I lavori, sospesi alle ore 13, riprendono alle ore 15,10.

Presidenza del senatore Ottaviano DEL TURCO,
Presidente della Commissione parlamentare antimafia

        PRESIDENTE. Prima di lasciare la presidenza al senatore Curto, segretario della Commissione parlamentare antimafia, ricordo che la prima parte di questo pomeriggio sarà dedicata ad una sorta di dibattito che coinvolge i componenti della Commissione antimafia; nella seconda parte ascolterete, sotto la presidenza dell’onorevole Lumia, il ministro di grazia e giustizia, onorevole Diliberto ed il sottosegretario di Stato per la difesa, senatore Brutti. Lascio ora la presidenza al senatore Curto.

Presidenza del senatore Euprepio CURTO,
vice presidente della Commissione parlamentare antimafia

        PRESIDENTE. Ringrazio il presidente Del Turco e do immediatamente la parola all’onorevole Gambale.

        GAMBALE Giuseppe, deputato, componente della Commissione parlamentare antimafia. Signor Presidente, ieri il procuratore Agostino Cordova, nel suo intervento, ha delineato scenari inquietanti rispetto alla pervasività della criminalità organizzata nel nostro territorio. Permettete un paragone medico: condivido la diagnosi, ma non concordo sulla prognosi.         Cordova ha affermato che "abbiamo perso un’occasione storica" quando, dopo gli arresti dei grandi capi delle organizzazioni criminali, non siamo riusciti a riprendere il controllo del territorio. Su questo sono d’accordo con lui, ma mi chiedo anche come sia stato possibile, pur disponendo in città dei migliori uomini tra i responsabili di polizia, carabinieri, prefettura e procura. Uomini ai quali va tutta la nostra stima ed il ringraziamento per l’operato che ogni giorno svolgono; allora è necessario uno sforzo di analisi.
        Siamo alla vigilia della discussione in Commissione antimafia della relazione sulla camorra in Campania, che riaccenderà i riflettori sulla questione della giustizia a Napoli. Il relatore, il senatore Lombardi Satriani, nel suo lavoro, che a volte ho anche criticato, ma che certamente può rappresentare un’utile base di partenza per questa discussione, dedica alcune pagine al caso Miller. Più volte, in questi mesi, l’obiettivo di questi attacchi è stata la delegittimazione del procuratore Cordova puntando sull’anello più debole della sua Procura. Ecco perché ritengo necessario chiarire subito che, a mio avviso, il caso Miller non è il caso Cordova. Bisogna distinguere.
        Avere al vertice della Procura di Napoli una persona, come Cordova, dal carattere non facile, certamente spigolosa, ma sulla cui autonomia ed indipendenza nessuno può sollevare dubbi, è un elemento di forza e – in questo panorama – di grande garanzia per tutti; ripeto: per tutti!
        Altra vicenda è quella del dottor Arcibaldo Miller. Era il 17 novembre del 1992 quando ho presentato su tale questione la mia prima interrogazione parlamentare. In essa denunciavo i rapporti fra Miller e Armando Cono Lancuba, la vicenda dei maxi fidi del Banco di Napoli e i rapporti con ambienti imprenditoriali e politici.
        Da allora tanti sono stati i fatti addebitati a questo magistrato, ma ridurre la questione della magistratura napoletana al caso Miller sarebbe miope e riduttivo.
        Continuiamo dunque nell’analisi. Nella giornata di ieri sia il presidente del Senato, Nicola Mancino, che l’assessore al comune di Napoli, Maria Fortuna Incostante, hanno individuato nel terremoto del 1980 e nella relativa ricostruzione uno dei punti discriminanti per un salto di qualità degli affari della camorra in Campania e per i suoi rapporti con il sistema di potere politico-economico.
        In questo contesto, a mio avviso, si inserisce la vicenda dei cosiddetti "giudici collaudatori" che l’onorevole Luciano Violante, nella sua relazione sulla camorra, definisce: "una pagina buia della storia recente della magistratura italiana".
        Infatti, quali commissari per la ricostruzione il Presidente della Regione e il Sindaco di Napoli designarono nelle commissioni di collaudo delle opere e per altri incarichi un numero particolarmente elevato di magistrati penali, amministrativi e contabili; gli incarichi erano lautamente retribuiti.
        L’onorevole Violante, stigmatizzando la scabrosa commistione creatasi tra controllori e controllati, aggiungeva nella sua relazione che "il Consiglio superiore della magistratura, nell’affidare funzioni dirigenti degli uffici giudiziari, dovrà valutare anche i comportamenti dei magistrati nella vicenda degli incarichi extragiudiziari".
        Se questi erano, solo cinque anni fa, il pensiero e la preoccupazione della Commissione antimafia, oggi dovrebbe destare sconcerto il fatto che la Procura generale, l’ufficio Gip, la presidenza del tribunale, fino a qualche tempo fa anche il TAR della Campania, siano diretti proprio da giudici collaudatori. Per essere più concreti, facciamo solo qualche esempio. Al vertice della Procura generale c’è il dottor Renato Golia, collaudatore dal 5 giugno 1984 al 15 luglio 1992 di edilizia residenziale a Pomigliano e poi, dal 9 dicembre 1996, della bretella centro direzionale di Napoli-Ponticelli-Cercola per un compenso complessivo che supera i 130 milioni. L’attuale capo dell’ufficio Gip è il dottor Renato Vuosi, anch’egli impegnato negli stessi collaudi del dottor Golia, ma per un importo di poco superiore ai 71 milioni. Inoltre, dal 16 ottobre 1998 è anche reggente del tribunale, dal momento che il titolare, Raffaele Di Fiore, anch’egli collaudatore dal giugno 1984 al giugno 1988 di edilizia residenziale a Boscoreale, incarico compensato con 91.523.448 lire, è andato in pensione. Il Ministro di grazia e giustizia sta per nominare il nuovo presidente del tribunale di Napoli e, naturalmente, il reggente, dottor Vuosi, è uno dei favoriti dell’eredità del dottor Di Fiore. L’elenco potrebbe continuare a lungo ma, per questioni di tempo, rinvio ad una nota che ho preparato ad integrazione della relazione del senatore Lombardi Satriani. Ritengo, infatti, che sia giunto il momento di spezzare definitivamente i vecchi legami di settori della magistratura napoletana con il blocco di potere e di affari che ancora resiste in città. La nuova relazione dell’antimafia dovrà tentare di rompere questi intrecci, continuando il prezioso lavoro di analisi iniziato da Violante. Ma, con prudenza e coraggio, dobbiamo affrontare anche un altro argomento: la situazione delle forze dell’ordine. Pur riconoscendo che sono stati fatti passi avanti e che si è messo mano, con determinazione e dall’interno, ad un’opera di risanamento morale e a grandi sforzi organizzativi per nuove strategie d’investigazione e controllo del territorio, come è stato ieri autorevolmente sottolineato dal prefetto Masone, dal generale Siracusa e dal generale Mosca Moschini, dobbiamo ammettere che Napoli ha rappresentato, in questi anni, un caso davvero allarmante. Non è mai utile generalizzare, ma se è incontrovertibile che il numero degli arrestati tra le forze dell’ordine costituisce una percentuale tutto sommato contenuta rispetto alle migliaia di persone che nei vari corpi di polizia, nei tribunali e nelle procure sono quotidianamente impegnate nella lotta ai clan, è altrettanto certo che dai dati emerge un tasso di corruzione e inquinamento più vicino ad un Paese sudamericano che ad un moderno Stato democratico.
        In un’intervista rilasciata a "il Corriere della Sera" dell’11 febbraio 1997, il procuratore di Napoli, Agostino Cordova, ricorda, testualmente, che: "Dal 1993 ad oggi sono incorsi in procedimenti penali, tra coloro che erano in servizio a Napoli, un prefetto, due questori, due vice questori, tre dirigenti". Forse Napoli non è una sede fortunata, ma questi sono i dati di fatto. Cordova parla del 1993, l’anno della clamorosa inchiesta sul commissariato di Ischia che portò allora in galera sei poliziotti per racket e traffico di droga. Negli anni successivi, tuttavia, la situazione non è migliorata. Scegliendo il 1996, ad esempio, si scopre che più di cento componenti delle forze dell’ordine sono stati arrestati. Tra i casi più significativi quello delle sei persone bloccate tra Torre del Greco e Pompei, accusate di favorire camorristi. In aprile un finanziere ed un carabiniere sono stati accusati dell’organizzazione di un attentato alla sede napoletana della DIA per uccidere il pentito Galasso. È invece del gennaio 1997 l’operazione della Procura della Repubblica di Napoli che ha portato in carcere 19 poliziotti, alcuni ispettori e sovrintendenti, e il capo della squadra mobile, Costanzo Sossio, con le accuse di associazione mafiosa, falso, calunnia, detenzione di droga, eccetera. Scriverà una giornalista che: "A parte poche eccezioni, a Ercolano polizia e camorra sono stati per anni la stessa cosa". Nelle indagini sulla polizia corrotta ad Ercolano è stato coinvolto anche l’attuale questore di Reggio Calabria, Franco Malvano. Le accuse contro di lui sono state archiviate nell’aprile di quest’anno, ma il Gip ha inviato l’archiviazione al Ministero dell’interno con questa motivazione: "Poiché è risultato un quadro comunque allarmante in ordine alla posizione del Malvano, a prescindere da rilievi di carattere penale, appare doveroso trasmettere copia del presente provvedimento al ministro dell’interno, onorevole Giorgio Napolitano, e al capo della polizia, dottor Fernando Masone, per quanto di rispettiva competenza". Sono trascorsi oltre sei mesi, ma non si ha notizia di decisioni del Viminale.
        Detto ciò, tengo a precisare che non sono affatto pessimista. Concordo, infatti, con quanto è stato detto da Sergio D’Antoni che, tra l’altro, ha affermato: "È bastato guardarli in faccia questi mafiosi per rendersi conto che era possibile batterli". Anche a noi allora non resta che guardare in faccia la realtà, senza paraocchi, ma con coraggio, e accendere i riflettori per evitare chiaroscuri e zone grigie. Per questo, credo che sia indispensabile affiancare alla cultura della legalità, tanto sottolineata ieri dal ministro dell’interno Jervolino, la cultura della memoria. Qualche volta ricordare può essere scomodo e fastidioso per qualcuno, ma una nazione o una città senza memoria, senza la consapevolezza della propria storia, dei prezzi pagati, degli errori commessi, delle conquiste realizzate non costruisce alcun futuro credibile. In questa città la politica ha fatto grandi sforzi di rinnovamento in entrambe le parti, esprimendo una nuova classe dirigente che oggi governa anche il Paese. Con dignità, rispetto, ma anche con autorevolezza, la politica può oggi chiedere agli altri pezzi dello Stato di fare altrettanto. (Applausi).

        PRESIDENTE. Ringrazio l’onorevole Gambale ed invito ad intervenire l’onorevole Maiolo.

        MAIOLO Tiziana, deputato, componente della Commissione parlamentare antimafia. Vorrei rivolgere un dovuto ringraziamento al Comando generale dell’Arma dei carabinieri, che ha preso l’iniziativa, insieme alla Commissione antimafia, dell’organizzazione di questo Convegno, che io ritengo comunque importante, anche se sono sempre un pò prevenuta nei confronti dei convegni perché, con il mio spirito pratico, vorrei sempre vedere anche delle conseguenze concrete. Ma questo Convegno mi ha interessato particolarmente ed uno dei motivi è perché si è parlato molto di sicurezza, non soltanto della grande sicurezza, ma anche della sicurezza di ogni giorno. E quando si discute di sicurezza sul territorio e sicurezza anche attraverso la lotta alla grande criminalità si deve parlare necessariamente anche di quella che viene chiamata, come ha detto ieri anche il Presidente della Camera con un termine che secondo me va superato, microcriminalità. La sicurezza va garantita ai cittadini, che ce la chiedono tantissimo; tantissimo perché, ogni volta che si ha occasione di colloqui con uno o più cittadini, la prima cosa che viene posta come problema anche della vivibilità nelle città attiene proprio alla sicurezza sul territorio. Per creare le condizioni ed anche quella percezione della sicurezza di cui parlava il sindaco di Milano, Albertini, occorre prima di tutto affrontare il problema della criminalità di strada, che è stato troppo sottovalutato. Troppo dalle forze politiche, in particolare da quelle di sinistra – non lo dico per polemizzare, ma perché è una realtà dei fatti – ma anche da tanti, troppi magistrati. Forse perché si dà priorità ad un tipo di amministrazione della giustizia più appariscente, più da palcoscenico; forse perché, finché non si affronterà con coraggio il problema dell’obbligatorietà dell’azione penale, ci sarà sempre un’ipocrisia, perché c’è nei fatti una grande impunità per quel che riguarda la criminalità di strada, quella chiamata appunto microcriminalità. Infatti, ogni anno, i procuratori generali, all’inaugurazione dell’anno giudiziario, ci dicono che il 95 per cento dei furti resta impunito, che il 60-65 per cento delle rapine, degli omicidi, degli scippi rimane impunito. Io ho visto però che a Milano in tre giorni è stata ritrovata la borsetta della dottoressa Paciotti e mi ha fatto molto piacere, perché, evidentemente, ogni tanto si trova anche il responsabile di uno scippo. Ai cittadini fa sempre molto piacere vedere che ogni tanto si riesce a fare anche rapidamente un’indagine.   Allora di chi è la responsabilità? Forse delle forze dell’ordine? Io non credo. Ma non tanto per il discorso che qualcuno ha fatto stamattina, quando si diceva che la polizia arresta, poi la magistratura scarcera. No, la verità è che troppe procure della Repubblica sono impegnate e fanno delle scelte politiche sui reati da perseguire e quelli da non perseguire. E, naturalmente, la microcriminalità passa sempre in secondo piano, appunto perché si ritiene che non sia importante. Certo, non tutta la microcriminalità si dedica a reati contro la persona. Certamente non posso dire che il furto sia grave come un omicidio, però al cittadino pesa tantissimo anche il furto in appartamento, il furto d’auto, furti che spesso, se non ci sono problemi con l’assicurazione da affrontare, non vengono neanche denunciati. E allora il problema principale, se è vero che è quello dell’impunità, è anche quello della non certezza della pena. Infatti, noi sappiamo benissimo che il problema vero è quello di individuare il presunto responsabile, di processarlo, se ritenuto colpevole, di condannarlo e infine di fargli scontare la pena. Tutto questo nel nostro Paese non succede. Si insegue altro tipo di chimere. Questo, secondo me, è uno dei motivi per cui quella sicurezza della quotidianità, che poi prelude alla sicurezza anche nelle grandi inchieste e contro le grandi organizzazioni criminali, non c’è e di conseguenza io non so neanche come sia possibile affrontare la questione se non si cambia veramente mentalità e cultura. Ormai ho l’impressione che la gran parte delle indagini, da quelle di pretura a quelle per i reati più gravi, sono fatte soltanto con il pentito e con l’intercettazione. Voi pensate che le intercettazioni telefoniche in tutti gli Stati Uniti, che sono un pò più grandi dell’Italia, sono circa un migliaio all’anno, e soltanto per i reati più gravi; e in Italia, calcolando soltanto quelle procure della Repubblica che hanno risposto ad un’interrogazione che noi abbiamo fatto, e tra queste non c’era quella di Napoli, si sono calcolate circa 50.000 intercettazioni all’anno, escludendo Napoli appunto e altre grandi città che non hanno dato la loro risposta. Io polemizzo su questo perché, siccome l’intercettazione telefonica è di per sé uno strumento di lesione comunque del diritto della persona, vorrei almeno che in seguito a questa lesione vi fosse un risultato. E invece il risultato è che non c’è più né certezza del diritto, né certezza della pena. Altrimenti si usa il collaboratore di giustizia, con le conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti. Potrei poi aggiungere, ma soltanto per titoli, che sono criminogeni certamente, come già ha detto in questa sede il dottor Cipolletta, l’eccesso di presenza dello Stato nell’economia, l’eccesso di fisco, il fisco iniquo e ingiusto che poi produce disoccupazione e lavoro nero, che spesso sono poi un pò la stessa cosa perché i dati sulla disoccupazione sono sempre un pò gonfiati per eccesso in quanto non si calcola mai il lavoro nero. E anche queste sono condizioni e presupposti per la nascita anche di grossa criminalità, non soltanto di piccole.
        Cosa si è fatto in questi ultimi dieci anni? Naturalmente moltissime cose sono state fatte, sono stati istituiti nuovi organismi di polizia o di magistratura, è nata la DNA e le procure antimafia, è nata la DIA, sono nati i corpi speciali, i ROS, il GICO, lo SCICO, eccetera, e sono tutte cose evidentemente positive se poi servono per le indagini. Ma siccome, come ho accennato prima, io ritengo che in questo Paese ci sia una tendenza prevalente delle principali procure della Repubblica a non far svolgere più le indagini, ma ad aggirarle...

        PRESIDENTE. Mi scusi, onorevole Maiolo, la invito a parlare cortesemente un po’ più vicino al microfono. 

        MAIOLO Tiziana, deputato, componente della Commissione parlamentare antimafia. Non penso ci sia malizia nell’avermi interrotto in questo momento. Siccome c’è questa tendenza a scoraggiare le indagini, addirittura a volte a mettersi in conflitto con i corpi speciali dello Stato, con le diverse forze di polizia, naturalmente allora ci vogliono le leggi speciali.  Sono sbalordita del fatto che il Presidente del Senato, che è un ex Ministro dell’interno e che conosce molto bene la situazione, dopo tutto quello che è successo in questi anni e dopo i risultati disastrosi di certe leggi speciali, ieri abbia proposto ancora un incremento delle leggi speciali. Debbo dire che la legge speciale ha la seguente caratteristica: dovrebbe essere vincolata ad un momento storico e magari anche ad un territorio. Come è giusto e come è normale, se vogliamo rimanere nell’ambito della Costituzione, la legge speciale vale per tutti; e poiché nel nostro Paese non c’è nulla di più eterno del provvisorio, naturalmente queste leggi speciali entrano nel nostro ordinamento e ci rimangono per sempre. Il risultato è che noi abbiamo distrutto sistematicamente ogni riforma del codice di procedura penale, per cui non abbiamo più un vero e proprio sistema accusatorio, anzi siamo giunti ad un mescolamento tra il sistema accusatorio e quello inquisitorio e all’inversione dell’onere della prova. Non voglio citare, perché non ho più tempo, gli articoli 192 e 513 del codice di procedura penale, e via dicendo.
        Sento dire che siamo arrivati anche al risultato che è nata una nuova cupola mafiosa gestita dai cosiddetti pentiti di questo Paese. Vogliamo trascurare anche questo? È vero che taluni latitanti sono stati arrestati, e questo è senz’altro un successo conseguito dalle forze dell’ordine, ma è anche vero che tantissimi ex latitanti, che tre secondi prima di essere arrestati erano già pentiti, sono stati poi scoperti mentre commettevano gli stessi reati. E allora, di fronte ad un successo delle forze dell’ordine vi è sicuramente un insuccesso della legislazione premiale.
        Avviandomi alla conclusione del mio intervento, nella giornata di ieri il presidente Violante ha detto, per inciso, una cosa importantissima che mi pare sia passata inosservata, certamente ai giornalisti. Egli ha detto che troppo spesso le forze dell’ordine sono schiacciate dai pubblici ministeri. Questo è importante, ma ricordatevi che dietro l’ipocrisia dell’obbligatorietà dell’azione penale i pubblici ministeri orientano poi le indagini, o le non indagini, in una direzione piuttosto che in un’altra, operando scelte politiche a cui poi le forze dell’ordine sono necessariamente subordinate.
        Ho tralasciato una cosa importante che volevo dire sull’immigrazione. Posso accennarvi chiedendo: come si fa a dare sicurezza al cittadino quando da ambienti della maggioranza e governativi assistiamo all’accompagnamento e alla protezione di Stato di un capo guerrigliero indicato come terrorista e narcotrafficante? Come si fa poi a chiedere che venga arrestato un ladruncolo, quando lo Stato si fa protettore di un personaggio di questo tipo, che necessariamente vorrà organizzare anche dall’Italia la sua lotta di popolo, certamente oppresso e massacrato, ma che a mio avviso va difeso con altri strumenti?
        Volevo parlare anche della situazione di Brindisi, ma non lo farò, perché spero che comunque il Governo venga a risponderne in Parlamento.
        Signor Presidente, vorrei concludere con una frase non mia ma di un grande giurista. In un Paese normale – come direbbe il Presidente del Consiglio – se nevica si usa lo spazzaneve; nel nostro Paese invece di ricorrere ad uno spazzaneve si ricorre ad una legge speciale, però, purtroppo, la neve continua a rimanere, a mucchi, sulle strade. (Applausi).

        PRESIDENTE. Onorevole Maiolo, lei ha preso solamente un po’ di tempo in più, ma comunque do subito la parola al senatore Russo Spena. 

        RUSSO SPENA Giovanni, senatore, componente della Commissione parlamentare antimafia. In qualità di componente della Commissione parlamentare antimafia ho sempre ritenuto questi convegni di approfondimento e di verifica estremamente importanti. Quindi, i miei ringraziamenti per l’organizzazione non sono rituali ma convinti.  Ritengo che anche questo Convegno, concernente la lotta alle mafie nel territorio, abbia permesso un approfondimento su alcuni temi e ora spetterà alla politica, intesa in senso alto e in senso positivo, giungere all’adozione di provvedimenti anche sul piano normativo, nonché a realizzazioni sul piano amministrativo e su quello regolamentare.
        Si è parlato finora dell’educazione alla legalità e della cultura della legalità, nonché del rispetto delle regole dello Stato di diritto. Poiché come dirigenti politici e come parlamentari dobbiamo assumerci le nostre responsabilità, ritengo che questo debba essere innanzi tutto un compito delle rappresentanze politiche nazionali, se vogliono diventare anche un modello di vita per le giovani generazioni. Mi permetto, prima di tutto – l’ho fatto già più ampiamente nel primo Convegno che si è svolto a Palermo –, di richiamare il sistema politico e noi stessi ad evitare ogni ritualità.
        Vorrei sottolineare, per titoli, tre punti. Purtroppo, mi pare che in questo momento non siano qui presenti rappresentanti del Governo, ma ritorno su un punto che avevo già tracciato più ampiamente a Palermo. Perché mai – e rientra nell’educazione alla legalità – vi sono impegni assunti dallo Stato e non mantenuti? Nella giornata di ieri anche il presidente Mancino ha ricordato che tutti sappiamo quale centralità assuma oggi la lotta al riciclaggio; perché allora sono trascorsi sette anni di inerzia per quanto riguarda la fondamentale costituzione dell’archivio dei conti e dei depositi già prevista nella legge n. 413 del 1991 e richiamata nel decreto legislativo n. 153 del 1997? Quali resistenze vi sono e come possiamo insieme superarle? Perché mai è così carente l’attuazione della legge n. 310 del 1993, la cosiddetta legge Mancino, concernente la trasparenza degli assetti societari, i cui dati, allo stato non trattati informaticamente, occupano archivi cartacei di incerta collocazione e quindi di nessun uso? Ogni operatore della Guardia di finanza, delle altre forze dell’ordine e ogni magistrato sanno cosa rappresentano queste carenze nella lotta al riciclaggio. E il Governo cosa fa? Mi domando se si vogliono superare le resistenze che evidentemente fanno capo a forti grumi di interessi economici e a poteri finanziari. Ritengo che questo sia un punto sul quale di fatto nei prossimi mesi la Commissione parlamentare antimafia dovrà lavorare con capacità di impulso.
        Vorrei ora accennare ad un altro tema. Se è vero che tutti analizziamo le pervasive e diffuse pratiche estorsive dell’usura come elemento fondamentale dell’aggregazione sul territorio della criminalità – l’abbiamo ascoltato anche ieri in una importante relazione – perfino nel suo reclutamento giovanile e nella costruzione di veri e propri rapporti di forza e di egemonia sul territorio, non comprendo perché non venga rafforzata e resa tecnologicamente più sofisticata un’attività di intelligence di articolate banche dati sull’esempio degli Stati Uniti e di altri paesi europei. Insomma, riprendendo qui le proposte di autorevoli esperti internazionali, intendo sottolineare che il Governo deve e può fornire strutture ed organizzazioni avanzate alle forti capacità investigative delle forze dell’ordine, altrimenti restiamo ancorati a politiche che non hanno le strutture e i mezzi reali per funzionare permanentemente ed organicamente.
        In terzo luogo, nella cultura della legalità propria della mia formazione e cultura politica, un punto preminente e decisivo – lo hanno detto anche Falcomatà e Bassolino questa mattina – per la riconquista del territorio è rappresentato da uno sforzo straordinario al fine di innervare il territorio di veri e propri presidi democratici – vorrei chiamarli così –: la creazione di un consultorio, di un centro sociale, di un comitato di quartiere, di una scuola di musica popolare, di un centro sportivo e di una fabbrica – perché no? – può contendere il territorio alle organizzazioni criminali palmo a palmo, per usare l’espressione del presidente Pertini.
        Non voglio diffondere pessimismo, anzi; però richiamo anche noi politici a non essere ipocriti. Non dimentichiamo mai che le mafie e le camorre crescono soprattutto tra le nuove generazioni – e questo mi pare sia un punto poco trattato in questo Convegno che a me pare, invece, essenziale – nei nostri quartieri metropolitani, i quali sono diventati deserti di socialità e di socializzazione. E allora passano modelli di vita e di accumulazione proposti da malavitosi della porta accanto, del bar del quartiere, nonché – occorre avere il coraggio di dirlo – della città, della regione e, a volte, della rappresentanza politica.
        Vorrei citare qui, per la sua provocatoria chiarezza, un editorialista che si autonomina Beccaria. Egli scrive: "Tanto per restare in Campania, ignoriamo se gli studenti della Pascoli II di Secondigliano abbiano mai sentito parlare del "mostro di Fuenti", tuttora saldamente ancorato alle rocce della costiera amalfitana, nonostante una sentenza che ne abbia decretato l’abbattimento". Ero un giovanissimo consigliere regionale della Campania quando, nel 1977, iniziammo la lotta contro la speculazione in quelle zone e poi contro il "mostro di Fuenti".
        Sta di fatto che gli studenti della Pascoli II e i loro congiunti si sono sentiti vincolati più al rispetto delle regole di prepotenza del malavitoso della porta accanto che alle regole del sistema scolastico. Il pestaggio di un professore a Secondigliano o l’autobomba alla Sanità, così come gli scempi paesaggistici, gli appalti truccati o lo spaccio di droga e le capillari pratiche estorsive nei nostri quartieri si inseriscono in un modello di società nel quale i poteri criminali sparano, ma a volte amministrano e gestiscono imprese e flussi finanziari, a volte governano la disgregazione sociale attraverso l’offerta di consistenti occasioni di accumulazione illegale e gestiscono un vero e proprio mercato del lavoro parallelo di fronte ad uno Stato – e lo sa bene per la sua esperienza di vita il presidente Del Turco – che offre nel Mezzogiorno, a volte, solo nuove gabbie salariali, un nuovo caporalato di massa, uno sviluppo non qualitativo e tanta tanta precarietà, che è precarietà di lavori ma anche abbrutimento di vite, perdita di orizzonti, sconfitta di senso collettivo ed identità di sé.
        Questo è anche lotta alle mafie nel territorio e qui veramente il Mezzogiorno è metafora di un fallimento politico. Occorre uno sforzo eccezionale, un intervento continuo e capillare di una nuova programmazione sul territorio, altrimenti mafia e camorra – lo dica la politica senza ipocrisia – diventeranno un elemento naturale, voglio essere provocatorio, della governabilità del disagio sociale (sento il problema sociale da napoletano eletto a Palermo e che quindi conosce questi due deserti di socialità, come ho detto poc’anzi) e un elemento di governo della disgregazione. Questo è Napoli; diciamo la verità, viviamoci in questi quartieri! Si tratta di un governo vero e proprio della disgregazione. Io credo che abbia ragione il procuratore Caselli, che ormai lo dice ripetutamente da qualche mese: l’antimafia della repressione è importante, ma è impotente se non si accompagna oggi ad una forte antimafia sociale.
        In conclusione, la cultura della legalità non può essere una forma retorica ed indolore, perché ha bisogno di comportamenti conseguenti. Sta di fatto che forze dell’ordine e magistratura decapitano le ali militari – e non solo – delle mafie; eppure le mafie e le camorre sono ancora lì, nei territori in cui sono nate, a volte più forti di prima, e in qualche caso hanno conquistato immensi territori del Centro-Nord. La politica – quella sana – deve o no rispondere a questo apparente paradosso?
        Presto anche grande attenzione, in questi giorni, al nuovo rapporto, che corriamo il rischio – lo dico con grande prudenza – si ricostruisca, tra mafia, camorra e politica ed al fenomeno del riciclaggio di un vecchio blocco di potere che sta tornando in campo, a volte anche attraverso "ribaltini" e "ribaltoni", proprio nelle regioni meridionali maggiormente a rischio di collisione tra politica, amministrazione e criminalità organizzata.
        Non dobbiamo mai dimenticare che le mafie conoscono le politiche del compromesso e dell’alternanza, come abbiamo potuto rilevare in alcuni casi in Sicilia (cito, come esempio, il caso della città di Messina, per stare agli atti ufficiali della Commissione parlamentare antimafia). Ognuno di noi, pertanto, deve assumersi le proprie responsabilità in senso autocritico, in merito a rilevanti manchevolezze e disattenzioni.
        Se questo Convegno ha un senso forte – e io credo che l’abbia – dobbiamo assumerci l’impegno di combattere le mafie sul territorio, collegando l’attività di repressione con l’antimafia sociale. Dobbiamo assumerci l’impegno per il futuro di far corrispondere in modo rigoroso le parole ai fatti, perché ritengo che con la pura retorica e ritualità non andremo lontano e non restituiremo il territorio alla cultura della legalità. (Applausi).

        PRESIDENTE. Invito l’onorevole Neri a prendere la parola. 

        NERI Sebastiano, deputato, componente della Commissione parlamentare antimafia. Per questo Convegno dell’antimafia, nella città di Napoli, credo non potesse essere più centrato il tema della lotta alle mafie nel territorio. Tra le varie forme di delinquenza organizzata con le quali in vari momenti ci dobbiamo confrontare, la mafia ha una caratteristica che la distingue da tutte le altre, che è quella di connotarsi come anti-Stato, con atteggiamenti che, se fossero istituzionali e positivamente indirizzati, apparterrebbero allo Stato.  La mafia, in primo luogo, attua un feroce controllo del territorio, perché in esso deve trovare le sue basi operative, le sue risorse ed anche la capacità di sfuggire alle attività investigative e repressive dello Stato. Per garantirsi il controllo del territorio esercita una serie di attività, come quelle che potremmo definire impositive, nel senso che la mafia, come lo Stato, chiede a coloro che risiedono in quel territorio di pagare quanto le è dovuto secondo il suo punto di vista. Da qui scaturiscono le rapine, le estorsioni, l’esercizio dell’usura, lo stesso traffico delle sostanze stupefacenti (con particolare riguardo all’attività di spaccio e di diffusione ultima al consumatore) ed il favoreggiamento della prostituzione. Sono queste tutte attività che hanno una stretta attinenza con il territorio e che servono – oltre a garantire enormi flussi di denaro, che in un secondo momento vengono impiegati in un circuito economico lecito, forzando le regole di mercato – a garantire una presenza costante ed un controllo fisico del territorio stesso, diventando elemento di esercizio della sovranità dell’organizzazione criminale che passa attraverso l’utilizzazione dei soggetti che a queste attività vengono destinati.
        Non bisogna dimenticare anche un altro aspetto fondamentale: si tratta di quelli che in altre occasioni ho definito i reati di accesso ad un’attività di grande livello in relazione alle attività mafiose. Infatti, attraverso l’esercizio di questi reati di base, ancorché gravissimi, che vanno dall’estorsione all’usura, dallo spaccio di sostanze stupefacenti ai reati contro il patrimonio, alle rapine e – come ricordava prima la collega Maiolo – ai furti, si riscontra una presenza costante che risponde a degli input. Non è un caso se nei territori controllati dalla mafia anche chi si dedica a queste attività di criminalità comune, o – come qualcuno ancora si ostina a definire, sottovalutandoli – di microcriminalità, deve rispondere a logiche di riferimento, perché nel momento in cui si colloca al di fuori di tali logiche, con i personaggi e gli apparati della struttura mafiosa, viene addirittura soppresso fisicamente.
        Sono questi reati di base che rappresentano il terreno di coltura dove viene poi esercitato il reclutamento di quella mano d’opera che viene messa in carriera. Allora, da questa constatazione deriva una prima riflessione: la lotta alla mafia deve inevitabilmente contemplare anche una lotta serrata a questi reati di accesso, che rappresentano di per sé una piaga ma altresì la forma di reclutamento più efficace posta in essere dalle associazioni criminali.
        Tuttavia, c’è una novità in questo contesto, che tutto sommato – mi dispiace doverlo dire – è rappresentata oggi dal fenomeno dell’immigrazione clandestina. Essa è diventata non solo un’altra attività enormemente remunerativa delle associazioni criminali mafiose, nazionali ed internazionali, ma anche un nuovo canale di reclutamento: l’immigrazione clandestina porta sul territorio dello Stato soggetti che non avrebbero titolo per starvi, che hanno bisogno di coperture, di punti di appoggio e di strutture che consentano loro – su scala ridotta e diversificata – tutto ciò che viene consentito ai grandi latitanti (è necessaria, quindi, una struttura per consentire a chi non ha diritto di risiedere sul territorio di poterci stare con una relativa tranquillità). Poiché privi di una capacità di reddito, diventa frequente e molto facile fare di questi soggetti dei manovali delle organizzazioni criminali. Laddove poi esistono comunità nazionali di immigrati particolarmente forti, assistiamo sempre più frequentemente ad una capacità di organizzazione autonoma con clan a caratterizzazione nazionale, che finiscono per operare su un territorio affiancandosi, accavallandosi e scontrandosi con le associazioni criminali locali in quei luoghi preesistenti.
        Se quindi esiste questa forte caratterizzazione territoriale della struttura mafiosa, dobbiamo porci un’altra domanda, che comincia a trovare le sue risposte nelle inchieste, nelle indagini e negli approfondimenti che la Commissione antimafia sta conducendo. La presenza e l’operatività sul territorio di tale struttura non possono essere esercitate facilmente senza una forte capacità di interfacciarsi con le istituzioni che operano sul territorio. Non sarei così ottimista, com’è stato il sindaco della mia città questa mattina – il dottor Bianco – nel sopravvalutare alcuni effetti positivi che certamente si registrano e che rappresentano una maggiore impermeabilità e, quindi, una minore capacità di penetrazione nel tessuto della politica delle associazioni criminali. È vero che le azioni di polizia, unitamente a quelle poste in essere dalla magistratura, hanno inferto colpi notevoli alle strutture organizzative della mafia e delle altre associazioni similari, ma è altresì vero che non hanno risolto definitivamente il problema. In questo momento – forse è vero – si può affermare che non esiste più un’unicità di comando, ma non sappiamo se ciò sia un effetto definitivo o momentaneo in attesa che l’organizzazione o la riorganizzazione lo riproduca. Non so fino a che punto corrisponda a vero il fatto che sta diminuendo quel consenso sociale nei confronti della mafia che talvolta si è dovuto drammaticamente registrare.
        Resta, però, un fatto: mi riferisco all’esercizio dell’attività di controllo di un territorio – per esempio – in materia di appalti, settore nel quale stiamo rilevando quali sono i pericoli di infiltrazione e di inquinamento esistenti, quanto meno in Sicilia; tuttavia, mi sembra che fatti analoghi siano stati registrati anche in Calabria e in Campania. È stato dimostrato che l’interfacciamento con la politica diventa indispensabile per quel ruolo di intermediazione, che a taluni rappresentanti disponibili è stato sempre riconosciuto dalle associazioni criminali, per poter poi raggiungere il momento di convergenza e realizzare l’appropriazione degli appalti.
        Pertanto, se passi in avanti sono stati fatti, occorre certamente non fermare l’azione finora intrapresa, rispetto alla quale tutti non dobbiamo avere preconcetti o tesi precostituite. Dobbiamo analizzare i fatti, individuare i responsabili e renderci conto che l’attività di polizia non può essere subordinata a logiche di esercizio del potere politico, così come – per esempio – sta accadendo in Sicilia. Per questa regione sono fortemente allarmato, insieme a molti colleghi della maggioranza, perché sono stati avanzati forti sospetti in merito al fatto che alcuni ambienti politici non siano del tutto impermeabili alla penetrazione mafiosa.
        Allora, in questo contesto – mi avvio rapidamente alla conclusione – oggi che cosa possiamo fare? Poiché abbiamo visto che alcune azioni ed iniziative hanno raggiunto risultati concreti molto apprezzabili, è indispensabile un coordinamento dell’operato delle forze dell’ordine. L’Arma dei carabinieri, che tra l’altro collabora all’organizzazione di questo Convegno e che per questo motivo ringrazio, ha una organizzazione territoriale capillare che le permette di usufruire di un bagaglio di conoscenze e di una potenzialità operativa che dovrebbero essere prese in esame per migliorare ulteriormente l’operato di tutto l’apparato delle forze dell’ordine.
        L’istituzione nelle città del poliziotto di quartiere, cioè di una persona avente una conoscenza analitica delle persone e del territorio sul quale opera, non credo sia più differibile. Dobbiamo prendere atto che la scelta fatta di spostare il momento dell’intervento della garanzia giurisdizionale nell’ambito delle indagini operate, attraverso il nuovo codice di procedura penale, ha prodotto effetti certamente negativi. Va restituita l’iniziativa delle indagini alle forze dell’ordine, attribuendo in un secondo momento la facoltà di intervento e di coordinamento alla magistratura. Bisogna anche prendere coscienza del fatto che le leggi poste in essere negli anni passati per sostenere le vittime dell’usura e dell’estorsione hanno funzionato male: soltanto un cittadino che sa di poter avere il sostegno dello Stato può trovare l’animo di resistere a quel tipo di sollecitazioni a cui viene esposto.
        Siamo, quindi, in possesso – per così dire – di una serie di attività con le quali possiamo intervenire e con le quali possiamo utilmente migliorare l’impegno dello Stato nei confronti delle associazioni criminali. Tuttavia, non dobbiamo dimenticare che fin quando permangono forti sul territorio la presenza ed il controllo delle associazioni mafiose, mille convegni non serviranno a risolvere il problema: là c’è la mafia e non lo Stato. Soltanto nel momento in cui lo Stato si articolerà sul territorio attraverso la sua costante presenza e con un quotidiano impegno per affermare i princìpi di legalità, senza leggi speciali o provvedimenti ad hoc che sono l’anticamera delle distorsioni in una democrazia, e ritornerà ad essere padrone dei propri territori, potremo cominciare a pensare davvero che la mafia si può battere, cosa di cui peraltro sono assolutamente convinto. (Applausi).

        PRESIDENTE. Do la parola all’onorevole Argia Albanese. 

        ALBANESE Argia, deputato, componente della Commissione parlamentare antimafia. Signor Presidente, credo che questo Convegno voluto dalla Commissione parlamentare antimafia abbia segnato un momento di studio importante, che avrà sicuramente riflessi positivi sul lavoro della Commissione e, speriamo, sui lavori di tutta la XIII legislatura.  Questo Convegno segna anche un momento di attenzione sull’area napoletana e sul fenomeno della criminalità organizzata che chiamiamo camorra.
        Per evitare di fare quella passerella che fino ad oggi, per fortuna, non c’è stata, credo sia opportuno portare una testimonianza diretta, la testimonianza di chi, come me, ha vissuto tutta la sua vita, una esperienza umana e politica in un contesto come quello dell’area napoletana: 92 comuni, tre milioni e mezzo di abitanti, una densità altissima. Nel corso di questa esperienza abbiamo visto il potere pervasivo della camorra che ha attraversato prepotentemente la vita delle istituzioni locali, negli anni Settanta-Ottanta, consolidandosi economicamente con la vicenda del dopo terremoto.
        Abbiamo poi assistito alla grande mobilitazione dell’inizio degli anni Novanta, grazie anche a una forte azione della magistratura e delle forze dell’ordine, ma soprattutto grazie ad una risposta forte di tanta parte della società civile che ha saputo reagire.
        Oggi temiamo un nuovo radicamento di questa forma di criminalità, un rinnovato collegamento con le istituzioni locali. Vorrei segnalare anche al collega Lombardi Satriani, il quale è relatore, in Commissione antimafia, sul problema della camorra, che se la criminalità organizzata imperversa come microcriminalità nella città di Napoli ha però cento, mille legami oscuri con parti consistenti di chi governa la sterminata nebulosa dei comuni della provincia di Napoli. Sì, questo ancora oggi. In quest’area è stata la camorra protagonista dello scempio del territorio. La speculazione fondiaria, l’abusivismo edilizio, l’estorsione sistematica di ogni forma di attività produttiva, l’usura, ma anche la gestione legittima dell’edilizia attraverso la forma cooperativistica, un’edilizia che per anni è stata la principale economia di molti comuni del nostro hinterland; così abbiamo avuto le grandi espansioni urbane nell’area a nord di Napoli, al CIS di Nola, ai traffici economici della zona costiera. Tutto ciò che si è sviluppato è avvenuto all’insegna di un intreccio fra economia, criminalità e istituzioni.
        Provate a verificare quanti comuni della provincia di Napoli hanno oggi un piano regolatore vigente, quanti hanno ancora in vigore un vecchio piano di fabbricazione, e quanti di questi piani regolatori prevedono un certo tasso di espansione edilizia. Vorrei ricordare, per esempio, il piano regolatore del comune di Sarno, che rappresenta un caso emblematico. Questo piano è stato sottoposto all’approvazione di una cosca malavitosa pericolosissima, quella dei Galasso, e il sindaco di un comune vicino, ancora in carica, come è stato riferito da un pentito, prima di assumere questo ruolo passò la propria candidatura al vaglio del signore di cui sopra. Dopo lo scioglimento di molti comuni della provincia di Napoli, avvenuto agli inizi degli anni Novanta, dopo tante inchieste avviate dalla magistratura, viene da chiedersi cosa accada oggi.
        Condivido una parte della relazione del procuratore Cordova, quella che denunzia il rischio che la camorra oggi conquisti legalmente il potere. Signor Presidente, autorità presenti, domenica si vota in tanti comuni della provincia di Napoli e della provincia di Caserta. Mentre noi oggi siamo qui a discutere, la camorra ha già scelto chi appoggiare, ha già deciso su chi investire; conosce programmi, persone, cose. In alcuni casi ha investito su candidati di fiducia – mi assumo la responsabilità di quello che dico – ma non è detto che essa possa vincere né domenica né in futuro, perché la certezza che questi poteri non siano invincibili e imbattibili ci fa pronunciare parole di speranza, parole che vorrei offrire al pessimismo cosmico del procuratore di Napoli, al quale, comunque, va la nostra solidarietà per il lavoro che svolge insieme agli altri sostituti della sua procura.
        Criminalità organizzata e istituzioni: questo è un nesso che purtroppo crea ancora oggi dei segmenti di consenso democratico alla camorra nell’area napoletana perché, attraverso le istituzioni, essa può garantire il soddisfacimento di alcuni bisogni che istituzioni democratiche non garantiscono: una casa per chi non ce l’ha, una possibilità di lavoro per il piccolo imprenditore edile o, in maniera più raffinata, l’aiuto economico presso qualche banca amica, o qualche finanziere, oppure oggi un posto da infermiere, da medico o da impiegato in una clinica privata o in un grande albergo, che sono le ultime attività in cui la criminalità organizzata investe.
        I rappresentanti delle forze dell’ordine in questi giorni, e vorrei ringraziare in particolare il generale Siracusa, il generale Blasi, il prefetto Masone, il generale Alfiero, il generale Mosca Moschini per le loro relazioni, insieme al procuratore Vigna, hanno posto un problema di cui il Parlamento non potrà non tener conto: la certezza dell’azione penale e l’effettività della pena. Penso che iniziative legislative in tal senso vadano prese. Ma noi siamo qui anche per assumerci delle responsabilità non solo di carattere legislativo, ma anche per fare delle istituzioni del nostro Paese, quelle istituzioni che sono regolate dalla vita democratica attraverso cui passa anche la rappresentanza dei partiti politici, delle mille istituzioni locali del nostro Mezzogiorno, dei modelli di riferimento per i cittadini, dei soggetti promotori di una cultura del riscatto. Dobbiamo avere sindaci che non siano più arbitri fra i poteri (troppo spesso nella mia vita ho visto i sindaci fare gli arbitri fra i poteri legali e quelli illegali), ma coraggiosi, esempi di comportamenti trasparenti. Tanti, tanti in questi anni che sono stati eletti con queste caratteristiche, ma bisogna fare di più. Diceva ieri il segretario della CISL D’Antoni – e questa espressione è piaciuta a molti – che per combattere la mafia basta guardarla in faccia, riconoscerla, il che vuol dire mettersi di fronte ad essa, non a fianco, e nemmeno voltarle le spalle facendo finta di non vederla. Mettersi di fronte, quindi, in una posizione antagonista.
        Per quanto riguarda l’area napoletana, noi non possiamo più delegare solo all’azione investigativa, all’azione giurisdizionale e a quella penale, né possiamo limitarci ad invocare provvedimenti contro la microcriminalità, come se questa fosse cosa diversa dalla criminalità.
        Le forze politiche, tutte insieme, devono sottoscrivere un patto, riconoscendo la pericolosità per la tenuta democratica del nostro Paese. Ha ragione il sindaco Bassolino; dobbiamo assumerci insieme la responsabilità, l’impegno a tener fuori dalle nostre liste, dalla nostra classe dirigente queste persone, tener fuori la piccola e grande camorra dalle istituzioni locali a cui questa legislatura, con una serie di leggi importanti e innovative, ha dato poteri immensi e straordinari. Nel confronto democratico poi vincano i migliori, destra o sinistra che sia, non ci interessa. Solo così potremo guardare in faccia i nostri giovani, spiegare loro che è possibile un futuro diverso, ma dobbiamo essere testimoni nei fatti di una politica coerente con i pronunciamenti che anche in questi giorni ci sono stati in questa sala. (Applausi).

        PRESIDENTE. Ringrazio l’onorevole Albanese e do la parola all’onorevole Mario Borghezio. 

        BORGHEZIO Mario, deputato, componente della Commissione parlamentare antimafia. Porto il mio contributo a questa analisi che più voci, alcune delle quali molto interessanti, hanno fatto del tema centrale che è stato scelto dalla Commissione antimafia e dal Comando generale dell’Arma dei carabinieri, che ringraziamo, con una visione del problema, per così dire, percepita dal Nord, nella convinzione profonda che molto spesso i fili che partono dalle realtà mafiose, ancora pericolosissime di queste regioni, portano non raramente a personaggi che magari siedono nei consigli di amministrazione di qualche società quotata in Borsa, e magari alla Borsa di Milano.  Se c’è un merito che questo Convegno ha avuto, dal mio punto di vista (anche se auspico al più presto una analisi altrettanto approfondita sul fenomeno della mafia al Nord, e mi si dà assicurazioni in questo senso; è una richiesta che noi avanziamo dall’inizio della legislatura) è una denuncia che ha finalmente infranto un velo di omertà o di pruderie del sistema politico italiano che è stata formulata con toni diversi da alcuni interventi di magistrati provenienti dalla Puglia, o da Torino, come il dottor Maddalena, e soprattutto dal procuratore Cordova, in ordine al legame fra immigrazione clandestina e mafia. Era ora che qualcuno dello Stato lo dicesse a gran voce anche in una occasione pubblica! Finora questi temi e questa documentazione, questi rapporti, anche in sede riservata, giacevano nei cassetti della nostra Commissione. Forse chi di dovere delle autorità istituzionali aveva fatto finta di non accorgersi di questa realtà che invece tutti coloro che operano direttamente sul territorio hanno avuto modo di constatare in più occasioni.
        Voglio anche qui rilevare il quasi totale silenzio, un silenzio quasi assordante, direi, del Ministero dell’interno sul tema dell’immigrazione clandestina, un silenzio stupefacente nel momento in cui avvengono i fatti che sappiamo sulle coste pugliesi, nel momento in cui basta andare, come noi abbiamo fatto, ai valichi di frontiera per rendersi conto quale sia il flusso che l’abnegazione del personale di polizia, dei carabinieri e della Guardia di finanza riesce difficilmente a controllare e spesso non riesce, per ammissione dello stesso personale, a farlo.
        C’è stato e continua a esserci su questi temi difficili, spinosi, un tabù, frutto di una cultura che molto opportunamente Giovanni Sartori oggi sul Corriere della Sera definisce di "stupidismo buonista", cioè un atteggiamento culturale che ha impedito di chiamare le cose con il loro nome e di dare a una fattispecie grave e foriera di delinquenza e di utili, di profitti per la criminalità organizzata di stampo mafioso, qual è l’immigrazione clandestina, la dovuta risposta in termini concreti, nel senso di quelli indicati con puntualità dal procuratore Cordova.
        Il tema che ci vede qui riuniti, incentrato sulla sicurezza e sulla criminalità nelle aree urbane, risponde a una domanda che mi sembra sia stata altrettanto gravemente sottovalutata dalle autorità politiche del nostro Paese e, oltre che dall’Esecutivo, anche dal nostro Parlamento. I dati che ci giungono da fonti insospettabili, come il recente rapporto dell’ISTAT, basato su 50.000 interviste telefoniche, farebbero propendere, più che per un sentimento di insicurezza per il termine paura, visto che oltre 14 milioni di cittadini sopra i 14 anni dicono di sentirsi poco o per niente sicuri quando camminano da soli di sera nella zona in cui abitano, e quasi 6 milioni di persone si dichiarano poco sicure e poco tranquille di sera in casa propria. E questo non solo al Sud, qui a Napoli o in Sicilia, ma in tutto il territorio nazionale, anche a Torino, a Genova, o a Milano. Diciannove milioni e mezzo sono i cittadini che evitano, in certe ore del giorno, di percorrere determinate zone dei quartieri della propria città o di entrare in certi bar. Queste sono riflessioni di fronte alle quali anche i contributi dei sindaci che ci sono giunti stamattina non paiono afferenti, e soprattutto non ci paiono afferenti le iniziative concrete che sono state poste in essere ad oggi, perché mi pare assolutamente evidente che si continui, da parte degli amministratori locali, in particolare dei sindaci, ad avere un certo timore reverenziale ad affrontare la situazione. Lo si è sentito persino nelle uniche proposte formulate dal sindaco Bassolino, al quale va il merito almeno di averle fatte, ma in maniera molto timida, quasi che queste competenze sulla sicurezza dei cittadini non appartenessero a chi invece rappresenta, perché democraticamente eletto, la cittadinanza e quindi una sua esigenza primaria, un suo diritto naturale come quello di essere liberi dalla criminalità, locale o d’importazione.
        Quando ci si pone il problema, come faccio io, insieme ad altri che sono oggi intervenuti, della responsabilità (qui emergono di nuovo gli effetti del "buonismo stupido", o dello "stupidismo buonista") di certe decisioni di una parte della magistratura, credo che sia necessario anche interrogarsi se non sia opportuno, da questo punto di vista, riesaminare la proposta, da noi fortemente sostenuta, dell’elezione diretta, a suffragio universale, dei magistrati dell’ufficio del pubblico ministero.
        Voglio sottolineare anche che un aspetto ulteriore delle conseguenze negative e pericolose della crescita esponenziale di una delinquenza radicata sul territorio, giornaliera, a diretto contatto con i cittadini, è rappresentato dalle ripercussioni sul sistema delle piccole imprese commerciali.
        Mi sembra che fino ad oggi i responsabili locali e nazionali non abbiano fornito alcuna risposta all’allarme che è stato lanciato oltre tre anni fa da uno studio approfondito della Confesercenti, da cui emergeva un dato che avrebbe dovuto produrre un intervento specifico al riguardo: 13 piccoli commercianti su 100 ogni anno subiscono un reato contro il patrimonio, quindi in media ogni sei anni ciascun piccolo esercente subisce un furto, o una rapina, o un tentativo di violenza. A questo dato si aggiunge la cifra oscura, che nessuno di noi è in grado di quantificare, dei reati che non vengono denunciati.
        Oltre a questa analisi, ricordo anche quella realizzata dal centro nazionale di prevenzione e difesa sociale sul peso della criminalità non associata, nella quale si legge (mi sembra importante richiamarla testualmente): "I cittadini chiedono di divenire essi stessi protagonisti diretti della lotta contro il crimine". Si tratta di un elemento molto rilevante, anche se certamente non diffuso egualmente sul territorio.
        In tale analisi si legge inoltre: "In alcune grandi città si fanno strada forme di autogestione della sicurezza a livello di quartiere, con l’obiettivo di sensibilizzare le istituzioni, ma anche di intervenire personalmente con proposte ed azioni concrete".
        Né il Ministro dell’interno, né i sindaci, hanno dato atto di questa forma (tranne qualche vaghissimo riferimento) di volontariato civico che sta emergendo nel nostro Paese; una realtà, quella dei comitati spontanei, delle associazioni dei cittadini ed anche delle vituperate ronde, che si esprime semplicemente in atti di presenza di legalità, finalizzati esclusivamente non a sostituire o ad usurpare le funzioni proprie degli organi di polizia, ma invece a sollecitare questi ultimi ed a realizzare una presenza sul territorio. La risposta che in sostanza sta nascendo dalla società civile, laddove questa sente ancora la responsabilità di appartenere ad una comunità perché possiede il senso della cittadinanza, è quella di una partecipazione attiva, di un intervento, di una correzione delle storture che spesso sono – ciò va detto e ribadito – frutto di una concezione centralista e burocratica del servizio di sicurezza offerto ai cittadini dal vecchio Stato, appunto burocratico e centralista.
        Decisioni come quella di gestire dal centro le politiche di intervento o di disporre la chiusura o l’apertura di commissariati e di stazioni dei carabinieri, oppure di stabilirne gli orari, spesso non riflettono le reali esigenze dei cittadini e non si adeguano ai loro bisogni ed alle loro domande. Ad esempio, come tutti gli altri torinesi, sono rimasto stupefatto di fronte all’ipotesi, formulata di recente, di chiudere il commissariato di San Sepolcro, nonostante questo sorga nella zona immediatamente al confine con quella di San Salvario.
        Sono decisioni che, al contrario, devono evidentemente essere assunte, con la massima autonomia, a livello locale, abbandonando quindi completamente l’ottica centralista a causa della quale spesso le scelte passano sulla testa degli stessi questori.
        A proposito di questi ultimi vorrei accennare al problema della loro movimentazione: non è possibile che in questo Paese un questore insediato da uno o due anni, proprio quando comincia a conoscere il territorio, venga mandato dalla parte opposta della penisola.
    –Bisogna – ripeto – rispondere alle sfide della criminalità di stampo mafioso che, anche quando, come nel momento presente, ha un’evoluzione di stampo "carsico", ossia si nasconde e riesce a mascherarsi e ad ottenebrare la propria presenza, rimane pericolosissima, attiva e non meno influente di prima sulle amministrazioni locali, sul territorio e sulle scelte politiche, anche a livello centrale.
        Non si può prescindere dalla consapevolezza della necessità di una riforma profonda che porti alla modernizzazione del servizio di sicurezza che bisogna offrire ai cittadini del nostro paese.
        Non dobbiamo nasconderci dietro un dito e fare finta di non accorgerci che i risultati non sono sufficienti anche a fronte di un numero rilevantissimo di uomini delle forze dell’ordine impegnati e di controlli effettuati (mi pare che in Italia quasi 20 milioni di persone hanno a che fare tutti gli anni con i controlli di polizia); allora c’è qualcosa che non funziona e che non va bene: sono le scelte errate assunte dall’alto, sono le scelte politiche che rispondono ad una cultura sbagliata e retrograda, che finge di non vedere il pericolo e di non accorgersi che i cittadini sono vittime del male di vivere, non solo nelle città, ma ormai anche nei paesi e nelle nostre montagne; dove, fino a qualche anno fa, si lasciava tranquillamente la porta di casa aperta, domina oggi, in molti casi, l’insicurezza ed in molti altri la paura. (Applausi).

        PRESIDENTE. La prima parte del pomeriggio era riservata ai componenti della Commissione parlamentare antimafia e quindi sarebbero dovuti intervenire solo coloro fra questi che, anche in rappresentanza delle diverse forze politiche, volevano riservare un momento di attenzione ai temi che in questa sede stiamo trattando.  Credo però che si possa fare un’eccezione per dare l’opportunità di intervenire ad un’autorità morale – credo opportuno definirlo così – nel campo della lotta alla criminalità ed all’illegalità; prego pertanto padre Massimo Rastrelli di prendere la parola. (Applausi).

        RASTRELLI Massimo, presidente della Fondazione antiusura "San Giuseppe Moscati" di Napoli. È per me un grandissimo onore poter essere qui presente e sentire quale profonda coscienza si abbia della nostra amata realtà italiana. Ringrazio quindi tutti personalmente, come rappresentante della comunità civile ed anche come uomo della Chiesa, e manifesto la mia ammirazione per tutte le persone che compongono le grandi realtà, qui rappresentate, che operano a servizio della nostra gente e della nostra storia.  In questo mio primo contatto con la Commissione antimafia, nelle persone dei suoi esponenti, confermo un giudizio che ho maturato ormai da tanti anni: quando nel 1991 fui il primo a parlare di usura in Italia, uno dei primi consensi mi venne proprio dalla Commissione antimafia, allora presieduta dall’onorevole Violante.
        Oggi, sentendo i discorsi che sono stati pronunciati, mi rendo conto che, in una visione globale, nel contenitore "uomo" si contendono e si contrastano due forze antagoniste, entrambe in progresso, che si abbracciano in un equilibrio difficile e misterioso: le forze del male voluto ed anche le forze del bene voluto.
        Per questo credo che in tutti i discorsi si accentui o la visione terrificante del male che si sviluppa o la visione confortante del bene che si accresce; ritengo però che questo sia fisiologico: la vita è fatta di equilibri tra un principio di salute e di onestà ed un principio di dissolvimento e di disonestà.
        Forze aggreganti e forze disgreganti operano insieme e le decisioni vengono sempre prese nel cuore e nella libertà dell’uomo ed è questo l’uomo che bisogna riconquistare.
        Non si può non constatare come la Commissione antimafia costituisca certamente un fattore di coscienza e di consapevolezza e come quest’ultima sia necessaria per assumere decisioni che possano poi essere tradotte nella vita concreta.
        Per queste ragioni vi rivolgo il mio più vivo plauso, il mio riconoscimento e la mia ammirazione, per la passione che ognuno mette, nel meglio di sé, al servizio della nostra convivenza.
        Da parte mia, voglio sollecitare tutti a non inviare segnali in controtendenza; mi è sembrato infatti che un segnale di questo tipo possa anche essere rappresentato dal fatto che nella prima stesura della legge finanziaria di questo anno – se ho ben capito – non era stato previsto il rifinanziamento della legge antiusura.
        È vero che l’articolo 14 di tale legge ha bisogno di miglioramenti, e certamente il legislatore dovrà provvedervi, ma con l’articolo 15, quello che ha messo in atto la prevenzione, che in parte viene assolta dalle nostre fondazioni, l’intervento dello Stato è vicino alla gente e diventa sempre più operoso.
        In Italia oggi le fondazioni sono 24 e domani, considerata quella di Pistoia, saranno 25; il territorio nazionale sta quindi per essere progressivamente coperto da questa attività compiuta dal volontariato, che si mette, con la sua libertà e la sua responsabilità, a servizio di una legge provvida.
        Per questo voglio pregare che si decida un rifinanziamento in occasione dell’esame della legge finanziaria al Senato e poi nuovamente alla Camera; a dire il vero, la Commissione bilancio della Camera, solo dopo nostre forti insistenze, ha previsto un rifinanziamento, purtroppo, però, pari a soli 50 milioni di lire; ma i 100 milioni previsti negli anni scorsi per il 70 per cento erano destinati alle imprese e per il 30 per cento alle nostre fondazioni, mentre ora questi 50 milioni dovrebbero servire anche per il fondo di solidarietà, il che significa che il rifinanziamento è stato realizzato solo nelle parole ma non nei fatti.
        La mia fondazione di Napoli raccoglie 24 domande alla settimana; abbiamo prenotazioni fino a febbraio e dal resto della regione provengono altre prenotazioni. In tutte le fondazioni si affrontano o casi di prevenzione, secondo la legge, o casi di usura con i fondi che abbiamo potuto reperire dalla generosità della gente. Per questo c’è una fortissima domanda ed abbiamo riunito un volontariato di oltre 2.000 specialisti, che accostano le persone per rigenerarle alla responsabilità prima ancora di affrontare la loro richiesta di soccorso; se questa spinta che sta decollando venisse improvvisamente interrotta, capite tutti quale controsenso sarebbe e quale delusione provocherebbe. Sono sicuro di essere condiviso in questo appello di coscienza.
        Ringrazio ancora tutte le forze dell’ordine e tutti coloro che si impegnano. Sto facendo una sintesi: certamente il medico accanto all’ammalato gravissimo è molto preoccupato – penso all’intervento del procuratore Cordova, che certo ci ha scosso – ma vicino all’ammalato c’è anche il familiare che lo conosce e noi sappiamo che il nostro popolo non è fatto di criminalità, ma è un popolo grande ed io ne conosco l’anima.
        Anche dentro l’uomo del crimine si nasconde qualche cosa che a lungo andare dovremmo far emergere, perché nessuno firma col proprio volto il delitto, mentre molti nella loro piccolezza o grandezza si allineano e si aggregano a coloro che vogliono aiutare e soccorrere. Questa è la forza generativa che noi siamo sicuri che tutto il vostro lavoro, benedetto dagli uomini e benedetto da Dio, produce; e il più grande successo delle mie fondazioni sono stati gli usurai che sono venuti a dirmi: io non faccio più l’usura. E un giorno nel mio confessionale trovai un pacchetto pesante, lo presi nelle mani e vidi che vi era scritto sopra: pistola scaricata. Qualcuno ha scaricato la pistola che aveva prima caricato, e qualcuno non è morto, e lui non ha più ucciso. Questo è il futuro. (Applausi).

        PRESIDENTE. Ringrazio padre Massimo Rastrelli e cedo subito la parola al senatore Rosario Pettinato.

        PETTINATO Rosario, senatore, componente della Commissione parlamentare antimafia. Oggi che siamo finalmente giunti in termini di concretezza immediata ad un confronto con i sindaci – credo di poter dire che questo è, al di là dei titoli dei giornali, il momento centrale delle giornate napoletane della Commissione antimafia – emerge in termini che non ci sarà più consentito di ignorare, Presidente, un dato per alcuni aspetti allarmante. Emerge la distanza più volte qui denunciata tra chi opera negli enti locali e chi opera al centro, fra i sindaci e lo Stato, almeno su alcuni terreni di confronto sui quali il dialogo è certamente più difficile. È una realtà che è emersa talora in termini di drammaticità (la solitudine del sindaco di Gela e del sindaco di Reggio Calabria soprattutto) e questo – Valentino Castellani credo l’abbia detto ancora una volta, perché è un tema a lui caro – deriva anche dal fatto che manca, ostinatamente manca, è mancata a tutto il dibattito della Bicamerale sulla riforma dello Stato la volontà di percepire la differenza tra la sicurezza e l’ordine pubblico, vi è stata anzi la volontà di insistere in questa confusione che sta poi all’origine della difficoltà di dialogo tra lo Stato e gli enti locali.  Non sto a ripeterlo, Castellani lo ha detto con estrema chiarezza: ordine pubblico e sicurezza sono due cose diverse, sono due ambiti di intervento diversi, entro cui aggiungerei un’ulteriore specificazione che mi pare estremamente importante, forse centrale. Cioè che il concetto di sicurezza collettiva – credo che l’onorevole Borghezio vi abbia accennato nel suo intervento – non basta; garantire l’ordine pubblico non basta, perché bisogna poi che questo si traduca in un sentimento di sicurezza dei cittadini, nella consapevolezza dei cittadini che la loro sicurezza è garantita perché questa consapevolezza è poi alla base del rapporto fra i cittadini e lo Stato e della adesione dei cittadini, quella vera, quella concreta, quella quotidiana, all’impegno contro la grande criminalità. Su questo terreno, sul terreno della sicurezza, ma anche e soprattutto nell’ostinazione di affrontarlo in termini militari, e non nei termini che sinteticamente potremmo definire sociali, che ci riportano ai sindaci e agli enti locali, sta poi nella realtà la nostra sconfitta nei confronti della criminalità grande e piccola. E allora credo che noi oggi qui acquisiamo un elemento di riflessione ulteriore che sbaglieremmo a lasciar perdere. Sbaglieremmo se non avessimo compreso – e credo che oggi ci sono stati forniti gli elementi per capirlo – che legalità e sicurezza nelle grandi aree metropolitane vuol dire in termini di proposta, in termini di scelta, porsi la domanda di quale possa essere il ruolo dei sindaci all’interno del problema della sicurezza. Qui c’è un obiettivo sicuramente mancato; c’è chi lo ha perseguito in solitudine. Oggi noi stabiliamo un rapporto con un organismo estremamente importante con il quale finora non eravamo riusciti a stabilire un contatto, che è il Forum europeo della sicurezza urbana, rappresentato qui stamattina da un suo vice presidente. Ma c’è poi il Forum italiano, un’associazione di enti locali che sostanzialmente da anni opera in sede europea, e poi dal 1994 in sede italiana, sperimentando, approfondendo, studiando e prefigurando soluzioni e interventi possibili sul terreno specifico della sicurezza, con un ruolo diverso dei sindaci, con un ruolo diverso della polizia municipale. Non è più possibile che la polizia municipale continui ad essere quella che è oggi, totalmente estranea, e non ci può essere poliziotto di quartiere che non provenga dalla polizia municipale; questo lo abbiamo già anche più volte verificato. Ma tutto questo parte da un dato assolutamente ineludibile, che è la formazione comune a polizia, carabinieri, polizia municipale, a tutte le forze dell’ordine. E qui vanno fatte scelte che, certo, sono traumatiche, difficili, alle quali resistono le burocrazie, ma anche la politica, anche nelle edizioni recenti.
        La storia, a cui accennerò brevemente, dei protocolli di sicurezza è in questo senso estremamente importante ed istruttiva. Ma qui c’è di più, qui ci sono prospettive di intervento sul terreno quotidiano, sulla sicurezza oggettiva e sulla sicurezza soggettiva, costituite dai centri di mediazione. Ce n’è uno solo in Italia di iniziativa privata, che non può funzionare perché gli mancano i mezzi e le risorse per funzionare, quello di Torino. Ma qui c’è spazio, io direi, per quella che viene generalmente definita la "giustizia di prossimità", ma che definirei la "giustizia municipale". Bassolino vi ha accennato chiedendo uno spazio per i sindaci nella determinazione di sanzioni dentro il quadro complessivo nazionale, ma c’è spazio per una giustizia che non sia più necessariamente legata al concetto di contenzioso, perché su questo terreno noi troviamo soluzioni ad una conflittualità che è quantitativamente, statisticamente la più rilevante, che è quella contro la quale siamo ancora meno armati che contro le grandi organizzazioni criminali. E questo ruolo non può essere esercitato dal giudice di pace: è un errore clamoroso nel quale si insiste. Questo ruolo può essere esercitato, e lì possono essere assorbite una serie di competenze anche sul terreno penale, da autentici giudici di pace, da istanze di giustizia dislocate nei quartieri, vicino ai cittadini, dove possiamo costruire la civiltà dell’andare a chiedere non la risoluzione di una lite, non la sentenza che crei un vincitore da una parte e un insoddisfatto dall’altra, riproducendo, spostando altrove, ma verso la creazione di nuova conflittualità, le ragioni che hanno fatto esplodere la precedente. Lì possiamo far sì che la gente impari ad andare a chiedere la conciliazione. È assurdo, dinanzi all’impossibilità di funzionamento della nostra giustizia, che se uno mi dà del cretino io debba prima andare dai carabinieri, con una trafila che conosciamo, per scrivere la denuncia, che la denuncia debba andare in procura, debba impegnare poi la procura ed il procuratore, un apparato incredibile, anche in termini di spesa, ma di uomini soprattutto, per questioni come queste. Ma ne potrei citare centomila. C’è qui il contenzioso delle preture ed anche dei tribunali. Ci sono qui tutti i reati punibili a querela rispetto ai quali possono intervenire i centri di mediazione, la giustizia municipale, caricata anche economicamente, perché non è di grande peso, sui comuni; poi il modo di aiutarli ovviamente si può trovare, perché essi possono esercitare un ruolo estremamente importante. Ci sono esperienze di questo genere in Europa, e sono esperienze che incidono sulla conflittualità a livello inferiore, ma non troppo basso, con conseguenze positive che si riverberano poi sulla microcriminalità, perché ristabiliscono un contatto, un rapporto di fiducia tra il cittadino che in qualche modo si senta colpito, leso in un suo diritto, e lo Stato che distribuisce giustizia.
        Su queste cose dobbiamo aprire il dibattito. Ma c’è, in direzione di un diverso ruolo dei sindaci sul terreno della sicurezza concreta, una seconda esigenza, che non è sicuramente soddisfatta migliorando la qualità del caffè che i prefetti offrono ai sindaci da qualche anno quando li invitano a partecipare alle riunioni dei comitati provinciali per l’ordine e la sicurezza pubblica, ed è lo scambio di informazioni. Non è possibile che quello che stamattina Falcomatà definiva il buio, il silenzio del Ministero dell’interno, ma anche dei suoi rappresentanti sul territorio, continui. Non è possibile (faccio un esempio solo perché consente di capirci fino in fondo) che se in una notte il questore di Roma – alludo ad un episodio di qualche anno fa – decide di fare cinque blitz contro i campi nomadi senza avere concordato questa azione con il sindaco, vengano distrutti due anni di lavoro del comune sui nomadi e due anni di sforzo di integrazione. Non possono più accadere queste cose!
        È chiaro che l’esigenza del raccordo costante e l’esigenza di una determinazione comune delle strategie di sicurezza non di ordine pubblico devono vedere un ruolo di protagonista dei sindaci, ma protagonista nel senso della partecipazione ad una decisione. Esperienze come quelle dei protocolli di sicurezza, tanto sbandierati, meriterebbero una riflessione più ampia di quella che io posso invitarvi a fare adesso. A partire da una battaglia che è iniziata alcuni anni fa nella regione che è più all’avanguardia sul terreno degli interventi sulla sicurezza urbana, che è l’Emilia Romagna, di cui era presidente allora l’attuale ministro dell’industria Bersani, che postulava una riforma dei comitati di sicurezza che prevedesse la copresidenza tra i prefetti e i sindaci; era l’inizio dell’apertura di un discorso che prefigurava in fondo la scelta di strategie fatte in comune, e che si è tradotto, come dicevo prima, nel miglioramento della qualità del caffè che già i prefetti più lungimiranti e più aperti, come l’attuale prefetto di Napoli – lo ricordava qui stamattina Enzo Bianco, sindaco di Catania – in qualche modo utilizzavano come forma di comunicazione perché lo avevano intuito in anticipo. Tutto questo sbocca nei protocolli di sicurezza, che costituiscono un ripiego, perché non si dà ai sindaci il ruolo che l’ente locale chiedeva, ma che ulteriormente si traduce in un’occasione ancora di spreco da una parte e di impossibilità di destinare risorse considerevoli all’altra, là dove esse avrebbero un’efficacia determinante soprattutto rispetto al tema della sicurezza.
        A conclusione del mio intervento, ricordo l’esperienza del sindaco di Gela – non so se ieri l’abbia qui raccontata – che si vede attribuire 40 miliardi di lire su un territorio sul quale vi sono quattro paesini e appena 110.000 abitanti, ma che non sa come spenderli, perché è in qualche modo vincolato dai parametri stabiliti in sede europea; non riesce a darsi vigili urbani neanche attraverso i lavori socialmente utili e alla fine è costretto a chiedere che gli facciano le targhe sulle strade, perché anche questo è un elemento di sicurezza se una persona vuol sapere dove si trova.
        Credo che su tali questioni vada da oggi avviata una seria riflessione e ritengo che la Commissione parlamentare antimafia sia ancora oggi, presidente Del Turco, il soggetto che può avviare questa riflessione, poiché non mi pare che da parte dello Stato e del Governo ci siano state manifestazioni di grande disponibilità ma anche di consapevolezza culturale in questa direzione. (Applausi).

        PRESIDENTE. Do ora la parola al senatore Lombardi Satriani. 

        LOMBARDI SATRIANI Luigi, senatore, componente della Commissione parlamentare antimafia. Non faccio parte di quanti ritengono i convegni sempre e comunque utili, come se la parola avesse la capacità taumaturgica di produrre realtà o di risolvere i problemi proprio nella misura in cui essi vengono denunciati. Ma non faccio parte neanche di quanti ritengono i convegni totalmente inutili, come se le azioni dovessero sostituire le parole e queste fossero solo esercizio retorico da lasciare a perditempo, i quali non avendo altro mestiere da fare si dilettano nello scambiarsi utili affermazioni.  Non si tratta di fare una opzione preliminare "sì o no ai convegni", "i convegni possono essere utili o inutili": sono utili se costituiscono spazio di attento confronto fra posizioni diverse e non occasioni di affermazioni o meramente polemiche o usate strumentalmente per perseguire altri obiettivi, pur legittimamente perseguibili. Mi sembra allora che dobbiamo porci il problema di come e di cosa si discute nei convegni. A me sembra che questo Convegno sia importante perché ha assunto ad oggetto di riflessione una tematica radicale per la nostra società, che è quella della legalità e della sicurezza nelle zone urbane, nelle zone a rischio, e così via.
        Si tratta di una situazione drammatica ma che non può indurci ad una constatazione di assoluta sconfitta delle istituzioni, perché questo, a mio avviso, sarebbe ingiusto ed ingeneroso rispetto a quanti hanno conseguito dei risultati particolarmente apprezzabili proprio nella lotta alla mafia.
        Ritengo sia ampiamente condivisibile l’affermazione del sindaco Bianco quando questa mattina diceva che non intende ascriversi al partito del pianto e della disperazione, perché altrimenti, anche se involontariamente, finirebbe per far parte del partito della rassegnazione. Nel nostro Paese vi sono troppe persone individualmente oneste che però ritengono la mafia un male ineliminabile, con il quale non avere alcun rapporto, ma da subire perché un destino cinico e barbaro ce l’ha inflitto come male ontologico che non può essere contrastato.
        Una visione di tal genere delinea uno scenario apocalittico, che forse è omogeneo al millenarismo che sta approssimando e a quello che sta volgendo alla fine, e quindi evoca scenari presenti nella cultura europea (anche al termine del primo millennio si verificarono scenari apocalittici); non mi sembra certo utile un’affermazione e una prospettiva di questo genere per coinvolgere tutti noi in una lotta sempre più efficace alla mafia nel territorio.
        Quindi, pieno riconoscimento di quanti hanno operato e alle diverse istituzioni che operano sul territorio, e consapevolezza anche della drammaticità e della pericolosità del problema. Allora, dobbiamo semmai richiedere un potenziamento ulteriore di tutte le energie, degli organici di tutte le forze, affinché possano sempre di più espletare in maniera ottimale i loro compiti.
        Eppure, se io utilizzassi il tempo a mia disposizione soltanto per ribadire questo, direi cose ampiamente condivisibili ma cadrei pienamente nell’ovvietà. E allora forse vale la pena tentare anche qualche altra considerazione, per quanto telegrafica, su aspetti a mio avviso non irrilevanti di questa complessa problematica.
        La possibilità di individuare la zona dell’illegalità come zona retta certo da comportamenti criminali ma ai quali si contrapponga un’altra zona, il nucleo della legalità (è questa visione che separa la società in due zone esattamente delimitabili), finisce per indurre in una prospettiva erronea. La legalità non è un’altra zona rispetto all’illegalità, è un insieme di norme e di comportamenti adeguati ai quali tutti dobbiamo sottostare. Quindi non è parte contro un’altra parte, è un assoluto non relativizzabile per ogni considerazione di qualsiasi tipo; quale che sia la nostra collocazione istituzionale nella società civile dobbiamo tutti sottostare e collocarci in un orizzonte della legalità ampiamente condivisa ed interiorizzata. Questo molte volte non è avvenuto ed essere consapevoli di tale situazione può indurci ad un’operazione adeguata, perché il primato della legalità effettiva e concretamente esperita sia orizzonte quotidiano di pratica per tutti noi, quale che sia la collocazione istituzionale.
        Ma io vorrei anche sottolineare il fatto che non possiamo avere della mafia una visione così settorializzata che in qualche modo affidi la lotta soltanto ad alcuni settori, ad alcune articolazioni istituzionali, ad alcune istituzioni parlamentari, e così via. Non vedere la tendenziale omnipervasività della mafia aiuta questa dimensione della delega, come se fosse di trattazione prevalente di una istituzione o dell’altra o come se riguardasse soltanto l’ordine pubblico. Spero che una seduta dell’intero Consiglio dei Ministri, come una serie di altre iniziative di tutte le articolazioni istituzionali presenti nel nostro Paese, assuma come prioritaria la lotta alla mafia, perché essa non può riguardare soltanto il Ministero dell’interno, ma deve coinvolgere le competenze istituzionali di tutti gli altri Dicasteri e di tutte le altre articolazioni.
        Tra l’altro, il territorio non può essere inteso in maniera riduttiva, soltanto come uno spazio fisico delimitabile. Certo, nelle grandi città vi sono quartieri particolarmente esposti al rischio dell’illegalità o teatro di illegalità soffusa, ma territorio siamo anche noi, le persone, territorio sono i nostri atteggiamenti, territorio sono le nostre concezioni.
        Allora, si tratta di uno sforzo prioritario che va compiuto da parte di tutti dal momento che la lotta alla mafia non può che riguardare tutti; e dico tutti non solo riferendomi a tutte le parti politiche ma a tutte le istituzioni e anche a tutti i soggetti della società civile, perché tutti dobbiamo elaborare una concezione della legalità che restituisca a questa espressione la sua pregnanza, che ne veda l’articolazione dei valori. Per questo abbiamo bisogno di una serie di strumenti conoscitivi, superando definitivamente una contrapposizione grossolana tra politica e scienza, come se la scienza potesse giocare con le parole non avendo altro da fare e quindi perseguisse obiettivi conoscitivi poi da vivere in una sorta di autocontemplazione, e la politica si risolvesse in rozzo pragmatismo, squarciato ogni tanto da illuminazione e da intuizioni. Ma una politica che non si basi su una conoscenza articolata del reale, che politica sarebbe?
        Allora, proprio questo comporta rivendicare una concezione della politica che utilizzi tutti gli strumenti conoscitivi e nello stesso tempo affermi la supremazia di una politica intesa non come tecnica messa in opera da addetti ai lavori, ma capace di rivendicare la sua più intensa carica di significazione e primato del dovere di una elaborazione adeguata di strumenti e di atti, affinché la legalità e la sicurezza non siano soltanto tema di un Convegno quanto mai opportuno, ma siano anche pratica condivisa, quadro di valori talmente interiorizzato da farlo diventare scenario quotidianamente percorribile. (Applausi).

        PRESIDENTE. Ringrazio il senatore Lombardi Satriani e do subito la parola al senatore Mario Occhipinti. 

        OCCHIPINTI Mario, senatore, componente della Commissione parlamentare antimafia. Essendo uno degli ultimi oratori ad intervenire in questo Convegno, comprendo la stanchezza di chi ascolta; tuttavia, rimettere al centro dell’esame il tema della legalità e della sicurezza nelle grandi aree metropolitane, in tutte le zone a rischio e soprattutto in quelle del nostro Mezzogiorno, è fondamentale, specialmente se si vuole dare un’ulteriore "spallata" alle attività di quei poteri criminali che si oppongono alla presenza dello Stato ed al suo controllo del territorio, e se si vuole avviare una nuova fase di sviluppo economico qualitativo e trasparente, che è assolutamente urgente per il nostro Sud.  L’occasione di approfondimento e di confronto che ci è stata offerta con questo Convegno, se non vogliamo che venga alla fine vissuta – per così dire – come una passerella di personalità sia pure autorevoli, deve puntare alla verifica di quanto è stato già fatto e soprattutto ad un rafforzamento delle strategie ed al miglioramento della qualità degli interventi, in modo da conseguire con determinazione, ai fini dell’efficacia, una vera unità di intenti da parte di tutti i soggetti istituzionali intervenuti, uniti e determinati, anche se mi chiedo se funziona davvero il coordinamento delle forze dell’ordine. Ripeto uniti e determinati, ma per che cosa?
        Tantissime riflessioni e considerazioni sono state svolte in questi due giorni e, poiché sono convinto che dal punto di vista tecnico e specialistico molti passi sono stati fatti, vorrei mettere a fuoco tre impegni.
        Vorrei iniziare con una riflessione molto breve su quella politica che definisco educata. È chiaro che non mi riferisco alla politica "politicante", alla politica spettacolo, a quella per interesse personale, a quella gridata. La politica – a mio parere – che inizia con la lettera maiuscola è quell’anello centrale di una catena che lega valori e vita, progetti e fatti, potere e servizio, pur con tutte le sue difficoltà e le sue contraddizioni, che rischia sempre più di non essere compresa, se non addirittura di essere considerata degenerata e quindi distante. Poiché ci ascoltano anche molti ragazzi che sono stati invitati a questo Convegno, è bene riaffermare questi concetti.
        È stato detto che la partitocrazia ha umiliato la politica della cosiddetta "Prima Repubblica". In parte è stato così, ma ora dobbiamo chiederci che cosa mortifica ulteriormente la fiducia del cittadino, dei giovani in particolare, nella politica di oggi, nelle nostre istituzioni. Penso che solo una politica educata – educata nel duplice senso di politica posta in essere in modo non violento (per usare un termine di ghandiana memoria), politica non gridata, e nel senso che deriva dal latino educere, cioè il risultato di una vera formazione permanente di alto spessore per tutti, giovani ed adulti, eletti ed elettori, dirigenti e militanti, pubblici amministratori e privati cittadini – può domare i mostri che si risvegliano durante il sonno della ragione, così come richiamava Tocqueville.
        In un’epoca di transizione troppo lunga, come quella che sta attraversando il nostro Paese, non serve a niente tirarsi fuori dalla politica perché la si vede sporca e perché le si è contro. O si fa politica o la si subisce. Quindi, ritengo urgente una rinnovata educazione alla politica, che serva proprio a rimettere il timone della storia nelle mani dei cittadini, di ognuno di noi, per toglierla ai miti, alle false divinità, ai superuomini, al popolo eletto, alla razza, alla partitocrazia ed alla tecnocrazia. Occorre, cioè, restituire la politica al protagonismo consapevole dei cittadini.
        Tuttavia, credo che il secondo importante impegno riguardi la legalità, che è il valore alto, strettamente legato ad altre due questioni centrali, che sono l’etica e la coscienza del senso dello Stato, la ricerca del bene comune. Quanti guasti ha comportato la separazione dell’economia o della politica – ad esempio – dall’etica, come alcuni pensano (veramente la maggior parte la praticano, perché è un modo più comodo), che si è rivelata una vera tragedia. Infatti, i giochi politici o a volte le regole del mercato fini a se stesse sono state storicamente le cause più pesanti delle più grandi ingiustizie sociali perpetrate sulla pelle delle persone, specialmente di quelle più deboli.
        Per dirlo con un gioco di parole, occorre rilegittimare la legge: bisogna, cioè, trovare un senso alla legalità come aspetto e dimensione della convivenza sociale, come atteggiamento dei cittadini e come vera e propria opportunità e convenienza nei suoi aspetti sociali e produttivi. Questa legalità – a mio parere – deve essere praticata non solo da parte dello Stato verso il cittadino, ma anche da quest’ultimo verso lo Stato. Penso ad alcuni campi di applicazione, come ad esempio alla legalità nella pubblica amministrazione efficiente e trasparente, nell’imprenditoria e nelle regole corrette del mercato. A volte ci troviamo di fronte ad un mercato drogato, alla corruzione e allo sperpero del pubblico denaro, all’evasione fiscale, al disprezzo dei beni e dei pubblici servizi.
        È proprio in questo contesto che deve trovare una forza particolare quella specifica lotta che tutti stiamo combattendo nei confronti delle mafie e delle altre associazioni criminali. Però, se attecchisce la cultura del cittadino suddito, del favore, della mazzetta, della piccola o grande ruberia, del menefreghismo, di fatto si sviluppa la mafiosità. Oggi le mafie stanno tentando un’operazione di immersione, di ritessitura di nuovi rapporti con parti delle istituzioni, di riappropriazione del controllo del territorio. Una cosa è certa: la lotta alle mafie in tutte le sue manifestazioni – mi avvio a concludere l’intervento – non è solo una questione di repressione, che non può essere relegata e delegata agli addetti ai lavori, ma è prevenzione; è un problema di tutti e, quindi, tutti dobbiamo concorrere a sconfiggerla.
        A questo punto vorrei fare una particolare e breve riflessione sulla microcriminalità, che è molto diffusa, che rappresenta l’humus della grande criminalità ed alimenta le mafie con i suoi mezzi ed i suoi arruolati. Ritengo che sia giunto proprio il momento di risolvere questo grande problema per la quantità del fenomeno illecito e certe volte per la sua efferatezza, per la indeterminatezza dei soggetti, per le paure delle vittime e per un sentimento di insicurezza diffusa. A mio parere, occorre far imprimere nella comune mentalità un nuovo concetto di ordine pubblico, non come fruizione di un qualcosa garantito da altri, ma come sentimento di sicurezza costruito con gli altri.
        Voglio concludere il mio intervento facendovi riflettere sul seguente tema: nel Sud la pubblica amministrazione deve fare enormi passi in avanti.
        Infine, cari amici e colleghi, consentitemi un piccolo rilievo. Trovo una piccola zona d’ombra in questo Convegno, che tra l’altro mi è sembrato molto importante e di grande portata; nel confronto rilevante posto in essere non hanno trovato posto due esperienze significative: quella della città di Palermo e quella della Procura di Palermo. Palermo non è più Sagunto. (Applausi).

        PRESIDENTE. Con l’intervento del senatore Occhipinti abbiamo concluso la fase del Convegno dedicata agli interventi dei componenti della Commissione parlamentare antimafia.   Prima di lasciare la Presidenza all’onorevole Lumia, mi permetto innanzitutto di porgere il saluto al ministro Diliberto ed al sottosegretario Brutti, presenti in sala, e di fare una rapidissima considerazione sui temi affrontati nel corso del pomeriggio e in particolare su quello relativo all’utilità dei convegni.
        A mio giudizio, vi sono le sedi dove si prendono decisioni, quelle dove si individuano gli strumenti per rendere concrete le decisioni stesse e, infine, le sedi dove si aumenta e si migliora la sensibilità su temi molto importanti. I convegni possono, anzi debbono essere le sedi più opportune per aumentare questa sensibilità. Credo che tutti i prestigiosi interventi succedutisi in questi due giorni abbiano sostanzialmente evidenziato la necessità di approfondire le tematiche relative ai diritti delle persone (diritti molto spesso sacrificati a causa di alcune emergenze, che comunque risultano essere insopprimibili); la necessità di modificare gli strumenti legislativi, molto spesso inadeguati e molte volte anche in ritardo rispetto all’evoluzione del substrato sociale; l’esigenza di una maggiore tensione morale, che dovrebbe contraddistinguere un po’ tutti, anche noi quando partecipiamo e siamo primi attori nei convegni (infatti, essi dipendono anche dal modo come noi li sentiamo, dalla capacità psicologica ed intellettuale che ad essi riusciamo ad infondere); infine, la necessità di rilevare le forme più idonee per rendere visibile la presenza dello Stato (in alcuni casi non è estremamente visibile, in altri appare abbastanza defilato).
        Quindi, dovremmo riprendere anche queste problematiche importanti insieme a quella relativa alla modernizzazione dei servizi di sicurezza, che in molte occasioni sono resi difficili da problemi di copertura finanziaria – utilizzo un termine tecnico molto caro a chi opera in Commissione bilancio – e in altre da concetti relativi al senso di appartenenza, che creano difficoltà per una modifica, per un rinnovamento sostanziale di questi stessi sistemi.
        Nel congedarmi voglio ringraziare il presidente Del Turco ed inviare un saluto molto caloroso agli altri organizzatori del Convegno: all’Arma dei carabinieri e al suo comandante generale, Siracusa (Applausi).

 

Presidenza del deputato Giuseppe Lumia,
componente della Commissione parlamentare antimafia

        PRESIDENTE. Invito il ministro Diliberto ed il sottosegretario Brutti a prendere posto sul palco per affrontare l’ultima parte del Convegno.  Come avete potuto rilevare, il tema della lotta alle mafie nel territorio è stato analizzato da diversi punti di vista e ciò rappresenta un elemento estremamente positivo, che qualifica il lavoro svolto in questi due giorni. Il territorio non è più una metafora astratta; l’argomento è stato sviluppato attraverso diverse strade e al riguardo c’è stata consegnata una riflessione per tutti strategica: se vogliamo fare un salto di qualità nel contrasto delle varie mafie sul territorio, dobbiamo tutti imparare ad utilizzare una strategia integrata. Non esiste un’unica via: bisogna contemporaneamente, territorio per territorio, mettere insieme la via economico-finanziaria, quella socioculturale, repressivo-giudiziaria ed anche quella politico-istituzionale. È importante che tutti i soggetti inizino a cooperare, esigenza che i sindaci hanno posto stamani, utilizzando bene tutti i percorsi indicati.
        Abbiamo anche affrontato alcuni argomenti particolari; abbiamo avuto contributi molto interessanti, di responsabilità istituzionali di primo livello, di grandi capacità progettuali nel formulare proposte concrete su ogni strada che ci aiuti a colpire la mafia sul territorio. Le mafie, infatti, non possono fare a meno del territorio, questo è certo, e proprio sul territorio si sta realizzando lo spazio vitale per rispondere a quello straordinario diritto di sicurezza, che abbiamo indicato come diritto di nuova generazione e come diritto di rilevanza costituzionale. Ecco perché questa ultima sessione di lavoro è molto importante e i due contributi che ci saranno proposti dal Ministro di grazia e giustizia e dal sottosegretario per la difesa Brutti sono molto attesi.
        Fatta questa breve premessa, cedo senz’altro la parola al ministro di grazia e giustizia, onorevole Diliberto.

        DILIBERTO Oliviero, ministro di grazia e giustizia. Signor Presidente, illustri autorità civili e militari, signore e signori, ho già avuto occasione a più riprese in questo primo mese di mio insediamento al Dicastero della giustizia di ricordare che la lotta contro la malavita organizzata è fra le priorità fondamentali del Governo D’Alema e, per quanto mi riguarda, del Ministro di grazia e giustizia. Ad essa dedicheremo, come già sta accadendo, parte essenziale della nostra e della mia azione sul versante legislativo, ordinamentale, organizzativo, di uomini, mezzi, risorse, e sono ben lieto di poterlo ribadire, ringraziandoli per l’invito, in questo importante e significativo Convegno, per il quale consentitemi di rallegrarmi sinceramente, al di là di qualunque frase di circostanza, con gli organizzatori, la Commissione parlamentare antimafia e il Comando generale dell’Arma dei carabinieri.         Sono ben consapevole, come è ovvio, che per affrontare un tema come quello che qui dibattete, per riuscire cioè a impostare correttamente un’efficace battaglia contro la malavita organizzata, non ci si deve e non ci si può limitare a un discorso di ordine pubblico o di amministrazione della giustizia. Ben altri, più profondi e più strutturali, devono essere gli interventi dello Stato sul versante economico e sociale, ad iniziare da quello del lavoro, e sul versante della battaglia culturale e ideale: lavoro e istruzione.
        Tuttavia, sul piano che a me compete, quello della legalità, credo non sia inutile offrire qualche riflessione.
        Un sistema giudiziario debole, inefficiente, lento, costoso, quale purtroppo da decenni si manifesta il nostro, mette in crisi la cultura della legalità e il patto fiduciario fra cittadini e istituzioni. La questione giustizia diventa una grande questione democratica. Per questo a me pare evidente che la battaglia per la legalità non riguarda solo la giustizia penale ma più in generale l’intero comparto della giustizia, a iniziare da quella civile, il cui cattivo funzionamento mina la fiducia dei cittadini verso le istituzioni.
        Sarà quindi nostro compito procedere, come già sta avvenendo nelle sedi parlamentari, nelle riforme avviate per realizzare una giurisdizione civile, moderna ed efficiente perché nel territorio lo Stato deve assicurare la sua presenza, anche garantendo l’effettiva tutela giudiziaria dei diritti dei cittadini.
        Per quanto riguarda il processo penale occorrerà che l’approccio sia posto in essere valutando sempre, in concreto, l’impatto dei provvedimenti sul sistema, anche attraverso una verifica dell’analisi e dell’elaborazione statistica degli effetti ottenuti in relazione agli obiettivi che li avevano giustificati. Credo sia tempo di cominciare a fare alcuni bilanci relativamente agli strumenti legislativi fin qui adottati, bilanci basati sulla valutazione di costi e benefici e sul rendimento delle misure introdotte per evitare una sorta di disapplicazione strisciante delle normative.
        Si tratta di normative spesso assai importanti, come ad esempio quelle di prevenzione nel settore degli appalti, così come l’esigenza di assicurare un’adeguata copertura organizzativa, tecnologica e amministrativa per i provvedimenti già adottati e che si dovranno adottare. Penso, per fare un esempio, alla legge "Mancino" in tema di trasparenza degli assetti societari, nel settore del commercio e nei passaggi delle proprietà.
        Occorre insomma una progettualità nuova che accompagni sempre norme efficaci ad una strumentazione logistica adeguata. In questo senso va sottolineato che la carenza di adeguati flussi statistici non ha comunque impedito la formazione di interessanti esperienze, come quella descritta nella rassegna denominata "Indagini monotematiche", curata dalla Direzione generale degli Affari penali del Ministero di grazia e giustizia.
        È evidente però che tutto ciò va potenziato. Il monitoraggio, anche statistico, diventa strumento essenziale. Penso infatti che conoscere i tempi reali dei procedimenti, il numero e la motivazione dei rinvii delle udienze, i dati sulla produttività dei singoli magistrati e dei collegi possa contribuire a rappresentare un passo avanti importante. Disporre di un complesso di dati e di informazioni servirà infatti a prospettare, su basi razionali e programmatiche, i contenuti delle necessarie riforme, senza tuttavia costituire mai alcun indiretto o velato controllo dell’attività giurisdizionale. Così, ad esempio, sarà possibile verificare quali perturbazioni alla rapidità e alla incisività dell’azione giudiziaria dipendano da fattori ad essa esterni, quali vizi nelle notificazioni degli atti, la dilatazione irrazionale dei tempi, la mancanza di coordinamento e di programmazione nella gestione dei ruoli, lo stesso deficit delle aule giudiziarie.
        In taluni specifici e delicati settori, come quello della normativa di prevenzione, strumento essenziale della lotta contro la criminalità organizzata, l’analisi dei tempi e dei metodi dell’azione giudiziaria sarà poi essenziale a interpretare il grado di applicazione e di reale funzionamento del sistema. A tutto ciò stiamo già iniziando a mettere mano.
        È evidente inoltre che una politica di efficienza e di razionalizzazione dovrà sciogliere il nodo delle sedi giudiziarie, avviando in tempi brevi una riforma pilota nelle grandi aree metropolitane e nelle regioni caratterizzate dalla presenza di criminalità organizzata. È qui, infatti, il punto più caldo del sistema, dove occorre intervenire senza indugio, anche pensando allo sdoppiamento dei grandi ed ingolfati tribunali metropolitani, oltre che al netto potenziamento delle strutture e degli organici degli uffici requirenti e giudicanti.
        Nel frattempo è importante dare immediatamente un segnale per quanto riguarda gli organici, per evitare che si possa fallire nella importante stagione dei processi, frutto di anni di lavoro e di una messa in discussione – speriamo quanto prima – di quel devastante principio di impunità su cui si è costruita la fortuna delle mafie.
        È inoltre necessario evitare che la stagione dei processi possa frenare lo sviluppo dell’azione investigativa per via del rilevante impegno richiesto dalla celebrazione dei dibattimenti a molti pubblici ministeri.
        In sintonia con il Consiglio superiore della magistratura e con il contributo essenziale della Commissione antimafia vanno individuate le sedi giudiziarie bisognose di immediato intervento, sia per garantire il completamento degli organici, sia, eventualmente, per incrementarli, al di là di quanto previsto dalle attuali piante organiche.
        È già in calendario, tra breve, una mia visita in Sicilia di alcuni giorni al fine di verificare di persona le necessità delle sedi. Nei mesi di gennaio e febbraio farò analoghe visite di persona nelle altre diverse regioni meridionali d’Italia colpite dal fenomeno della malavita organizzata.
        Mi permetto di sottoporre alla vostra attenzione un ulteriore aspetto, quello rappresentato dalla posizione nel processo di soggetti essenziali quali i testimoni, siano essi privati cittadini che appartenenti alle forze di polizia. Se abnegazione e personale sacrificio possono essere richiesti, e vengono di fatto richiesti, a chi occupa una posizione di ordine pubblico all’interno degli apparati di pubblica sicurezza, considerazione particolare meritano i privati cittadini i quali, quasi sempre, vivono l’esperienza della testimonianza come un vero e proprio trauma. Prescindo – sia chiaro – dalla posizione dei cosiddetti testimoni di giustizia, richiamati in un recente documento della Commissione parlamentare antimafia, i cui contenuti sono già indicati nel disegno di legge del Governo, oggi all’esame del Parlamento. Prescindo anche dalla posizione degli imputati di reato connesso a problematiche sollevate dalla recente sentenza della Corte costituzionale, sentenza che impegna il legislatore a ripensare e ad intervenire nella materia, cosa che Camera e Senato stanno già iniziando a fare. Voglio, viceversa, più limitatamente in questo intervento, richiamare il fatto che l’attenzione del legislatore debba anche riguardare un tema meno considerato dai media, dalla grande attenzione, e cioè la posizione del teste in quanto tale, per renderne effettiva e dignitosa la presenza nella vicenda processuale, anche sotto il profilo delle complessive condizioni materiali di esso, tutt’altro che ininfluenti nel corretto svolgimento del processo ma spesso sottovalutate.
        Un capitolo del tutto nuovo dovrà riguardare infine la sperimentazione di più moderne forme di organizzazione degli uffici giudiziari, anche qui partendo da uffici pilota in cui collaudare procedure amministrative, mansioni e profili di professionalità più moderni e adeguati ai livelli di automazione e di modernizzazione raggiunti oggi dal mondo della produzione di beni e servizi. L’occasione per provare questo tipo di approccio è certamente data dalle procedure di introduzione del giudice unico e di unificazione degli uffici del pubblico ministero.
        È evidente che tali innovazioni presentano rischi sul piano organizzativo, rischi che vanno analizzati sul campo e adeguatamente valutati, per evitare un ulteriore aggravamento della situazione, che necessita di interventi ordinamentali e legislativi che intendo perseguire con la stessa coerenza con cui stiamo continuando l’azione del precedente Governo.
        Anche l’informatica avrà in tale contesto un ruolo importante. Sarà necessario selezionare, tra quelle disponibili, applicazioni funzionali idonee a snellire i tempi di lavoro per poi diffonderle, curando la preventiva e adeguata sensibilizzazione dei capi degli uffici e del personale, sfruttando in pieno le previsioni vigenti nell’attuale sistema della contrattazione collettiva, così come va potenziata e sorretta adeguatamente, anche dal punto di vista della copertura finanziaria, la grande esperienza delle videoconferenze, che ha prodotto grandi e importanti risultati e che è oggi attentamente valutata a livello europeo. Credo che il Governo abbia dimostrato, già in occasione di questa legge finanziaria, di essere in grado di intervenire anche sul piano della copertura finanziaria. Ma ancora non basta.
        Un profondo ripensamento dovrà infine riguardare le condizioni di vita dei detenuti, tanto in una prospettiva di risocializzazione, attraverso un rafforzamento dell’intervento culturale e della formazione al lavoro, tanto sul piano di un trattamento adeguato ad impedire che soggetti appartenenti al crimine organizzato delle varie mafie sfruttino la condizione carceraria per perpetuare un proprio ruolo egemonico all’interno degli istituti o per dirigere dal carcere imprese criminali.
        Va quindi posta una particolare attenzione, da una parte, alle esigenze di risocializzazione dei detenuti, specie al trattamento dei giovani e delle donne, ma, al tempo stesso, al rigore nei confronti di ogni tentativo di affermazione di contropoteri criminali nel circuito carcerario. In questo senso ha grande importanza la gestione del regime dell’articolo 41-bis, oltre alle già citate videoconferenze, e il sistema carcerario finalizzato alla custodia dei detenuti più pericolosi.
        Come sapete, non ho voluto delegare ad alcuno la gestione dell’applicazione dell’articolo 41-bis. Ritengo infatti politicamente, ma anche simbolicamente, che debba essere il Ministro ad assumersi la responsabilità di scelte di quella rilevanza, perché non vi è dubbio che il 41-bis è uno strumento di grande efficacia nella battaglia contro la mafia. Nessun mafioso deve poter pensare di poter organizzare o dirigere dal carcere la propria organizzazione criminale sul territorio, di dare disposizioni sulle estorsioni, sugli omicidi, sugli appalti. A questo proposito particolare attenzione merita il Corpo della polizia penitenziaria che deve assumere un ruolo specialistico ed essenziale nella battaglia contro la malavita organizzata, attraverso importanti funzioni che sta già via via assumendo, quali la gestione altamente professionale del circuito carcerario dedicato ai detenuti pericolosi, ove è richiesta la massima affidabilità e preparazione anche dei dirigenti e di tutti gli altri operatori carcerari. In questo senso ho già proposto adeguati provvedimenti per migliorare la carriera e le condizioni di lavoro del Corpo.
        Come si può vedere, le prospettive di intervento sono molte ed impegnative, ma deve essere centrato un obiettivo che in questo momento mi sembra prioritario: è il tempo di un testo unico delle norme antimafia, che al giorno d’oggi hanno raggiunto un grado di complessità tale da renderne addirittura dubbia ed incerta l’applicazione.
        Il tema merita brevissimi, ma necessari cenni, utili a chiarire anche le linee che ispireranno l’azione dell’apposita commissione per il testo unico che si è insediata pochi giorni fa, il cui lavoro sarà seguito con la massima attenzione.
        L’esigenza di un testo unico in tema di norme antimafia, avvertita e sostenuta dagli esperti e dai magistrati impegnati nel settore, appare l’obiettivo centrale nella razionalizzazione della lotta alle varie organizzazioni criminali, in una prospettiva finalizzata a contrastare in modo particolare il fenomeno dell’accumulazione della mafia, in tutti i suoi aspetti.
        La frantumazione delle norme impedisce di individuare le stesse linee portanti del sistema e determina una strisciante inefficacia dei dispositivi. Allo stato i risultati delle inchieste penali hanno consentito di acquisire vaste conoscenze in ordine agli organigrammi delle associazioni criminali ed alle loro attività delittuose tradizionali; al contrario non si può dire che gli stessi risultati siano stati conseguiti anche nel settore dell’economia illegale e della finanza delle organizzazioni criminali.
        Solo una parte delle ricchezze attribuite alle grandi centrali mafiose è, infatti, stata individuata, sequestrata e confiscata. In generale, l’enorme valore aggiunto ricavato dai mercati criminali legati al traffico della droga, al contrabbando di tabacchi e di armamenti, all’estorsione, all’usura e al traffico di esseri umani costituisce un volano per la crescita di altri settori del crimine (quali il mercato dei falsi e le frodi organizzate) ed assicura rilevanti concentrazioni di liquidità destinate alla corruzione di soggetti pubblici e privati.
        Nel nostro Paese la gran parte del riciclaggio appare connessa all’operatività delle grandi organizzazioni criminali tradizionali, ma non va sottovalutato il fenomeno delle cosiddette nuove mafie, soprattutto quelle di provenienza estera (mafia russa, gruppi albanesi e simili), la cui operatività si è fatta palese da significativi episodi criminali.
        A fronte della rapida evoluzione di tali fenomeni, appare dunque necessario rivisitare, in una prospettiva di razionalizzazione, il dispositivo normativo vigente, in tutto il settore delle misure di prevenzione, del riciclaggio e della criminalità organizzata, perseguendo obiettivi di effettività ed adeguatezza delle leggi e di efficienza e professionalità degli apparati.
        Vi è comunque un punto conclusivo che io ritengo di fondo: non si contrastano le mafie senza la costruzione di un complessivo clima nel Paese che consenta una reale efficacia della lotta. Un clima al quale concorrono non solo le istituzioni (il Parlamento, il Governo, la magistratura e le forze dell’ordine), ma anche l’opinione pubblica, la cittadinanza e le forze sociali.
        Il compito più importante è quindi quello di creare le condizioni (un clima generale, appunto) necessarie per consentire a quanti sono in prima linea di operare meglio, per dirla con poche parole: far sentire a coloro che sono in prima linea che non sono soli. Questo è un compito che spetta naturalmente a tutti, ma al quale, per quanto mi riguarda, non verrò meno. (Applausi).

        PRESIDENTE. Ringrazio il Ministro, anche perché si è confrontato direttamente con il tema che abbiamo posto.   Ascoltiamo ora il contributo del senatore Brutti, sottosegretario di Stato per la difesa.

        BRUTTI Massimo, sottosegretario di Stato per la difesa. Signor Presidente della Commissione antimafia, autorità civili e militari, signore e signori, due aspetti fondamentali caratterizzano lo stato attuale delle grandi organizzazioni criminali del nostro paese. Essi si traducono in due strategie convergenti: la prima è la strategia della internazionalizzazione, la seconda è quella della territorialità.  Anzitutto, il raggio di azione delle macro-organizzazioni criminali va al di là dei confini nazionali. La loro forza è nella capacità di oltrepassare le frontiere, con il riciclaggio del denaro accumulato attraverso le attività illecite, e poi nella capacità di spostare clandestinamente droga, armi e uomini passando attraverso i paesi europei. È questo che chiamiamo internazionalizzazione.
        In secondo luogo le grandi organizzazioni criminali sono forti in Italia, perché sono profondamente radicate nel territorio; perché i loro dirigenti riescono ad esercitare un’autorità in settori della vita sociale, eclissando talvolta l’autorità dello Stato ed ottenendo obbedienza da un vasto numero di cittadini. Spiegherò più avanti come la manifestazione più diffusa di questa obbedienza sia rappresentata nelle zone di forte insediamento mafioso dal fenomeno delle estorsioni.
        Tutti i discorsi che noi stiamo svolgendo meritoriamente sull’azione di contrasto condotta in questi anni e sui risultati raggiunti non possono farci sottovalutare il fatto che le mafie non sono state sgominate. Anzi, sono vitali ed amministrano quote consistenti di potere. La lentezza dell’azione giudiziaria e dei processi le aiuta. Inoltre, vorrei sottolineare che attraverso il metodo della corruzione, variamente intrecciato con quello della intimidazione e della violenza, si ripropongono in forma molecolare, a partire dalla periferia e dai livelli più minuti, i rapporti tra mafia ed amministrazione, tra mafia e politica, che per molti anni sono stati un grave handicap per lo sviluppo e per la democrazia. È mia convinzione, come dirò fra un momento, che per bloccare il ricostituirsi di questi rapporti ed il loro sviluppo su una scala più ampia, un obiettivo del tutto prioritario sia quello di stabilire un controllo più efficace dell’attuale sul meccanismo degli appalti, intervenendo con misure nuove. Gli appalti rappresentano un volano importante per l’erogazione e l’impiego di risorse pubbliche nel territorio; il dominio in questo settore è una vecchia vocazione dei gruppi mafiosi e permette l’ingresso nella politica.
        Per tutte queste ragioni, cari amici, non dobbiamo abbassare la guardia; la lotta che ancora dobbiamo condurre ha bisogno di concordia fra le istituzioni dello Stato e di solidarietà tra tutti coloro che sono in prima linea nell’azione di contrasto: le forze di polizia (che fra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta hanno dato un contributo fondamentale alla saldezza del nostro Paese), la magistratura (gli uffici di procura più impegnati e quelli in prima linea) ed i singoli giudici, ai quali bisogna garantire serenità ed indipendenza nei difficili processi per reati di mafia.
        La criminalità organizzata costituisce oggi una minaccia alla sicurezza dell’Europa ed un fattore di crisi, che si affianca ai conflitti locali, traendo forza da essi e dalla instabilità, successiva alla fine dell’equilibrio bipolare.
        Vorrei che ponessimo maggiore attenzione a questi processi di internazionalizzazione della grande criminalità e a come essi sono strettamente legati ai nuovi rapporti internazionali sorti a seguito della fine della guerra fredda.
        Tra i soggetti collettivi non statali destinati a pesare nel quadro internazionale, dobbiamo annoverare alcuni grandi network, più o meno clandestini, che perseguono il profitto economico con un impiego sistematico della violenza e della corruzione. Essi agiscono contemporaneamente in diversi paesi ed hanno un diretto interesse politico alla debolezza dei Governi, al diffondersi della illegalità, all’assenza o alla precarietà delle regole che dovrebbero garantire una corretta economia di mercato.
        Nelle tensioni, nelle crisi che hanno attraversato il nostro continente e specialmente nel tragico scenario di guerra dei Balcani, accanto agli scontri armati tra etnie, fazioni politiche, identità contrapposte, abbiamo avvertito costantemente, anche attraverso l’azione di controllo che svolgevano i nostri contingenti militari nelle missioni di peace keeping, la presenza attiva di gruppi a struttura mafiosa. A ridosso della guerra o del disordine, essi guidano i traffici illeciti (la droga, le armi, l’immigrazione clandestina), coinvolgendo autorità locali o dirigenti delle varie fazioni ed ottenendo perciò forti coperture politiche.
        Il Sud-Est dell’Europa è un’area cruciale, per le convulsioni politico-militari del dopo guerra fredda e per la organizzazione dei grandi traffici illeciti diretti verso Ovest e verso Nord. Tutto ciò che avviene in questa regione, dai rapporti tra entità nazionali alle attività delittuose che qui si sviluppano, tocca immediatamente l’Italia; non potrebbe essere altrimenti, per la disposizione geopolitica del nostro Paese.
        Le due principali rotte utilizzate dai trafficanti di eroina e di cocaina dall’Estremo Oriente passano entrambe dalla Bulgaria, per indirizzarsi l’una verso la Jugoslavia, la Croazia, la Slovenia, e l’altra verso la Macedonia e l’Albania. Entrambe conducono al nostro Paese: la prima per via terrestre, attraverso il confine nord-orientale; la seconda dall’Albania alla Puglia, e sappiamo come questo tratto di mare sia facile da attraversare. Lo stesso può dirsi per il traffico clandestino delle armi e degli immigrati.
        I gruppi mafiosi italiani partecipano ad intermediazioni internazionali di grosse partite di armi e materiale strategico destinati a forze militari e paramilitari impegnate nei conflitti in corso. È indicativa in questo senso l’ordinanza di custodia cautelare in carcere a carico di Boccadamo Vincenzo più 30, emessa il 28 gennaio del 1995 dal giudice per le indagini preliminari di Lecce. Tale autorità giudiziaria ha accertato l’esistenza di un’organizzazione criminale pugliese che gestiva ingenti traffici di tabacchi lavorati esteri, di stupefacenti e di armi, intrattenendo rapporti con società di intermediazione e con le stesse autorità serbo-montenegrine. Vi è poi l’importazione clandestina di armi dai teatri dei conflitti verso l’Italia.
        Non si comprende questo flusso di armi, se non si tiene conto che nei Balcani gruppi criminali sono dentro i conflitti tra etnie o fazioni, vi si muovono come pesci nell’acqua ed hanno interesse al loro proseguimento. Quindi operano contro la pace.
        Nella presenza e nell’azione delle forze NATO che svolgono compiti di peace keeping in Bosnia-Erzegovina, le attività propriamente militari sono sempre di più strettamente legate all’espletamento di delicate funzioni di polizia. È difficile distinguere l’attività operativa di forze che creano una cornice di sicurezza attraverso il pattugliamento militare, servendosi di mezzi pesanti e che costringono, con la semplice presenza armata, le fazioni in lotta ad accettare regole di convivenza pacifica, a distruggere esplosivi ed armi, da un intervento che è più propriamente di polizia in senso stretto, che blocca traffici illeciti e che controlla persone e veicoli per prevenire illegalità e reati. Bisogna tener presente che quelle illegalità procurano forti profitti, spostano ricchezze e dunque i gruppi che ne sono protagonisti traggono linfa ed ossigeno dal conflitto e dai disordini e perciò li promuovono attivamente.
        Proprio per questa ragione, però, è necessario che l’impegno di polizia cresca, a fianco dell’impegno militare in senso stretto.
        Abbiamo inviato in Bosnia qualche mese fa 386 carabinieri, proprio per svolgere funzioni di polizia militare (Multinational Specialized Unit).
        Proprio negli ultimi giorni, queste funzioni e questa attività si stanno concretizzando in un impegno volto a bloccare e prevenire attività criminali proiettate verso il Nord e verso l’Ovest: a Stolac, nei pressi di Mostar, il 25 novembre è stato costituito un posto di comando tattico del battaglione MSU per sovrintendere ad operazioni di controllo dell’area, organizzato per fronteggiare il clima di violenza e di intimidazione recentemente alimentato nei confronti dei rifugiati, della polizia locale, dei pubblici amministratori e dei rappresentanti delle organizzazioni internazionali; questa situazione è provocata da elementi mafiosi, per favorire il traffico illegale di armi, esplosivi ed equipaggiamento militare. Una situazione come questa non si fronteggia se non attraverso un’attività capillare duttile e presente sul territorio, ossia un’attività di polizia.
        Io credo che una strategia analoga dovrà svilupparsi sulla base di accordi bilaterali, muovendo dalle iniziative già assunte dall’Unione europea e dalla UEO in Albania. È una notizia che ci è arrivata stamattina lo scontro tra due scafi: tre bambini morti, sei persone salvate, sei disperse. L’intervento della Guardia di finanza e dei carabinieri in quel tratto di mare delle acque internazionali davanti a Brindisi ha consentito di salvare delle vite umane, ma ci sono dei bambini che sono morti. Per evitare tutto questo bisogna fermarli prima che partano, e a questo scopo è necessario intensificare il negoziato e l’accordo con il Governo albanese per una presenza di forze, anche non albanesi, a fianco della polizia albanese, per assisterla, per indirizzarla, per addestrarla, per riempire i vuoti dove vuoti vi siano. È un compito che dobbiamo assolvere e le forze di polizia italiane hanno in questo un lavoro da svolgere.
        Che cosa si può fare, inoltre, per intervenire contro i processi di internazionalizzazione delle attività criminali? Manca uno spazio penale sovranazionale che consenta di perseguire unitariamente i reati di mafia. Ebbene, è necessario lavorare per l’armonizzazione delle legislazioni nazionali, per l’adozione di strumenti negoziali volti a portare la cooperazione giudiziaria internazionale agli stessi livelli di efficienza della cooperazione fra le forze di polizia. E poi occorre creare una rete giudiziaria di contatto, che favorisca il dialogo fra le autorità giudiziarie dei paesi membri dell’Unione europea, superando così il ruolo di filtro delle autorità politiche centrali. Io credo che questa sia una linea da sviluppare e da incoraggiare, individuando nel nostro ordinamento i soggetti istituzionali che possano promuovere il raccordo delle iniziative giudiziarie su scala europea ed internazionale. In questo senso, nel senso della cooperazione delle attività di polizia, nel senso della cooperazione giudiziaria e dell’armonizzazione tra le legislazioni penali, si è pronunziato il Parlamento europeo con la risoluzione del 20 novembre 1997; ed in questa prospettiva io credo che sia utile sviluppare le funzioni di impulso e di coordinamento del procuratore nazionale antimafia verso la cooperazione giudiziaria internazionale sul terreno dell’azione di contrasto contro la mafia. E bisogna anche andare oltre i confini dell’Unione europea.
        Le reti criminali internazionali trovano molteplici occasioni di affari e di sviluppo nei paesi ex comunisti, primo fra tutti la Russia, un paese nel quale, secondo i dati del 1996 forniti dal procuratore generale della Federazione russa, la corruzione coinvolge il 70 per cento dei funzionari pubblici. E secondo il Ministero dell’interno 40.000 aziende sono create o controllate da gruppi criminali. La Ostpolitik italiana e dell’Unione europea non possono prescindere dalla cooperazione non solo nelle attività di polizia, ma sul terreno dell’armonizzazione delle leggi penali e dell’iniziativa giudiziaria con questo grande paese.
        I network operanti su scala internazionale trovano in Italia un complesso di partners criminali organizzati ed attivi, ma soprattutto un ambiente favorevole. Le grandi associazioni mafiose hanno costruito un tessuto connettivo ed hanno imposto un modello vincente, sviluppando con grande capacità di adattamento il metodo della intimidazione e quello della penetrazione corruttiva entro le istituzioni come strumenti per l’accumulazione di capitali, per acquisire posizioni di potere e per assicurarsi l’impunità. Si può parlare di un vero e proprio sistema con una presenza capillare, percorso talvolta, come ad esempio in Campania in questi mesi, da conflitti interni, ma che riesce complessivamente a garantire l’equilibrio tra i vari gruppi; e quando qualcuno di essi viene smantellato dall’azione repressiva, il vuoto non dura a lungo. Basta pensare alla crisi, alla disgregazione del clan di Carmine Alfieri e a come il suo posto nel Nolano, a Poggio Marino, a Quindici, sia stato preso e riempito da altri gruppi, da altri clan, da altri dirigenti, alcuni dei quali continuano ad essere latitanti, come Autorino e Cesarano.
        La fondamentale ragione di vitalità del sistema criminale italiano è in questo radicamento territoriale. A parte le tradizioni e le ideologie mafiose che contribuiscono ad esso, io credo che nella fase attuale siano essenzialmente due i meccanismi attraverso i quali continuano a realizzarsi forme di controllo del territorio da parte delle mafie italiane. Il primo meccanismo è quello delle estorsioni, il secondo è quello della sistematica penetrazione negli appalti pubblici. Le estorsioni hanno un posto di primo piano nella strategia attuale di Cosa nostra. Vorrei richiamare la vostra attenzione su questo punto. La "linea Provenzano", è una linea di ripiegamento, coltiva attività criminali senza assalti eclatanti e vistosi e, al centro di queste attività criminali, vi è il ferreo controllo del territorio mediante le estorsioni. Mi ha colpito il fatto che un collaboratore di giustizia, Marcello Fava, ex capomandamento di Porta Nuova, ha descritto il suo insediamento nel ruolo di capomandamento di Porta Nuova, per ordine del capomafia Vito Vitale, come in sostanza l’assegnazione del compito esclusivo di sovraintendere alle estorsioni: "Le estorsioni sono cosa di cui ti devi occupare tu, tutte, senza problemi, senza intermediazioni, senza dover rendere conto a nessuno, se non al vertice dell’organizzazione". Questo dimostra come l’attività estorsiva è oggi l’attività fondamentale su cui "Cosa nostra" punta, per mantenere la presa in quelle aree del territorio ove essa è tradizionalmente forte e dove vuole conservare capacità di movimento, impunità, ed anche una relativa pace per i propri traffici.
        È evidente che, se noi consideriamo un reato come le estorsioni, che assume un ruolo così importante nella territorialità delle organizzazioni mafiose, diventa appropriato il discorso che sentivo fare questa mattina dai sindaci sulla certezza delle pene. Ecco, per un reato come l’estorsione più che per altri è evidente che si rompe il prestigio dell’estorsore, si rompe la forza del leader dell’organizzazione mafiosa che gira per i negozi, che è presente nelle strade, che impone la propria legge, se la pena irrogata nei suoi confronti, alla quale si giunge magari dopo un processo difficile, in cui i testimoni hanno rischiato, è una pena certa. E bisogna pensare – io credo – anche a sanzioni che tengano conto della necessità di tenere lontani gli autori di reati come l’estorsione, anche dopo che hanno scontato la loro pena, dai luoghi in cui i reati erano stati commessi e dove continuano a vivere coloro che li hanno subiti.
        In conclusione, descriverò brevemente i meccanismi di condizionamento e controllo degli appalti, perché l’altro strumento di controllo del territorio a cui mi richiamavo è proprio rappresentato dalla penetrazione negli appalti. Descriverò questi meccanismi, come emergono dal complesso delle risultanze processuali in questa materia, sia in Sicilia che in Campania; e poi dirò poche parole sulle cose da fare.
        Riguardo ai processi, da cui traggo la descrizione del meccanismo, posso ricordare il processo contro Nuvoletta Lorenzo ed altri, o contro Carmine Alfieri, o quello sulla Tav: la corruzione in questo campo è uno dei più tenaci elementi di continuità degli anni Novanta. Dobbiamo partire da questa premessa. L’intervento della criminalità organizzata riguarda anzitutto la fase della scelta del contraente dell’appalto. Così nella licitazione privata si inseriscono clausole circa i requisiti di partecipazione idonei a favorire determinate imprese. Oppure, nell’appalto-concorso, un’impresa o un gruppo viene preventivamente in possesso di indicazioni tecniche destinate a rendere il proprio progetto esecutivo più idoneo rispetto ad altri – e ciò è possibile con la complicità degli organi tecnici e deliberativi dell’ente appaltante –. Poi, il gruppo mafioso è in grado di imporre accordi ai partecipanti circa le offerte di ribasso da presentare e anche questa mossa richiede complicità all’interno della pubblica amministrazione. Ma il più delle volte, anche per lavori di grande rilievo, il problema della formale aggiudicazione dell’appalto è indifferente; le organizzazioni criminali mettono in campo una serie di imprese subappaltatrici ed impongono attraverso l’intimidazione e la corruzione all’impresa aggiudicataria di cedere sostanzialmente l’intera commessa. Questa impresa svolge un compito di intermediazione e profitta di una rendita finanziaria. L’esecuzione dei lavori è tutta rimessa, invece, alle imprese subappaltatrici, imprese di fiducia delle organizzazioni criminali, ma anche imprese che hanno referenti ed ispiratori in settori del sistema politico. Le imprese subappaltatrici decidono i costi, li gonfiano, costituendo fondi neri che servono all’attività di corruzione e costituiscono un sovrapprofitto destinato ai gruppi di cui quelle imprese sono espressione. Le indagini più recenti mostrano la complicità di organi tecnici ed amministrativi.
        In questo contesto, la prima e basilare esigenza è quella di garantire che la regia politico-economica degli investimenti pubblici sia sorretta da adeguati sistemi di informazione e valutazione del rischio criminale. È necessario un controllo sulle imprese assegnatarie dei lavori; occorre una raccolta sistematica di tutti i dati relativi alle esecuzioni dei lavori. Occorre stabilire un indice di correttezza delle imprese, che tenga conto degli aspetti fiscali e finanziari, di sicurezza del lavoro, e bisogna ricostruire una geografia dei rapporti tra imprese e gruppi mafiosi. Il soggetto che intenda svolgere un simile monitoraggio deve realizzare un raccordo con la magistratura inquirente, con le prefetture, con le forze dell’ordine delle aree interessate, oltre che con l’imprenditoria nazionale e con le associazioni sindacali. Come si può configurare questo soggetto di monitoraggio, di quali poteri e strumenti istituzionali lo si può dotare? Può essere una struttura di consulenza all’interno della pubblica amministrazione, può essere un team centrale di esperti, o può essere un’authority per gli appalti, posta in una posizione di indipendenza e con penetranti poteri di controllo. Io personalmente considero più valida questa ultima ipotesi. Si può introdurre una norma che preveda la possibilità di acquisire atti ed informazioni dalle autorità giudiziarie interessate, o meglio dal Procuratore nazionale antimafia, che vedrebbe così valorizzate le proprie peculiari funzioni. L’Authority per gli appalti non solo orienterebbe le scelte dell’amministrazione, ma avrebbe il potere di introdurre norme specifiche nei capitolati di appalto e nei regolamenti contrattuali, che impongano alle direzioni dei lavori di vigilare sui comportamenti nella fase esecutiva, in modo da sanzionare ogni intromissione illecita. Con queste proposte, con questa capacità di innovazione, io credo che noi dobbiamo misurarci.
        È c’è una risposta fondamentale e complessiva che noi possiamo dare alla territorialità delle grandi organizzazioni mafiose nel nostro Paese. È il rafforzamento della capacità di controllo del territorio delle forze di polizia, di tutte le forze di polizia, le forze di polizia al plurale, che sono proprie della storia e dell’ordinamento del nostro Paese e delle quali noi vogliamo salvaguardare e valorizzare le peculiarità, tutte le peculiarità, senza considerare l’una o l’altra periferica rispetto alle proprie vicine, ma facendo lavorare tutte le forze di polizia insieme e garantendo una direzione unitaria. Voglio dire, qui a conclusione di questo intervento – che è diventato un pò troppo lungo, e me ne scuso – che l’impegno del Governo per sospingere avanti in Parlamento e per concludere al più presto i lavori parlamentari sul disegno di legge che introduce norme relative al coordinamento e alla direzione unitaria delle forze di polizia e dà al Governo alcune deleghe per il riordino dell’Arma dei carabinieri, della polizia di Stato e delle altre forze, è prioritario e troverà immediata attuazione. Noi abbiamo questo disegno di legge pendente al Senato ormai da qualche tempo, anzi da troppo tempo. C’è la legge finanziaria da approvare nei prossimi giorni e vorrei annunciare qui l’impegno del Governo a chiedere al presidente della Commissione difesa del Senato, il senatore Gualtieri, che presiede le Commissioni congiunte difesa e affari costituzionali, di mettere all’ordine del giorno al più presto questo disegno di legge. La discussione generale l’abbiamo già esaurita; si tratta di passare all’esame degli emendamenti e di licenziare il provvedimento al Senato al più presto. Abbiamo promesso questa legge, abbiamo preso un impegno, dobbiamo onorarlo quanto prima.
        C’è poi un’altra legge che bisogna fare, consentitemi di dirlo in questa sede, c’è un’altra innovazione da introdurre. Anche di questa parliamo da molto, troppo tempo. È la legge di riforma dei servizi di informazione e sicurezza: una riforma che garantisca efficienza e controllo. Si tratta di apparati dei quali non si può fare a meno, sono apparati delicati ed essenziali per la sicurezza del Paese, per la politica internazionale dell’Italia, per la politica di sicurezza del nostro Paese e dell’area nella quale noi ci troviamo, ed in questo quadro per la lotta contro la criminalità organizzata ed eversiva. Proprio perciò una riforma è necessaria e va varata al più presto.
        Insomma, vanno promosse le analisi (che devono essere giustamente preoccupate: guai al trionfalismo, dopo i successi che sono stati importanti e che abbiamo conseguito); ma vanno anche presi alcuni impegni per innovazioni e riforme da introdurre.
        Credo che il Convegno di oggi serva a questo. Se guardiamo indietro, vediamo quanto è stato fatto, ricordiamo ai nostri amici che non ci sono più e che hanno combattuto in prima linea per contrastare la criminalità organizzata ed eversiva: la loro memoria ci sprona ad andare avanti e a fare di più (Applausi).

        PRESIDENTE. Ringraziamo il sottosegretario Brutti per il suo intervento.  Abbiamo concluso anche quest’ultima parte del Convegno, per cui prego il generale Siracusa di prendere la parola, dopodiché ascolteremo le conclusioni del senatore Ottaviano Del Turco, presidente della Commissione parlamentare antimafia.

        SIRACUSA Sergio, comandante generale dell’Arma dei carabinieri. Solo alcune parole di saluto prima che il presidente Del Turco svolga le riflessioni conclusive.  Gli autorevoli interventi che si sono succeduti in queste due giornate di lavoro hanno affrontato il tema del Convegno da molteplici prospettive, evidenziando l’estrema importanza della sicurezza per lo sviluppo economico e sociale del Paese.
        Infatti, da ogni parte è stata affermata la necessità di garantire ai cittadini la dovuta cornice di sicurezza, entro cui fruire pienamente dei diritti fondamentali e realizzare le proprie aspirazioni, senza condizionamenti diversi da quelli imposti dalle regole dell’ordinato sviluppo sociale ed economico.
        A questi obiettivi, peraltro, ci sollecita ulteriormente la nostra "appartenenza all’Europa", chiamati come siamo a costruire le premesse essenziali alla comune crescita economica ed alla creazione di nuovi posti di lavoro, per consolidare ad un tempo lo spirito unitario ed il ruolo comprimario dell’Italia.
        I preziosi e qualificati contributi forniti dai relatori saranno i concreti termini di riferimento nell’ininterrotta ricerca di soluzioni operative sempre più efficaci e meglio aderenti alle evoluzioni della società e dei suoi bisogni.
        Lo spirito di sincera e convinta cooperazione che è stato evidenziato in questi due giorni mi sollecita a rivolgere un saluto particolarmente grato ai gentili ospiti stranieri, la cui presenza testimonia la comune sensibilità ai delicati problemi discussi.
        Rivolgo altresì un cordiale saluto ai rappresentanti della pubblica informazione, ai quali va riconosciuta la puntuale sensibilità alle problematiche emergenti, oltre che l’essenziale ruolo di portare all’attenzione generale l’impegno ed i risultati conseguiti, in modo da contribuire ad alimentare la fiducia della gente e rimuovere la sensazione di distanza delle istituzioni dai problemi concretamente vissuti nel quotidiano.
        Un grato e deferente saluto alla Commissione parlamentare antimafia, al suo presidente – senatore Ottaviano Del Turco – e a tutte le autorità che con estrema sensibilità istituzionale hanno promosso l’iniziativa.
        Un particolare ringraziamento al sindaco di Napoli, ministro Bassolino, ed a tutti coloro che hanno consentito la realizzazione del Convegno, ai collaboratori, a tutti i Carabinieri di Napoli e di Roma che si sono prodigati nello sforzo organizzativo e a tutti coloro che sono intervenuti testimoniando il comune sentire nella lotta al crimine e nella tutela della legalità.
        Grazie. (Applausi).

        PRESIDENTE. Ringraziamo naturalmente il generale Sergio Siracusa e tutta l’Arma dei carabinieri; come a Palermo con la Guardia di finanza, anche qui a Napoli le cose sono andate bene.   Ora ascolteremo l’intervento conclusivo del presidente della Commissione parlamentare antimafia, senatore Ottaviano Del Turco.

        DEL TURCO Ottaviano, senatore, presidente della Commissione parlamentare antimafia. Vorrei subito dire che cosa non faremo. Siccome è da questa mattina che molti giornalisti mi chiedono se questa sarà l’occasione per alimentare polemiche, fornire delle risposte, operare delle rotture, dico subito che chi si aspetta una cosa del genere dal padrone di casa si sbaglia. Noi abbiamo scelto e siamo venuti a Napoli per unire tutto ciò che c’è da unire nella lotta contro le mafie; non è dunque questa l’occasione per riattizzare polemiche, perché non era questo il compito del Convegno e non è questa l’attitudine della Commissione parlamentare antimafia.  Badate bene che organizzare un Convegno è complicato perché bisogna iniziare a farlo quattro mesi prima; e quattro mesi prima nessuno ha un impegno, ma nei quattro mesi che precedono lo svolgimento del Convegno succedono tante cose in Italia e nel mondo: cambiano addirittura i governi, cambiano gli interlocutori regionali e qualche volta anche quelli comunali. Ed è impossibile organizzare un Convegno quattro settimane prima, perché tutti hanno un impegno e dunque non possono partecipare all’appuntamento. Ebbene, se nonostante questo, se nonostante i problemi che ci sono stati dalla fine del mese di luglio ad oggi, siamo riusciti a concludere felicemente questo Convegno di due giorni a Napoli, ciò lo si deve certamente alla grande disponibilità dei nostri ospiti e dei nostri interlocutori. Ma penso sia giusto dire che lo si debba anche al buon lavoro che hanno svolto la Commissione parlamentare antimafia e l’Arma dei carabinieri.
        Mentre non vogliamo elogiare noi stessi per ciò che abbiamo fatto, abbiamo però il dovere di farlo nei confronti dell’Arma dei carabinieri. Ritengo che possiamo infatti gratificare la grande ed impagabile efficienza e la cordialità con cui hanno lavorato con noi, ribadendo ciò che ha detto poco fa il sottosegretario Brutti, e cioè che ormai siamo arrivati in prossimità della conclusione dell’iter parlamentare di un provvedimento che riguarda, in particolare, l’Arma dei carabinieri e che è atteso da tanto tempo. Lo dico più tranquillamente di quanto non l’avrei detto quattro mesi fa.
        Il 14 ottobre ero a Velletri quando il Presidente del Consiglio in carica, parlando davanti a 1.000 allievi marescialli, disse delle cose molto significative circa l’orientamento di questo Governo in rapporto ai provvedimenti presentati al Senato e che devono essere approvati. Ora dobbiamo proprio passare dalle parole ai fatti, sottosegretario Brutti, perché questo è il momento nel quale mi pare di cogliere uno spirito utile in tutto il Parlamento, maggioranza e opposizione, per procedere in questa direzione.
        Esprimo grande soddisfazione per l’esito del Convegno. Intendiamoci, un convegno è esattamente quello che abbiamo fatto e francamente non riesco a capire questa idea che il convegno è solo un’occasione in cui si parla, si chiacchiera: che altro si fa in un convegno? Non ci si picchia nè si ascoltano concerti musicali nei convegni. Nei convegni si discute ed è quello che abbiamo fatto in questi due giorni.
        Però, debbo dirvi che per mettere insieme la quantità di suggestioni che sono venute da tutti gli interventi, anche quando presentavano ipotesi e punti di vista molto diversi, la Commissione parlamentare antimafia dovrebbe svolgere qualcosa come 30 o 40 audizioni, impiegando molte settimane di lavoro. Si tratterebbe di un lavoro poco concentrato e dispersivo, mentre l’estrema concentrazione che si ha quando in un paio di giorni parlano tutti coloro che hanno una responsabilità sulle questioni della criminalità e della sicurezza personale in uno stesso posto e inviano un segnale politico – esattamente quello che dovevamo mandare – ritengo sia un fattore importante e solo per questo dovrei considerare un risultato largamente positivo il lavoro che abbiamo svolto qui a Napoli.
        Naturalmente il Parlamento ha il dovere di dare seguito alle cose che fa; però, voglio sottolineare l’importanza di aver portato a Napoli il Presidente del Senato e il Presidente della Camera dei deputati, di aver portato a Napoli il Ministro di grazia e giustizia, il Ministro dell’interno, il sottosegretario Brutti in rappresentanza del Ministro della difesa, di aver messo insieme realtà molto diverse, di aver fatto fare in ogni caso un ulteriore passo avanti al dialogo tra tutte le forze dell’ordine – Polizia di Stato, Arma dei carabinieri e Guardia di finanza –, ieri a Palermo, oggi a Napoli e domani a Milano, e di aver fatto discutere i sindaci delle più grandi aree metropolitane del nostro Paese (che avete ascoltato questa mattina): ritengo che qualunque persona di buona volontà possa e debba considerare ognuna di queste presenze, ognuna di queste personalità, ognuna delle istituzioni rappresentate da queste persone, un’opportunità in più anche per ciò che deve fare nella propria città.
        Noi non abbiamo fatto un convegno su Napoli e non era questa la nostra intenzione; ma non è stata nemmeno casuale la scelta di Napoli e la decisione di fare qui a Napoli, in una circostanza come questa, una riflessione sulle mafie nel territorio.
        Sono convinto che i convegni sono per definizione territori di libertà. Ho il dovere di rispettare tutte le opinioni; sono andato personalmente – e lo sottolineo – ad invitare tutte le personalità che hanno partecipato a questo Convegno e a nessuno di loro ho chiesto di essere compiacente con noi. Mi sono solo dimenticato di fare una cosa e mi dispiace di non averla fatta, ma non mancherò di farla per il prossimo Convegno con la Polizia di Stato: mi sono dimenticato di dire a tutti i miei interlocutori che la Commissione parlamentare antimafia non è il regno in cui si può usare solo il pronome personale "voi"; nelle nostre discussioni usiamo il pronome personale "noi". Non c’è stata una sola occasione in questa città, o a Palermo, o a Catania, o a Reggio Calabria, o a Milano con il sindaco Albertini dove siamo pure stati, in cui la Commissione parlamentare antimafia ha detto: "Sapete che c’è? Noi siamo una Commissione d’inchiesta, questo è il compito che ci ha offerto il Parlamento. Noi vi diciamo come stanno le cose sulla criminalità organizzata e voi fate". Mai. Mi porto dietro da un’esperienza trentennale che ho fatto in tutt’altro mondo l’attitudine ad assumermi le mie responsabilità e sono venuto venti volte a Napoli, più che in qualunque altra città italiana, perché riconosco la particolarità e la specificità di questa città anche sulle questioni delle quali stiamo discutendo, ma sempre per dire che noi, Commissione parlamentare antimafia, Parlamento, Governo, istituzioni, magistratura, forze dell’ordine, sindacati, imprenditori, siamo impegnati a dare una risposta ai temi che propone una città come questa.
        Io non ho la possibilità di manifestare pessimismo, ma ho posto una premessa per fare il Presidente della Commissione parlamentare antimafia. Non sono stato costretto dal Parlamento a svolgere questa funzione, e penso che un Convegno come questo non può essere l’occasione nella quale si ripropongono polemiche stucchevoli che dobbiamo lasciare alle nostre spalle. Comunque, non ho una risposta per queste polemiche, neanche in tale circostanza. Noi volevamo parlare di una questione che ci stava particolarmente a cuore e il fatto che il ministro Diliberto e il sottosegretario Brutti, concludendo per il Governo, abbiano anche dal loro punto di vista posto l’accento su alcuni di questi aspetti, lo consideriamo già un primo raccordo che avviene in corso d’opera tra l’Istituzione parlamentare e l’Esecutivo attorno a questi temi.
        Il Governo si prepara a spendere nel Mezzogiorno qualcosa come 15.000 miliardi di lire (fatevi i conti di quanto costa la TAV, Bagnoli e la costruzione della terza corsia dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria) ed inoltre il Mezzogiorno registrerà l’arrivo di una enorme quantità di denaro per investimenti, che è stata largamente congelata nel corso degli anni passati per tutte le storie che conoscete. Il Parlamento decide di spendere questi soldi e poi intervengono coloro che hanno il compito di controllare che non finiscano nelle tasche sbagliate.
        Avete sentito usare un linguaggio che considero importante: i giornalisti nei giorni passati mi hanno chiesto se, parlando della storia dei controlli di legalità, non abbiamo la preoccupazione che i sindaci del Mezzogiorno ci dicano che, se esageriamo, non arrivano più i soldi da queste parti e che, se devono scegliere tra una legalità cristallina e il fatto che si comincino a fare i lavori, non dobbiamo chiedere loro di scegliere, perché sono con l’acqua alla gola. Sono le considerazioni che tutti voi avete sentito dai sindaci, nel corso del loro intervento di questa mattina.
        L’ho sentito dire da sindaci che, da questo punto di vista, hanno problemi non di poca rilevanza. Dal sindaco di Catania, dottor Bianco, da quello di Reggio Calabria, dottor Falcomatà, e dal sindaco di Napoli, onorevole Bassolino, abbiamo sentito parlare della lotta per la trasparenza e la legalità e che questi lavori sono per loro la stessa cosa: non sono due tempi o due momenti diversi della stessa operazione.
        Dunque, nessuna pratica cinica, secondo la quale più controlli vogliono significare meno lavoro e meno sviluppo. Noi riproponiamo qui a Napoli una tesi che ci è cara, della quale cominceremo a discutere già martedì prossimo in sede di Ufficio di Presidenza della Commissione, per delineare le modalità con cui la dobbiamo proporre all’esame del Parlamento. Mi riferisco alla proposta di istituire la guardia nazionale sugli appalti, che metta qualunque sindaco decida di attivarla, qualunque assessore regionale decida di usarla e lo Stato nella condizione, ogni volta che si attiva un appalto, di controllare, dal momento in cui si decide una spesa fino a quando l’opera viene compiuta, che all’interno di questo processo non subentrino figure che non devono esserci. 15.000 miliardi sono tanti e tutti sanno che in una fase del genere l’attività fondamentale del crimine organizzato è quella di cercare di intercettare il flusso finanziario gigantesco o di tentare di ritagliarsi uno spazio attraverso forme tradizionali quali l’estorsione, il pizzo o, quando ciò diventa complicato, attraverso imprese talvolta dirette o talvolta poste in essere attraverso prestanomi che si aggiudicano quegli appalti o i subappalti o una parte dei lavori.
        Credo che talune affermazioni, tra quelle delineate qui a Napoli, possano dare anche degli esiti imprevedibili. Chi avrebbe mai detto che da un intervento come quello svolto dal presidente Violante potessero nascere alcune considerazioni riprese ieri sera dall’onorevole Mantovano? Si tratta di due uomini che appartengono a due schieramenti diversi: il presidente Violante è stato chiamato alla Presidenza della Camera dei deputati dall’attuale maggioranza, quella che ha la responsabilità del Governo; mentre l’onorevole Mantovano è uno dei parlamentari più rappresentativi dell’opposizione. L’onorevole Mantovano dice che, se si tratta di cose importanti, le considera tali e che, pertanto, è necessario cominciare a discuterne. Ebbene, in questa sede vi dico che martedì prossimo possiamo avviare una discussione al riguardo.
        Dal Ministro di grazia e giustizia abbiamo poi sentito dire che il Governo non considera preminenti solo i disegni di legge nati dalla testa dello stesso Ministro di grazia e giustizia o dal Governo nel suo complesso. L’Esecutivo è pronto ad esaminare tutte le proposte del Parlamento, delle Commissioni parlamentari ed è pronto altresì ad esaminare con la Commissione antimafia anche le questioni specifiche al centro della nostra iniziativa.
        Dobbiamo dare una risposta che plachi la febbre che sta salendo negli uffici giudiziari e considero importante un riferimento a ciò che muove l’inquietudine di molti magistrati, i quali ci chiedono di sapere con certezza quali sono le indicazioni del Parlamento e del Governo in questa fase di lotta al crimine organizzato. Tuttavia, siamo chiamati a dare una risposta anche agli avvocati. Penso di tornare a Napoli, entro il mese di dicembre, per avviare un confronto ravvicinato con gli avvocati napoletani – così come ho fatto in altre circostanze con altri attori delle vicende di questa città – affinché non restituiscano il tesserino (che prima o poi dovrebbero ritirare perché – per fortuna – continueranno a svolgere la loro professione), ma perché, attraverso un confronto con le istituzioni, possano far valere anche le ragioni proprie della storia delle garanzie di questo Paese, che è uno Stato di diritto e che dunque deve saper dare una risposta importante. Gli avvocati sanno che al riguardo si sono verificate occasioni di grande discussione tra di noi; l’anno scorso ci fu una polemica molto dura nella Commissione antimafia tra chi vi parla e gli avvocati napoletani a proposito delle forme di lotta. Sono stato sempre molto sensibile al tema delle garanzie nei processi, ma ho un’esperienza trentennale di lavoro nel sindacato ed ho sempre guardato con grande sospetto alle forme prolungate di sciopero: considero sbagliati gli scioperi ad oltranza per gli obiettivi che si vogliono realizzare. Non è mio compito dare i voti in questi casi, ma è compito di tutti ragionare affinché anche una legittima protesta possa trovare uno sbocco che consenta a tutti di governarla, di farla rientrare entro limiti accettabili e fisiologici nel confronto tra le parti.
        A Napoli volevamo parlare del ruolo dei sindaci. Con le modifiche alla legge elettorale, abbiamo messo in moto un meccanismo del quale non siamo stati in grado di valutare fino in fondo le conseguenze. Ritengo positiva la scelta dell’elezione diretta del sindaco e confermo che è molto saggia; anzi, tutte le scelte, che ci avviamo a fare, di grande riforma del sistema istituzionale sembrano in qualche misura segnate anche da questa scelta fondamentale in un settore importante della vita democratica del nostro Paese. Tuttavia, l’elezione diretta dei sindaci ha prodotto due effetti: una straordinaria autorevolezza e l’assenza di incertezza sulla composizione della maggioranza che esprime un sindaco.
        Questa mattina tutti avete sentito parlare i sindaci, che sono espressioni di maggioranze molto diverse tra loro. Ripeto spesso che mi è capitato nella vita di fare una trattativa non facile con Albertini, quando era uno dei leader della Federmeccanica, mentre mi è stato – per così dire – più semplice fare un corteo con Bassolino quando si trattava di difendere il lavoro a Napoli. Come potete vedere, si tratta di due storie molto diverse, di due rapporti molto contraddittori, così come è contraddittorio il tessuto di una società come la nostra. Però, questa mattina avete sentito da questi due uomini, che hanno una determinata responsabilità, pronunciare discorsi largamente convergenti – ovviamente non su tutto, perché non hanno cambiato le loro casacche, la loro tradizione culturale – su quelle questioni nei confronti delle quali sono chiamati a dare una risposta ai loro elettori. Sono consapevoli del fatto che saranno giudicati anche per il loro operato sulle questioni della sicurezza personale dei cittadini che rappresentano. Hanno una grande autorevolezza e una grande stabilità. I sindaci, con il vecchio sistema, entravano nel Consiglio comunale come sindaci e qualche volta ne uscivano come consiglieri comunali. Oggi la loro stabilità fa invece invidia ad altre istituzioni del Paese.
        Bene, la combinazione di questi due aspetti fa sì che la gente che ha votato il sindaco non gli chieda solo di provvedere alla raccolta e allo smaltimento dei rifiuti, a dare le licenze giuste affinché il commercio funzioni nel quartiere, o a fare un piano regolatore che renda vivibile la città. Sono tutte richieste che la gente continua a fare ai sindaci, ma c’è un momento di novità che Castellani ha rappresentato plasticamente. Questa mattina, Castellani ha detto che è entrato nel panorama dei diritti di cittadinanza una cosa sconosciuta. Abbiamo fatto una conferenza sui diritti di cittadinanza quattro anni fa a Torino e tra essi non era compreso il tema della sicurezza personale. Tuttavia, oggi questo diritto è equivalente al diritto allo studio, al lavoro, ai diritti civili fondamentali e alle garanzie costituzionali proprie del cittadino nel momento in cui nasce, per il solo fatto che viene al mondo. Questo è diventato un grande problema per le città italiane.
        Affermare che l’autorevolezza e la stabilità caricano il sindaco di una grande responsabilità vuol dire anche fare i conti con i poteri che i sindaci hanno su queste materie. Hanno un potere di persuasione morale; nessun prefetto commette l’errore di non invitarli più al comitato per l’ordine e la sicurezza: è diventato norma ciò che, come ha detto con un’espressione simpatica il senatore Pettinato, era un invito a prendere il caffè, che spesso nemmeno tra i migliori si verificava. Era, però, l’avvio di un rapporto istituzionale che è cominciato a funzionare qualche anno fa e che oggi è diventato una regola. Questo, però, non basta.
        Allora, è necessario definire una carta dei poteri nuovi, che non vuol dire privare il questore, il prefetto o il colonnello dei Carabinieri dei poteri che hanno, ma vuol dire capire qual è la parte di responsabilità che il sindaco deve assumersi nel quadro della vita cittadina. Occorre, però, fare attenzione perché non è facile. È facile affermarlo, come hanno detto i sindaci questa mattina; le grandi forze politiche di questo Paese – si chiamino come vogliono ma sono pur sempre il prodotto di una storia politica di questo secolo – di destra, di centro e di sinistra, hanno avuto come tema fondamentale la questione della sicurezza sociale della gente: questa è stata la preoccupazione fondamentale dei governanti e dei politici di questo secolo.
        Certamente non è facile cambiare questa cultura e volgerla verso un’attenzione diversa ai temi della sicurezza personale. Non è facile, ma è il passaggio inevitabile; è la funzione di una classe politica che vuole non solo amministrare ciò che è accaduto, ma anche guardare avanti e determinare le condizioni per il governo delle cose che dovranno accadere: questo è il modo con cui cerchiamo di dare una risposta e con il quale mettiamo tra i diritti di cittadinanza, accanto ai temi del lavoro, del diritto all’istruzione, alla salute e ai diritti civili, delle garanzie istituzionali, anche il tema della sicurezza personale.
        Siamo venuti a Napoli per dire a tutte le persone di questa città che non sono sole in questa battaglia, in questa lotta contro l’illegalità. È difficile stabilire a che punto siamo in questa battaglia a Napoli, perché siamo partiti tutti quanti da un paradosso logico, che è tutto napoletano: i risultati realizzati dallo Stato nella lotta contro le cosche (il fatto di aver "smantellato" via via tutti i leader, di averli messi in galera, prendendoli e portandoli via dalla loro attività) hanno prodotto, tra i vari effetti, quello a cui stiamo assistendo da un anno a questa parte, cioè una guerra per bande, perché nella camorra non si vota per decidere chi comanda, ma si spara. Ciò che è accaduto a Napoli è il prodotto di una guerra di clan che sta cercando di stabilire le nuove gerarchie nel territorio, perché in quello napoletano si stanno determinando cambiamenti importanti per la vita della città. Stanno per essere realizzati importanti lavori che cambieranno la vita dei napoletani: questi lavori possono essere l’occasione per cambiare non solo il volto di questo territorio del Mezzogiorno, ma anche i suoi poteri e le sue gerarchie sociali e politiche.
        Da parte di coloro che hanno una responsabilità è difficile dire che lo Stato sta perdendo questa battaglia. Lo Stato sta combattendo questa battaglia e mi permetto di dire che ci sono i segni di una sua conclusione inevitabile: lo Stato vincerà questa guerra contro i clan. Continuo a dire che in questa guerra l’elemento che manca ancora è l’irruzione di quella parte dell’opinione pubblica, non solo di Napoli ma anche di molte città del Mezzogiorno, che sta guardando e che chiede allo Stato di fare tutto il suo dovere, di cominciare e di andare avanti. Penso che occorre rompere questa logica del prima e del dopo. Certo, abbiamo chiesto alla polizia, ai carabinieri, alla Guardia di finanza ed ai corpi speciali di dare questo segnale all’opinione pubblica del Paese, ma sarebbe sbagliato pensare di poter mobilitare l’opinione pubblica di Napoli e del Mezzogiorno senza dire alla gente che questa è una battaglia che lo Stato può vincere.
        È proprio questo il messaggio che volevamo dare con questo Convegno. L’aver portato per due giorni a Napoli tutte le massime cariche dello Stato a discutere di tale argomento e ad inviare questo messaggio a me sembra un gesto politico rilevante fatto dalla Commissione parlamentare antimafia. Osservate i dibattiti parlamentari e ciò che sta capitando in questo Paese da molti mesi a questa parte; ieri ed oggi avete ascoltato esponenti politici che appartengono alla maggioranza e all’opposizione; avete ascoltato i Presidenti di Camera e Senato, i leader naturali dell’opposizione nel Parlamento (lo sono comunque nella Commissione parlamentare antimafia, come l’onorevole Mancuso che ha presieduto una sessione dei lavori di ieri, e l’onorevole Mantovano che ha tratto le conclusioni): non avete avuto l’impressione di una differenza insopportabile e non governabile su temi come questi.
        Questo è proprio quello che dovevamo fare a Napoli: volevamo portare un messaggio di unità e lo abbiamo portato; il resto sono polemiche che non è il caso di riprendere in questa circostanza.
        Grazie a tutti quanti. (Applausi).

        PRESIDENTE. Ringrazio tutti i presenti, che saluto cordialmente, e dichiaro concluso il Convegno.
        

I lavori terminano alle ore 18,30.