8 maggio 1998


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Interventi dei rappresentanti delle assemblee elettive di regioni, province e comuni e di esponenti della società civile.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare Giancarlo Morandi, coordinatore della Conferenza dei presidenti delle assemblee, dei consigli regionali e delle province autonome. Ne ha facoltà.

GIANCARLO MORANDI, Coordinatore della Conferenza dei presidenti delle assemblee, dei consigli regionali e delle province autonome. Vorrei prima di tutto rivolgere un saluto a lei, Presidente della Camera dei deputati, ai professori che ci hanno aiutato in queste due giornate con le loro relazioni, ai colleghi ed a tutti i presenti.
Al di là dei preamboli formali, visto anche il tempo ridotto a nostra disposizione, vorrei affrontare subito negli argomenti che ci stanno a cuore. Credo al riguardo che possiamo sostenere tranquillamente che nessuno di noi non possa che condividere le affermazioni fatte in questa sede da tutti gli intervenuti che hanno affrontato la materia della insoddisfazione generale dei cittadini e degli addetti ai lavori rispetto all'efficacia ed all'efficienza dei governi (parliamo dei governi regionali, provinciali, comunali e naturalmente nazionali).
È presente ormai da tempo nella pubblicistica italiana - e di conseguenza nel dibattito politico-istituzionale in atto - l'esigenza di rafforzare i governi locali così come quello nazionale. Le recenti riforme - anche con l'elezione diretta dei responsabili degli esecutivi dei comuni e delle province - e le proposte dibattute nella bicamerale al riguardo sono state in parte figlie di questa esigenza che in Italia è notevolmente più viva che in altre nazioni europee ed extraeuropee.
Noi, cioè i presidenti delle assemblee legislative regionali, non possiamo che condividere questa preoccupazione generale del paese, che in parte si è già tradotta in provvedimenti concreti e in parte è sul tavolo delle riforme dello Stato come argomento universalmente condiviso. Ciò che però ci sembra strano è che nel dibattito in atto il riformatore ed il Parlamento nazionale in particolare si sia completamente dimenticato degli insegnamenti che sono il presupposto della democrazia moderna. Mi perdonerete se in questa sede devo citare l'opinione di un collega, presidente di un parlamento locale, ma credo sia necessario premettere una pregiudiziale all'attuale momento di profonda discussione sui poteri dello Stato e sulle forme del loro esercizio. Mi riferisco al presidente del parlamento di Bordeaux, che scriveva nel suo Esprit des lois che le pouvoir arr|frte le pouvoir. Ricordiamo che ciò che il signore di Secondat, barone di La Brède e poi di Montesquieu voleva e vuole dire è che, nel momento in cui si rafforza uno dei poteri dello Stato, è necessario automaticamente rafforzare gli altri poteri statali. Non ci può essere un rafforzamento degli esecutivi senza un concomitante e contestuale rafforzamento degli organi legislativi del paese. Per cui oggi in queste due giornate - che dobbiamo all'iniziativa del Presidente di una delle Camere del Parlamento nazionale, l'onorevole Violante, e che dedichiamo al ricordo del democratico Aldo Moro - dobbiamo parlare non solo delle debolezze attuali delle assemblee legislative, ma soprattutto immaginare il loro rafforzamento istituzionale, pena lo sconfinamento degli organi esecutivi nelle patologie che così bene mister Burns ha enunciato nella sua relazione. Dunque, non dobbiamo essere qui solo a parlare del miglioramento dell'esistente, ma siamo qui a parlare - lo ripeto - del rafforzamento degli organi in cui si articola il potere legislativo italiano.
Voglio ricordare che nel corso delle riunioni che hanno preparato queste due giornate di studio si respirava un'aria quasi di riscossa; si registravano sguardi di intesa ed apprezzamento tra i presidenti delle assemblee elettive regionali e territoriali, per non dover far fronte per

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l'ennesima volta al loro profilo debole ma, al contrario, per essere chiamati a ragionare su quel profilo come sintomo della qualità della democrazia e soprattutto come leva di possibili cambiamenti. Cito subito questi sentimenti, nel primo intervento delle componenti territoriali a questa Conferenza, per sottolineare quale valore abbiamo attribuito all'appuntamento di oggi e come la consapevolezza di partecipare ad un inteso ridisegno intellettuale di un ruolo istituzionale sia stata condivisa in questa occasione, forse più di quando siamo stati con alterne fortune interlocutori del dibattito della Commissione bicamerale. Le relazioni che abbiamo ascoltato lo hanno indagato con scientificità. Ora si tratta di far emergere alcuni riscontri. L'assunto di partenza investe uno stato di criticità dei luoghi decidenti, cioè i luoghi delle deliberazioni democratiche, dei processi legislativi, della validazione del controllo delle maggioranze e quindi delle politiche istituzionali.
Sono emersi tre fattori critici: quello della qualità, legato a degli sfrangiamenti decisionali che abbassano la mira, alzano i costi, riducono l'elaborazione e attutiscono i profili innovativi; quello della tempestività o della velocità (il Presidente del Senato ha parlato di lentezze del dibattito parlamentare), con tempi non più corrispondenti alle attese sociali. In terzo luogo, il fattore della rappresentatività, rispetto a cui il protagonismo degli uomini progressivamente sostituisce quello delle istituzioni, mentre il carattere brillante dello scenario mediatico ha un facile sopravvento su quello faticoso e spesso poco decifrabile dei luoghi assembleari.
L'insieme degli autorevoli argomenti che abbiamo ascoltato ci porta a dire che non vi è certo diagnosi netta e di conseguenza non vi è soluzione semplice. Noi rappresentanti delle assemblee regionali e territoriali abbiamo preliminarmente molto apprezzato lo sforzo voluto dal Presidente Violante di non rimandare questa partita, di non separare il registro delle grandi regole in discussione dall'indagine sulla difficoltà di dare un senso socialmente percepito ai luoghi della democrazia rappresentativa del nostro paese.
Eccoci perciò al giorno delle diagnosi e delle proposte: il Presidente Violante ha affermato che, dopo questi due giorni, bisognerà tradurre quanto qui si dice in regole, ed io condivido pienamente questo richiamo. L'aver definito queste come giornate di studio non ci esime certo dalla chiarezza; anzi, il carattere ricognitivo ha come migliore alleato proprio la chiarezza. Ebbene, per quanto attiene al sistema regionale, la situazione critica in alcuni casi ha superato le soglie della patologia, anche se in pochi casi l'equilibrio dei poteri vede anche un certo privilegio dell'istituzione assembleare. Questo anche se negli ultimi due anni stiamo assistendo ad un'inversione di tendenza rispetto ai precedenti vent'anni di vita regionale (prendo questo periodo di tempo come riferimento, perché è quello che abbiamo preso in esame per ricordare Aldo Moro), con l'assunzione di consapevoli responsabilità da parte dei presidenti delle assemblee, che in parte hanno già imboccato nuove strade, a cui accennerò più avanti.
Devo dire quindi che non riusciamo a condividere appieno il professor Baldassarre, quando parla di situazione di grave incertezza, diagnosticando una «veloce decadenza». L'aver scelto oggi di periodizzare nell'ultimo ventennio l'arco di riferimento di questa analisi, oltre al richiamo spartiacque della drammatica vicenda Moro, ci porta a considerare praticamente due terzi di vita dell'istituto regionale. Per quanto riguarda le regioni, non posso che condividere l'analisi di alcuni studiosi che preferiscono il modello del ministato rispetto alla complessa tendenza a rappresentare le autonomie locali, giocando quasi sempre la politica di serie B rispetto allo Stato, anziché la politica di serie A rispetto al territorio.
Chi come me ha più di una legislatura regionale sulle spalle dovrebbe parlare innanzitutto con senso autocritico, ma dubito che il modello che si è andato formando sia dipeso solo dagli attori

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regionali. Da una parte l'antica cultura comunale, vanto e limite della tradizione italiana, dall'altra l'ottusità della visione del paese e dell'amministrazione centrale per tutto il ventennio che qui consideriamo, hanno creato una tenaglia robustissima attorno alle pur esistenti culture, chiamiamole federaliste, che le regioni hanno covato e cercato di rappresentare. Il tessuto politico generale ha consolidato giorno dopo giorno le sorti di quel modello che il professor Amato indica come negativo ed i media hanno cancellato, tra informazione sul borgo e informazione sui processi globali, quella che modernamente si chiama comunicazione del territorio inteso come area competitiva, infrastrutturalmente connessa, economicamente omogenea, culturalmente espressiva, in poche parole l'area regionale.
La Lombardia, ma spero tutto il paese, si prepara al bicentenario della nascita di Carlo Cattaneo, all'inizio del nuovo secolo: il 15 giugno insedieremo il comitato che se ne dovrà occupare. Questo stimolo fa riscontrare come la sostanza di quell'approccio sia stato sconfitto dal Risorgimento in poi in tutte le occasioni di scelta istituzionale del nostro paese: era quella la cultura che avrebbe dato senso alla democrazia decidente sul territorio, diversamente risultando necessari i proconsolati, le prefetture, gli sceriffi, le lobby, eccetera. Non a caso è proprio sul territorio che le Assemblee elettive hanno il massimo di criticità rispetto ad un Parlamento nazionale che resta un presidio qualitativo indiscusso.
In questo periodo abbiamo realizzato un sondaggio sul rapporto tra opinione pubblica e istituzione regionale, aprendo una rendicontazione onesta su come i cittadini, gli imprenditori e i pubblici amministratori conoscono, apprezzano e giudicano l'istituzione regionale. Debbo dire che il quadro emerso non è entusiasmante: la conoscenza non supera un terzo dei cittadini. Poco più del 33 per cento degli intervistati afferma infatti di sapere che cosa sia l'istituzione regionale. La percezione delle funzioni tocca a malapena il 40 per cento degli intervistati; generalmente vi è un'opinione favorevole sul fatto che esistano le regioni, ma ciò dipende più dai media che dalle relazioni dirette. L'utente - che è anche elettore e cittadino - fatica a considerarsi il primo destinatario dell'operato delle regioni. Cito questa esperienza perché un primo aspetto propositivo tra quelli che voglio qui enunciare riguarda proprio il governo della conoscenza e soprattutto il rapporto complesso, articolato, da indagare in pieghe serie e profonde, tra istituzioni e società civile. Una conoscenza che poi alimenta relazioni con le categorie, con le associazioni, con gli operatori, con i giovani e i giovanissimi; che diventa cultura del dato, una delle leve di accesso al sistema dei media; che diventa analisi di ritorno di un profilo di efficienza cui abituare gli operatori politici, i consiglieri stessi, i loro gruppi (accanto naturalmente ad altri indicatori di monitoraggio su leggi e provvedimenti). Vi è in proposito, tra l'altro, un problema di razionalizzazione e di valorizzazione del potenziale di relazione stabile con la società civile, costituito in primo luogo dalle commissioni dei consigli regionali e da vari strumenti a disposizione, quali le audizioni, nel senso auspicato da alcuni relatori (per esempio il professor Cammelli e il professor Burns). Nel nostro paese è debolissima quella cultura della valutazione di cui si nutre invece molto di più la cultura politica anglosassone. Si agisce spesso senza verifiche puntuali, come se il riscontro dei media bastasse a breve e quello elettorale bastasse a medio e lungo termine. L'attenzione ad abituarsi a strumenti rigorosi e trasparenti di controllo su atti, provvedimenti, percezioni è un percorso difficile, lo sappiamo, perché a volte può non essere condiviso; può forse essere anche male utilizzato, ma rappresenta una via che deve essere praticata con costanza e professionalità da parte delle Assemblee elettive.
Il secondo profilo innovativo viene dallo sviluppo di una cultura di confronti. Sviluppo interno agli operatori regionali per far circolare esperienze e misurare opzioni, ma anche sviluppo esterno presso

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gli utenti, per generare quell'attitudine ad una sorta di bench marking, che riduca catastrofismo generalizzato e poco argomentato e faccia crescere invece uno spirito critico capace di distinguere, riconoscere i contesti positivi e negativi, capire differenze e qualità.
Abbiamo una lunga strada da percorrere, come Conferenza nazionale dei presidenti dei consigli regionali, per considerare prospettive di questo genere. Abbiamo anche ruoli interni alle nostre dimensioni regionali da sviluppare per favorire analoghe condizioni nei rapporti tra le province e tra i comuni. Qui si collocano fattori di ricerca sugli standard (che sono già difficili per gli organi esecutivi, ma pensiamo quanto siano più delicati e opinabili per gli organi legislativi) cui siamo poco abituati e che toccano il lavoro delle commissioni, la produzione normativa, i profili di efficacia delle attuazioni, le analisi di costo pubblico provenienti dall'azione legislativa e così via. Non voglio dilungarmi laddove già altri lo abbiano fatto con un'alta competenza. Mi limito qui a collocare il tema in uno dei fattori di consolidamento che noi riteniamo praticabili purché l'approccio non persegua istanze demagogiche e si abbia la pazienza di costruire risultati radicati nella vita interna, anche nelle strutture amministrative. Voglio qui ricordare che la Conferenza dei presidenti dei consigli, cosciente di questo fatto, ha già avviato, da oltre dodici mesi, una serie di confronti con un'analoga associazione americana che raggruppa tutti i deputati e senatori degli Stati (la National Conference of State legislators), con la quale abbiamo continui contatti e scambi di lavoro e di esperienze. Da poco abbiamo firmato un protocollo di collaborazione con la scuola di studi politici di Mosca e le regioni della Russia per uno scambio reciproco di conoscenza sui diversi livelli istituzionali e sui diversi organi ai quali viene condotto il lavoro all'interno delle nostre assemblee legislative.
Un terzo obiettivo riguarda l'informazione di pubblica utilità. Si tratta di un insieme di piani operativi che riguardano da una parte le nostre stesse istituzioni alle prese con il problema di spiegarsi e di illustrare cose normalmente difficili e non sempre interessanti e dall'altra il sistema mediatico, alle prese con un racconto della politica infinitamente stereotipato e riconducibile, alla fin fine, a poche fruste cose, filiere di potere che riducono i già angusti margini di un'informazione - come dicono gli americani - che dovrebbe essere guardiana della democrazia.
Per questo ordine di ragioni abbiamo sollevato negli ultimi tempi diffusi tentativi di dibattito intorno al progetto di una nuova rete cosiddetta di servizio senza pubblicità della RAI; abbiamo altresì indicato in una valenza territoriale forte la prospettiva di ancoraggio di una diversa informazione, per far presa sui bisogni di riqualificazione del rapporto tra istituzioni e società e soprattutto per orientare una comunicazione tesa a promuovere interessi culturali ed economici del nostro sistema territoriale.
Non è questa la sede per entrare nel dettaglio rispetto a proposte e progetti in ordine a cui la RAI appare oggi orientata con troppa prudenza, soprattutto in ordine al decentramento produttivo che pure dovrebbe essere, almeno selettivamente, una componente del radicamento territoriale, ed alla formula di un nuovo e moderno accesso dei soggetti che fanno oggi competizione nel paese, rispetto ai quali, almeno a livello regionale, consideriamo la responsabilità dei consigli regionali quale forma di effettiva garanzia rispetto ad altri poteri istituzionali spesso limitati alla visione della loro stessa visibilità. Nella definizione di questo piano conta la qualità - per noi significa rappresentare il paese dei radicamenti - ma conta anche la tempestività, perché in Italia, in Europa e nel mondo dobbiamo raccontare un paese diverso da quello che oggi la televisione italiana spesso esprime.
Non entrerò in questo momento nel merito del federalismo fiscale, perché esistono i documenti della Commissione bicamerale sulla nostra opinione al riguardo, ma anche perché il professor

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Cammelli ne ha già trattato in modo completamente condivisibile, ricordando la stretta correlazione tra capacità impositiva fiscale e rappresentatività (ricordo, tra l'altro, che è un fatto non nuovo, ma uno dei motivi della guerra d'indipendenza americana). Conoscenza, processi di valutazione, sviluppo della comunicazione, responsabilità rispetto al fattore primario con cui si esprime l'economia (questi i presidi in ordine ai quali rivendichiamo un ruolo forte delle istituzioni assembleari, perché la connotazione di garanzia è l'unica chiave per l'esercizio fiduciario di un mandato senza riserve dell'elettore) assumono oggi una particolare fisionomia per l'ampliamento costituito dall'integrazione europea e dalle condizioni competitive che essa produce oggettivamente. Questa relazione con l'Europa ci riguarda dunque da vicino, deve coinvolgere ogni aspetto riorganizzativo oltre che culturale, e soprattutto ci deve aprire ad un nuovo rapporto con il Parlamento europeo come sede in cui vedere rafforzati i poteri, a cominciare da quello di proposta legislativa e più complessivamente di potestà legislativa. Al riguardo, voglio ricordare che i presidenti dei consigli regionali italiani, insieme ai presidenti delle altre assemblee legislative europee, stanno definendo, con la Presidenza del Parlamento europeo, la presenza di rappresentanti delle regioni dell'Europa nella Commissione affari regionali del Parlamento europeo; tra quindici giorni dovremmo avere a Bruxelles il colloquio conclusivo per consentire, appunto, ai rappresentanti dei consigli regionali di essere sempre collegati con i momenti legislativi dell'Europa unita.
In conclusione, vorrei affrontare un tema del nuovo negoziato sulle riforme, che oggi in verità è più mobilitato dall'applicazione delle leggi Bassanini che dalle ipotesi di riforma costituzionale, che riguarda il rapporto tra regioni ed enti locali. Nel caso delle assemblee elettive, devo segnalare rapporti fragilissimi (su questo occorre essere onesti), con percorsi marginali nelle procedure amministrative e con casualità anche nella dimensione protocollare della rappresentanza. Ci rendiamo conto della difficoltà di mettere a registro voci e interessi rappresentati in dimensioni territoriali quasi sempre ampie (per quanto riguarda la Lombardia, si tratta di 1.500 comuni e di quasi 50 mila pubblici amministratori), che il più delle volte percorrono le vie rapide delle relazioni tra organismi esecutivi in ordine a temi urgenti e concreti. Ma la rete delle relazioni tra la dimensione delle pubbliche amministrazioni e del territorio deve essere riconsiderata alla luce di molte opportunità: il rapporto con la scuola, con i giovani innanzitutto, con il sistema di formazione, nonché l'azione di difesa civica, l'utilizzo di strumenti ordinari dell'azione legislativa, come ad esempio le audizioni, che possono fortemente valorizzare la relazione conoscitiva e di pressione con le politiche degli enti locali.
Sono certo che i colleghi presidenti di assemblea che interverranno dopo di me allargheranno ed approfondiranno taluni temi accennati solo indicativamente. I rappresentanti delle assemblee provinciali e comunali credo potranno anche dirci come, dal loro punto di vista, si debba affrontare il lavoro comune che dobbiamo intraprendere.
Oggi, dunque, riflettendo insieme con i rappresentanti delle assemblee legislative del paese, possiamo promuovere un circolo virtuoso negli strumenti che la democrazia rappresentativa ci ha dato per riportare le istituzioni al centro degli interessi del cittadino che, ricordiamolo, è anche utente ed elettore, cittadino del quale siamo al servizio (Applausi).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare Eugenio Scalise, responsabile del coordinamento dei presidenti dei consigli provinciali. Ne ha facoltà.

EUGENIO SCALISE, Responsabile del coordinamento dei presidenti dei consigli provinciali. Il Presidente della Camera alcuni mesi fa propose ai rappresentanti delle assemblee elettive di regioni, provincie e comuni l'organizzazione di nun forum sul tema della democrazia decidente.

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Egli motivò la necessità di una riflessione congiunta partendo dalla constatazione che le assemblee elettive in linea generale favoriscono la rappresentanza politica, ma non assicurano la certezza dei tempi delle decisioni. La proposta fu accolta con grande interesse: per la prima volta consigli comunali, provinciali e regionali e Parlamento avrebbero avuto l'opportunità di mettere a confronto il proprio modo di lavorare.
L'idea di avere una sede in cui affrontare il tema del funzionamento delle assemblee elettive con l'obiettivo di migliorarne la funzionalità era sicuramente interessante e meritevole del massimo impegno. Immediatamente l'UPI, attraverso la commissione dei presidenti dei consigli provinciali, dette inizio ad un impegnativo programma di lavoro.
È stato elaborato un documento in dieci punti, che è servito come base di discussione per tutti i consigli provinciali. A conclusione delle riunioni è stato organizzato nel mese di marzo a Crotone un seminario nazionale, i cui atti sono sicuramente un utile contributo di approfondimento. La partecipazione e l'interesse che abbiamo notato in questi mesi intorno al ruolo delle assemblee elettive dimostrano che siamo in presenza di una fase nuova rispetto al recente passato. Credo tuttavia sia utile procedere con ordine, esponendo alcune considerazioni che sono state alla base delle nostre riflessioni.
I consigli provinciali, come del resto quelli comunali, negli ultimi anni sono stati oggetto di radicali riforme. Le leggi nn. 142 e 81 ne hanno modificato profondamente funzioni e poteri; a differenza del Parlamento e dei consigli regionali, i consigli provinciali e comunali hanno subito un forte ridimensionamento del potere deliberativo. I consigli provinciali dopo le riforme hanno ridotto l'attività deliberativa del 90 per cento: mentre prima del 1990 essi deliberavano praticamente su tutto, dalle minute spese agli atti più importanti, oggi essi hanno competenza solo sugli atti fondamentali.
Oltre all'attività deliberativa esercitano, come è noto, anche funzioni di indirizzo politico-amministrativo e di controllo. Da ciò consegue una diversità importante fra le assemblee legislative e quelle amministrative in ordine all'argomento della democrazia decidente. Questo tema è sicuramente di grande attualità per il Parlamento e lo sarà anche per il futuro, almeno fino a quando le competenze legislative resteranno invariate e non sarà attuato il processo di delegificazione e di trasferimento delle competenze alle regioni e agli enti locali e finché il numero dei parlamentari rimarrà così elevato come oggi.
I consigli provinciali, mentre prima delle riforme soffrivano sicuramente di elefantiasi ed accumulavano enormi ritardi nell'attività deliberativa, oggi riescono a licenziare gli atti in tempi sufficientemente rapidi. Ciò non esime comunque dalla necessità che i regolamenti debbano prevedere tempi certi per l'approvazione degli atti, che hanno riflessi sulla vita, sul lavoro e sugli interessi dei cittadini.
Più che sui tempi delle decisioni i consigli provinciali si interrogano oggi su quale debba essere il loro ruolo; mentre risulta più chiara e definita la funzione delle assemblee legislative, quella dei consigli comunali e provinciali appare più incerta, anche a causa delle profonde modificazioni prodotte dalle riforme.
Il ruolo dei consigli, nel corso di questi ultimi anni, è apparso sempre più marginale forse perché essi sono stati visti come l'espressione dei partiti in un momento in cui i partiti venivano accomunati all'idea di malgoverno, di corruzione, di strapotere. Quasi in opposizione al sistema dei partiti è stata introdotta l'elezione diretta dei sindaci e dei presidenti delle province, mentre i consigli - per l'opinione pubblica - continuavano a rappresentare in qualche modo il vecchio.
Al di là delle effettive competenze, agli occhi dei cittadini chiamati per la prima volta ad eleggere direttamente il sindaco ed il presidente della provincia, il vincitore delle elezioni è apparso come l'unico detentore del potere. Se agli effetti dell'elezione diretta si aggiungono quelli della

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riduzione dei poteri deliberativi, tenuto presente che nella nostra cultura ha sempre avuto molta più importanza il potere di approvazione di singoli provvedimenti legati a situazioni specifiche rispetto a quelli di carattere programmatorio e generale, si comprende come i consigli così riformati apparissero privi di qualsiasi importanza.
Non è stato facile, in questi anni, navigare controcorrente, affermando da un lato la giustezza delle riforme e dall'altro l'importanza del ruolo del consiglio. Alla luce dell'esperienza, siamo convinti che oggi si sia raggiunto un giusto equilibrio tra le funzioni dei consigli e quelle degli esecutivi. Diciamo questo tenendo ben presente il doppio ruolo che debbono svolgere le istituzioni locali: quello di rappresentanza della volontà e degli interessi dei cittadini e quello di amministrazione pubblica e di fornitura di servizi. Prima del 1990 prevaleva sicuramente il ruolo della rappresentanza politica a scapito della funzionalità dell'azione amministrativa. Le riforme hanno finalmente modificato una situazione, che era divenuta insostenibile, di paralisi delle decisioni e di inefficienza dei servizi: consigli provinciali e comunali che arrivavano alla fine della legislatura - lo ricordiamo tutti - con decine e centinaia di atti deliberativi iscritti all'ordine del giorno e non approvati, lasciati in pesante eredità ai nuovi consigli, non davano certo una buona immagine. In quella situazione prevalevano sicuramente le schermaglie ed i giochi politici, il potere di ricatto, a volte, del consiglio nei confronti dell'esecutivo. Poiché anche la gestione dei servizi era legata ai numerosi atti che il consiglio doveva approvare, non poteva non risentire pesantemente degli umori e delle situazioni politiche contingenti, presentando un livello di efficienza generalmente basso.
Le riforme hanno finalmente messo più ordine, separando la gestione e l'amministrazione attiva dalla fase del dibattito e delle decisioni politiche. Si è assegnata all'esecutivo la responsabilità politica della gestione, mantenendo al consiglio gli indirizzi politici, la potestà regolamentare, il controllo e l'approvazione degli atti fondamentali.
Il clima nuovo, del quale parlavo in precedenza, è riferito al fatto che sembra superata la fase in cui fra i rappresentanti degli esecutivi e quelli delle assemblee elettive vi era una situazione di conflitto e di divisione tra gli uni che si dichiaravano sostenitori dell'efficientismo e del decisionismo, quindi a favore del riconoscimento di maggiori poteri all'organo monocratico direttamente eletto, e gli altri che chiedevano una maggiore attenzione alla funzione della rappresentanza politica ed ai temi delle garanzie. La contrapposizione, a volte esplicita e più spesso implicita, ha fatto da sottofondo ai dibattiti di questi anni, interessando trasversalmente tutte le aree politiche. Il coordinamento dei presidenti dei consigli comunali e provinciali è nato proprio nel vivo di tale dibattito come strumento di difesa delle funzioni dei consigli.
Oggi, dopo qualche anno di esperienza e di attività concreta, le discussioni sono divenute meno ideologiche e più aderenti alla realtà. Da una parte si è compreso che le istituzioni democratiche, in quanto costituite dai rappresentanti direttamente eletti dai cittadini, sono portatrici di valori e di interessi che non possono essere in alcun modo delegati né tanto meno soppressi. L'organo monocratico, anche direttamente eletto, non potrà mai sostituire nelle funzioni l'assemblea, che è espressione dell'intero corpo elettorale. I poteri dei consigli non possono essere ridotti oltre un certo limite, pena lo stravolgimento dei principi sui quali si basa la democrazia nel nostro paese. Dall'altra parte si è capito che le assemblee elettive debbono guadagnarsi la legittimazione ed il consenso dei cittadini attraverso il lavoro quotidiano. Se le assemblee sono inefficienti, rimangono tali nonostante l'elezione popolare; l'elezione popolare di per sé non legittima un'assemblea incapace di discutere proficuamente, di decidere e di rispondere tempestivamente ai bisogni delle comunità locali. Di fronte all'esperienza del passato in cui le assemblee

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sono state spesso luogo di interdizione, come si diceva, più che di proposta, si deve assumere con molto senso di responsabilità l'obiettivo di una rilegittimazione delle assemblee. Rilegittimazione significa riconquistare la fiducia dei cittadini e il necessario prestigio nell'opinione pubblica. Ciò lo si potrà ottenere mantenendo alto il livello del confronto politico partecipando attivamente e con impegno ai lavori del consiglio, tutelando adeguatamente i diritti delle opposizioni, rispettando il diritto delle maggioranze a portare avanti il programma amministrativo voluto dagli elettori. Rilegittimazione significa anche riconquistare autorevolezza nei luoghi dove si opera.
I consigli devono godere di autonomia nello svolgimento della propria attività; devono poter contare su personale amministrativo qualificato; devono garantire ai gruppi consiliari servizi adeguati; devono poter fornire ai consiglieri gli strumenti operativi per esercitare compiutamente il loro mandato. Per fare ciò i consigli devono avere la propria autonomia funzionale ed organizzativa, devono poter contare su mezzi e risorse, non devono rimanere subordinati alle scelte degli esecutivi.
A tale proposito esprimiamo soddisfazione per il fatto che questi principi comincino ad affermarsi nel disegno di legge del ministro Napolitano, in discussione qui alla Camera, che ci auguriamo venga approvato quanto prima con le modifiche richieste.
Un consiglio efficiente ed autorevole, in grado cioè di assicurare, da una parte, piena espressione delle posizioni e delle proposte e, dall'altra, tempestività e qualità delle decisioni è l'obiettivo che noi ci proponiamo di raggiungere.
Il tempo assegnatomi non mi consente di soffermarmi su alcuni punti che riteniamo importanti per il funzionamento delle assemblee elettive; altri consiglieri provinciali interverranno dopo ed entreranno nel merito. Mi avvio pertanto a concludere.
Il clima di maggiore attenzione che si avverte nei confronti delle assemblee elettive è certamente dovuto al fatto che oggi siamo in presenza di una riflessione più attenta sul ruolo dei partiti e delle istituzioni, favorita anche dal dibattito che nel Parlamento e nel paese si è aperto sulle riforme costituzionali. Tale dibattito ha costretto un po' tutti a scavare più in profondità sui principi e sui valori che sono alla base delle nostre istituzioni democratiche e ci ha aiutato a superare qualche eccesso di schematizzazione che aveva caratterizzato la fase precedente.
Credo però che un merito importante sia da attribuire anche all'iniziativa del Presidente Violante. Da settembre, da quando si è deciso di dar vita a questo forum, si sono moltiplicate le occasioni di confronto e di riflessione; molti consigli provinciali e comunali hanno discusso insieme agli esecutivi; le forze politiche si sono sentite maggiormente coinvolte cominciando a superare un atteggiamento di disinteresse e di freddezza. Le associazioni degli enti locali (ANCI e UPI) hanno attivato le proprie strutture recuperando sul tema delle assemblee un'attenzione ed un impegno molto importanti. Di ciò credo sia giusto ringraziare il Presidente Violante, a cui vorrei rivolgere un invito. Il lavoro fatto in questi mesi, che oggi trova il suo apice in quest'Assemblea non dovrebbe andare disperso e pertanto sono perfettamente in sintonia con quanto lei, Presidente, ha detto all'inizio.
Il gruppo che ha lavorato sino ad oggi, coordinato da lei, dovrebbe impegnarsi ulteriormente per cercare di cogliere dal dibattito, dalle relazioni e dal molto materiale che è stato prodotto gli elementi per elaborare quei principi comuni e condivisi per il funzionamento delle assemblee, che era l'obiettivo che ci eravamo prefissi. Grazie (Applausi).

PRESIDENTE. La ringrazio, presidente Scalise.
Ora sarebbe il turno di Daniela Lastri, coordinatrice nazionale dei presidenti dei consigli comunali (ANCI), la quale mi pare abbia ceduto il suo «posto» (non so se si possa dire «cavallerescamente») ad Enzo Bianco.

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È quindi iscritto a parlare Enzo Bianco, presidente dell'ANCI. Ne ha facoltà.

ENZO BIANCO, Presidente dell'ANCI. Presidente, mi consenta anzitutto di esprimere un ringraziamento doveroso a lei e al presidente Lastri che ha così cortesemente tenuto conto di un'esigenza della associazione da me presieduta.
Vorrei ricordare, Presidente, che proprio a Bari, a settembre dell'anno scorso, durante un'interessante iniziativa alla quale ella ha partecipato (ricordo che era presente anche il capogruppo di alleanza nazionale, l'onorevole Tatarella), nell'imminenza del suo intervento nella seduta inaugurale dell'assemblea nazionale dell'ANCI, fu comunicata per la prima volta questa iniziativa alla quale abbiamo lavorato tutti insieme con grande disponibilità in questi mesi e che oggi ha questo momento solenne e di grande importanza.
Vorrei, Presidente, unirmi anch'io all'apprezzamento rivolto dagli altri colleghi all'iniziativa, che giudico di grande rilievo e di notevole contenuto, attenendo ad un tema essenziale per lo sviluppo della nostra democrazia.
Ricordo, anche se è superfluo (ma intendo rivolgermi in particolare a tutti coloro i quali non appartengono al mondo delle amministrazioni comunali), che l'ANCI, l'associazione che ho l'onore di presiedere, è un organismo che, ormai da cento anni, rappresenta i comuni d'Italia e non, come purtroppo talvolta appare, anche per effetto delle semplificazioni giornalistiche, l'associazione dei sindaci italiani. Dell'ANCI fanno parte, ovviamente, le municipalità e, per esse, negli organismi direttivi, insieme a molti sindaci, sono presenti presidenti di consigli comunali e consiglieri. Al nostro interno, inoltre, opera, con straordinaria efficacia e grande competenza, una consulta dei presidenti dei consigli comunali.
Tale organismo ha di recente tenuto a Roma un'importante assemblea sui temi oggi al centro della nostra attenzione; sulle risultanze di tale assemblea riferiranno la dottoressa Lastri ed altri colleghi. Per quanto mi riguarda, mi limiterò a svolgere brevi considerazioni, facendo riferimento all'esperienza che abbiamo maturato nell'ambito dell'associazione. Non vi è dubbio che la legge sull'elezione diretta dei sindaci e dei presidenti delle province, approvata da questo Parlamento nel 1992, abbia avuto un ruolo fondamentale e ampiamente riconosciuto nel processo di messa in moto di una democrazia malata. Credo che, senza enfasi e senza alcuna sopravvalutazione, si possa dire che è rinato un rapporto di crescente fiducia fra istituzioni e cittadini, in quel livello nel quale queste due realtà sono più vicine, quindi nelle amministrazioni comunali, nelle città, nei comuni piccoli, medi e grandi e, naturalmente, nelle province italiane.
All'indomani della grande crisi del sistema politico italiano del 1992-1993, il rapporto tra istituzioni e cittadini è rinato proprio in questi ambiti. Tale rapporto ha creato segni evidenti di fiducia non tanto sotto il profilo dei sondaggi, della popolarità o delle passerelle sotto i riflettori quanto, piuttosto, in quello che è uno degli strumenti di misura di ciascuna democrazia, cioè nelle elezioni. A tale riguardo, vorrei sottolineare una personale interpretazione dei risultati delle elezioni amministrative. Il fatto che nella maggior parte dei casi i sindaci eletti direttamente dal popolo siano stati riconfermati con un ampio consenso, indipendentemente dal potere politico e spesso addirittura in contrapposizione, anche netta, con le tendenze politiche del luogo, significa che la cittadinanza ha apprezzato il segnale di grande novità maturato in questi anni, sia pure in una situazione di difficoltà.
Se questo è vero, Presidente, non sarebbe giusto non tenere conto di come, in una fase di profondo rinnovamento del funzionamento della democrazia, ci sia stata, soprattutto nel primissimo periodo, ma anche dopo, una certa difficoltà di rapporti tra sindaco e giunta, da una parte, e consigli comunali, dall'altra. Tale difficoltà è stata vissuta e si è manifestata anche sulla base di quella che talvolta è

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stata conflittualità e talaltra insofferenza. Ho ascoltato qualche volta alcuni colleghi sindaci esprimere in modo assolutamente inaccettabile questa insofferenza, nel momento in cui gli stessi hanno sottolineato la scarsa utilità del ruolo del consiglio comunale o, addirittura, la possibilità di saltarne, più o meno a pie' pari, i passaggi fondamentali. Tale atteggiamento comporta un rischio evidente; proprio nel momento in cui vengono elevati i poteri e le responsabilità del sindaco eletto direttamente, vi deve essere un contrappeso forte perché la democrazia possa evitare quella deriva plebiscitaria che anche in un microcosmo qual è l'ambito comunale, anche quando questo sia abbastanza ampio, potrebbe innescarsi.
Sotto un diverso profilo debbo dire, con altrettanta franchezza, che qualche volta ho sentito, da parte di singoli consiglieri comunali - più raramente da parte dei presidenti dei consigli comunali - una qualche nostalgia del bel tempo antico, quando tutte le decisioni amministrative passavano dal consiglio comunale e la partecipazione alle decisioni normalmente comportava una qualche partecipazione a un esercizio del potere non sempre del tutto limpido, almeno dal punto di vista politico.
Oggi credo che occorra superare questa fase. Secondo noi l'evoluzione della legislazione può andare in questa direzione, ma è necessario anche l'esercizio di quella forma importante rappresentata dalla responsabilità, dall'autodisciplina, dagli indirizzi, dalla maturazione, perché non sempre dobbiamo aspettarci che il Parlamento nazionale o i consigli regionali legiferino per noi in quest'ambito. È possibile andare anche in una direzione - ecco il senso profondo dell'iniziativa della quale la ringraziamo, Presidente - che preveda una più accentuata differenziazione delle attribuzioni degli organi amministrativi a livello comunale e dell'organo assembleare del consiglio.
Sotto questo profilo, intravedo un problema, ma non di tipo quantitativo: il problema non attiene al numero delle competenze, ma è, prevalentemente, di natura qualitativa. Il ruolo dei consigli comunali e della loro specificità è, come veniva ricordato limpidamente e lucidamente, di indirizzo, di controllo e di partecipazione a tutte le grandi scelte che riguardano la comunità. E quando dico ciò mi riferisco a tutte le grandi scelte dove è assolutamente necessario ed indispensabile, anche se si tratta di funzioni di governo, che la partecipazione di un organismo rappresentativo delle varie realtà presenti abbia la possibilità di operare queste grandi scelte. Occorre quindi evitare di andare verso un impoverimento dei poteri dei consigli comunali; bisogna evitare di seguire la strada sbagliata della confusione dei ruoli, cioè dell'attribuzione al consiglio comunale di competenze che riguardano gli aspetti organizzativi o quelli di stretto carattere amministrativo. Se abbiamo chiara questa direttrice di marcia, credo che al nostro interno si possa trovare un utile equilibrio.
Si tratta di valorizzare il ruolo della conferenza dei capigruppo e di far sì che l'organo del consiglio comunale sia messo in condizione di operare effettivamente. È questo il senso delle proposte e degli emendamenti che abbiamo elaborato e che l'ANCI insieme alla sua consulta presenta nel dibattito parlamentare. Si tratta di alzare la capacità di pianificazione dei lavori delle assemblee dei consigli e di fare accrescere la partecipazione delle minoranze anche alla determinazione del tempo e dell'ordine del giorno, secondo il modello a cui vi siete ispirati nella recente, importante riforma dei regolamenti; di prevedere la dotazione di strutture tecnologiche, finanziarie e umane per consentire ai consigli comunali di operare effettivamente, evitando - per cortesia - di trasformare il presidente del consiglio comunale in un altro organo di spesa o nel decimo, dodicesimo o quindicesimo assessore, in quanto ciò non va nella direzione che auspichiamo. Infine, bisogna rispettare rigidamente il time prefissato, in modo da arrivare comunque ad una decisione. Se a ciò non si giunge, signor Presidente, è inevitabile che poi si

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seguano percorsi di tipo diverso, con formule che prevederanno, necessariamente, l'aggiramento evidente della centralità del ruolo del consiglio comunale.
Se di tutto questo ci rendiamo conto, indipendentemente dalle maggioranze, credo che avremo fatto qualcosa di importante. Non possiamo aspettarci, Presidente Violante, che questo ci arrivi sempre da leggi. Da qui il senso dell'iniziativa, che ancora una volta voglio sottolineare, che oggi vede partecipare, a questo importante momento, tutti i rappresentanti non solo dell'assemblea ma dei momenti in cui si decentra tutto questo.
Dopo una fase importante della vita delle amministrazioni locali, comunali e provinciali, c'è bisogno, per dire una parola conclusiva, di una seconda fase in cui, usciti dalla logica dell'emergenza, impostati i grandi progetti per il governo delle nostre comunità locali, provinciali e regionali, si abbia la possibilità di adottare tutte quelle decisioni strategiche - per usare un'espressione abusata - che possano realmente cambiare il volto progettuale delle nostre città, per le quali queste decisioni importanti non possono che essere adottate dai nostri consigli.
Ci aiuta molto l'ipotesi di documento unitario alla quale si è lavorato ed a cui anche noi abbiamo dato il nostro modesto contributo. Credo sia molto importante che, all'indomani di questo convegno, negli 8.103 comuni d'Italia, da quelli più piccoli di cento abitanti, a quelli più grandi, da quelli del nord a quelli del sud, retti da sindaci della lega, del centrosinistra o del centrodestra, si abbia questa comune consapevolezza, per la quale ci aiuta molto, come dicevo, il lavoro che è stato portato avanti in questa sede. Di questo, Presidente, mi consenta di ringraziarla.
Per un brevissimo periodo - forse lo ricorderà - sono stato membro di questa Assemblea legislativa, che ho lasciato per essere eletto sindaco di una grande città del sud. Il fatto di sentire oggi, grazie anche a questa iniziativa, più facilmente raggiungibili quegli obiettivi di profonda trasformazione del volto e della realtà della mia città mi consente di dire che questa è per me un'esperienza altamente positiva (Applausi).

PRESIDENTE. La ringrazio, sindaco Bianco.
È iscritto a parlare Andrea Riccardi, per l'Accademia di studi storici Aldo Moro. Ne ha facoltà.

ANDREA RICCARDI, per l'Accademia di studi storici Aldo Moro. Signor Presidente, una riflessione sulle assemblee elettive italiane mi porta a ritornare sulla figura di Aldo Moro, una delle personalità decisive dell'Assemblea costituente e della vita parlamentare. Sento l'esigenza di richiamare rapidamente qualche virtù, se così posso esprimermi, di questo grande parlamentare che seppe misurarsi con le istituzioni parlamentari e con la società civile del nostro paese. Infatti, negli anni trascorsi ed anche prima di quel tragico maggio, Aldo Moro è stato oggetto di caricatura, di falsificazione. Egli sarebbe stato l'uomo del Palazzo chiuso, dei messaggi nebbiosi alla società civile, del parlare indecifrabile alla gente comune, alla fine, il leader del tutto mediare con la mancanza di coraggio dei princìpi e delle scelte.
La questione del coraggio è centrale e va posta, a mio avviso, proprio a partire da quei terribili giorni della detenzione di Moro ben lontano dal Parlamento.
Lei, onorevole Presidente, ha parlato di Moro come di una figura eroica della politica. Questa è una visione che contrasta alcune interpretazioni secondo cui Moro avrebbe ceduto alla logica dei carcerieri ed all'impulso di salvare la propria vita, un comportamento comprensibile dal punto di vista umano, ma non all'altezza di uno statista e, è stato detto, del martire cristiano o dell'eroe della Resistenza.
La documentazione a nostra disposizione - vorrei richiamarne anche la lettura fatta recentemente in un libro di Alfredo Carlo Moro - mette in luce la coscienza del prigioniero. Moro cerca in quei giorni di persuadere con la logica del discorrere, che è la logica che ha accompagnato

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il suo itinerario politico: persuadere, spiegare, più che gridare e costringere. Nulla di clamoroso dal punto di vista delle rivelazioni, anche se l'utilizzo di toni o aspetti clamorosi avrebbe potuto piacere ai brigatisti.
Nel discorrere di Moro non si trova lo spregiudicato e per alcuni aspetti non incomprensibile giocare il tutto per tutto. Quando scrive dal carcere Moro è diviso da un dissidio profondo con la maggior parte della classe politica italiana, forse tutta, perché lotta per giungere allo scambio di prigionieri. Senza isterie vuole salvare la sua vita per motivi personali, per la sua famiglia, per il contributo che vorrebbe ancora dare. Questa sua posizione si esprime in un coraggio tenace di discutere nel quadro di una situazione di cui non possiede tutti i termini (parla di notizie filtrate).
L'ultimo atto della vita di Moro rivela un aspetto, anche se espresso in condizioni veramente paradossali: lotta, discute in un dibattito serrato e nella grande solitudine del carcere, disperso nella foresta della città, mantiene equilibrio, lucidità, pur passando attraverso momenti cupi. Non si dispera di fronte a quella che definisce «una prova assurda e incomprensibile». Aldo Moro svela il fondamento ideale e cristiano del suo atteggiamento, vorrei dire della sua fiducia nella parola.
I carcerieri lo vedono chinato sulle pagine della Bibbia che ha chiesto e, caduto nella fossa, si mostra uomo di preghiera e di meditazione. Appare un uomo nella tormenta, mite e infine rassegnato di fronte all'esecuzione. «Ora, improvvisamente, quando si profilava qualche esile speranza» - scrive - «giunge improvvisamente l'ordine di esecuzione. Noretta dolcissima» - dice alla moglie - «sono nelle mani di Dio e tue». Sino alla fine crede che serva discutere.
Ne aveva fatto lo strumento peculiare della sua azione politica. È lo stile che lo fece notare, giovane, dai lavori della Commissione dei 75 alla Costituente. Lo accompagna nella vita politica e nell'aula parlamentare. C'è una fiducia nella parola che il giovane Moro aveva espresso in un articolo del 1945 parlando di «chi non si sente nemico in un mondo di nemici, ma uomo tra gli uomini in un'umanità che resta comune malgrado il dissenso». È una posizione morale che richiede coraggio. È la convinzione che la politica sia anche dibattito, idee, intuizioni degli orientamenti profondi della società. È questa forse la visione di un politico pretelevisivo, di ieri, con un linguaggio non comunicativo?
A me è sembrato importante, e per questo ho voluto dedicare a ciò il mio intervento e lo spazio di cui ringrazio, sottolineare la virtù di quel politico per cogliere come in ciò, anche oggi, stiano la forza ed il coraggio di una classe politica.
Per questo oggi, a partire dalla società civile, ho voluto guardare nuovamente a Moro e a quelle virtù che non considero tramontate. Attraverso queste virtù non solo si consente il funzionamento delle istituzioni, ma si realizza anche la connessione vitale con la società civile.
Due esempi mi sorgono alla mente. In un discorso del 1969, proprio dopo il '68, dopo quella affermazione tumultuosa, non facilmente gestibile dalla classe dirigente italiana di allora, una affermazione tumultuosa della società civile, al di là dei partiti e contro i partiti, una prima configurazione di altri avvenimenti diversi, ma in fondo collegati negli anni successivi, proprio dopo quel '68 Aldo Moro diceva: «L'accento si sposta dalla società politica alla società civile, nella quale si esprimono in larga misura il dibattito e il confronto. Ciò non può mettere in discussione peraltro il sistema democratico-parlamentare e con esso le forze politiche, chiamate ad operare una sintesi intelligente e responsabile nel tumulto degli interessi, degli ideali della vita sociale. Occorre armonizzare questi due dati: società politica e società civile».
Fin qui Moro e le sue parole di fronte a quel '68 e di fronte a quella iniziale crisi dei partiti e, direi, dei mondi politico-sociali come si erano configurati. Dove portava quel processo di articolazione

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della società civile che è uno dei tratti fondamentali, seppur contraddittori, della modernità del nostro paese?
Anche chi parla come uno tra tanti ricorda Aldo Moro di quegli anni, inquieto, curioso, muoversi interrogativo nel mondo giovanile e altrove di quegli anni, in maniera molto diretta e personale, come raramente allora si era visto fare tra noi e in quella generazione uno statista del suo livello.
Di fronte alle articolazioni della società, Moro ha espresso il coraggio e la disponibilità al nuovo, nella continuità profonda delle istituzioni democratiche. La sua immagine, a distanza di anni, emerge non come quella di un politico ripiegato sul proprio paese e sul proprio piccolo mondo.
Un secondo esempio: l'Europa. Per Aldo Moro, il discorso sulla società civile non degenera nel localismo o in un populismo tattico che vuol cogliere i rigurgiti della società, utilizzarli in maniera congiunturale. Per Aldo Moro, il richiamo all'Europa, che allora poteva apparire quasi rituale, rivela la coscienza che l'Italia non sarebbe stata una democrazia forte, forse una democrazia a rischio, se non si fosse ancorata saldamente a un quadro e ad una politica europea.
Oggi, a vent'anni dall'assassinio di Moro, si coglie bene come, al di là di un discorso doveroso sulle istituzioni, senza la virtù e senza il coraggio il rapporto con la società sfugge. Così è toccante risentire le parole di Aldo Moro quando, alla fine degli anni sessanta e sul sorgere dei difficili anni settanta, affermava: «Si affaccia sulla scena del mondo l'idea che, al di là del cinismo opportunistico, della stessa prudenza e dello stesso realismo, una legge morale, tutta intera, senza compromessi, abbia infine a valere e a dominare la politica, perché essa non sia ingiusta e neppure tiepida, ma intensamente umana». Grazie (Applausi).

PRESIDENTE. La ringrazio, professor Riccardi.
È iscritto a parlare Marcello Panettoni, presidente dell'UPI. Ne ha facoltà.

MARCELLO PANETTONI, Presidente dell'UPI. Onorevole Presidente, onorevoli parlamentari, amministratori locali e autorità, l'appuntamento che oggi ci vede in quest'aula riuniti a discutere della democrazia del nostro paese e del ruolo centrale che nel suo sviluppo hanno le assemblee elettive, dal Parlamento ai consigli regionali, provinciali e comunali, rappresenta, a venti anni dalla morte di Aldo Moro, che tanta parte ha avuto nell'arricchimento della democrazia italiana, un momento di alta riflessione politica ed allo stesso tempo un'occasione di crescita di tutte le istituzioni italiane.
Peraltro, è piena e ricca di significato la scelta del Presidente della Camera dei deputati, Luciano Violante, che ringrazio vivamente, di aver voluto estendere il confronto e l'approfondimento su questo tema ai rappresentanti degli altri livelli democratici della nostra Repubblica (regioni, province e comuni), soprattutto in una fase politico-istituzionale nella quale tutte le forze politiche e la stessa società civile sono impegnate in uno sforzo di adeguamento dell'impianto costituzionale sul quale si fonda l'unità del paese. Sforzo costituente che ci deve vedere tutti impegnati al raggiungimento dell'obiettivo di rifondare lo Stato su un sistema di autonomie territoriali come componenti essenziali, accanto alle autonomie sociali, di una concezione democratica dei pubblici poteri.
In questo senso, già l'articolo 5 della Costituzione ipotizza un'ampia valorizzazione del ruolo di ciascun livello di governi locali, di comuni, di province e di regioni, sulla base del principio di sussidiarietà, rispetto al quale dovrebbe fondarsi - e in questo senso riformuliamo qui il nostro auspicio - il nuovo rapporto fra Stato e comunità territoriali. Così come, in un sistema democratico, strettamente collegata con la riforma delle istituzioni è certamente la questione della riforma amministrativa, laddove l'amministrazione, come elemento essenziale dei pubblici poteri, è preposta a soddisfare concretamente un pubblico interesse. Riforma federale e riforma dell'amministrazione

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sono da considerare come profili coordinati di un unico processo riformatore.
In questo senso la legge delega n. 59 del 1997, sul decentramento amministrativo, ed il conseguente decreto legislativo n. 112 del 1998, recentissimamente emanato, rappresentano gli elementi decisivi per la costruzione di un credibile progetto di federalismo fondato sul superamento del centralismo amministrativo e burocratico e sulla ricomposizione dell'amministrazione operativa in capo alle autonomie territoriali sulla base di principi di sussidiarietà, di adeguatezza e di unicità dell'amministrazione.
Questo processo di ammodernamento e di innovazione dell'intero sistema amministrativo italiano, che ci si augura trovi coronamento nella riforma costituzionale, per quanto attiene agli enti locali e in particolare rispetto al ruolo delle assemblee elettive, può essere fatto sostanzialmente risalire alla legge n. 142 del 1990, concernente la riforma delle autonomie locali, i cui principi ispiratori ed i cui obiettivi di fondo sono tuttora validi e pienamente condivisi. Essa però ha trovato successivamente sviluppo in una serie di leggi di grande importanza e rilievo, prima fra tutte, ma non solo, la legge n. 81 del 1993, volta a disciplinare, in particolare, l'elezione diretta del sindaco e del presidente della provincia. Vi sono state poi altre leggi o decreti, come il n. 29 del 1993, sul pubblico impiego, il n. 77 del 1995, relativo alla contabilità comunale e provinciale, e infine le leggi n. 59 del 1997 e n. 127 del 1997, sulla semplificazione amministrativa nel rapporto tra gli organi di comuni e province ed il cittadino.
L'intero sistema delle amministrazioni locali è stato così sottoposto, negli ultimi anni, ad un importante processo di ammodernamento e di innovazione con l'obiettivo di rendere l'amministrazione stessa più efficiente e più vicina al cittadino, amministrazione non più in posizione autoritativa, sovraordinata e titolare di poteri imperativi, bensì amministrazione al servizio del cittadino, singolo o associato, al fine di tutelare e valorizzare la dignità della persona.
Questa evoluzione legislativa connotata, da un lato, dalla volontà di introdurre nuovi principi di funzionamento degli enti locali per accrescerne l'efficienza e la responsabilità e, dall'altro, da un potente rafforzamento del sindaco e del presidente della provincia ha di fatto avviato un processo di profonda trasformazione del ruolo delle assemblee elettive (tema specifico della riflessione odierna). L'evolversi effettivo dei rapporti fra sindaco o presidente della provincia e consigli alla luce dell'esperienza in corso, e soprattutto di quella che si andrà consolidando nei prossimi anni, deve comportare - a mio avviso - una riflessione sugli strumenti necessari per meglio far coesistere organi entrambi dotati di rappresentatività delle comunità locali e per conciliare i forti principi di responsabilizzazione del sindaco o presidente con quelli di rappresentanza collettiva del consiglio. Tutto questo nella determinazione delle scelte politico-amministrative fondamentali per il governo dell'istituzione, nella consapevolezza di come, in sede di espressione del voto popolare, il sistema elettorale oggi vigente pone il candidato presidente o il sindaco (sia pure in una diversa disposizione normativa) e la proposta programmatica in una posizione di traino rispetto alla composizione politica del consiglio, al fine di garantire una maggioranza stabile dell'esecutivo e determinare in questo modo una stabilità del governo locale (che era uno degli obiettivi fondamentali della legge n. 81 del 1993 e che l'esperienza di questi anni ci indica sostanzialmente raggiunto).
Ritengo che stia nell'intreccio intelligente, equilibrato e fecondo, tra la necessità di mantenere la validità del progetto politico, che lega nella legge elettorale provinciale, tramite il programma, il presidente della provincia e la sua maggioranza con la specificità e la differenziazione di ruolo e funzione dell'esecutivo e dell'assemblea, che va sviluppata un'attenta riflessione e ricerca che faccia emergere

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con chiarezza, pur all'interno di questo quadro politico di riferimento, lo specifico mandato istituzionale delle assemblee elettive in una democrazia decidente. È così necessario recuperare al meglio il filo conduttore del referendum abrogativo del giugno 1991 e della successiva legge n. 81 del 1993. Quel tema legato allo slogan «Un programma, una squadra, un candidato», la cui ispirazione era quella di porre al centro del confronto elettorale i programmi e le idee sulle quali chiamare al voto i cittadini e legare, attraverso il programma, sia il candidato alla carica di presidente che la maggioranza con lui solidale.
È questa la via per recuperare, attraverso una corretta riflessione sulla funzione del progetto politico del governo locale, anche un più equilibrato rapporto tra il presidente - espressione della maggioranza dei cittadini ma che tutti rappresenta una volta eletto - e l'assemblea consiliare, che per la sua composizione racchiude ed esprime tutte le posizioni politiche democraticamente espresse del voto popolare. È anche questa - mi si consenta di rilevarlo - la via per trovare un più equilibrato rapporto tra i due organi eliminando forme di eccessivo liberismo che, quando si manifestano, tendono a mortificare l'organo assembleare e che fortunatamente - su questo punto condivido l'opinione che tra i miei colleghi amministratori provinciali il presidente Scalise poc'anzi esprimeva - le ultime integrazioni legislative hanno finalmente portato ad avere un profilo istituzionale forte ed autorevole, incentrato sulla funzione di indirizzo, di controllo e di partecipazione democratica. Perciò, a fronte della riduzione del concorso deliberativo del consiglio alle attività gestionali che è stato più volte ricordato in questa sede, il rafforzamento del ruolo delle assemblee elettive non deve comportare un marginale potere di ratifica, ma il pieno concorso del consiglio alla definizione degli atti normativi e di quelli di indirizzo generale, con un più esplicito e garantito ruolo di controllo delle stesse opposizioni.
È necessario quindi immaginare in prospettiva futura una forte e più accentuata caratterizzazione del ruolo delle assemblee elettive locali, con un necessario rafforzamento della loro rappresentanza di espressione diretta del territorio e della comunità, in modo da equilibrare il potere degli organi di governo, cioè dell'esecutivo, assumendo così una maggiore capacità di confronto dialettico sulle grandi scelte con il presidente della provincia - nel nostro caso - o con il sindaco. È in tale prospettiva che le assemblee elettive devono caratterizzarsi in modo incisivo intorno a queste funzioni di indirizzo e di controllo con una alta capacità di proposta e di verifica politica, in sintonia con il lavoro di ricerca politica ed istituzionale che negli ultimi tempi si è sviluppato all'interno della nostra associazione e delle altre assemblee elettive della stessa società civile, passando per una fase anche di carattere conflittuale ma che oggi ha trovato approdi largamente unitari e condivisi.
Sono queste le ragioni che hanno portato la nostra associazione ad accettare e a condividere rapidamente la proposta da lei avanzata, signor Presidente, di organizzare un forum nazionale delle assemblee elettive e di partecipare attivamente al loro sviluppo ed allo sviluppo di una riflessione sui temi della democrazia decidente che tanta parte sono della riflessione politica complessiva del nostro paese oggi (Applausi).

PRESIDENTE. È iscritta a parlare Daniela Lastri, coordinatrice nazionale dei presidenti dei consigli comunali (ANCI). Ne ha facoltà.

DANIELA LASTRI, Coordinatrice nazionale dei presidenti dei consigli comunali (ANCI). Presidente, colleghi, desidero richiamare la vostra attenzione su alcuni aspetti che a mio avviso sono di una certa attualità nel dibattito sulle assemblee elettive locali, aspetti che emergono in gran parte dalla esperienza pratica che viviamo, e che per semplicità e chiarezza riassumo in poche affermazioni.

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I consigli comunali e le assemblee elettive delle istituzioni locali sono decisivi per il funzionamento e l'esistenza stessa di una vera democrazia. Penso infatti che sia ancora valido il principio secondo li quale la democrazia è vitale se esistono forti assemblee elettive e se queste sono diffuse in modo tale che i bisogni della società possano trovare effettiva rappresentanza. È principalmente nelle assemblee elettive che, attraverso il confronto tra maggioranza e minoranza, si rendono chiare, trasparenti e controllabili dai cittadini le scelte che si compiono nella comunità. Avere forti consigli comunali vuol dire assicurare lo svolgersi di una politica di alto livello. Uso il termine «forti» volendo riferirmi ad una dimensione di sistema. La forza di una istituzione, infatti, non è data dalla quantità di cose di cui deve occuparsi. La forza di una istituzione è prevalentemente un valore di qualità. Forza e qualità si misurano, però, nell'autonomia: l'autonomia esterna richiama la capacità di una istituzione rappresentativa di sviluppare un proprio indirizzo politico rispetto ad altri livelli istituzionali; l'autonomia interna richiama la necessità che l'assemblea elettiva abbia una propria sfera di azione rispetto agli altri organi della stessa realtà istituzionale, cosicché sia realizzato un vero equilibrio dei poteri locali.
Nel corso dell'esperienza di questi ultimi anni, il sistema concepito con la legge n. 142 e con la legge sull'elezione diretta del sindaco ha manifestato in più occasioni alcune forti tensioni. Esse mi sembrano riassumibili nella difficoltà di assimilare i nuovi rapporti istituzionali da parte dei diversi protagonisti, partiti politici ed assemblee elettive, giunte e sindaci; in generale, le difficoltà sono state vissute con uno stato di sofferenza solo in parte prevedibile. Visti con il giusto distacco, i conflitti a cui abbiamo assistito hanno in sé molto di fisiologico; occorre però mettere in luce anche ciò che di patologico è emerso e come questo possa aprire la strada ad errori sul ruolo che devono giocare i vari protagonisti politici.
Le più recenti riforme dell'ordinamento degli enti locali evidenziano luci ed ombre nella visione che il legislatore nazionale ha delle assemblee elettive locali. Il legislatore nazionale mi sembra afflitto da un certo strabismo: non riuscendo a risolvere il tema della governabilità del sistema centrale, appare decisamente favorevole alle più audaci semplificazioni del sistema locale, come se in alcuni momenti si convincesse che la democrazia debba degradare sempre più man mano che dal centro ci si sposta nella periferia del sistema democratico. Il risvolto positivo di questa tendenza, ma per la verità si potrebbe trovare un'origine più nobile, è l'esatta percezione della distinzione tra politica e gestione, che non a caso ha conosciuto gli sviluppi più avanzati proprio nelle realtà locali, mentre ha stentato a diffondersi nell'apparato statale. Il risvolto chiaramente negativo è invece quello di assecondare a livello locale una visione ristretta della politica, come se non vi fosse alcun bisogno di far esprimere la rappresentanza politica e il pluralismo a livelli che vengono, a mio avviso non correttamente, ritenuti di mero rilievo amministrativo-gestionale.
La verità, invece, è che quando si spostano (giustamente) i poteri a livello locale, allora la politica locale deve avere un peso maggiore e dunque maggiore attenzione va prestata al sistema della rappresentanza. Insomma, se il potere si sposta e si avvicina ai cittadini, questi ultimi hanno diritto ad una maggiore capacità di scelta politica e dunque ad istituzioni politiche locali più complesse e democraticamente compiute. Del resto, sia i principi costituzionali, sia l'intensificarsi del processo di autonomia, sia il modo di essere dei partiti italiani ci dicono che nel nostro paese non può aversi compiuta democrazia senza l'esistenza, il buon funzionamento, l'autorevolezza delle assemblee elettive locali, soprattutto quelle comunali ed anche quelle provinciali.
Queste affermazioni generali mi servono per tentare di rappresentare quanto più concretamente possibile i problemi che stiamo affrontando nelle realtà locali

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e nelle nostre strutture associative. Vorrei anzitutto dire che il passo fatto negli ultimi anni verso il sistema maggioritario e l'elezione diretta del sindaco è stata una risposta giusta allo svilimento ed in alcuni casi alla degenerazione a cui è arrivata la politica locale. Bisognava cioè creare le condizioni per la rigenerazione della politica locale, delle sue istituzioni, dei suoi partiti. Credo che questi obiettivi vadano riconfermati senza esitazioni o ritorni indietro ed oggi di fronte a noi sta la necessità di fare decisamente un altro passo in avanti, in direzione della valorizzazione delle assemblee elettive comunali e locali.
Forti consigli comunali, infatti, possono aiutare tutto il processo democratico ed evitano una cattiva riduzione della complessità sociale e politica. Poiché la stabilità dei governi locali può dirsi sostanzialmente raggiunta, è ad altro che possiamo e dobbiamo pensare: alla qualità delle nostre assemblee elettive, alla qualità delle giunte, allo svolgersi corretto delle relazioni fra gli organi, al rafforzamento della democrazia decidente e dell'alternanza.
Per realizzare questo obiettivo vi è bisogno di alcune cose irrinunciabili. C'è bisogno di una soglia minima di funzioni pregiate da esercitare, al di sotto della quale le assemblee elettive non possono andare; sono le funzioni normative e di programmazione (anche territoriale), di indirizzo e di controllo. C'è poi bisogno di assicurare ai consigli comunali una effettiva possibilità di funzionamento e ai singoli consiglieri un nucleo essenziale di poteri e di facoltà, che consentano il pieno dispiegarsi della propria iniziativa. C'è infine la necessità di organizzare la dialettica maggioranza-minoranza attraverso qualche forma di loro istituzionalizzazione, che assicuri alla collettività locale l'esatta percezione dell'azione sia della maggioranza sia dell'opposizione. Ma bisogna con altrettanta sincerità guardare in faccia i problemi che sono venuti emergendo, primo tra tutti la gestione delle relazioni tra gli organi del comune. Consigli comunali vuoti perché non in grado (o non messi in grado) di partecipare alle decisioni che invece spettano loro, conflitti latenti tra maggioranze e giunte, rifugio delle minoranze nell'ostruzionismo sono le patologie cui bisogna fare fronte con la legge e con i regolamenti, ma anche con la battaglia culturale di fondo verso comportamenti negativi che hanno più di una origine. Proviene dall'esterno dei consigli quell'insofferenza degli organi di governo del comune che si riassume nel fastidio verso l'obbligo di affrontare il dibattito e la decisione consiliare. Così è radicata l'abitudine di arrivare alla discussione consiliare all'ultimo momento e di far prevalere il prendere o lasciare. Attraverso l'affermarsi di questa concezione i consigli possono essere ridotti a mere appendici degli organi di governo. Altre conseguenze negative provengono invece dall'interno dei consigli. Certo, si fa quel che si può con i mezzi a disposizione e con i tempi di una politica fatta prevalentemente da non professionisti; eppure non può soddisfarci una certa propensione all'interdizione, all'ostruzionismo di maggioranza o di minoranza, che aleggia magari come risposta ai difetti di impostazione degli organi di governo. Questo non aiuta a fare affermare l'autorevolezza dei consigli, in gran parte legata al metodo della democrazia decidente. Lo stesso avviene per la ricorrente propensione al dibattito politico generico. Non possiamo rassegnarci, dunque: il dibattito politico, anche su eventi che vanno oltre i confini del comune dobbiamo farlo vivere con regolarità e con concentrazione. La rappresentanza delle comunità locali è infatti una cosa molto complessa ed i consigli devono farsi carico delle attese che emergono dalla società, anche perché questo è il miglior modo per rendere chiaro il conflitto, dargli voce e rappresentanza, farlo vivere come un evento fisiologico. Per contro, non possiamo tacere che il cuore dell' attività dei consigli (l'attività normativa, l'esercizio del controllo, l'elaborazione degli indirizzi) ci chiama tutti ad un salto di qualità. Una certa preferenza a stare a rimorchio delle giunte, magari per denunciare questa o quella

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singola insufficienza o carenza dell'amministrazione, è una tentazione fortissima, spesso sostenuta dalla voglia di rimettere le mani nei fatti di gestione. Però, dobbiamo saperlo, questo modo di vedere le cose non ci aiuta ma soprattutto non aiuta i cittadini a riconoscere con chiarezza un'istituzione rappresentativa forte, adeguata, nella quale confidare come luogo di elaborazione e decisione dei più importanti indirizzi che riguardano la comunità.
Infine è necessario richiamare il tema della riforma della legge n. 142, tema assai importante poiché la stagione delle riforme della pubblica amministrazione e la piena attuazione del processo di decentramento dei poteri verso le regioni e gli enti locali impongono uno svolgimento credibile e coerente del sistema politico e istituzionale affermatosi con l'elezione diretta dei sindaci. A tale processo devono infatti partecipare istituzioni rappresentative forti e in grado di sostenere il cambiamento. È un tema che abbiamo posto anche di recente in un incontro generale dei consigli comunali tenutosi poco più di un mese fa. Senza ripercorrere il ragionamento che sottende alle nostre proposte (coerenza del sistema delle fonti e dell'autonomia statutaria e regolamentare; necessità di confermare in legge l'autorganizzazione dei consigli; critica alla nuova disciplina delle nomine), vogliamo sottolineare invece che è da respingere sia un ritorno a funzioni di amministrazione attiva dei consigli, sia la tendenza a dequalificarne il ruolo a vantaggio delle giunte. Lo stesso tema delle garanzie delle minoranze, se non vuole essere un ritorno ad antichi consociativismi deve essere affrontato in una prospettiva nuova e più matura, nella quale si salvaguardino insieme tre esigenze: il buon funzionamento dei consigli nell'attività normativa di indirizzo e di controllo (esigenza che riguarda insieme sia le maggioranze sia le minoranze); gli spazi garantiti alle minoranze per rendere evidente alla pubblica opinione la qualità della proposta alternativa; gli spazi garantiti alle maggioranze per l'elaborazione dell'indirizzo politico di governo.
Esistono, in sostanza, le condizioni per affrontare seriamente il tema dello statuto delle minoranze e della maggioranza, sempre secondo i principi di una democrazia decidente e dell'alternanza.
Non vedo altre strade per migliorare il nostro sistema democratico locale e confermare il ruolo essenziale nell'edificio democratico del nostro paese. La prospettiva che mi sento di sostenere non mi sembra del resto più complicata di quelle che solo apparentemente propongono scorciatoie semplificanti; non c'è in questo alcun gusto della complessità: c'è però - questo sì - una forte tensione verso il cambiamento, la convinzione delle ragioni superiori della democrazia e la voglia di fare qualcosa di veramente utile e duraturo per le nostre istituzioni (Applausi).

PRESIDENTE. Prima di dare la parola al presidente Amati, vorrei fare il punto della situazione: siamo in ritardo di 55 minuti rispetto al programma che avevamo prefissato, e per certi aspetti è anche giusto che sia così. Propongo quindi di concludere questa sera i nostri lavori alle ore 19, con l'intervento della presidente del consiglio regionale dell'Emilia Romagna, e di riprenderli domani mattina alle 9,15, per proseguire fino alle 10,15-10,30. A quel punto, sospenderemo i lavori e li riprenderemo alle 11 alla presenza del Capo dello Stato.
Resta quindi inteso che questa sera concluderemo i nostri lavori alle 19, per riprenderli domani mattina, anche perché abbiamo avuto una giornata di lavoro abbastanza intensa ed è quindi bene riflettere su quanto ci siamo detti.
Inoltre, in omaggio al principio della democrazia decidente che ispira i nostri lavori, mi autorizzerete ad essere un po' più rigoroso nel contenimento dei tempi; mi permetterò quindi di richiamare gli oratori al rispetto dei tempi, come si fa in genere nelle aule di cui voi fate parte e che presiedete.

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È iscritta a parlare Silvana Amati, presidente del consiglio regionale delle Marche. Ne ha facoltà.

SILVANA AMATI, Presidente del consiglio regionale delle Marche. Signor Presidente della Camera dei deputati, rappresentanti delle regioni e delle altre autonomie repubblicane, deputati e senatori, in qualità di presidente del CESAR, il Centro studi delle assemblee legislative regionali, ho avuto modo di seguire il dibattito che ha condotto al positivo lavoro della Commissione bicamerale e poi alle prime, ancora migliorative conclusioni in aula, alla Camera dei deputati, sui temi della rappresentazione costituzionale di quella Repubblica delle autonomie che veniva dall'alta indicazione dell'Assemblea costituente.
Inaugurando al Quirinale la galleria delle regioni e delle province autonome, il 4 novembre 1995, il Presidente della Repubblica Scalfaro aveva posto al centro del suo intervento la lettura dell'articolo 5 della Carta costituzionale, richiamando alla necessità di coesistenza tra i principi dell'unità indivisibile della Repubblica e la ricchezza delle autonomie vere ed efficienti. Così, fissata la rotta dell'itinerario istituzionale, nell'audizione presso la Commissione bicamerale, il 4 marzo dello scorso anno avevo dovuto premettere che il panorama di orientamenti culturali, politici e perfino etici emersi sotto la sigla «federalismo» era assai fitto e richiedeva a chi si trovava a ricoprire un ruolo di rappresentanza di organi legislativi regionali la puntuale sintesi solo dei passi oggettivamente compiuti e delle acquisizioni culturali, politiche e normative già formalizzate dalle assemblee. Il tema di «chi rappresenta chi», dei confini dei poteri e dei mandati all'interno dei poteri è sembrato davvero fondamentale, tale cioè da rivestire la configurazione di prefazione costituzionale rispetto a qualsiasi discorso sulle rappresentanze elettorali. Non a caso la prudenza dei costituenti aveva confinato le complesse regolamentazioni sulla rappresentanza nella flessibilità del dibattito sulla legislazione ordinaria, con ciò lasciando alla sensibilità democratica di ogni fase storica la possibilità di configurazione etica rispetto alla necessità del confronto politico e rispetto ai confini, talora inquietanti, dell'eredità roussoiana e della relazione domanda-risposta. Allargando lo sguardo dallo specifico dell'esperienza regionale, per essere molto breve direi che le certezze costituzionali e statutarie sui poteri e sui confini dei poteri degli organi costituzionali potrebbero aprire la strada a più serene e concrete valutazioni sul mandato e sulla rappresentanza elettorale, chiudendo inoltre a derive plebiscitarie che non altrove se non nei conflitti tra i poteri potrebbero trovare ulteriore alimento.
Sento il dovere di ripetere oggi, in questa storica sessione di studio promossa dal Presidente della Camera dei deputati - mi permetterei anzi, vista la valenza di questa riunione, di pensarla come un appuntamento annuale e di proporle questo sforzo di continuità, che potrebbe dare un segno di volontà di lavoro ulteriore su queste tematiche...

PRESIDENTE. Speriamo che il prossimo anno vi sia il federalismo: quindi, a questo punto, potreste fare tutto da voi!

SILVANA AMATI, Presidente del consiglio regionale delle Marche. Mi permetto di ripetere quanto sostenni in apertura del nostro convegno, ospitato, sempre grazie alla disponibilità del Presidente Violante, il 30 maggio dell'anno scorso nella sala della lupa: essere oggi a Montecitorio in qualità di rappresentanti del potere legislativo regionale in questa manifestazione dedicata ad Aldo Moro, nell'anniversario della morte - o meglio, come ricordava il Presidente, del suo assassinio - espleta la consapevolezza di una necessità sempre più forte di un raccordo nelle specifiche competenze fra il Parlamento e le assemblee regionali.
Potrebbe risultare addirittura pleonastico in questa sede ricordare il valore democratico delle assemblee legislative elettive. Confermo che pleonastico non è,

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perché, in una fase segnata dalla necessità di decisioni rapide, il momento di confronto assembleare viene troppo spesso rappresentato più come un dovere formale da compiere che come una garanzia democratica, quale in effetti è. Ci vuole il coraggio di dire con chiarezza che nella cultura e nella propositività di molti soggetti politici è emersa, di tempo in tempo, una rimozione del ruolo e della funzione delle assemblee.
Per attenermi al dovere di rappresentanza che mi compete devo riportare la più omogenea rappresentazione che le regioni hanno fornito del ruolo in particolare dei consigli regionali. Su questo punto posso riferire, per l'esperienza italiana, i dati della Carta europea dell'autonomia regionale, esaminata in audizione a Firenze dalle regioni italiane. Ho ritenuto fondamentale il riferimento europeo perché la riforma costituzionale italiana non può che consonare con un progetto positivo di ingresso a pieno titolo in Europa, un progetto che non può essere rivolto solo al livello economico e monetario, ma che deve investire il livello di funzionalità delle strutture istituzionali. È certo che un contributo a questo punto del dibattito emerge dalle tesi di Stoccarda, che sono state la premessa per l'istituzione ad Oviedo, lo scorso anno, della conferenza europea dei presidenti dei consigli regionali, un'istituzione che ha già ottenuto - lo ricordava poco fa il collega Morandi - notevoli riconoscimenti e l'accesso, con diritto di intervento permanente, nelle Commissioni europee.
Le tesi di Stoccarda sottolineano che i consigli ed i parlamenti regionali europei non devono restare esclusi dal processo di partecipazione sul piano delle questioni europee. Non può sfuggire che l'intero contesto delle tesi di Stoccarda segnala il disagio e le rivendicazioni emergenti dai legislativi di tutti i contesti costituzionali nei quali non siano sufficientemente valorizzati i ruoli irrinunciabili del potere legislativo. Ho già avuto modo di notare che si tratta di indicazioni fondamentali, motivate e consonanti, che provengono da realtà ed esperienze in atto in paesi europei dal federalismo praticato e con modelli differenziati, segno evidente che, ove i poteri di indirizzo e di controllo dei legislativi non costituiscono funzione praticabile o di fatto praticata, il potere legislativo si riduce a questione puramente nominale, sostituita nel concreto dall'espansione di altri poteri.
Il quadro che emerge dalle tesi di Stoccarda è quello dell'importanza dei poteri legislativi in grado di decidere gli indirizzi e di controllare la produttività degli esecutivi. Si tratta di una visione nella quale l'esperienza comune manifesta la corretta separazione dei poteri come uno strumento di sinergia, un'ottica abbastanza nuova rispetto alla tradizionale visione della separazione dei poteri intesa come garanzia costituzionale contro le tentazioni autoritarie o addirittura dittatoriali. Trarrei dalle tesi di Stoccarda la segnalazione diffusa di un potere esecutivo che talora, incapace di svolgere il suo compito specifico, abbandonandolo alla gestione di burocrazie onnipotenti, ripiega su una prassi di quotidiana propositività legislativa, ossia nell'alveo materno ed accogliente delle stesse assemblee che il potere esecutivo avevano espresso per realizzare le norme nel reale.
Affollata di protagonisti la fase legislativa, difficoltà e ritardi si manifestano nella fase di applicazione concreta delle leggi e perfino nell'area regolamentare, dominio di fatto degli uffici e non del potere esecutivo, mentre l'intero lavoro istituzionale tende ad un'indefinita astrattezza. Se questa testimonianza di disagio dei legislativi europei corrispondesse alla realtà, la rivendicazione e l'attuazione di poteri efficienti di indirizzo e di controllo delle assemblee legislative sulla produttività degli esecutivi si rivelerebbe centrale per la costruzione di una democrazia sinergica, decidente e perciò produttiva ed adeguata ai tempi (Applausi).

PRESIDENTE. La ringrazio, anche per la puntualità con la quale ha concluso il suo intervento, oltre che per il merito.

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È iscritto a parlare Michele Picciano, presidente del consiglio provinciale di Campobasso. Ne ha facoltà.

MICHELE PICCIANO, Presidente del consiglio provinciale di Campobasso. Onorevole Presidente Violante, autorità, colleghi amministratori, il tempo assegnatomi per dare un contributo alle giornate di studio in memoria del compianto onorevole Aldo Moro e per rendere una diretta testimonianza sull'argomento in discussione, mi impone di leggervi alcune considerazioni al riguardo.
Innanzitutto desidero associarmi al saluto ed al ringraziamento rivolto all'onorevole Presidente della Camera ed agli illustri relatori. Sono convinto che la giornata odierna segnerà un decisivo passo in avanti nella costruzione dell'impalcatura che dovrà sorreggere, sul piano della logica, dell'opportunità e del diritto, la necessità che gli organi elettivi abbiano davvero ed in concreto la possibilità di interpretare e garantire gli interessi delle comunità locali, in un quadro consolidato di democrazia partecipata.
L'esperienza maturata dal 1990 ad oggi, vissuta attraverso la verifica sul campo delle leggi n. 142 e n. 81, consente di trarre opportuni suggerimenti per sostenere la convinzione che il ruolo delle assemblee elettive debba essere ampliato e garantito, evitando con estrema determinazione la tentazione, qua e là affiorata, di ridurle ad un ruolo marginale. Dovesse accadere, non vi è chi non sia in grado di commisurare il rischio di ridurre gli spazi della rappresentatività popolare e degli interessi diffusi; spazi entro i quali i cittadini, i partiti e le istituzioni ricercano stabilmente i valori costituzionali e consolidano giorno dopo giorno la democrazia italiana.
Le deleghe previste dalla legge n. 59 del 1997 e le riforme istituzionali elaborate dalla Commissione bicamerale allargano e rafforzano il ruolo dei comuni e delle province, conferendo ad essi autonomia finanziaria e capacità di applicare i tributi. In una condizione così programmata, attesa e sollecitata, sarebbe incomprensibile vedere ridotti o messi in discussione il ruolo e la funzione delle assemblee elettive. D'altra parte, i relatori hanno rimarcato la qualità e l'entità dei compiti normativi, delle ridefinizioni e delle semplificazioni che verranno ai consigli comunali, provinciali e regionali, e quindi la necessità che questi ultimi vengano organizzati e rafforzati per svolgere, nel gioco parallelo che vede attribuita agli esecutivi la funzione di governo, una più forte, marcata ed incisiva capacità di indirizzo e di controllo. È questa una necessità che le piccole comunità locali e le realtà territoriali, di cui sono espressione, avvertono con maggiore sensibilità per il fatto che attraverso le proprie rappresentanze elette si assegna l'unica ed autentica possibilità di partecipare alla costruzione del proprio destino ed alla difesa delle proprie identità. Pertanto, un'evoluzione in termini di capacità operativa, decisionale e normativa non può non essere un ulteriore contributo ai valori della libertà, della responsabilità e della partecipazione democratica alla vita del paese.
Concludendo, occorre dare speditezza e certezza al processo di riforma in atto, nella direzione di una reale valorizzazione delle assemblee locali, comprimendo la tentazione di chi invece le vorrebbe confinate in una mera funzione consultiva.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare Osvaldo Napoli, sindaco del comune di Giaveno. Ne ha facoltà.

OSVALDO NAPOLI, Sindaco del comune di Giaveno (Torino). Onorevole Presidente, è indubbio che il grado di civiltà democratica di un paese e di una società si misura, in particolare, dai mezzi che essi offrono di partecipazione diretta del cittadino ai problemi della pubblica amministrazione e cioè, in particolare, la possibilità offerta in termini reali alla gente di adire direttamente gli organi pubblici e i pubblici rappresentanti per manifestare in modo congruo le proprie esigenze, le proprie valutazioni, le proprie proposte sui problemi piccoli e grandi che

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costituiscono l'articolazione della vita pubblica associata e i campi di competenza nella quale essa si esprime.
Questo fattore è tanto più rappresentativo di democraticità se consente il contatto del cittadino non solo e non tanto con gli organi burocratici ma con quelli rappresentativi e decisionali della realtà pubblica e della realtà Stato in senso lato.
Questo momento costituisce l'anello di congiunzione vivo e reale tra Stato e cittadino, il punto di raccordo in cui si articola e si esprime il dialogo democratico: quello tra il momento della società civile e il momento della società politico-rappresentativa.
Questo anello e questa funzione di democrazia è più diretto e diffuso nei comuni piccoli perché in queste realtà, per la loro caratterizzazione intrinseca, maggiore è l'accessibilità diretta del cittadino alla pubblica amministrazione e alla sua espressione politica.
È una verità incontrovertibile che la possibilità di un incontro diretto del cittadino con il sindaco o l'assessore è senz'altro più facile ed agevole in un comune di 5-10 mila abitanti che in un comune di cento mila o di un milione di abitanti.
Per questo il ruolo e le funzioni delle assemblee elettive nei piccoli comuni sono importanti e fondamentali almeno quanto lo sono nei comuni maggiori, anche alla luce dell'articolazione della nostra realtà politica amministrativa strutturata, come è noto, soprattutto ai comuni di dimensioni piccole e medie; questo ruolo di democrazia è importante sia per i cittadini che per le istituzioni.
I piccoli comuni, signor Presidente, sono 7.466 su 8.103 ed hanno un'estensione territoriale di 240.615 chilometri quadrati, pari all'80 per cento del territorio ed amministrano, con oltre 23 milioni di persone, il 42 per cento della popolazione.
L'affinamento della sensibilità nei confronti dei diritti dei cittadini (sempre più estesa e profonda) e tutti questi fattori richiedono anche agli amministratori di piccoli comuni e in particolare ai sindaci un impegno sempre più continuativo ed assorbente, un impegno a tempo totale.
Non c'è più (o sono sempre più rari) un sindaco di un piccolo comune che non operi ormai a tempo pieno nel proprio mandato politico amministrativo; anche gli assessori sono chiamati ad una presenza sempre maggiore e più diretta nella gestione dei loro compiti di ufficio.
Egregio Presidente, quando parlo di tempo pieno, parlo di una situazione - mi consenta il termine - umiliante. Da lungo tempo attende di essere approvato il nuovo status degli amministratori «collegato» prima al disegno di legge n. 1388 (A.C. 4493). Oggi, le indennità sono ridicole in rapporto all'impegno e alla responsabilità di firme di decine se non di centinaia di atti.
Chiediamo a lei, signor Presidente, un intervento perché l'iter di legge abbia tempi rapidi e perché si dia dignità al lavoro svolto dagli amministratori negli enti locali periferici.
Da sempre i comuni piccoli e medi sono stati baluardo di stabilità politica, amministrativa e quindi di serietà operativa e funzionale. È d'altro verso un provvedimento che pone problematiche nuove a chi opera negli enti locali e in particolare ai sindaci chiamati ogni giorno di più ad un duplice ruolo che ha in se stesso indubbi elementi potenziali di contraddittorietà e di tensione: il ruolo di garantire la democraticità delle condizioni del dibattito politico ed amministrativo nelle assemblee, e di rappresentare, allo stesso tempo, il vertice di uno schieramento che in questo dibattito è coinvolto come forza di parte (per i comuni sotto i 15 mila abitanti).
È un ruolo ed una funzione che negli enti maggiori la legge giustamente risolve con una scelta di terzietà nella figura del presidente del consiglio comunale (soluzione non prevista nei piccoli comuni).
È un problema che propone comunque una meditazione ulteriore in quanto una funzione così importante come la correttezza della conduzione delle sedute consiliari e la garanzia della completa libera

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espressione del confronto politico amministrativo tra le forze consiliari non può essere affidato unicamente a misure regolamentari o alla discrezionalità di chi è chiamato a condurre le sedute e le assemblee. Proprio queste sedute e queste assemblee costituiscono quella espressione diretta e più concretamente visibile di una funzione democratica e rappresentativa che è la base dell'ordinamento e della credibilità democratica dell'intero nostro paese. Grazie (Applausi).

PRESIDENTE. È iscritta a parlare Agnese Moro, per l'Accademia di studi storici Aldo Moro.
Ne ha facoltà.

AGNESE MORO, per l'Accademia di studi storici Aldo Moro. Signor Presidente della Camera, senatori, deputati, autorità tutte, signore e signori, un vivo ringraziamento da parte dell'Accademia di studi storici Aldo Moro, che ben volentieri ha aderito all'invito, che le è stato rivolto dal Presidente della Camera, onorevole Luciano Violante, a farsi, per quanto di sua competenza, coorganizzatore di queste due giornate di riflessione e di studio.
Questa importante manifestazione si inserisce in maniera non formale nella vita dell'Accademia di studi storici Aldo Moro; ritengo, anzi, che essa rappresenti il punto conclusivo di un percorso. Sotto la guida generosa e lungimirante del nostro presidente Giancarlo Quaranta e grazie all'impegno di mio fratello Giovanni, abbiamo preso in custodia, tanti anni fa, un Aldo Moro, per così dire, dolente, di cui era considerato da alcuni poco pudico parlare e da altri poco giovevole interessarsi. Adottando un punto di vista dialettico circa l'attualità o l'inattualità della sua figura, scegliendo spesso il secondo termine come spia di una sua possibile, rinnovata attualità, abbiamo provato a seguire, interpretare e ricostruire il pensiero di Moro attorno ad alcuni filoni, tutti, in diversa misura, presenti nel convegno odierno.
Abbiamo lavorato per interessare e coinvolgere in un simile lavoro politici e studiosi, italiani e stranieri, non raramente anche molto lontani, per tradizione e cultura, da Aldo Moro. Negli anni, abbiamo messo in luce il particolare modo che egli ebbe di affrontare questioni quali quelle legate all'esistenza di una nuova e più esigente società, autonomamente capace di giocare un ruolo nella vita pubblica; alla conseguente necessità di una revisione profonda di tutto il sistema della rappresentanza politica o a quella legata al processo di unificazione del mondo e all'emergere di un'opinione pubblica mondiale, di una coscienza umana dotata di una voce propria, capace di porre in discussione il fatto che su temi quali quelli della pace e dei diritti umani gli Stati possiedono una sovranità non esclusiva; oppure alla questione del ruolo fondamentale del riconoscimento e della valorizzazione delle risorse umane per il successo dei processi di sviluppo; o, infine, all'interpretazione dell'attività politica come una continua e lunga marcia verso la democrazia, dal momento che questa non è qualcosa di fermo e stabile, che si possa considerare raggiunta una volta per tutte.
Crediamo di aver contribuito con il nostro lavoro, in maniera non eclatante né «strillata» ma comunque in qualche modo efficace, a creare condizioni per una seria rivalutazione della figura di Aldo Moro. Ma il nostro lavoro non avrebbe mai potuto riportare Aldo Moro in Parlamento, alla presenza dei rappresentanti di tutte le assemblee elettive e, in misura molto più limitata ma significativa, della società civile, se non si fosse incontrato con un genuino convincimento del Presidente Violante e con l'autorevole disponibilità del Capo dello Stato ad accogliere Moro di nuovo in quest'aula non come un perdente, come vittima di una tragica vicenda ancora, purtroppo, largamente non spiegata, ma come uno dei costruttori della nostra vita democratica, sollevandolo in qualche modo dallo stigma di aver anteposto il suo interesse al bene comune, infondatamente attribuitogli nei giorni della sua prigionia.

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Riportare insieme Aldo Moro in Parlamento, nel luogo in cui spese un trentennio di vita, ci sembra essere uno dei significati importanti e non scontati di queste giornate. Come Accademia di studi storici Aldo Moro, possiamo considerare a questo punto concluso il nostro compito, dal momento che l'impegno che abbiamo sentito di assumere era quello di riconsegnare Aldo Moro, per così dire, tutto intero al suo paese; questo obiettivo ci sembra sia stato oggi raggiunto. Se e in che termini possa essere invece ancora utile l'attività dell'Accademia, ci aspettiamo di saperlo anche da questi due giorni di lavoro.
Per ora, siamo lieti di constatare che, a partire da oggi, Aldo Moro potrebbe davvero riprendere il suo posto nella storia d'Italia, essendo presentato ai giovani non solo, come ho avuto modo di leggere nei libri di scuola dei miei figli, come un politico ucciso dalle brigate rosse, ma come un uomo che lavorò per la crescita del nostro paese e che visse e propose a tutti noi la dimensione della politica come capacità di vedere, interpretare e guidare quanto avviene, avendo il coraggio di non nascondersi mai la verità e senza timore di misurarsi fino in fondo con essa. Strada che seguì coerentemente e fattivamente fino all'ultimo giorno della sua vita.
Vi ringrazio (Vivi, prolungati applausi).

PRESIDENTE. Le sono particolarmente grato, signora Moro.
È iscritto a parlare Michele Parenti, presidente del consiglio provinciale di Pisa. Ne ha facoltà.

MICHELE PARENTI, Presidente del consiglio provinciale di Pisa. Signor Presidente, colleghi amministratori, il processo in atto per la revisione in senso federale dell'ordinamento della Repubblica esige, come presupposto, la costruzione di un sistema forte delle autonomie locali, strutturato secondo criteri di tipo moderno, funzionalmente organizzato per governare con efficienza l'azione amministrativa, ma anche fondato su basi ampiamente democratiche e, quindi, espressione di livelli elevati di partecipazione e di controllo popolare.
Le assemblee degli enti locali, in quanto espressione diretta delle istanze politiche e civili presenti nella comunità, assolvono a questa vitale funzione di garanzia democratica. L'ordinamento degli enti locali ha opportunamente liberato i consigli da incombenze riconducibili alla sfera dell'attività esecutiva o di gestione e ricondotto ad essi la precipua competenza di esprimere gli indirizzi politico-amministrativi dell'ente che essi rappresentano attraverso l'approvazione degli atti generali di programmazione, la definizione degli obiettivi di governo, l'attribuzione agli organi esecutivi delle risorse necessarie, l'individuazione delle modalità di reperimento di esse e l'approvazione dei criteri generali della fiscalità locale. Necessaria e complementare risulta poi l'attività di controllo in ordine alla corretta traduzione di quegli indirizzi nell'azione di governo e di verifica dei risultati conseguiti.
Il passaggio dal precedente ordinamento giuridico degli enti locali a quello attuale, specie con l'entrata in vigore della legge n. 81 e con l'avvento della successiva stagione caratterizzata dalla crisi dei principali partiti politici, è stato sovente condizionato da una tendenza trasversale che ha impropriamente tradotto lo spirito e la lettera delle leggi di riforma in termini di mero ridimensionamento del ruolo e delle competenze assegnate ai consigli. Questa tendenza si è giustamente interrotta, però vi sono ritardi da recuperare. Sicuramente è necessario affinare, attraverso gli statuti e i regolamenti degli enti locali, gli strumenti tecnici e amministrativi per favorire un'effettiva partecipazione dei consiglieri alla definizione delle scelte di indirizzo, alla predisposizione degli atti fondamentali e di programmazione generale.
Parimenti è indispensabile coniugare questa esigenza di rendere i membri eletti reali protagonisti della funzione politica con la necessità di un ineludibile incremento di efficienza nelle attività delle assemblee elettive, in specie per quanto

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riguarda i procedimenti decisionali, i rapporti con gli esecutivi, con la dirigenza nell'esercizio degli istituti di partecipazione della società civile.
Credo di interpretare lo stato d'animo di molti consiglieri eletti nel sostenere che in questo momento straordinario è necessario restituire ai consigli la piena dignità che è loro connaturale, quella di organi cui spetta interpretare, durante il mandato amministrativo, il sentimento politico dell'intera comunità che ha concorso ad eleggerli. In tal modo, assume piena rilevanza anche quel rapporto di esponenzialità che, correttamente, il disegno di legge di riforma della legge n. 142 riconosce anche alle province.
In questo senso, signor Presidente, credo debba essere considerata e, pur con alcune cautele, valutata positivamente, anche quell'intensa attività politica di discussione di mozioni, ordini del giorno, interpellanze, che caratterizza la maggior parte delle assemblee elettive e che talvolta è fonte di preoccupazione perché assorbe, in termini di tempo, uno spazio consistente rispetto alla ridotta attività deliberativa.
Certamente i regolamenti degli enti locali debbono disciplinare e limitare, in base alle competenze proprie dell'ente, gli ambiti di questa essenziale funzione politica. In questa autorevole aula mi preme semplicemente evidenziare che il forte processo in atto di decentramento amministrativo conferisce agli enti locali, e quindi alle assemblee elettive, la configurazione di organi a rilevanza generale per tutto quanto attiene gli interessi del proprio territorio e della propria popolazione.
Certamente, per quanto riguarda lo specifico di province e comuni, è evidente che alla definizione dell'attività di indirizzo politico concorrono entrambi gli organi eletti direttamente dai cittadini (consigli, sindaci, presidenti), in un rapporto definito da molti autori di partnership tra questi due soggetti istituzionali, che si genera con la sottoscrizione del comune documento elettorale e che si mantiene per tutta la durata della legislatura in un reciproco equilibrio politico alla cui rottura possono entrambi procedere in maniera unilaterale.
In questo senso, come presidenti di consigli provinciali, abbiamo ribadito la necessità che in sede di riforma dell'ordinamento degli enti locali non si alteri questo rapporto di collaborazione politica, in particolare per quanto concerne il documento sugli indirizzi generali di governo, che di essa rappresenta l'atto amministrativo di indirizzo più significativo e che in quanto tale non avrebbe senso sottrarre all'approvazione dei consigli; come non risulta giustificata la norma, contenuta nel testo licenziato dal Senato di modifica della legge n. 142 del 1990 ed ora in discussione alla I Commissione della Camera, che prevede una limitata partecipazione dei consigli alla sola fase della preparazione e della discussione del documento e non anche una votazione di esso.
In questo equilibrio, signor Presidente, trova corretta applicazione il principio della separazione delle funzioni tra organi assembleari di indirizzo e controllo ed organi esecutivi o di governo che, traslato nell'ambito delle autonomie locali, costituisce applicazione di quell'altro principio fondamentale della ripartizione dei poteri che sappiamo essere all'origine di qualsiasi ordinamento democratico.
Il nostro paese, per fortuna, sta attraversando un momento di stabilità e di sostanziale tranquillità sul piano della tenuta della democrazia. Questo anche per gli importanti risultati conseguiti sul fronte dell'economia e delle riforme politiche ed amministrative, il cui coronamento è certamente rappresentato dall'ingresso nell'euro. Però, anche nel recente passato non sono mancati momenti in cui abbiamo temuto per lo Stato di diritto di fronte al riacuirsi di conflitti di carattere istituzionale e sociale, così come non dobbiamo sottovalutare la presenza in alcune regioni del paese di tensioni politiche e culturali che potrebbero arrecare pregiudizio alla necessaria affermazione di principi di coesione e di solidarietà nazionale.

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Certamente (e per fortuna) siamo molto distanti dal clima di conflittualità ideologica e politica di quegli anni difficili per la democrazia che culminarono con il rapimento e l'assassinio da parte delle brigate rosse del presidente della democrazia cristiana e dell'amico, onorevole Aldo Moro, evento di cui domani ricorre il ventesimo anniversario. Anche a questo proposito non si può non ricordare che significativo ed efficace fu il concorso degli enti locali nella battaglia politica contro il terrorismo, attraverso la pronta ed unanime condanna espressa chiaramente dai consigli comunali e provinciali ovunque riuniti.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare Andrea Piraino, consigliere comunale di Palermo. Ne ha facoltà.

ANDREA PIRAINO, Consigliere comunale di Palermo. Signor Presidente, signore e signori, l'evoluzione della nostra democrazia in senso comunitario sta trasformando le Assemblee elettive da organi di decisione in organi di controllo e indirizzo.
La decisione tende sempre più a spostarsi verso l'organo di governo direttamente eletto dal corpo elettorale, mentre le assemblee rappresentative diventano organismi di controllo. È questa la mia opinione circa la tendenza evolutiva del ruolo degli organi assembleari, che si può vedere già realizzata, peraltro, nell'ordinamento locale dei comuni e delle provincie, dove una nuova configurazione delle funzioni impedisce di ricondurle alla vecchia idea dell'esecuzione della legge statale o regionale.
Come ogni sindaco o consigliere comunale ben sa, ormai il governo locale non si esprime più per atti amministrativi di esecuzione, nemmeno degli atti normativi consiliari, ma agisce esclusivamente per programmi e progetti che, non assumendo come i primi una fisionomia meramente attuativa, si caratterizzano per il loro valore di indipendenza anche dalla stessa normazione dei consigli.
È questa la novità che rende obsoleta l'idea del governo locale come esecutivo anche delle decisioni dei consigli ed impone una diversa valutazione dell'attività svolta dai sindaci e dai presidenti provinciali direttamente eletti con i loro assessori che, nella mutata realtà ordinamentale, si configura come una vera e propria funzione di governo e quindi, in quanto tale, come attività portatrice di un suo indirizzo politico distinto da quello dei consigli.
Se questo è vero, è facile convenire che, quasi per riflesso, una diversa configurazione assume anche l'attività normativa e regolamentare del consiglio. Essa non si caratterizza più per essere la necessitata posizione a priori di modelli di comportamento, che poi i soggetti dell'ordinamento locale, a cominciare dall'apparato governativo, devono adottare, ma costituisce l'attività di controllo susseguente all'azione di governo del sindaco o del presidente della provincia, effettuata alla luce dei fini e dei valori popolari di cui il consiglio è portatore in virtù della sua rappresentatività politica; una rappresentatività politica che gli deriva dal fatto di essere l'interprete permanente della volontà popolare espressa dai vari gruppi consiliari collegati ai partiti politici ed il tramite con la costellazione degli organismi di partecipazione, che vanno dalle conferenze alle consulte, passando, evidentemente, per tutto il mondo dell'associazionismo.
Il discorso è chiaramente molto complesso e in questa sede non può essere ulteriormente approfondito, se non per dire che comunque questa attività consiliare di controllo non esclude, anzi implica l'esercizio della funzione di indirizzo politico, anche se essa in questa prospettiva non si imporrà al governo comunale e provinciale, ma concorrerà con l'autonomo indirizzo di quest'ultimo a determinare i servizi che i pubblici poteri locali, nel loro insieme, devono fornire alla comunità di base. Come si vede, si tratta di due funzioni assolutamente inedite, i cui connotati influenzano anche i poteri nei quali si sostanziano, determinandone una strutturazione e soprattutto un sistema che non possono più essere

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quelli del legislativo che fa i regolamenti o gli atti fondamentali e dell'esecutivo che li esegue perché al primo è legato dal rapporto di fiducia.
Alla luce delle trasformazioni operate, consiglio e sindaco assumono un'altra dimensione ed un altro tipo di collegamento, che non obbedisce più alla logica fiduciaria, ma si fonda su una relazione funzionale; il che lascia chiaramente intendere che la direzione verso cui ci si è avviati è quella di creare un sistema organizzativo che non segua più la logica monista dell'esercizio della medesima funzione da parte di entrambi i poteri, ma che prenda atto, valorizzandolo, del dualismo delle funzioni che il consiglio, da un lato, ed il sindaco con la giunta, dall'altro, esercitano, collegandole tra di loro in modo da attivare un circuito virtuoso fondato sull'iterazione dell'attività di controllo con quella di governo. Se questo è vero, possiamo ritenere di essere in presenza di una forma di democrazia nuova in cui, non essendo solo l'organo collegiale del consiglio ad essere eletto direttamente, ma anche quello monocratico del sindaco o presidente della provincia, si instaura con il corpo elettorale un rapporto di responsabilità, che impone a quest'ultimo un'azione di controllo democratico, che evidentemente non può avvenire se non con l'ausilio dell'assemblea rappresentativa così elevata a vero e proprio organo di controllo.
Per tale ragione, giustamente e da più parti, si afferma la necessità di una sua composizione pluralistica, accantonando quei metodi elettorali ad effetti maggioritari che non riescono a garantire pienamente la democrazia partecipativa e comunitaria, che non può prescindere dal ruolo dei partiti e che deve salvaguardare le minoranze. Ebbene, tutto ciò, a mio giudizio, non è relegabile a livello di solo ordinamento locale. Peraltro, è quanto è già avvenuto nell'ordinamento europeo, dove questo di controllo è chiaramente il ruolo del Parlamento. Sarà allora inevitabile che la medesima direzione imbocchino il Parlamento nazionale ed i consigli regionali nel nuovo sistema della Repubblica (Applausi).

PRESIDENTE. È iscritta a parlare Celestina Ceruti, presidente del consiglio regionale dell'Emilia-Romagna. Ne ha facoltà.

CELESTINA CERUTI, Presidente del consiglio regionale dell'Emilia-Romagna. Desidero ringraziare il Presidente Violante per questa importante iniziativa, per questa conferenza istituzionale e per la data significativa per la storia italiana che è stata scelta, quella del memoriale dell'uccisione di Aldo Moro. La riflessione sull'operato ed il ricordo di Aldo Moro rappresentano un contributo importante per tutti noi, soprattutto rispetto al rafforzamento delle motivazioni del nostro impegno politico ed istituzionale e, anche in considerazione dell'importante momento che stiamo vivendo, rispetto al futuro delle istituzioni e della democrazia italiana.
Desidero fare oggetto di questo mio intervento un aspetto della vita democratica che mi pare assuma un posto di primo piano in questa fase di cambiamento: la capacità e la qualità decisionale dei processi che caratterizzano l'operare delle assemblee legislative - in particolare, appunto, delle regioni - e che in questa fase di transizione stanno assumendo, a Costituzione invariata, un protagonismo del tutto nuovo rispetto al passato e che debbono anche dimostrare di essere all'altezza di questo protagonismo.
Le finalità che animano i percorsi di riforma sono sicuramente improntate alla necessità di rendere le istituzioni in grado soprattutto di funzionare con celerità, efficacia e puntualità rispetto alle istanze provenienti dall'esterno, nella prospettiva di quella che il professor Cammelli ha definito la «sussidiarietà verticale». Questo comporta inevitabilmente una ridefinizione della natura, dei compiti e delle responsabilità delle assemblee regionali, che sopportano ancora le maggiori incertezze

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e difficoltà, ma anche dove più radicali e innovative paiono essere le prospettive.
La ricerca di questa nuova identità, al di là dell'essere conclusa, non può non confrontarsi con alcune questioni problematiche che possono insorgere. È già stato ricordato come il rafforzamento degli esecutivi sia tappa, per certi versi, necessaria e opportuna, in vista di una maggiore capacità decisionale. Emerge tuttavia, anche per le regioni, la necessità di interrogarsi su come regolare la dialettica giunta-consiglio, per evitare che quest'ultimo si riduca a diventare spettatore, sebbene interessato, di dinamiche che si svolgono altrove. La legittimazione democratica, propria di ogni assemblea eletta, impone che questa si attrezzi per essere luogo privilegiato di mediazione politica degli interessi, pur in una prospettiva di garanzia dell'efficienza e della celerità delle decisioni e nel rispetto della necessaria dialettica tra maggioranza e opposizione.
Il fatto che ancora le nostre assemblee vivano di procedure e meccanismi interni che non sono adeguati al nuovo contesto impone già ora l'impostazione di una strategia di risposta, potremmo dire sperimentale, che deve impegnare le assemblee in prima persona, senza aspettare mutamenti dall'alto. Occorre una forte condivisione del rilancio delle assemblee legislative come elemento determinante del sistema democratico del nostro paese. È certo che il compito di nuova cultura politica appare difficoltoso, quasi una quadratura del cerchio. La mediazione, sebbene importante, può assumere i tratti di un'inesauribile prolissità nel confronto, mentre la indispensabile capacità di decisione rapida e completa può tendere pericolosamente verso il decisionismo. Ma la ricerca di un giusto mezzo è possibile e i margini di intervento sono più che percorribili.
In primo luogo, credo che l'esperienza e le modifiche attuate dalla Camera nel regolamento siano un elemento importante, ma anche un faro per le assemblee regionali. Parlo della necessità, in sostanza, di rivedere i regolamenti interni delle assemblee, dei possibili cambiamenti di tali regolamenti, stanti gli attuali statuti. Su questo punto, prevedendo quindi anche possibili momenti di approfondimento in tempi brevi a livello regionale, è possibile individuare modalità di lavoro e rendere le assemblee in grado, a un tempo, di sopportare e indirizzare il lavoro dell'esecutivo e di garantire la più ampia partecipazione democratica alle decisioni. E questo passa certamente attraverso una modifica delle norme di funzionamento interno. Vengo da un consiglio regionale che ha avuto l'esperienza di restare per due giorni bloccato per l'ostruzionismo di un solo consigliere, che agiva in tal modo per problemi di esclusione dal proprio gruppo consiliare. Queste esperienze, che per la nostra regione sono per fortuna rare, mettono però in evidenza quanto il funzionamento e le regole incidano poi sulla effettività della democrazia.
In questo percorso, debbono contribuire e trovare soddisfazione anche le componenti dell'opposizione. Il tentativo di raggiungere un'effettiva democrazia decidente non può non trovare l'interesse e, materialmente, la convenienza di tutte le componenti politiche rappresentate, sebbene ancora tanto forti siano le tentazioni di resistenza o quelle di limitarsi alla ricerca di una soluzione per sé, senza avere la visione futura dell'istituzione.
Strettamente collegato a ciò, è il tema della produzione legislativa, tema tutt'altro che tecnico, anzi eminentemente politico. È il tema della quantità e della qualità della produzione legislativa. Ritengo che nei prossimi anni si andrà a definire la qualità dell'attività delle regioni sulla base non della quantità di legislazione prodotta ma della quantità di quella abrogata.
L'altro tema riguarda i tempi della produzione legislativa e l'abrogazione di una parte della legge. La rapidità delle procedure garantisce che le istanze provenienti dal contesto sociale possano trovare risposta in tempi compatibili con le loro esigenze, con i loro bisogni. È pur

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vero però che la crescente complessità sociale chiede di saper individuare i nodi problematici veri, dove l'intervento sia produttivo di conseguenze cosiddette «a cascata». È anche vero che i problemi posti divengono sempre più caratterizzati da una tecnicità propria; le lungaggini inutili ed i rimandi perpetui non garantiscono certo maggiore democrazia. Per questo un riesame della funzione e dei compiti delle commissioni consiliari pare essere un compito ineludibile ed affrontabile in questa seconda parte della legislatura regionale, il tutto all'interno di un'evoluzione verso la legislazione di quadro e di indirizzo che segna le assemblee, che ridefinisce i rapporti fra regioni, comuni e province.
Ultimo, e non inferiore, è il compito delle assemblee di verificare la cosiddetta fattibilità delle leggi, che non è di carattere tecnico; siamo sul piano sia della formazione, ma in particolare dell'impatto che le norme hanno sul contesto socioeconomico di riferimento. Anche questo fa parte del ruolo di controllo che le assemblee probabilmente saranno via via chiamate a svolgere in termini sempre più ampi. La capacità di saper cogliere ciò che nella società si muove, interpretando e dando risposte in termini comprensivi ed efficaci, può ancora essere compito che le assemblee elette sono in grado di svolgere, a patto che si interroghino adesso sul loro futuro, siano in grado di interrogarsi sul quadro futuro e diano risposte in una visione futura e non in un interesse immediato.
Ringrazio di nuovo il Presidente Violante per questa opportunità e per questo momento di grande riflessione e di contributo rispetto al futuro degli enti locali, delle assemblee regionali, provinciali e comunali (Applausi).

PRESIDENTE. Grazie.
Sospendiamo i lavori, che riprenderanno domani mattina alle ore 9,15. Ricordo che i primi interventi saranno quelli di Emma Bassani, presidente del consiglio provinciale di Milano, di Vittorio Prodi, presidente della provincia di Bologna, e di Massimo De Carolis, presidente del consiglio comunale di Milano.

I lavori terminano alle 18,55.