8 maggio 1998


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(Le Assemblee elettive ed il decentramento delle funzioni)

MARCO CAMMELLI, Relatore. Queste note, all'interno della riflessione dedicata alle assemblee rappresentative nell'evoluzione della democrazia italiana, si propongono di approfondire in particolare tre aspetti intrecciati al decentramento istituzionale e alla riforma del sistema amministrativo: per quali ragioni le politiche di regionalizzazione e valorizzazione delle autonomie territoriali hanno contribuito, almeno fino ai giorni nostri, ad aggiungere ulteriori elementi alla crisi del ruolo tradizionale delle assemblee nel nostro paese; quali i motivi che, oggi, portano ad individuare per il Parlamento e i consigli un ruolo nuovo il cui riconoscimento è essenziale ai fini della democrazia italiana; quali strumenti sono disponibili, o vanno immaginati, per permetterne la piena ed effettiva realizzazione.
È ovvio il dato delle diversità, anche profonde, tra Parlamento, consigli regionali ed assemblee provinciali e comunali, diversità che non si mancherà di evidenziare. Ma è altrettanto certo che alcune dinamiche decisive sono comuni, con la conseguenza che insieme, ed utilmente, possono essere affrontate.
Un'ultima avvertenza. Il termine «crisi» è qui utilizzato nel significato stretto di rottura di equilibri e modalità precedenti e dunque senza connotazioni di per sé positive o negative; tra l'altro, come vedremo tra breve, la perdita di vecchie prerogative appare ampiamente bilanciata da nuove opportunità. D'altronde, a dimostrazione di quanto prudenti abbiano da essere le valutazioni in materia sta il fatto che, ad esempio, in modo inedito rispetto alle consolidate prassi repubblicane le ultime crisi di Governo (aperte o rientrate) abbiano assunto forme esplicitamente parlamentari un buon motivo, dunque, per utilizzare il termine "crisi" in modo appropriato.
Il primo punto su cui desidero soffermarmi è quello dei fattori di crisi del ruolo tradizionale. In ogni caso, che il ruolo tradizionale delle assemblee sia posto in discussione, tra l'altro, anche dalle dinamiche di decentramento istituzionale, può costituire un'autentica sorpresa e, fino a poco tempo fa, certamente lo sarebbe stata. Il distacco di funzioni dagli apparati ministeriali e il loro trasferimento ad enti a base elettiva, infatti, è sempre stato letto come passaggio da una gestione burocratica ad un sistema a legittimazione democratica e dunque riferibile, direttamente o indirettamente, alle assemblee degli enti interessati.
Il fatto è che su questo dato, reale, si sono sovrapposti gli effetti critici di dinamiche generate direttamente dalla evoluzione del sistema politico e dalla trasformazione delle istituzioni che costringono ad una valutazione assai diversa e per certi aspetti di segno opposto.
Mi soffermo ora sull'evoluzione del sistema politico. Quanto al primo, e senza attardarsi su quanto più approfonditamente esaminato dalle relazioni precedenti, è evidente il riflesso della crisi dei partiti sia nel senso del ridursi della loro funzione di relais tra società e istituzioni (poiché una società più matura cerca un rapporto diretto con queste ultime; questa, in fondo, appare la vera posta in gioco del passaggio da un sistema proporzionale ad un sistema maggioritario), sia come venire meno della azione «collante» tradizionalmente svolta tra le numerose unità e livelli di un sistema istituzionale sempre più frammentato sia, infine, per la loro vistosa minor presa sulle rappresentanze politiche nelle assemblee (tendenza alla frammentazione dei gruppi e alla diretta autorappresentazione degli attori economico-sociale: Baldassarre).
Il dato, nel suo insieme, è chiaro anche se certo andrebbe articolato nel livello parlamentare, ove più note sono le conseguenze; in quello regionale (ove il permanere di un sistema elettorale a forte

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carattere proporzionale e di una forma di governo di tipo parlamentare attutiscono la portata dei correttivi introdotti e mantengono ancora oggi caratteri assai prossimi al sistema precedente) e in quello locale dove, invece, la presenza di un sindaco a elezione diretta e la concentrazione sull'esecutivo dei più rilevanti poteri di indirizzo e di gestione hanno fortemente innovato l'intero quadro istituzionale e politico.
Un ulteriore fattore di innovazione è dato dalla caduta della conventio ad excludendum (Labriola) anche se, ad onore del vero, di quel principio resta da distinguere il dato formale del trasferimento alle assemblee e alla legge di larga parte delle decisioni di un qualche rilievo del nostro sistema (di per sé, incontestabile) dal dato sostanziale di quanto ciò abbia per davvero portato ad una valorizzazione del Parlamento, e non soltanto ad una ipertrofia legislativa le cui prime vittime sono state, appunto, le stesse assemblee (vedi, ad esempio, l'espansione dei decreti legge), del che potrebbe a lungo discutersi.
In ogni caso, è certo che il mutamento del sistema politico ha messo in discussione i presupposti stessi non solo del funzionamento, ma del ruolo stesso delle assemblee rappresentative.
Una riflessione, ora, sulle dinamiche istituzionali. Ulteriori elementi di crisi provengono inoltre da dinamiche generali che attraversano le istituzioni e che vanno sia pure brevemente ricordate:
l'integrazione comunitaria, per il peso che in quella sede ha l'esecutivo nazionale e per il fatto (normalmente trascurato) che anche la prospettiva (peraltro non ancora prossima) di un riequilibrio all'interno degli organi della Unione europea a favore del Parlamento europeo non porta affatto ad un recupero delle assemblee nazionali ma semmai, almeno negli scenari oggi prevedibili, ad un loro ulteriore ridimensionamento;
la generale riduzione degli ambiti affidati alla gestione, e in parte anche alla regolazione, della mano pubblica con il conseguente trasferimento al mercato o al privato sociale;
il vistoso potenziamento degli esecutivi, sia in termini di (almeno tendenziale) legittimazione diretta sia per la riserva in loro favore di quote crescenti di poteri e funzioni (non ultima quella normativa, in ragione dei processi di ampia delegificazione).

Anche in questo caso sarebbe necessario più di un distinguo, basti pensare al fatto che proprio il potere regolamentare è invece affidato, in sede regionale e locale, al consiglio; ma si tratta di un dato che, pur comportando rilevanti problemi tecnici, è probabilmente destinato ad essere riassorbito in sede di riforma costituzionale (e nella sistemazione, ormai urgente, del sistema delle fonti), e che comunque non appare di tale consistenza da modificare il quadro appena tracciato;
il procedere, sia pure faticoso e non lineare, del processo di modernizzazione degli apparati e delle funzioni pubbliche, ispirato ai principi di orientamento al risultato (in termini di efficacia) e di uso razionale delle risorse (economicità ed efficienza), con inevitabili e profonde conseguenze rispetto ai modelli organizzativi (cosiddetta aziendalizzazione), funzionali (autonomia e competenze dei dirigenti) e normativi (ricorso crescente alle forme del diritto comune).
Non è necessario specificare i riflessi che ne derivano in termini di ruolo, prima ancora che di attribuzioni, sugli organi di vertice delle varie istituzioni e in primo luogo sulle assemblee: la profonda crisi della legge, sia in sé (come atto) che come momento del processo decisionale, sembra riassumere per intero le considerazioni appena operate chiarendone la portata.
Esaminiamo ora in particolare i processi di decentramento. Il quadro appena delineato, tuttavia, non sarebbe completo se omettessimo di considerare gli elementi di crisi indotti dai processi di decentramento, ciò che costituisce più specificamente l'oggetto del presente intervento.

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Un primo complesso di elementi critici è costituito, più che dal decentramento in sé, dal modo cui lo si è realizzato fino all'inizio degli anni novanta. Tra i numerosi esempi che si potrebbero richiamare, quelli più determinanti riguardano aspetti che, pur tra loro diversi, hanno inciso a fondo sul dato più qualificante e delicato per le assemblee, a qualunque livello esse operino, vale a dire su quello della piena disponibilità delle funzioni loro assegnate e della conseguente assunzione di responsabilità dei risultati raggiunti nei confronti dell'elettorato.
In effetti, un formidabile impedimento ad un corretto rapporto è stato rappresentato dalle caratteristiche di frammentazione e sovrapposizione degli ambiti decisionali che hanno contrassegnato la devoluzione delle competenze. Il risultato è stato talvolta l'impossibilità di procedere, più spesso all'innesto delle decisioni assunte a livello decentrato in un continuum avviatosi prima e destinato a perfezionarsi poi, con evidente impossibilità di riferirne gli indirizzi (e, a maggior ragione, le responsabilità) all'uno o all'altro dei livelli istituzionali via via interessati.
Si dirà che questo aspetto è comune anche agli esecutivi e agli stessi apparati, ma resta il fatto che sono le assemblee ad essere legittimate direttamente dall'elettorato e sono dunque, in particolare, queste ultime a soffrire di ogni elemento che ne confonde insieme il ruolo e la responsabilità.
Un ulteriore e determinante elemento di crisi è stato dovuto alla pressoché totale deresponsabilizzazione delle assemblee regionali e locali in ordine al tema della provvista delle risorse necessarie per l'esercizio delle funzioni loro affidate e, dunque, alla loro estraniazione rispetto alle politiche fiscali. L'asimmetria tra decentramento delle funzioni e accentramento del prelievo, che ha caratterizzato gli ultimi decenni e tutta l'esperienza delle regioni a statuto ordinario, non ha generato conseguenze solo sul lato (più visibile) dell'aumento della spesa pubblica. Ha, più a fondo, alterato gli elementi costitutivi del ruolo delle assemblee perché da un lato ha minato la selezione della domanda politica, inevitabilmente correlata alla scelta su chi e quanto dovesse addossarsi i costi dell'offerta di politiche pubbliche e, dall'altro, ha ostacolato il circuito virtuoso del controllo dal basso sull'uso delle risorse, operato in primo luogo dall'elettore contribuente.
È possibile che un tale sistema abbia trovato, in passato, più di una amministrazione locale disposta a scambiare la diminuzione di autonomia con la riduzione della responsabilità. È però certo che nel lungo periodo sono risultati stravolti i fondamenti stessi dell'autonomia e in particolare il ruolo affidato alle assemblee anche perché la maggioranza delle risorse, rimaste al di fuori del contratto tra i consigli e relativa cittadinanza, finivano per essere oggetto di negoziazione, per lo più sotterranea, condotta con i livelli centrali dai rispettivi esecutivi.
Gli anni novanta, caratterizzati dal rilancio delle autonomie locali (legge n. 142 del 1990) e del decentramento istituzionale (legge n. 591 del 1997), innestano ulteriori elementi di mutamento nel ruolo delle assemblee. Di alcuni, come la riforma operata dalla legge n. 81 del 1993 sulla elezione diretta del sindaco, già si è detto, mentre altri richiedono qualche accenno.
Il primo, e in prospettiva più dirompente, è l'applicazione del principio di sussidiarietà verticale, vale a dire la ridefinizione del nostro sistema istituzionale e amministrativo sulla base dei principi di prossimità (ai destinatari), di ottimalità (delle dimensioni territoriali), di adeguatezza e di differenziazione (articolo 4, comma 3, della legge n. 59 del 1997).
È bene infatti sottolineare che tali criteri non si arrestano (come per lo più si ritiene) al solo momento della allocazione delle funzioni (con il trasferirne la titolarità ai soggetti più decentrati) ma si estendono anche alla gestione, ed anzi si può, a ragione, affermare che comportano l'inversione del rapporto tra i due elementi ponendo il primo (titolarità) in funzione del secondo (esercizio e gestione).

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Se questo è vero, è evidente che il nuovo sistema non si limita affatto a sostituire nuovi soggetti a quelli precedentemente titolari ma ne impone una trasformazione qualitativa perché la sussidiarietà e i suoi corollari «relativizzano», per cosi dire, il soggetto istituzionale competente (comune, provincia o regione che sia) ponendo invece l'accento sulle caratteristiche oggettive della funzione e del contesto in cui va esercitata. Ne consegue una fisiologica differenziazione non solo in ordine alla attribuzione (potendo la stessa funzione essere intestata ad un soggetto in un caso e a quello superiore o inferiore in un altro) ma, e forse ancor più, al momento della gestione (forme collaborative tra più enti territoriali o decentrate all'interno dello stesso ente, specie se di ampie dimensioni).
Quanto tutto ciò si allontani dal paradigma consueto, vale a dire dalla sequenza necessaria assemblea-ente-funzioni di appartenenza, e quanto dunque imponga di rivederne i presupposti, interamente fondati sulla preminenza della soggettività degli enti, non è necessario aggiungere.
Fra l'altro, ciò comporta anche una profonda trasformazione del centro nazionale. È evidente, infatti, che più si procede a processi di forte decentramento, più l'accentuarsi dei livelli di autonomia richiede forti innesti al centro in grado di garantire l'unitarietà del sistema per le funzioni non divisibili.
La nascita, o meglio l'espansione, di un centro non statale è cosi resa visibile dalla necessità di garantire che ciò che un tempo era svolto dai vertici politici o burocratici sia ormai assicurato in parte dalla residua amministrazione statale e in parte da sedi di cooperazione al centro tra Stato, regioni ed autonomie locali. Anzi, è facile prevedere che più il decentramento sarà ampio, più forte sarà l'esigenza di valorizzare queste forme di cooperazione. La recente riforma della conferenza Stato-regioni-città e la soluzione adottata qualche giorno fa dalla Camera dei deputati in ordine alla composizione e alle funzioni del Senato in sede di riforma della Costituzione, ne costituiscono una prova lampante.
Quale che sia la soluzione finale prescelta, se cioè assicurare questi innesti solo a livello di esecutivo o prevederne un «raddoppio» (sia pure sostanziale e politico) sul piano parlamentare, va comunque scontato un riflesso interno agli enti dovuto alla peculiare (ancorché non esclusiva) valorizzazione dei presidenti o dei sindaci (e, più in generale, degli esecutivi) in chiave di rappresentanza esterna e di partecipazione alle sedi cooperative.
Analoghe conseguenze si manifestano in ragione di dinamiche del tutto diverse, e in particolare a causa della espansione di moduli contrattuali non solo come strumento di collaborazione tra più soggetti pubblici e privati ma come principale forma di regolazione dei rapporti tra diversi livelli di governo e addirittura modalità di individuazione delle funzioni o dei beni da trasferire. Gli accordi previsti per i patti territoriali e le intese che punteggiano il decreto attuativo del capo I della legge n. 59 del 1997 ne costituiscono esempi significativi.
Si tratta di strumenti che, oltre ad assicurare in positivo flessibilità e diversificazione, pongono anche problemi delicati: tra gli altri, e per quanto qui interessa, un effetto appunto analogo a quello prima intravisto vale a dire il tendenziale spostamento sull'esecutivo (quale che sia poi l'organo competente all'adozione dell'atto finale) di una quota di poteri riguardanti aspetti anche strategici della vita dell'ente.
Il terzo aspetto dei nuovi processi di decentramento riguarda il rapporto tra gli enti territoriali e le altre autonomie a livello locale oggi raccolte, con qualche approssimazione, nella categoria di «autonomie funzionali», così come la legge n. 59 del 1997 qualifica ad esempio le camere di commercio o le università.
Si tratta di una questione non certo nuova, basti ricordare il dibattito che si apri all'inizio degli anni settanta in ordine alla esatta qualifica di quegli «altri enti locali» cui fa riferimento l'articolo 118,

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comma 3, della Costituzione e alla possibilità o meno di questi ultimi di essere considerati come soggetti destinatari della delega di funzioni amministrative regionali. Dibattito che rapidamente si trasferì sul terreno istituzionale e politico con l'affermarsi dell'orientamento secondo cui il complesso dei poteri pubblici presenti a livello locale doveva fare riferimento a, e trarre una propria legittimazione da, gli enti a base elettiva e le relative assemblee, cui riconoscere competenze generali. La legge sul cosiddetto parastato n. 50 del 1975, le sperimentazioni comprensoriali, la stessa concezione di un continuum tra i diversi enti territoriali fondato sulla «centralità» dei rispettivi organi rappresentativi ne furono significative espressioni.
Oggi la questione si presenta in termini assai diversi e per certi aspetti opposti. Il rispetto di altre autonomie pubbliche a lato di quelle territoriali e direttamente espressive di specifiche comunità o realtà economiche costituisce una (sia pur particolare) accezione della cosiddetta sussidiarietà orizzontale ampiamente dibattuta in sede di Commissione per le riforme costituzionali ed è puntualmente sanzionata dal capo I della legge n. 59 del 1997 i cui conferimenti non solo sono in principio diretti a «province, comuni, comunità montane e altri enti locali» (articolo 1, comma 1) ma debbono far salve le competenze già esercitate «in regime di autonomia funzionale» da camere di commercio e università degli studi (articolo 1, comma 4, lettera d). D'altronde, proprio alla salvaguardia di esigenze analoghe vanno riferite le prescrizioni della legge delega (articolo 21 della legge n. 59 del 1997) e del decreto delegato (articoli 135 e seguenti) che in materia di servizio scolastico hanno dato la priorità al decentramento in favore degli istituti scolastici e solo in via sussidiaria alle regioni e agli enti territoriali.
Naturalmente sarebbe schematico oltre che errato sostenere che la valorizzazione di queste realtà va a scapito delle assemblee rappresentative su base politica, ma è certo che il dato attuale appare incompatibile con quel ruolo esteso ed assorbente loro riconosciuto tempo addietro ed è assai probabile che proprio su questo fronte si pongano, nel prossimo futuro, delicate questioni in ordine al ruolo da assegnare e al rapporto reciproco da concepire tra sedi che partecipano, sia pure in senso lato e certo a diverso titolo, ai caratteri e alla natura di soggetti a base rappresentativa.
Non si tratta, lo si ripete, di problemi nuovi, ed anzi per certi aspetti questi motivi si innestano nel filone delle altre forme di rappresentanza (quelle di democrazia diretta, quelle degli utenti, eccetera) che arricchiscono le sedi di rappresentanza politica e, insieme, ne presuppongono una ridefinizione e un più esatto inquadramento: ma è indubbio che, nel contesto appena riferito, assumono una ampiezza e una problematicità assai maggiore che in passato.
Il secondo punto su cui desidero soffermarmi riguarda le ragioni di un nuovo ruolo. La rassegna dei fattori di cambiamento appena effettuata indica, nello stesso tempo, le ragioni più profonde di un forte rilancio delle assemblee come elementi determinanti del sistema democratico del nostro paese.
Vediamo le ragioni. Proprio per le cose appena viste c'è innanzitutto la necessità di attrezzare le sedi rappresentative in modo da promuovere e facilitare il diretto instaurarsi con la società e con le sue articolazioni di relazioni che non sono riconducibili, o non possono esaurirsi, al momento elettorale o al rapporto con il complesso esecutivi-apparati. Una rete tanto più ricca e complessa quanto più ampio e variegato è destinato ad essere l'insieme dei soggetti (singoli o collettivi, economici o sociali, spontanei o organizzati) riconoscibili in base ai nuovi criteri della sussidiarietà e del pluralismo.
Non sempre, infatti, e non fino in fondo, si è compreso che la valorizzazione di questi elementi non può realizzarsi senza una iniziativa delle assemblee, insieme rispettosa e consapevole, nella direzione appena indicata.

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Una ulteriore esigenza di intervento da parte degli organi rappresentativi nasce dalla necessità di bilanciare le dinamiche esecutivi-apparati che possono facilmente scivolare in forme autoreferenziali, a cominciare da una non impossibile riespansione degli ambiti di intervento e di regolazione pubblica. Non si tratta, peraltro, dell'unica esigenza di bilanciamento. Accanto e oltre la necessità di correggere le asimmetrie interne al sistema pubblico si pone, più a fondo, quella di intervenire sul lato esterno, quello della redistribuzione delle modalità di rappresentanza che conseguono al nuovo assetto e al già richiamato potenziamento degli esecutivi.
È chiaro infatti che presso questi ultimi troveranno più facilmente espressione gli interessi sufficientemente forti per rappresentarsi e per sostenere la competizione con gli altri interessi in gioco, ma proprio questo apre il delicato problema di quelle realtà che, vuoi per insufficiente capacità organizzativa, vuoi per intrinseca debolezza, non sono in grado di far sentire la propria voce.
Resta infine, sempre più acuta, la necessità di immaginare un ruolo reale e significativo per le rappresentanze politiche nelle assemblee, un ruolo posto in discussione dalle recenti leggi (in particolare, la legge n. 81 del 1993) che hanno reso il sindaco e il presidente della provincia un organo, insieme, direttamente legittimato dal corpo elettorale e principale attore nella formulazione ed attuazione dell'indirizzo politico.
Le forme di recupero all'assemblea del ruolo tradizionalmente svolto, che spesso in tempi recenti si sono manifestate nelle forme più varie (si veda, ad esempio, la sostituzione di assessori di esclusiva scelta sindacale con altri graditi alla maggioranza consiliare), appaiono improprie e non coerenti con il nuovo assetto delineato dalle riforme degli anni '90 ma certo esprimono la difficoltà (paradossalmente più della maggioranza che dei gruppi di opposizione) a trovare una propria nuova e convincente collocazione.
Non mancano dunque, come si può constatare, le ragioni di un rilancio delle assemblee verso nuove forme di azione e di organizzazione: ma, di certo, la forza delle cose e l'emergere di bisogni non diventano di per sé capacità di innovazione senza un ripensamento e la prospettazione di ipotesi intorno al ruolo da giocare.
Affrontiamo ora i temi. Quattro, in particolare, sembrano i principali «temi» intorno ai quali procedere alla riprogettazione delle sedi della rappresentanza politica.
Il primo è quello delle assemblee, in particolare quelle regionali e locali, come luogo del contratto tra cittadino contribuente e cittadino destinatario delle politiche pubbliche di regolazione e di erogazione. Qui non si tratta altro che di riprendere quanto già osservato in precedenza, vale a dire la necessità di riattivare insieme una corretta procedura di selezione della domanda politica (necessariamente correlata alla scelta di chi e quanto debba addossarsi i costi dell'offerta pubblica) e il tratto più autentico della responsabilità politica, vale a dire il circuito del controllo dal basso sul corretto uso delle risorse, operato in primo luogo dall'elettore contribuente.
Le discussioni sull'entità delle risorse in tal modo acquisite dal sistema delle autonomie e sulla innegabile necessità di sedi centrali di redistribuzione e trasferimento anche a fini perequativi non debbono portare a nascondere, o peggio ancora a dimenticare, il dato di fondo che l'autonomia impositiva è parte essenziale della autonomia finanziaria e che senza di questa la responsabilità politica delle assemblee di fronte al proprio elettorato si riduce ad un simulacro che mina alla radice, insieme, la legittimazione di queste ultime e dell'intero sistema della rappresentanza democratica. Significativamente, anche il recente documento di programmazione economico-finanziaria per gli anni 1999-2001 indica la necessità di consolidare il processo teso a «riallineare le responsabilità in ordine all'erogazione della spesa con quelle relative al prelievo fiscale» (pagina 50), sicché può concludersi che i tempi sono forse maturi per

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invertire la classica relazione tra questi due elementi costitutivi del sistema democratico e per affermare che non può esservi rappresentanza politica senza effettiva corresponsabilità nelle politiche fiscali.
Il secondo tema è quello delle assemblee come luogo del controllo in due direzioni:
quella, più tradizionale, sul combinato esecutivo-apparati pubblici, come verifica della osservanza del patto stipulato con l'elettorato, e cioè della attuazione del programma. Versante tradizionale, si è appena detto, ma che certo pone problemi inediti in ragione dell'autonomia di gestione della dirigenza amministrativa e del prevedibile aumento dei processi di affidamento all'esterno (a soggetti privati, a forme miste pubblico-privato, ad altre amministrazioni pubbliche) della gestione operativa di compiti e servizi, mentre le assemblee sono ancora oggi prevalentemente attrezzate sulla ipotesi, ben diversa, della gestione diretta. Sicché senza una adeguata riconversione, le sedi di rappresentanza rischiano o di ostacolare queste politiche (il che sarebbe contraddittorio) o di abdicare alla propria essenziale funzione;
quella, del tutto nuova, in funzione di garanzia delle prerogative della società (sussidiarietà orizzontale) e dunque del rispetto dei limiti posti all'espansione dell'intervento pubblico nonché di verifica della ricaduta delle politiche regolative e di erogazione nei confronti dei singoli, delle imprese, dei soggetti sociali.
Si tratta di una sfida di enorme portata. In un sistema che, tramite la semplificazione, persegue (anche) obbiettivi di deregulation, il problema della «copertura» delle decisioni assunte dalle assemblee non è più solo quello del reperimento delle risorse necessarie (articolo 81 della Costituzione) ma, più a fondo, quello della valutazione dei costi sopportati dalla società in ragione di nuove regolazioni o nuovi interventi. Il che da un lato dovrebbe portare alla esatta stima preventiva degli oneri (spesso impliciti) trasferiti all'esterno delle istituzioni pubbliche (Regulatory impact analysis, RIA), con la possibilità per gli interessati di formulare le proprie osservazioni, dall'altro richiede l'utilizzazione di nuovi e più «morbidi» strumenti di regolazione (interventi regolativi a termine, ecc.).
Che in sede di indagine OECD (marzo 1998) si interroghino i singoli paesi per sapere se la proposta di nuove regolazioni pubbliche debba essere accompagnata dalla loro giustificazione (e dalla valutazione di possibili alternative) mentre nel nostro ordinamento si escludono dall'obbligo generale di motivazione proprio gli atti regolamentari e quelli a contenuto generale (articolo 3, comma 2, della legge n. 241 del 1990), la dice lunga sul cammino che resta da compiere.
Inutile sottolineare, in materia, il ruolo decisivo che spetta alle assemblee. Si può solo aggiungere la particolare connessione tra questa funzione e i processi di decentramento: in molti paesi, e certamente nel nostro, questi ultimi si sono tradizionalmente associati ad un aumento dell'intervento pubblico, sicché la mancanza di un serio impegno su questo fronte a livello regionale e locale porterebbe l'intero sistema ad una netta espansione dell'intervento pubblico proprio nel momento in cui, almeno in termini generali, se ne persegue il contenimento (vedi i provvedimenti annuali di semplificazione previsti dal capo III della legge n. 59 del 1997).
Il terzo tema è quello delle assemblee come voce degli interessi deboli, o diffusi o delle generazioni future. La particolare concentrazione di poteri decisionali sull'esecutivo e sulla dirigenza amministrativa provoca facilmente, come si è detto, la polarizzazione su questi livelli dei gruppi di interesse e specialmente dei gruppi di pressione. Questo non significa, naturalmente, che queste sedi siano esonerate dal valutare in termini più ampi gli interessi in gioco, ma è certo che si pone un problema di bilanciamento in grado di assicurare il dovuto spazio nel processo decisionale alle categorie che per intrinseca debolezza o addirittura per l'assenza di titolarità attuali rischiano di rimanere «afone».

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Si tratta, certo, di un obbiettivo di particolare difficoltà ma in sede scientifica si è ormai ampiamente posto in evidenza il crescente rilievo di questo compito insieme al dato, strettamente connesso, che meno le sedi rappresentative saranno in grado di assolvere a questo compito più la mediazione finirà per trasferirsi verso altri momenti e verso altri poteri (in particolare, quello giurisdizionale) rendendo il problema, se possibile, ancora più complesso.
L'ultima funzione da riservare alle assemblee è quella di farne altrettanti garanti della reciproca compatibilità tra le diverse politiche pubbliche, potremmo dire della restituzione del carattere di generalità alle politiche di settore, il che per molti aspetti pone le sedi di rappresentanza non prima degli indirizzi specifici o della attività di gestione (secondo il classico paradigma del processo decisionale che procede dall'alto verso il basso e dal generale al particolare) ma dopo, come altrettanti custodi dei «nodi» delle reti attraverso cui scorrono i diversi flussi informativi ed in coerenza con il loro carattere di circolarità.
Senza questa avvertenza, non solo continuerebbe ad essere concretamente impraticabile (come fino ad ora largamente è stata) l'applicazione dei principi (leggi cornice, norme di principio, eccetera) che vogliono che le decisioni prese in queste sedi siano per davvero «generali», tali cioè da non occupare gli spazi decisionali riservati ad altri soggetti autonomi, ma finirebbe per essere (parzialmente) senza significato anche l'istituzione di una camera delle autonomie la cui irrinunciabile necessità si giustifica proprio all'interno di un diverso (e, per certi aspetti, opposto) processo decisionale caratterizzato, in parte significativa, da input provenienti dal sistema regionale e locale.
Inutile aggiungere che l'effettiva soddisfazione di ognuno di questi ruoli sarebbe pregiudicata senza la capacità delle assemblee di dotarsi di strumenti procedurali atti a garantire l'adozione, in tempi accettabili, di decisioni.
Il terzo punto su cui desidero soffermarmi riguarda gli strumenti. Per quanto in questa sede sembri prioritaria più l'indicazione dei motivi della crisi del ruolo tradizionale delle assemblee e le ragioni che portano ad individuarne alcuni nuovi di estremo rilievo, tuttavia è doveroso sforzarsi di immaginare con quali forme e attraverso quali modalità tali compiti possano essere concretamente svolti.
In proposito, si possono individuare tre direttrici principali. La prima riguarda le cose da evitare, vale a dire tutti quei comportamenti la cui ragione ultima consiste nel tentativo di riproporre il vecchio ruolo tradizionalmente giocato. Si tratta di una reazione tanto diffusa quanto comprensibile ma evidentemente, nel nuovo contesto, insieme inutile e dannosa. Vi rientrano i casi (tutt'altro che rari) nei quali si riporta al centro una materia prima decentrata, si riregola un settore affidato al mercato o all'autonomia dei privati, si rilegifica una materia in precedenza delegificata. O quando, a fronte dello spostamento di poteri verso l'esecutivo, si finisce per aggiungere ulteriori fasi parlamentari o consiliari (quali pareri, interventi o altro: si veda, ad esempio, l'intervento delle commissioni parlamentari di merito sugli schemi dei regolamenti di delegificazione) che rischiano di contraddire le esigenze da cui il trasferimento era stato motivato aumentando il tasso di indeterminatezza della titolarità del potere decisionale finale e della relativa responsabilità. Benché l'esito sia ovviamente contraddittorio con le premesse, assai meno ovvi e banali sono i motivi per cui ciò accade. Il primo è tecnico-giuridico, vale a dire la mancanza (nel sistema costituzionale vigente) di principi, filtri e controlli atti a garantire i processi avviati e ad impedire, di conseguenza, recuperi o inversioni. La principale debolezza (ancorché priva di alternative a costituzione invariata) delle attuali riforme istituzionali e in particolare di quelle riguardanti il conferimento di compiti a regioni e autonomie locali (cosiddetto federalismo amministrativo), consiste nel fatto che sono operate con legge ordinaria e dunque

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costantemente esposte a modifiche (anche radicali) apportate dalla legislazione successiva. Il secondo motivo è invece più profondo e sostanziale, e può ridursi alla secca alternativa secondo cui o le assemblee accettano di «reinventarsi» ridefinendo il proprio ruolo in ambiti, significati e forme diverse (come appunto si cerca di fare in questa occasione) oppure fatalmente prevarrà la spinta inerziale volta a recuperare i precedenti poteri e il ruolo tradizionalmente occupato. Il che è più che sufficiente a dimostrare l'importanza e l'urgenza della riflessione odierna.
Vediamo ora la ridefinizione dei compiti. La seconda direttrice riguarda invece le scelte da compiere in positivo, vale a dire, la necessità, accanto ai compiti più consueti, di:
instaurare rapporti più incisivi con le articolazioni della società di cui si è detto (dalle autonomie funzionali e dalle imprese agli interessi diffusi). È probabile che tali esigenze ricadono prevalentemente sulle procedure, l'organizzazione e l'attività delle commissioni;
garantire il quadro di riferimento, specifico e sistematico, nelle relazioni collaborative tra i diversi livelli istituzionali o con le amministrazioni di pari livello attraverso cui, come si è detto, passerà una parte significativa delle politiche pubbliche;
provvedere nei termini già accennati, e con la partecipazione dei soggetti interessati, alla valutazione preventiva delle effettive ragioni che richiedono una ulteriore regolazione e dell'impatto che ne deriva, oltre che porre mano ad una periodica attività di «manutenzione» delle normative e delle delibere quadro adottate in modo da provvedere, sulla falsariga del provvedimento annuale di delegificazione previsto in sede nazionale dall'articolo 21 della legge n. 59 del 1997, alla semplificazione delle prescrizioni in vigore con la abrogazione di quelle inutili e la messa a punto (in base ai dati offerti dall'applicazione) delle restanti;
rappresentare l'attento e continuativo terminale dei flussi informativi e dei sistemi di controllo sul funzionamento della pubblica amministrazione (intesa in senso allargato), cominciando dal rapporto tra esecutivo e dirigenti, nel quale la coerenza a direttive e programmi e la verifica di risultati o dei consuntivi vanno considerati elementi rilevanti non solo per l'esecutivo (che ne mantiene per intero la responsabilità) ma per le stesse assemblee (in termini di rapporto con le sedi di governo), e finendo con gli esiti dei controlli operati sia all'interno (controllo di gestione, nuclei di valutazione) che all'esterno (controllo di gestione di secondo grado previsto dalla recente riforma della Corte dei conti).

Nel quadro istituzionale che si va delineando, un'assemblea che non sappia presidiare con continuità questi versanti perde per ciò stesso la possibilità di verificare larga parte del concreto operato dell'esecutivo e degli apparati che direttamente o indirettamente vi fanno riferimento, mancando una delle proprie fondamentali funzioni.
Mi soffermo, infine, sui riflessi procedimentali e organizzativi. È evidente, comunque, che l'innovazione di cui fin qui si è detto non può limitarsi solo al profilo funzionale o ai comportamenti degli eletti. Si richiede, in realtà, un poderoso sforzo per attrezzare le assemblee al nuovo ruolo.
Accanto dunque alla necessità di riconvertire la cultura e la stessa autorappresentazione dei singoli componenti, è infatti necessario porre mano a regole e modelli organizzativi più adeguati, da introdurre mediante la riforma degli statuti e dei regolamenti consiliari.
Molti degli elementi che si sono indicati sono destinati infatti a tradursi in modalità procedimentali, con la sola precisazione che anche le assemblee dovranno imparare ad andare ben oltre la rappresentazione quantitativa delle nuove norme annualmente approvate e ad autotestare, piuttosto, la congruità e la qualità delle proprie funzioni, da quelle dicontrollo alla scelta di non estendereulteriormente l'ambito di regolazione pubblica.

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Ma una parte almeno dell'innovazione, appunto, dovrebbe interessare anche il profilo organizzativo. Si pensi all'articolazione interna delle assemblee, ove le commissioni di settore andrebbero con più coraggio rimodellate per ambiti funzionali correlati ai macroobbiettivi e agli interessi finali perseguiti (più che alla ripartizione settoriale degli apparati che vi operano), favorendo in tal modo la verifica degli effetti nonché il raffronto e la reciproca integrazione delle diverse politiche. Si pensi, ancora, agli stessi uffici delle assemblee, generalmente attrezzati più per produrre nuove leggi o delibere che per le funzioni che si sono illustrate.
Tutto ciò, infine, comporta anche una diversa percezione e considerazione della variabile tempo poiché mentre l'attività di produzione normativa poteva essere concentrata (sia pure entro certi limiti) in periodi determinati e forzatamente discontinui, i nuovi compiti che attendono le assemblee richiedono invece una forte continuità, implicando un profondo ripensamento della scansione e della organizzazione dei rispettivi lavori.

PRESIDENTE. Do ora la parola al professor Silvano Labriola, ordinario di diritto costituzionale italiano e comparato presso l'università Federico II di Napoli, che svolgerà una relazione su: la qualità della decisione ed il confronto tra maggioranza ed opposizione.