Pier Cesare RIVOLTELLA, Università Cattolica di Milano. Mi sento in dovere di ringraziare anch'io chi mi ha invitato ad un tavolo così importante, così prestigioso. Devo dire anche che il narcisismo è una dote riconosciuta alla nostra razza, la congerie dell'accademia e quindi in prima istanza ho accettato di buon grado soddisfacendo appunto questo narcisismo. Ma in seconda battuta mi è stato ancora più gradito venir qui perché ho voluto intendere, dietro a questo tavolo, una volontà politica forte. Tante volte ho girato l'Italia partecipando a conferenze sui problemi dei media e dei loro effetti sul minore: raramente però i discorsi si sono tradotti in azioni concrete. Intendo leggere dietro questo tavolo questo discrimine e spero che veramente ci possa essere una svolta in questo senso.
Anch'io parto dai dati di una ricerca su preadolescenti e internet che abbiamo pubblicato presso la nostra casa editrice "Vita e pensiero" nell'ottobre scorso e che proprio la prossima settimana sarà presentata a Montreal, in un contesto internazionale, come la parte italiana di una più ampia ricerca che ha coinvolto altri otto paesi. Dalla ricchezza dei dati che sono emersi mi sono sforzato di isolare tre indicazioni e facendo questo anch'io non mi sono sottratto all'ossessione ternaria dell'occidente. Le sintetizzo velocemente in altrettante battute.
La prima idea la sintetizzo rubando le parole al libro di uno psicoterapeuta danese, Jesper Juul: Il bambino è competente. Credo che la prima questione su cui riflettere sia che i bambini e i ragazzi sono competenti. Una seconda idea è sotto forma di esortazione: la si potrebbe sintetizzare col dire: "guardiamo ai contesti", pensiamo all'importanza dei contesti. Una terza indicazione che emerge dalla nostra ricerca è la necessità di prestare attenzione non soltanto ai contesti ma anche ai discorsi di accompagnamento che i media si portano dietro. Riassumendo: il bambino è competente, occorre guardare i contesti, occorre ragionare non soltanto sui media ma anche sui loro discorsi di accompagnamento e spesso non c'è differenza, perché sono proprio gli stessi media che producono i propri discorsi di accompagnamento, costruendo un effetto che gli amici semiotici chiamano le istruzioni per l'uso.
Sulla prima idea, per cui il bambino è competente, la nostra ricerca mette in luce un profilo di adolescente assolutamente a suo agio con la tecnologia; né passivo né vittima ma capace di utilizzare la tecnologia per rispondere ai suoi bisogni. Ciò può non eliminare il problema perché i bisogni possono essere legittimi oppure no, quindi il problema educativo continua a porsi con tutta la sua importanza, però l'importante è spostare l'attenzione dal profilo sociale di un soggetto ingenuo e indifeso al profilo sociale di un soggetto assolutamente competente. Juul dice in un passaggio del suo libro che abbiamo commesso un errore fondamentale nel ritenere che i figli non siano persone vere e proprie fin dalla nascita. Abbiamo considerato i figli più come individui in potenza che in atto, pensandoli come dei semi-esseri sociali. La nostra rappresentazione dell'infanzia è la rappresentazione di un’età indifesa, di un'età ingenua, di un'età che in potenza è un'età adulta, ma a cui manca ancora qualcosa per diventare tale. Io, proprio nel condurre le ricerche, entrando nelle scuole e lavorando con le famiglie, ho incontrato invece tanti bambini molto più adulti dei loro genitori. Ho incontrato un'età adulta assolutamente in imbarazzo di fronte ad una infanzia in alcuni casi più matura. Ancora Juul dice che i bambini sono esseri sociali fin dalla nascita, collaborano con competenza con ogni genere di comportamento degli adulti, esprimono con competenza la natura delle emozioni e i dilemmi esistenziali dei loro genitori. Dunque questa prima indicazione probabilmente ci consiglia delle correzioni di rotta nel rapportarci con l'infanzia, non soltanto nella lettura del rapporto tra l'età evolutiva e i new-media ma anche sul piano dell’intervento educativo, perché abbiamo a che fare con soggetti competenti, anzi spesso lo sbilanciamento di competenze sul piano squisitamente tecnologico è tutto a vantaggio loro, non nostro. Dobbiamo quindi trovare nuove strategie per giocare la nostra maturità di adulti, la nostra criticità consapevole supposto che ci sia.
La seconda idea: guardare ai contesti, che aprono a due tipi di riflessione. I contesti sono anzitutto quelli della produzione e il problema è più complesso di come lo poniamo di solito. Non è sufficiente cioè ragionare solo sui media ma anche sull'industria dei media che al giorno d’oggi è costruita sul merchandising. Il mio collega e caro amico David Buckingham del London Institute of Education dice, a proposito dei Simpson, che il problema non sono tanto i Simpson in sé, quanto tutto il merchandising che ci si è costruito attorno: i fumetti, le magliette, i diari scolastici con le loro battute, gli zainetti. Si comprende allora che presidiare il televisore o il sito internet dei Simpson può forse essere un punto di partenza ma significa non vedere che bambini e ragazzi sono inseriti all'interno di un contesto totalmente imbevuto dei media e dei loro messaggi. Allora non sono soltanto le aziende di produzione, non sono soltanto le emittenti, ma c’è un intero indotto su cui ragionare. Primo aspetto da considerare è che anche il recettore (spettatore, navigatore, lettore) è inserito all’interno di un contesto particolare, di cui fa parte il produttore del "media" in questione, salvo le situazioni molto rare dei "navigatori solitari". Infatti, quando si entra in internet, lo si fa sempre per realizzare obiettivi concreti: voglio videogiocare, voglio incontrare altri utenti, voglio fare ricerche. Mi porto dietro il mio bagaglio culturale, proveniente dall'educazione che ho ricevuto, dalle letture che ho fatto, dalle esperienze che ho vissuto, dai contesti di vita che attraverso quotidianamente. Soprattutto non sono mai nella condizione di abbandonare completamente il mio contesto di appartenenza; quando sono in internet, come spesso si dice, continuo comunque sempre ad essere davanti alla mia scrivania circondato dai rumori della mia casa, occupo la linea telefonica che in qualsiasi momento altri della famiglia potrebbero chiedere di lasciare libera. Parlo con mio fratello, ascolto un cd musicale e magari sul mio tavolo c'è aperto anche un fumetto. La ricezione, l'atto del consumo è un atto contestuale fitto di mediazioni simboliche e reali che si colloca al centro di un sistema di pratiche sociali che sono assolutamente reali, non virtuali. E’, allora, a partire anche da quel contesto, che il problema degli effetti dei media e dei nuovi media va posto.
Terza indicazione: la nostra ricerca mette in evidenza il peso dei discorsi sociali, cioè la funzione di accompagnamento che spesso i discorsi dei media esercitano nei confronti dei loro messaggi. Un libro molto bello è appena stato tradotto in italiano e consiglio caldamente a tutti di leggerlo: è di Roger Silverstone, e si intitola interrogativamente Perché studiare i media?. L'autore dice che il contenuto delle narrazioni mediali e le narrazioni dei discorsi quotidiani, i discorsi dei media e i nostri discorsi, le loro narrazioni e le nostre narrazioni sono interdipendenti e insieme ci consentono di inquadrare e di misurare l'esperienza. Noi, come utenti dei media e dei nuovi media, viviamo all'interno di un sistema di mediazione di cui fanno parte anche i discorsi sui media. Nella nostra ricerca ciò che gli adolescenti pensano di internet o il modo in cui si rappresentano la rete spesso non dipendono dall'uso reale che ne fanno ma dalla discorsivizzazione che ne hanno sentito; sono i discorsi dei genitori, degli insegnanti e dei loro pari a costituire la loro idea della rete. Ancora una volta, pensare di risolvere il problema nel semplice rapporto tra le tecnologie e il minore sarebbe insufficiente, perché ci sono i contesti sociali, più larghi perché c'è un apparato discorsivo che li ricomprende. Spesso ci scandalizziamo di internet o ne indichiamo i pericoli dimenticandoci che l'intero sistema formativo anche del nostro paese spinge internet come motore dell'innovazione e come sostegno di un indotto importante della nostra economia. Ha ragione Silverstone quando dice che noi ci aggrappiamo, come a un’ancora di salvezza, a quegli stessi agenti, i media e le nuove tecnologie, che indichiamo come minaccia per la nostra stessa esistenza. E’ necessario riflettere sull’esistenza di questo paradosso all'interno della nostra società.
Concludo con tre battute velocissime, l'ultima delle quali è una proposta. Innanzitutto riprendo l'accenno della Presidente di questa tavola rotonda che giustamente diceva che un titolo come "Il bambino virtuale" è un titolo ironico; il bambino è ovviamente reale.
Secondariamente, seguendo ancora l'indicazione di Silverstone, mi verrebbe spontaneo dire: occupiamoci della normalità, smettiamo di occuparci dei casi eccezionali; anche la nostra letteratura e la nostra produzione discorsiva su quotidiani e periodici non è fatta di aberrazioni o di perversioni se non per una quota residuale; la gran parte tratta delle situazioni normali.
Terza battuta e finisco. Il Presidente Casini, nella sua introduzione, che ho apprezzato moltissimo diceva che il complesso famiglia-scuola deve essere in prima linea e indicava come nuovi obiettivi per le istituzioni la strutturazione di una rete di strumenti di garanzia, più che la strutturazione un potenziamento, perché una rete di garanzie ce l'abbiamo già ed è valida. Si tratta di una misura importante ma non sufficiente se non si pone seriamente il problema di una introduzione dei media nella scuola. Quando aspetteremo nel nostro paese per inserire nella scuola l’attenzione educativa verso i media come parte integrante e importante del curriculum, come già avviene nelle altre grandi democrazie europee? Ricordo che educare ai media nella scuola non significa aggiungere un'altra educazione alle tante o troppe educazioni che si sono fatte gravare in questo paese sulla scuola, ma significherebbe introdurre un curriculum traversale, "across the curriculum" come qualcuno dei miei colleghi preferisce definirlo, nel quale recupereremmo l'educazione alla salute (le parole di Pellai lo hanno indicato chiaramente), recupereremmo l'attenzione educativa per l'intercultura e soprattutto l'educazione alla cittadinanza, perché occuparsi dei media da parte delle agenzie educative oggi significa, secondo me, costruire i cittadini di domani. L'educazione civica del nuovo millennio è la media education.