predetta nozione di criminalità ambientale figura da tempo nell’ordinamento giuridico di paesi stranieri, quali Stati Uniti d’America, Spagna e Germania.

Conseguentemente, emerge la necessità di conferire alla magistratura tramite rogatorie internazionali ed alle forze di polizia mediante intercettazioni telefoniche gli strumenti normativi ed operativi più adeguati per contrastare il fenomeno, come noto sempre più spesso riconducibile al crimine organizzato.

Al riguardo occorre evidenziare che, in assenza di adeguate norme sanzionatorie penali, i reparti della Guardia di finanza, avvalendosi dei poteri di polizia tributaria ed attraverso l’applicazione della legislazione fiscale che considera delitti taluni reati (ad esempio emissione ed utilizzo di fatture per operazioni inesistenti, frode fiscale), sono comunque riusciti a perseguire organizzazioni criminali dedite al traffico illecito di rifiuti, configurando ipotesi di reati associativi aventi illeciti fiscali come “delitti base”. L’impegno profuso dalla Guardia di finanza nell’attività di polizia ambientale è testimoniato dai rilevanti risultati di servizio conseguiti nel 1998, che presentano chiaramente un netto trend di crescita rispetto agli anni precedenti, avuto riguardo tanto ai soggetti verbalizzati quanto alle violazioni riscontrate ed ai sequestri effettuati.

Massimo Scalia, Presidente della Commissione. Do ora la parola al dottor Fara.

Gian Maria Fara, Presidente dell’Eurispes. La ringrazio per l’opportunità che mi viene offerta con quest’incontro; certo, quanto dirò riflette e ripropone argomenti che sono stati trattati durante questa giornata di lavori. La cosa non mi spiace, perchè in qualche maniera questo confronto tra istituzioni, operatori delle forze dell’ordine, magistrati e, nel mio caso, mondo della ricerca, dimostra appunto quanto la sensibilità su questi temi sia ormai comune. Di questo credo si debba dare atto anche all’impegno del Presidente Scalia, che è riuscito a sensibilizzare nel corso di questi ultimi mesi i vari attori istituzionali e sociali. Io, come sociologo, non posso non considerare il fattore sociale, che è quello che naturalmente mi interessa di più o quanto meno mi è più vicino.

Sono molti gli studi che hanno messo in relazione il degrado ambientale con quello sociale e questi studi hanno evidenziato come da queste situazioni la criminalità organizzata tragga la propria forza e la propria manodopera. C’è inoltre un fattore politico, fatto di infiltrazioni mafiose negli enti locali, grazie alle quali le ecomafie impongono le loro scelte, le loro volontà in campo urbanistico e nell’assegnazione degli appalti.

C’è ancora un altro punto che voglio segnalare alla vostra attenzione, anch’esso a mio parere di enorme rilevanza. L’economia illegale, controllata da mafia, ’ndrangheta, camorra e sacra corona unita, sta piano piano quasi interamente erodendo, almeno nel Mezzogiorno, l’economia legale. Qui ci troviamo di fronte al fatto che la moneta cattiva scaccia quella buona ed è difficile pensare ad un’imprenditoria avanzata, ad un’occupazione pulita in luoghi dove la malavita organizzata è il punto di riferimento. Nel campo dell’attività estrattiva, per esempio, esistono scarse possibilità per aziende che non siano legate alla criminalità organizzata. Il settore dell’edilizia e del “movimento terra” è anch’esso in gran parte nelle mani dei clan della malavita. Grandi ed onorate imprese legali spesso e volentieri finiscono per passare sotto il controllo e la tutela della criminalità a causa delle estorsioni e dei ricatti. Questo naturalmente si traduce in una perdita di ricchezza per lo Stato, in evasione fiscale, lavoro nero, estorsione ai danni delle imprese legali. In questa maniera il capillare controllo del territorio da parte della criminalità organizzata indebolisce l’economia del nostro meridione nel suo complesso.

Non si tratta, quindi, solo di un problema ambientale. Le ecomafie sono, a mio parere, uno dei cardini che lo Stato deve riuscire a spezzare per liberare l’Italia del sud da questo giogo, che ne impedisce e ne condiziona lo sviluppo. Il lavoro fatto dalle forze dell’ordine, dalla magistratura e anche, perchè no, dagli istituti di ricerca nel corso degli anni, ha consentito di individuare due aspetti specifici che caratterizzano le ecomafie: un elevato livello di imprenditorialità criminale, che ne fa uno degli
anelli di congiunzione tra economia illegale ed economia legale, e la sostanziale impunità assicurata dal combinarsi di controlli amministrativi spesso inesistenti e scarsamente efficaci e di un sistema di sanzioni soggetto a frequenti modifiche di carattere normativo.

La criminalità organizzata, le cui capacità imprenditoriali sono note ed evidenti, ha individuato nella tutela del territorio l’anello più debole della legislazione italiana. In questo buco nero si è saputa inserire ed ha saputo sfruttare al meglio l’incapacità dello Stato a difendere il proprio patrimonio naturale. Quindi siamo di fronte ad un quadro nel quale vi è una scarsità di controlli, una quasi completa assenza di repressione, una legislazione che in molte delle sue parti non è puntuale. Questi sono alcuni dei fattori che consentono alla criminalità organizzata di intervenire in maniera devastante sul territorio. Nel Mezzogiorno, in particolare, le imprese criminali tendono così a rendere quanto mai labile il confine tra economia criminale ed economia legale, naturalmente grazie al controllo capillare che la criminalità organizzata possiede in alcune regioni italiane.

Il controllo del territorio è la vera forza di mafia, camorra, ’ndrangheta e sacra corona unita. Grazie a questo controllo del territorio, le imprese criminali diventano monopolistiche in alcuni settori, come l’attività estrattiva o la raccolta dei rifiuti, che diventano quindi un punto riferimento, un grande centro di interesse, un business importante per le organizzazioni criminali. In alcuni settori in particolare le organizzazioni criminali assumono il ruolo di convitato di pietra, sono presenti nelle gare di appalto e di fatto determinano il governo del territorio. Quindi ci troviamo di fronte ad un circolo vizioso del crimine ambientale che deve essere interrotto, pena un definitivo degrado ambientale di intere zone del nostro paese, che rappresenta la premessa strutturale del degrado sociale e civile. Io sono convinto che anche dietro al più piccolo reato ambientale ci sia spesso una grande e potente organizzazione, che, proprio perchè le sanzioni previste sono minime, trova una maggiore utilità nel praticare un illecito del genere rispetto ad un più rischioso e meno remunerativo traffico di droga.

Ricordo sempre una frase — la ricorderà anche l’amico Scalia — pronunciata dal procuratore Vigna, in un recente convegno organizzato a New York dal nostro istituto in collaborazione con la New York University. Egli diceva allora: “Se una persona in Italia movimenta un chilo di eroina, può essere condannata ad una pena detentiva di una decina d’anni, ma se movimenta illegalmente migliaia di tonnellata di rifiuti, può cavarsela con uno o due mesi di carcere a tutto ben andare”. Allora questo calcolo costo-benefici non è estraneo all’economia criminale e rende evidente la convenienza di quest’attività illecita rispetto ad altre. Non voglio tediarvi ancora, anche perché vorrei rimanere all’interno dei dieci minuti che mi ero prefissato, utilizzando queste frazioni di tempo per proporre al Presidente Scalia alcuni suggerimenti e alcune suggestioni sulle quali si potrà, forse, anche lavorare insieme.

Ci sembra importante ed indispensabile un coordinamento delle indagini per i reati di ecomafia, evidentemente sotto l’egida della direzione nazionale antimafia e della DIA per la prevenzione.

Ci sembra utile ed importante individuare ed istituire sedi di confronto e di comune consapevolezza. I modi e i termini potranno essere discussi.

Ci sembra altrettanto utile e importante la creazione di una banca dati comune tra le diverse procure impegnate sul territorio e le diverse forze dell’ordine.

Noi oggi abbiamo la Guardia di finanza che produce evidentemente buoni risultati, il nucleo operativo ecologico dell’Arma dei carabinieri, il Corpo forestale dello Stato, ma abbiamo la sensazione che spesso ciascuno di questi organismi lavori pro domo sua, nel senso che mi pare di poter notare anche una punta di gelosia tra le diverse forze dell’ordine. Forse la messa a disposizione in comune dei dati e delle informazioni renderebbe più efficaci gli interventi.

Altro punto importante concerne l’introduzione nel codice penale della figura del delitto contro l’ambiente; su questo si è discusso, mi pare, per tutta la giornata ed i sociologi e i ricercatori sono pienamente d’accordo con gli uomini delle istituzioni e delle forze dell’ordine, e con i magistrati. Una volta introdotta la figura del delitto contro l’ambiente nel nostro codice penale, applicare pene certe significherà attuare una repressione evidentemente dura.

Do ora l’ultimo suggerimento: lavorare affinché non resti sulla carta l’impegno della lotta all’ecomafia. Non basta lanciare ogni tanto accorati appelli e grida d’allarme; poi bisogna avere la pazienza e l’impegno per passare dalle parole ai fatti.

Infine, mi dispiace che se ne sia andato, ma devo fare una piccola puntualizzazione rispetto all’intervento del prefetto Monaco, che ha parlato poco fa e che, bontà sua, attribuisce alla mia regione, la Sardegna, una capacità di resistenza alla penetrazione mafiosa. Vorrei smentirlo: la mafia comincia ad essere più che presente in Sardegna e si è inserita nel tessuto socio-economico sardo annullando e azzerando le capacità di risposta della criminalità tradizionale, che anzi si è posta al servizio delle organizzazioni criminali mafiose. Suggerirei al dottor Monaco una più attenta analisi di quello che accade nel mio territorio.

Massimo Scalia, Presidente della Commissione. Ringrazio il dottor Fara e do la parola al dottor Franz.

Silvio Franz, Sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di La Spezia. In una breve comunicazione è chiaramente impossibile un approfondimento organico delle problematiche affrontate dalla proposta di articolato normativo della Commissione.

Ritengo che il mio intervento possa avere un significato solo nell’ottica di un contributo di riflessione da parte di un magistrato che, nell’esperienza di tutti i giorni, incappa anche in condotte illecite lesive, direttamente o indirettamente, del bene giuridico ambiente. La mia esperienza, voglio premettere, è relativa a situazioni che, con la criminalità organizzata, hanno poco o nulla a che fare. Infatti, il business dei rifiuti non è appannaggio esclusivo di organizzazioni illecite tradizionali. Spesso nella spartizione della “torta” si intrecciano cordate formate, soprattutto al nord, da imprese e personaggi che forse, in alcune situazioni, scendono a patti o convivono con la criminalità organizzata, ma che comunque si muovono autonomamente avendo come punti di riferimento persone all’interno delle istituzioni e dei partiti.

Con i limiti sopra detti, ho ritenuto di dividere in due parti la mia comunicazione; nella prima indicherò, senza poterli approfondire, alcuni dei problemi più rilevanti incontrati nel corso dei procedimenti penali in materia ambientale; nella seconda mi permetterò di fare alcune brevi considerazioni sul documento proposto dalla Commissione.

Gran parte dei reati applicabili sono di natura contravvenzionale e da ciò consegue che sono destinati a prescrizione pressoché certa e che sono inutilizzabili strumenti di ricerca della prova quali le intercettazioni. Spesso il reato di settore è inserito in una serie di condotte illecite finalizzate ad ottenere l’impunità o l’agevolazione del reato ambientale (corruzione, finanziamento illecito ai partiti, reati fiscali). Concretamente, però, il reato ambientale è commesso per finalità prettamente economiche e pertanto, se non si incide efficacemente sul patrimonio dei responsabili, la deterrenza di un’eventuale condanna è pressoché nulla.

Inquinamento ambientale, inquinamento normativo ed inquinamento amministrativo spesso vanno di pari passo: è pressoché impossibile gestire un’attività illecita in materia ambientale senza una forma di connivenza all’interno delle istituzioni. Più la normativa è complicata, farraginosa, poco chiara, e più sono polverizzati i passaggi e le competenze del procedimento amministrativo (spesso gestiti a compartimenti stagni), maggiore è la possibilità di mimetismo da parte del funzionario infedele.

L’indagine penale in materia ambientale presenta dei risvolti particolari. Spesso vi è un’aspettativa delle comunità interessate e dell’opinione pubblica in merito all’eliminazione di eventuali compromissioni dell’habitat; vi è una deresponsabilizzazione da parte delle istituzioni preposte alla gestione amministrativa del problema; il sequestro, per esempio, di un impianto di discarica presenta una serie infinita di problemi gestionali; è richiesta una capacità di coordinamento tra autorità giudiziarie diverse ed investigatori, che culturalmente stenta a farsi strada nella nostra prassi.

Passo alle considerazioni sulla proposta di articolato normativo in materia di reati contro l’ambiente approvato dalla Commissione nella seduta del 26 marzo 1998.

Nella relazione introduttiva si rileva l’importanza e la necessità “di colpire in modo profondo e definitivo il patrimonio economico ed operativo dei responsabili di tali traffici e trasporti” e si indica tale obiettivo quale novità qualificante la proposta legislativa. Lo scopo è certamente condivisibile, ma gli strumenti utilizzati, a mio modesto avviso, rischiano di essere insufficienti.

È massima di comune esperienza che spesso in materia di reati economici (e i reati contro l’ambiente hanno importanti risvolti economici) i beni utilizzati per compiere il fatto illecito ed il profitto di tale reato non sono intestati al responsabile ma spesso a società, teste di legno, prestanome, ecetera. Va inoltre ricordato che la responsabilità penale, nel nostro ordinamento, è personale (art. 27 Cost.), fatta salva la figura del responsabile civile e del civilmente obbligato per la pena pecuniaria.

Ora, esaminando l’articolato, la persona responsabile verrà “colpita pesantemente nel patrimonio personale” (con la confisca) solo quando le aree interessate dal danno siano “di proprietà dell’autore o del compartecipe” (art. 452-ter del codice penale). In realtà, tale evento non si riscontra molto frequentemente: più spesso accade, soprattutto in zone ad illegalità diffusa, che le aree appartengano ad altri soggetti (individui o società), a volte tacitamente conniventi (ma non compartecipi), a volte ignari o obbligati al silenzio per paura di ritorsioni. Dunque, a mio parere, il criterio della proprietà non è idoneo a colpire economicamente i responsabili dei reati ambientali (se non quelli sprovveduti e perciò con un tasso meno elevato di pericolosità). Stesso discorso ritengo debba valere per i beni utilizzati per commettere il reato previsto dall’art. 452-quater. A questo punto, l’obbligatorietà del sequestro preventivo e conservativo avrà un’importanza relativa in quanto, all’esito del dibattimento, tali beni andranno restituiti ai legittimi proprietari qualora gli stessi non siano stati perseguiti e non sia dimostrata l’appartenenza e/o riconducibilità ai responsabili del reato. È notorio il fatto che la difficoltà di dimostrare la riconducibilità di beni (ad altri intestati) ad un soggetto è inversamente proporzionale alla pericolosità dello stesso (per esempio, in quanto appartenente ad associazione criminale che utilizzi sofisticati strumenti finanziari ed economici nonché una rete di complicità).

Più incisivo, a mio parere, sarebbe l’inserimento dei reati ambientali tra quelli previsti dall’articolo 12-sexies del decreto-legge n. 306 del 1992, convertito nella legge n. 356 del 1992. In tale norma, infatti, è prevista la confisca di beni dei quali il condannato non è in grado di giustificare la disponibilità (anche per interposta persona). Con l’inversione dell’onere della prova, sarebbe il “criminale ambientale” a dover dimostrare la provenienza lecita di patrimoni ingenti, che attualmente è praticamente impossibile ricondurre a condotte criminose specifiche.

Un ulteriore problema sorge dalla formulazione dell’art. 452-ter: nello stesso manca una definizione, anche solo indicativa, dei termini “grave alterazione”. Pur comprendendo la difficoltà a circostanziare tale concetto, una maggiore precisione potrebbe limitare le infinite contestazioni che in sede processuale sorgerebbero.

Massimo Scalia, Presidente della Commissione. Ringrazio il dottor Franz anche per gli utili suggerimenti, su cui rifletteremo. Do ora la parola al professor Ganapini.

Walter Ganapini, Presidente dell’Agenzia nazionale per la protezione dell’ambiente. Signor Presidente, le sono grato per l’attenzione che la sua Commissione ha da sempre posto al tema dello sviluppo di una rete di un sistema agenziario in questo paese, capace di modernizzare e di portare in sintonia con il resto d’Europa la rete dei controlli. Siamo impegnati, come lei sa, essendo questo argomento stato oggetto di un’audizione presso la sua Commissione, a superare le difficoltà di sviluppo di questa rete. L’impegno ci porterà a conseguire certamente dei risultati.

Voglio solo rendere atto di cosa stia producendo l’Agenzia nazionale assieme alle agenzie regionali per la protezione dell’ambiente, cui la legge attribuisce la competenza e i controlli ambientali. Se dovessi dire, come mi capita a volte in sede internazionale, che cosa si stia facendo per superare l’approccio comandi-controlli in questo paese nel settore dell’ambiente (mi si passi la battuta, qui abbiamo visto molti organi dello Stato, anche molto importanti e molto corposi!), dovrei così sintetizzare “Italia: poco comando, controllo zero”, nel senso che siamo addirittura in presenza di un calo della capacità di controllo da parte degli organi competenti.

Ad ogni buon conto, l’Agenzia nazionale per la protezione dell’ambiente sta sviluppando adesso alcuni impegni prioritari. Il primo è quello di costruire un sistema informativo ambientale. Ad esempio, una porzione del sistema informativo ambientale del paese che oggi siamo in grado di fornire come strumento alle amministrazioni, a tutti gli interessati e anche alle imprese, è la banca dati sui rifiuti, nel senso che con l’Osservatorio nazionale sui rifiuti, e in prospettiva con l’albo nazionale degli smaltitori di rifiuti, saremo in grado sempre di più di controllare i flussi secondo schemi origine-destinazione e avendo presente chi opera e cosa fa nelle diverse fasi del ciclo in tema di rifiuti solidi urbani. Abbiamo presentato due giorni fa a Roma, al ministro dell’ambiente, il rapporto relativo all’anno 1997, a giugno pubblicheremo il rapporto relativo all’anno 1998. Questo è probabilmente il pezzo più organicamente sviluppato del sistema informativo. Contestualmente, l’ANPA lavora per uniformare le procedure e le modalità dei controlli ambientali, che dovranno poi essere sviluppati dalle Agenzie regionali. Ad oggi la fotografia dell’esistente dimostra una situazione assolutamente casuale dei controlli anche nelle regioni che hanno la più ricca dotazioni di strutture: mi riferisco classicamente ad Emilia-Romagna, Toscana e Piemonte. È una situazione che ci spinge a indire, nel mese di aprile, un seminario nazionale a Torino, con tutte le agenzie e gli operatori interessati, per far compiere un forte salto in avanti al sistema verso modalità uniformi e con una rete informatica adeguata per ricavare tutta l’informazione possibile dai controlli che si conducono. Contestualmente ci capita molto spesso di assistere le procure della Repubblica e l’Avvocatura dello Stato su situazioni di emergenza o che ineriscano al danno ambientale e alla valutazione di esso. Il generale Blasi ha richiamato un’altra delle competenze di legge dell’Agenzia nazionale per la protezione dell’ambiente, quella che riguarda la radio-protezione: l’ANPA dovrebbe essere l’autorità di sicurezza nucleare di questo paese. Stiamo rivedendo tutti i protocolli al riguardo. Siamo presenti comunque anche nelle realtà dei paesi centro-orientali europei. Stiamo mantenendo una presenza affinchè il nostro paese non venga totalmente chiamato fuori da un settore di estrema delicatezza ed importanza strategico-ambientale, come quello della dismissione delle centrali nucleari e della messa in sicurezza degli impianti che proseguiranno la loro operatività ancora per qualche anno, per esempio nelle Repubbliche baltiche, in Ucraina e adesso in Romania.

Nelle regioni del Mezzogiorno che oggi sono oggetto di misure di commissariamento in quanto dichiarate in emergenza ambientale e socio-economica in tema di rifiuti e di acque, come nel caso della Campania e della Puglia, l’ANPA, a partire da Napoli, sta fornendo i primi esempi di supporto alle azioni dei commissari, particolarmente in materia di rilevazione e verifica dei livelli di contaminazione del suolo, delle matrici ambientali e della relativa necessità di bonifica dei siti. Ci stiamo apprestando, anche alla luce delle suggestioni che sono venute dalla Commissione presieduta dall’onorevole Scalia, a dotarci di una struttura adeguata per la gestione delle emergenze ambientali, sia in termini di informazione (ad esempio sugli incidenti e sugli aspetti tossicologici di rischio diretto), sia come parte di un disegno complessivo, che dovrebbe diventare interforze, per la gestione di una sala operativa di emergenze ambientali a livello nazionale. Comunque collaboriamo con i diversi organi dello Stato e stiamo anche sviluppando delle azioni di formazione; abbiamo lavorato non solo con i carabinieri, ad esempio in materia di traffici di materiali radioattivi, ma abbiamo anche formato il personale della finanza che ha condotto le operazioni recentemente, pochi mesi fa, tra Catania e Roma per un’analoga tematica di traffico di materiali radioattivi. Contestualmente manteniamo rapporti con gli organi internazionali; ad esempio, desidero citare il fatto che l’Agenzia provinciale di Bolzano per la protezione dell’ambiente, che è parte del nostro sistema, ancora oggi segnala la necessità di una forte connessione internazionale e fa fatica a trovare interlocutori nel nostro paese, perchè d’intesa con il governo austriaco ha fatto una rilevazione sui traffici di rifiuti nel territorio provinciale di Bolzano, ed è risultato che circa il 67 per cento di ciò che si muoveva su tale territorio era illegale. Questo è un ulteriore richiamo alla necessità non solo di introdurre il crimine ambientale e di assumere le suggestioni che vengono dagli operatori del diritto e dai magistrati, ma anche a stare molto attenti alle parate rituali di facciata ed a guardare ciò che avviene davvero sul territorio.

Da questo punto di vista, concludo, le Agenzie regionali per la protezione dell’ambiente non sono ancora presenti su tutto il territorio nazionale. Quando ci siamo insediati, un anno fa, ne esistevano otto, ad oggi ne esistono quindici, che sono in stentata linea di decollo; ma manca la Lombardia, quindi per il trenta per cento del prodotto interno lordo del paese non esiste l’organo di controllo e di certificazione ambientale. Le agenzie esistono, nel senso che esistono le leggi, in Campania ed in Puglia; da pochissimi giorni è stata istituita nel Lazio, ma in Sicilia manca, manca in Sardegna, manca in Molise. Ci sono interi pezzi del paese in cui siamo lontani dall’avere una struttura minima di controllo ambientale sul territorio; dico questo suggerendo che un’ulteriore pressione su quei governi regionali è necessaria, anche perchè realizzare le agenzie regionali nel Mezzogiorno significa assicurare uno sbocco occupazionale qualificato e non assistito per migliaia di operatori, chimici, biologi, ingegneri, fisici, informatici, architetti ed economisti per costruire ciò che nel Mezzogiorno non c’è. Quando la Lombardia si darà la propria Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente, metterà insieme un esercito, perchè metterà insieme gli attuali presidi multizonali di igiene e prevenzione che in Lombardia assommano a circa 2.500 operatori. In tutto il Mezzogiorno ad oggi gli operatori, spesso neppure dei predetti presidi, ma dei laboratori di igiene e profilassi, sono poche centinaia. La situazione è spaventosa in Sicilia, oltre ogni limite di accettabilità in Campania ed in Puglia, nonostante appunto siano state approvate le leggi e nonostante il Parlamento con la legge finanziaria abbia introdotto alcuni elementi minimi di finanziamento per lo sviluppo delle agenzie nel Mezzogiorno.

Il nostro progetto speciale nel Mezzogiorno intende supportare lo sviluppo di questa rete, perchè è del tutto evidente che senza controlli, senza informazione ambientale, è molto difficile stare in Europa, essendo i controlli e l’informazione ambientale oggi addirittura premessa dell’ottenimento e della gestione dei fondi strutturali. Detto questo e richiamando su questi aspetti l’attenzione del Presidente Scalia, che peraltro ha una sensibilità molto attenta al riguardo, colgo l’occasione per dire che qui a Napoli terremo a maggio la conferenza nazionale delle agenzie per l’ambiente con uno slogan, che è “Ambiente-sviluppo-occupazione-Mezzogiorno”, cercando in tutti i modi di dare ulteriori fotografie della realtà del territorio circa lo stato, ripeto assolutamente precario, delle conoscenze e dei controlli.

Massimo Scalia, Presidente della Commissione. Ringrazio molto il professor Ganapini. Last but not least, do la parola al dottor Tarditi.

Luciano Tarditi, Sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Asti. La disastrosa situazione dell’ambiente del nostro paese ha ormai messo in chiaro che una sua efficace difesa passa attraverso un coinvolgimento non episodico ed “emergenziale” dell’intera collettività, varie articolazioni sociali, politiche ed istituzionali.

Deve insomma farsi strada l’idea che l’ambiente, nella sua accezione più ampia, rappresenta una questione nazionale di importanza primaria non solo quando qualche fatto drammatico lo colloca all’attenzione generale suscitando indignazione, ma nella normalità da affrontare nella quotidianità dell’impegno politico e sociale.

Questa riflessione ha un valore particolare per
il lavoro e l’impegno del magistrato che opera contro i crimini ambientali. Infatti, senza il sostegno dell’opinione pubblica, il lavoro e l’apporto del volontariato e delle associazioni nello studiare e coadiuvare l’attività di controllo e di repressione dell’abuso, l’opera puramente repressiva risulta nel complesso debole e a volte incompresa.

Non dobbiamo infine dimenticare l’apporto del giornalismo specializzato e non, al quale in tutti i paesi avanzati è affidato un compito di investigazione e di denuncia, nonché di elaborazione di “scenari” che fanno da sfondo agli attacchi contro l’ambiente, che in Italia non risulta avere sempre quella forza ed incisività che dovrebbe e potrebbe avere.

Agli investigatori ed al magistrato spetta poi allargare la sfera di azione tesa all’accertamento della verità e delle filiere di interessi che stanno a monte di certi traffici o atti illeciti.

Nell’ambito delle attività criminose contro l’ambiente è necessario distinguere, in primo luogo, ciò che normalmente viene definita “ecomafia” da altre forme di criminalità ed illegalità.

Il neologismo “ecomafia” ha avuto il merito di mettere in luce l’intreccio tra criminalità organizzata e traffico illecito dei rifiuti, e di sensibilizzare l’opinione pubblica su questi argomenti. Ma si rischia di essere riduttivi o fuorvianti, dimenticando tutta l’altra componente criminale, diffusa sia a nord che a sud.

Si può parlare di “ecomafia” solo quando i fenomeni di criminalità ambientale avvengono in territori laddove vi è un controllo “militare”, amministrativo e politico del territorio da parte di cosche mafiose, come in alcune aree dell’Italia meridionale.

Quando si parla di criminalità ecologica, invece, si deve far riferimento ad imprenditori ed amministratori senza scrupoli, presenti su tutto il territorio nazionale, che svolgono attività economiche strutturate in modo da generare profitto in violazione della legge, senza con le grandi associazioni criminali. Ma non per questo meno pericolosi nei loro comportamenti rispetto ai primi. Il contrasto di questo tipo di criminalità risulta essere complicatissimo, perché le attività illecite riescono ad avere la copertura da parte di attività lecite grazie all’opera di società finanziarie e fiduciarie italiane, svizzere, inglesi, che a loro volta hanno costituito una rete di società off-shore nei cosiddetti “paradisi fiscali”. Nelle Isole Vergini Britanniche, ad esempio, è possibile registrare una società al costo di lire 3.000.000 e mantenerla in vita pagando una tassa annuale di lire 150.000, con la garanzia totale che mai nessuna informazione relativa ad attività, bilanci, identità dei consiglieri, e via dicendo, verrà resa pubblica. Nessun rischio di identificazione nemmeno al momento della registrazione, posto che l’atto venga richiesto da una delle cento finanziarie di Tortola, isola introvabile sugli atlanti ma sede di ben duecento agenzie bancarie.

Ma veniamo ora al traffico illecito dei rifiuti, attività prediletta dalle “ecomafie” per la sua alta remunerabilità e per il suo bassissimo livello di rischio. La repressione di tale attività risulta a sua volta infatti difficilissima, mentre il danno arrecato alla collettività ed all’ambiente elevatissimo.

Per sua natura lo smaltimento del rifiuto, quando è effettuato in modo sistematico, prevede una serie di fasi — raccolta, trasporto, selezione, trattamento in discarica o incenerimento — che fanno sì che questo trovi la sua sistemazione a notevole distanza dal luogo di raccolta e di produzione. Il trasporto a distanza facilita il lavoro e costituisce il contesto ideale per consentire all’imprenditoria criminale di dilatare la propria area di intervento dalla sfera locale a quella sovraregionale, nazionale ed internazionale. Un altro punto a favore della criminalità ecologica è rappresentato dai centri di stoccaggio: è stato dimostrato infatti che quando i rifiuti giungono in questi centri spesso accade che da pericolosi e nocivi, in virtù di una manipolazione “miracolosa”, si trasformano sulla carta in rifiuti normali e soggetti di conseguenza a trattamenti di routine.

Qui si giunge al primo punto dolente nel contrasto: quello dei controlli. Essi spesso risultano inefficaci sia perché troppo scarso è il numero degli addetti rispetto all’entità di movimentazione, sia perché, inevitabilmente, mentre i rifiuti viaggiano da un capo all’altro della penisola secondo la logica del profitto, gli organi accertatori sono sempre vincolati ad operare nell’ambito territoriale loro attribuito dalla competenza amministrativa. Inoltre cambiano le normative specifiche regionali di riferimento, gli organi giurisdizionali che esercitano l’azione penale sono spesso numerosi perché numerosi sono i siti nei quali si è verificata una qualche fase di gestione del rifiuto. E può anche accadere che, essendo tanti gli organi che possono promuovere l’azione penale, nessuno in concreto la esercita!

Stando così le cose sul territorio è facilmente intuibile quali possibilità di intervento vi siano per i rifiuti, spesso ad alta tossicità, per i quali l’esportazione ha un senso economico, destinati a raggiungere luoghi remoti oltreoceano ed in particolare i paesi del “terzo mondo”. Tutto ciò nonostante i rigidissimi divieti che impediscono di esportare qualsiasi rifiuto verso paesi non appartenenti all’OCSE. In questi casi le difficoltà si moltiplicano perché entrano in gioco le relazioni fra Stati e concetti come la sovranità nazionale; i paesi del “terzo mondo” poi sono assolutamente incapaci di contrastare questo fenomeno, anche perché troppo spesso sono Stati solo formalmente indipendenti ma di fatto completamente soggiogati dal bisogno e dalle cupidigie nazionali ed estere, sicché non solo non attuano alcun controllo sull’ambiente ma addirittura favoriscono gli illeciti.

Ma, oltre la beffa c’è il danno. La Commissione antimafia ha stimato che per ogni lira guadagnata illecitamente con il traffico dei rifiuti lo Stato ne dovrebbe spendere dieci per la bonifica ed il recupero del territorio. Considerando che i profitti illeciti si aggirano intorno ai 6.000 miliardi l’anno, è più che mai evidente il saldo negativo per la collettività. Talvolta capita che a queste spese si debbano addizionare anche costi imprevisti, come è successo alcuni anni fa in seguito ad operazioni di rimpatrio di rifiuti dal Venezuela e dal Libano, che al Governo italiano costarono oltre 40 miliardi, mai rimborsati dai responsabili. Questi ultimi inoltre, dopo aver gestito altri affari con società facenti capo a multinazionali francesi del settore, nel 1995 sono entrati nel raggruppamento di imprese guidate da società del gruppo ENI per operare la bonifica del sito Petroldragon di Lacchiarella in Lombardia.

Ciò che maggiormente favorisce queste condotte è, come abbiamo detto, il clima di impunità.

I reati ambientali sono di fatto reati contravvenzionali, il che significa che possono essere estinti con una oblazione; si prescrivono in tre o al massimo in quattro anni e mezzo a partire non da quando il reato è stato scoperto bensì da quando è stato compiuto; non è consentito l’arresto in flagranza, né l’applicazione di misure cautelari, tanto meno sono consentite le intercettazioni telefoniche ed ambientali; non è configurabile la fattispecie penale dell’associazione a delinquere; essendo tale la natura del reato non può essere punito a titolo di tentativo.

In tale contesto confuso e “bizantino”, e potendo disporre di denaro per pagare l’avvocato, la prescrizione del reato e l’impunità sono garantite.

A tutto questo si aggiunga l’inadeguatezza degli strumenti investigativi. Le intercettazioni sono tra gli strumenti più importanti ed indispensabili, ma consentite solo per reati qualificati come delitti.

Pertanto paradossalmente, in alcune situazioni, il contrasto avviene in virtù del fatto che l’oggetto di indagine non è il traffico e lo smaltimento dei rifiuti con conseguenze disastrose per l’ambiente, ma le operazioni finanziarie illecite che sono a monte. E il reato fiscale, il falso in bilancio sono delitti. Tuttavia, negli ultimi tempi, si deve riconoscere che da parte dello Stato si è registrato un maggiore impegno ad affrontare questi problemi. Nel 1997, su iniziativa del ministro Ronchi, si è costituita una commissione per l’elaborazione di una proposta di legge per l’inserimento nel codice penale di reati contro l’ambiente. In quest’ultima sono state delineate alcune figure di reato tra cui il “traffico illecito di rifiuti”, la “frode in materia ambientale” ed in particolare il reato associativo a delinquere. In sostanza, si è proposto di equiparare la normativa dei traffici dei rifiuti a quella antidroga in modo da sanzionare più severamente i rei, consentire lo svolgimento delle indagini, l’applicazione di tutte le tecniche investigative, l’arresto, le misure cautelari ed i processi. Si deve rilevare con rammarico che, a fronte di una forte spinta in questo senso da parte del Ministero dell’ambiente a fronte dell’accettazione delle stesse istanze da parte delle organizzazioni imprenditoriali, gran parte della classe politica non ha finora mostrato eccessivo zelo ed interesse.

Purtroppo i problemi non si esauriscono qui. Nell’elenco delle nefaste conseguenze di questo modello di sviluppo acquista considerevole rilievo “l’inquinamento” dell’economia legale, giacché l’imprenditoria criminale costringe anche l’imprenditoria onesta a comportamenti fuori legge, pena l’esclusione dal mercato. Il risultato è un’infiltrazione criminale sempre più massiccia e sempre più ingovernabile, che non distrugge solamente l’ambiente e mette a repentaglio la salute umana ma mina alla radice la stessa convivenza democratica, sia a livello locale che internazionale.

Dovrebbe essere tenuto nella giusta considerazione il fatto che l’integrazione europea si persegue, oltre che con strumenti monetari unici, anche con l’adozione di normative sanzionatorie serie e comuni sui temi di massimo interesse collettivo.

La battaglia è ancora in gran parte da fare, ma non partiamo da zero: l’esperienza acquisita, la sensibilità diffusa, sono un patrimonio che non può e non deve andare perduto. Nostro compito è di proseguire in questa direzione.

Approfitto dei pochi minuti che ho a disposizione, e della vostra pazienza, per analizzare e per fare alcune osservazioni in ordine a quanto ho sentito nella giornata odierna. La notizia più importante, a mio avviso, è senz’altro quella che ci ha riferito poco fa il ministro Ronchi, relativa all’intervenuto concerto del Ministero di grazia e giustizia sullo schema di disegno di legge per l’introduzione dei nuovi reati in materia ambientale, elaborato da una commissione che lo stesso ministro aveva costituito nel giugno 1997 e che aveva consegnato lo schema in questione nell’ottobre dello stesso anno.

Dalla lettura delle parti sulle quali è appena intervenuto il concerto del Ministero di grazia e giustizia, prodromico alla presentazione del provvedimento in Consiglio dei ministri e poi in sede parlamentare, osservo che è stato approvato il 95 per cento di quello che era il contenuto del provvedimento elaborato dalla commissione costituita dal ministro Ronchi.

Osservo altresì che, se la materia del contendere verteva su quel cinque per cento, si sarebbe potuto ottenere questo concerto una settimana dopo il deposito dello schema stesso, evitando così di perdere sedici mesi. È evidente quindi che è diversa la volontà politica che allora ispirava il Ministero di grazia e giustizia, rispetto a quella odierna.

Di ciò non posso che compiacermi come magistrato abbastanza impegnato in questo tipo di indagini, che richiedono necessariamente una normativa penale di riferimento abbastanza significativa, da giustificare un impegno investigativo delle forze dell’ordine, un lasso di tempo ragionevole per approfondire tutte le connessioni e le realtà sottostanti a questo traffico, altrimenti non vale la pena di operarle. In questo senso mi richiamo anche a quanto ha affermato il collega dottor Franz, rimarcando la diversità che si può presentare allorché si indaghi in vicende connesse al traffico di rifiuti al centrosud o al nord, in relazione al fatto che magari in certe zone del centrosud l’atteggiamento è più sfacciato, mentre per quello che riguarda il nord normalmente si “veste” l’operazione con una documentazione, che poi risulta sistematicamente falsa.

È in effetti esatto fino ad un certo punto dividere la problematica del sud e del nord, perché questi traffici, quando hanno una dimensione media sono di carattere nazionale e quindi presuppongono normalmente una movimentazione dal nord al sud, quando hanno un respiro leggermente più ampio sono di natura internazionale, con le inevitabili complicazioni che ciò rappresenta.

Questo vuol dire anche che è doppiamente significativo l’intervenuto concerto del Ministero di grazia e giustizia su alcune figure di reato, che avevamo disegnato a suo tempo e che, a mio avviso, possono veramente contribuire a scardinare molte organizzazioni malavitose che operano nel settore. Faccio riferimento alle figure dell’articolo 452-quinquies predisposto dalla Commissione Ronchi, vale a dire al traffico illecito di rifiuti: “Chiunque al fine di conseguire un ingiusto profitto con una o più operazioni cede, riceve, trasporta, importa, esporta o comunque gestisce abusivamente ingenti quantitativi di rifiuti è punito con la reclusione da uno a sei anni”. Quantificammo la reclusione in un massimo edittale di sei anni, in maniera di consentire le intercettazioni telefoniche ed ambientali, in ogni caso un minimo edittale di un anno, rispetto al quale si può operare anche una graduazione in relazione alla gravità della condotta presa in considerazione.

Nel caso di rifiuti ad alta radiottività, la reclusione prevista è di durata ulteriormente superiore.

Fondamentale, per scardinare le attività di traffico simulatamente regolari, ma che passano attraverso documenti contraffatti, è il 452-sexies (frode in materia ambientale): “Chiunque al fine di commettere taluni dei reati di cui all’articolo 452-bis e seguenti ovvero di conseguire l’impunità omette o falsifica in tutto o in parte la documentazione prescritta dalla normativa ambientale ovvero fa uso di detta falsa documentazione, è punito con la reclusione fino a quattro anni. La pena è aumentata se il fatto è relativo al traffico di rifiuti e qualora il fatto di cui al primo comma venga commesso nell’ambito dell’attività abituale in violazione di norme di tutela ambientale”.

C’è inoltre la figura dell’associazione per delinquere in materia ambientale, che in sede di discussione parlamentare ben potrà essere trasformata in un’ipotesi di associazione a delinquere semplice, ma è importante che passi il principio che si può stroncare in questo modo il traffico illecito dei rifiuti e la frode documentale.

Mi richiamo ad un riferimento contenuto nell’intervento di questa mattina del dottor Fontana, perché, in un viaggio di studio che abbiamo effettuato insieme negli Stati Uniti d’America, la cosa che ha scandalizzato è il totale disarmo che contraddistingue la legislazione italiana in questa materia. Tutti i controlli che il sistema americano, basato sull’ente per la protezione dell’ambiente, integrato dalle varie agenzie, non escludendo l’FBI, la guardia costiera e quant’altro, opera sono rapportati su un meccanismo di incrocio telematico computerizzato dei dati, che sono incrociati anche con quelli di produzione e con il “DNA” del prodotto. In altri termini, la formula polimerica, la formula che rappresenta il prodotto deve essere trasmessa all’ente per la protezione dell’ambiente prima della messa in produzione in serie, così che quando si ritrovano rifiuti nelle varie discariche è possibile risalire a chi ha prodotto il materiale, e se questi non darà prova di avere fatto tutto quanto stava nelle sue facoltà per un corretto smaltimento — è terribile, ma laggiù si opera così ! — risponderà, in bonis, della bonifica dell’intera area. Questo per noi è assolutamente futuribile. In ogni caso, è fondamentale il discorso di avere lo strumento della frode documentale per poter lavorare.

Spero che in sede di discussione parlamentare non vengano apportate modifiche sostanziali. Mi auguro che l’iter non conosca le opposizioni che a me è parso di cogliere dalle parole del senatore Giovanelli, che sono state improntate all’esigenza, a suo avviso perfettamente legittima, di evitare una massiccia penalizzazione.

Mi rendo conto che non siamo in tempi di facili penalizzazioni, anche se, a mio avviso, l’allarme non solo ci deve essere, ma deve essere ulteriormente incrementato. Ci riferiamo proprio a questo profilo: questo tipo di reati ci può finalmente consentire di attingere livelli superiori rispetto ai quali la responsabilità è a titolo di dolo, che deve essere provato al di là di ogni ragionevole dubbio, rispetto alla situazione attuale, puramente contravvenzionale, che consente di colpire a caso, perché rispondono a titolo di dolo o di colpa, molto spesso di responsabilità oggettiva, in fondo gli operatori terminali, le cosiddette “ultime ruote” del carro, che certamente hanno una scarsissima capacità di arrecare un danno sistematico, lucido e determinato all’ambiente.

Auspico che questo disegno di legge, che ha ricevuto l’imprimatur di due Ministeri importanti quali quello dell’ambiente e quello di grazia e giustizia, possa nelle sedi dovute, previa adeguata discussione, giungere quanto meno ad una pronuncia finale. Non sto a discutere i massimi ed i minimi edittali. Si può discutere su tutto, ma la forma del reato deve rimanere quella del delitto e non della contravvenzione.

A coloro i quali osservano che saremmo alla ricerca di facili penalizzazioni, osserviamo che, ad esempio, in una materia nella quale non si sentiva una grandissima esigenza di tutela della società, quale è quella della tutela della privacy, con la legge del 1996 sono state definite ipotesi colpose di omessa adozione di misure necessarie per la sicurezza dei dati, che sono sanzionate con la reclusione, quindi sono state considerate come delitti.

A me pare che in un paese come il nostro, rispetto ai gravi scandali ed alle cose più abominevoli che sono avvenute, ci sia stata troppa tutela della privacy. Questo dovrebbe essere comunque un argomento decisivo, nel senso di consentire finalmente l’indicazione come delitti almeno delle condotte più gravi inerenti al traffico dei rifiuti.

Massimo Scalia, Presidente della Commissione. Condivido gli auspici del dottor Tarditi. Ringrazio tutti per la partecipazione ed anche per la resistenza fisica dimostrata.

Si concludono qui i nostri lavori.