8 maggio 1998


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(Le Assemblee elettive verso la democrazia decidente)

ANTONIO BALDASSARRE, Relatore. Chiedo una certa generosità di giudizio per la sommarietà delle considerazioni espresse nella mia relazione ma per contenermi nel tempo ho dovuto seguire questa strada.
Le istituzioni costituzionali italiane - e, tra queste, il Parlamento e le assemblee elettive regionali, provinciali e comunali - stanno attraversando una difficile fase di transizione - come ricordava ora Giuliano Amato - che succede ad un lungo periodo nel quale il Parlamento è stato il centro politico-istituzionale del processo decisionale pubblico.
In Assemblea costituente la tesi, allora cara alle sinistre, per le quali il Parlamento avrebbe dovuto essere la sola sede deputata della sovranità popolare, fu battuta. A prevalere fu la posizione dell'ala popolare del partito democristiano - in particolare quella dell'allora giovanissimo costituente, Aldo Moro - per la quale posizione, in luogo di una sovranità popolare interamente assorbita in quella parlamentare, avrebbe dovuto essere affermata (uso questo verbo perché faccio riferimento alla I Sottocommissione, cioè all'inizio dei lavori) una sovranità della Costituzione nei cui percorsi pluralistici, attraverso la garanzia dei diritti di libertà degli individui e delle formazioni sociali, avrebbe dovuto svolgersi la sovranità popolare attraverso l'azione dei partiti politici.
Mi permetto di ricordare l'importanza di Aldo Moro come costituente. Egli è stato forse il costituente che ha dato il maggior contributo all'elaborazione e soprattutto alla giustificazione teorica del più importante articolo della nostra Costituzione, l'articolo 2, quello relativo ai diritti inviolabili degli individui e delle formazioni sociali.
Tuttavia, per oltre quarant'anni - in parte per ragioni storiche (la Resistenza) e in parte per la tradizionale fragilità delle organizzazioni della società civile italiana - i partiti politici, raccolti in Parlamento, hanno operato come i protagonisti assoluti della politica nazionale. Lungo tutti questi anni il percorso decisionale si è snodato attraverso gli scontri, gli incontri ed i compromessi messi in atto dai vertici dei partiti fuori e dentro il Parlamento.
Il Parlamento comunque ha rappresentato pur sempre il luogo istituzionale nel quale il processo decisionale aveva la sua espressione formale e definitiva. Era nell'Assemblea elettiva, infatti, che la proposta finale della maggioranza - seppure contrattata - passava alla verifica di tutti gli altri gruppi politici per essere approvata e - se del caso - corretta o integrata; non è un caso che nel Parlamento italiano la compartecipazione dell'opposizione al processo decisionale è stata - fin dalla prima legislatura - costantemente molto elevata, quanto meno se lo si confronta con i Parlamenti degli altri paesi europei.
Tutto ciò è stata la conseguenza del fatto che il nostro sistema democratico è nato e si è sviluppato come uno «Stato dei partiti» e che il Parlamento - al pari delle assemblee elettive regionali e locali - era eletto con il sistema proporzionale (il quale favoriva appunto la formazione e l'azione dei partiti all'interno delle Assemblee). L'uno e l'altro elemento concorrevano a fare anche del Parlamento, appunto, un «Parlamento dei partiti». Tuttavia, la «centralità del Parlamento» è stata pure la risposta istituzionale ad una situazione anomala: l'esistenza di un vincolo internazionale - imposto dalla divisione del mondo in due blocchi contrapposti

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che si riproduceva all'interno del paese - per il quale alla sinistra comunista era impedito l'accesso al Governo (la cosiddetta conventio ad excludendum).
L'insieme di questi fattori hanno condotto in Italia ad una sorta di ultrattività del parlamentarismo, in forme che si ritenevano superate negli altri paesi europei (questa mattina nella sua analisi lo ha ricordato il professor Tom Burns). Come nello schema kelseniano, così nella realtà italiana il Parlamento è stato la sede istituzionale della mediazione fra maggioranza governativa ed opposizione: la sede istituzionale - come è stato detto allora da Giuliano Amato - del «governo consociativo del paese».
Questo fenomeno è stato così importante per la vita della nazione da influenzare la stessa concezione della politica. Per lunghi anni infatti la politica è stata concepita e praticata dalle forze politiche più come compromesso, mediazione e tattica che come decisione, scelta e strategia.
E se l'idea di Pietro Ingrao (consentitemi di ricordare anche Pietro Ingrao in questa sede, dove è stato Presidente, il suo contributo di intelligenza e di onestà offerto alla politica italiana), che ipotizzava una rete di assemblee elettive dalla periferia al centro (una specie di «consigli democratici»), attraverso la quale avrebbe dovuto fluire la complessa articolazione della società italiana, non si è realizzata (e forse non poteva realizzarsi), tuttavia il modello di una democrazia assembleare ha avuto, almeno fino a tutti gli anni settanta, un rilevante successo pratico.
Gli anni settanta sono stati, per l'appunto, definiti da numerosi studiosi gli anni degli statuti; e tutti, dagli statuti regionali a quello dei lavoratori, muovevano da una concezione della democrazia come compresenza e mediazione del maggior numero possibile degli interessi suscettibili di rappresentanza. Per rimanere all'argomento, è noto che pressoché tutti gli statuti delle regioni ad autonomia comune hanno prescelto una forma di governo nella quale il consiglio regionale costituisce l'autentico centro istituzionale e persino l'organo della normazione sia legislativa che amministrativa.
Sul piano parlamentare, i regolamenti del 1971 - oggi in più parti modificati, ma non ancora totalmente superati - hanno rappresentato l'espressione più importante della filosofia allora dominante, che Giuliano Amato definì, sul finire degli anni settanta, «consociativa». Tutti gli istituti e gli strumenti contenuti in tali regolamenti seguivano coerentemente questa ispirazione. Uno degli esempi più significativi è la Conferenza dei presidenti di gruppo, per mezzo della quale il Presidente della Camera, insieme ai presidenti dei gruppi parlamentari determina la programmazione e la calendarizzazione dei lavori: è anch'esso un istituto «partecipativo», attraverso cui il Parlamento autonomamente definisce priorità e tempi delle proprie decisioni.
Tuttavia, la modernizzazione della società italiana e, più in generale, i grandi cambiamenti dello scenario economico e politico mondiale premevano su istituzioni e su un sistema partitico che apparivano sempre più chiusi in se stessi e autoreferenziali.
All'inizio degli anni '80 era già chiaro che lo Stato assistenziale era definitivamente in crisi e che la politica economica keynesiana non produceva più gli effetti sperati: l'uno e l'altro fenomeno conducevano inevitabilmente a un ritorno e a una rivalutazione del ruolo del libero mercato e a un nuovo equilibrio, oltreché a una diversa distribuzione quantitativa e di ruolo, fra lo Stato, le famiglie, le imprese e le formazioni sociali (gruppi no profit che affollavano sempre più le società moderne).
Sembrava giunta l'ora che il seme pluralistico, gettato nel terreno della democrazia italiana in Assemblea costituente, in particolare da Moro e da altri che si muovevano con lo stesso sentimento di Aldo Moro, potesse germogliare e finalmente svilupparsi con tutta la propria forza e potesse emanciparsi da quella forma di protettorato cui l'avevano costretto i partiti. Ma perché ciò fosse

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potuto accadere, ci sarebbe stato bisogno di un'ampia revisione costituzionale e di una profonda riforma elettorale, dirette ad avvicinare sempre più i cittadini alle istituzioni e a togliere ai partiti lo scettro del principe. Come è noto - è stato già qui ricordato - tutti i non pochi tentativi di autoriforma del sistema (quelli degli anni ottanta) sono falliti e sono stati necessari alcuni eventi esterni al sistema per dare il via al processo di riforma, che oggi è di fronte al Parlamento: in particolare, il referendum elettorale e i colpi di maglio della magistratura sui tradizionali modi di finanziamento della politica.
Il plebiscitario successo del referendum elettorale del 1993, con la conseguente massiccia indicazione a favore di un sistema maggioritario, è stato la testimonianza - come hanno ricordato questa mattina sia il Presidente Mancino sia il professor Scoppola - dell'avvenuta maturazione dell'elettorato italiano e dell'emancipazione compiuta dal cittadino, sempre più insofferente ai giochi fini a stessi dei partiti e alle appartenenze partitico-ideologiche e sempre più desideroso di determinare con il proprio voto gli orientamenti politici e, persino, i destini politici delle singole persone, dei candidati, degli eletti. Detto con uno slogan, oggi comune è il sentimento secondo il quale la decisione su chi governa deve spettare al popolo e non più ai partiti.
Accanto a questo fenomeno se ne è prodotto un altro, in parte causato dagli stessi processi di modernizzazione della società italiana ora accennati, in parte accelerati dai colpi inferti dalle indagini giudiziarie sui modi tradizionali di finanziamento (illecito) della politica, modi che, comunque, non erano più ripetibili a causa dell'esaurimento delle scorte, se così si può dire. Il risultato è che attualmente il finanziamento alla politica, non solo si è ridotto per volume complessivo, ma è profondamente mutato di senso: dal prevalente finanziamento al partito come organizzazione si è passati al prevalente finanziamento ai singoli uomini politici.
Questi processi, tuttavia, non si sono tradotti in un coerente svolgimento di riforma istituzionale; coerenza, mi permetto di dire, che non appare neppure completamente assicurata dalle proposte della Commissione bicamerale, in più punti, anche importanti: cito per tutti quello del cosiddetto federalismo.
C'è oggi una legge elettorale che s'è fermata a metà poiché, da un lato, stabilisce un meccanismo maggioritario che, bene o male, assicura l'alternanza al potere, ma, dall'altro, attraverso la permanenza della quota proporzionale contiene un potente incentivo - più potente della legge elettorale - alla proliferazione di partiti e partitini, divenuti ormai quasi la proiezione organizzativa di singoli uomini politici. Di qui lo strano - e solo apparentemente contraddittorio - fenomeno dell'esistenza di due blocchi contrapposti, accompagnata da una moltiplicazione, anche all'interno dei partiti maggiori, di gruppi e gruppuscoli, che frammentano l'intero spettro politico e perfino le grandi formazioni partitiche.
Sul piano del rapporto cittadini-istituzioni, si è prodotto un analogo processo di mescolanza delle logiche e delle forme. Da un lato, si assiste ad una progressiva perdita di senso della rappresentanza di tipo partitico, favorita anche dal deperimento delle ideologie e delle grandi correnti di pensiero; dall'altro lato, stenta ad emergere una rappresentanza politica di tipo personale - alludo all'affermazione di un politologo americano degli anni trenta, che si contrappone alla rappresentanza per partiti e non allude alla rappresentanza individuale - non essendoci ancora un ambiente istituzionale in grado di permettere lo sviluppo e la stabilizzazione di questo tipo di rappresentanza.
La conseguenza è che, per un verso, i politici mimano - se mi permettete - comportamenti tipici del tempo della partitocrazia senza peraltro conservarne il senso (è come fare un gesto che però abbia un senso oggettivamente diverso dal passato); per altro verso, fatica a imporsi una politica basata sulla logica della leadership per gli ostacoli culturali ed istituzionali che questa incontra. Il risultato che ne consegue è il dominio assoluto

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del tatticismo e l'assenza totale di discorsi strategici, di cui è palese testimonianza quello che viene chiamato, con un eufemismo, il «gioco a tutto campo» - per il quale tutti si accordano con tutti, ma anche contro tutti -, che altro non è se non la celebrazione del più assoluto cinismo politico.
Non c'è bisogno di aggiungere che per questa via si può verificare, in diversa forma, un altro episodio dello storico distacco della gente dalla politica. Per evitare ciò c'è bisogno di uscire dal mezzo del guado perseguendo la via di coerenti riforme, dando per scontato che la cultura civica e i modi di vivere e di intendere la politica in Italia sono ormai profondamente mutati.
Una situazione istituzionalmente e politicamente ambigua - di transizione, come dicevo all'inizio - non può essere superata con una riforma ambigua come - ahimè - è su più punti quella consegnata nel progetto approvato dalla Commissione bicamerale (ma confido sinceramente in un significativo miglioramento ad opera delle Assemblee). Credo che sia necessario seguire pochi principi, ma significativi.
Quanto alla forma di governo, occorre prendere atto che la modernizzazione della società ha portato a un cambiamento radicale della politica. La democrazia dei partiti di massa - quale l'abbiamo conosciuta dalla Costituente ad oggi - non sarà più riproducibile. C'è quindi bisogno di un sistema elettorale e di un sistema di governo che, nel garantire che il Governo sia prescelto dai cittadini, devono anche assicurare la stabilità necessaria per permettere alla stessa maggioranza di Governo di elaborare e attuare una effettiva ed efficace strategia politica (combattendo, quindi, la frammentazione del sistema partitico ed eliminando gli incentivi alla moltiplicazione dei partiti e quindi al tradizionale trasformismo della vita politica italiana).
Ieri, un vincolo internazionale (la cosiddetta conventio ad excludendum) ci ha obbligato a una democrazia bloccata, laddove, da un lato, la mediazione e il compromesso fra maggioranza e opposizione erano necessari per assicurare la stabilità del sistema sociale e, dall'altro, una politica generosa della spesa pubblica era uno strumento importante per evitare lo scivolamento del consenso in direzione di versanti, per così dire, «proibiti». Oggi, quel vincolo internazionale non sussiste più, ma ne esiste un altro: quello relativo al ruolo dell'Italia nel processo di integrazione europea e nell'economia globalizzata. Questo vincolo impone una «democrazia decidente» - per usare un'espressione del Presidente Violante - e istituzioni efficienti: ma una «forma di governo» che esalti la capacità decisionale senza una pubblica amministrazione flessibile e responsabile servirebbe a ben poco.
Oltre a una sostanziale revisione dell'apparato pubblico centrale - attualmente aggirata dallo sconcertante fenomeno della proliferazione delle authorities, su cui è autorevolmente intervenuto pochi giorni fa il Capo dello Stato - c'è bisogno di un'effettiva riforma del decentramento politico. Che si qualifichi federale o regionale, lo Stato ha necessità di riconoscere forti autonomie politiche a livello delle attuali regioni o di associazioni di più regioni. E tale riforma - questo è un aspetto che vorrei sottolineare con forza - avrebbe scarso significato se non fosse accompagnata da un vero e proprio «federalismo (o regionalismo) fiscale», cioè da un significativo ma ben articolato ed organizzato potere di imposizione regionale. Il federalismo fiscale - l'esperienza americana ce lo insegna - non è altro che il riflesso sul piano della direzione istituzionale dell'importanza che deve avere il libero mercato; il federalismo fiscale non è altro che la traduzione in termini di potere di imposizione fiscale del riconoscimento della fine del dirigismo nella politica economica.
Anche sotto tale profilo - mi duole dirlo - il progetto della Commissione bicamerale appare, almeno a mio giudizio, sostanzialmente carente e per di più incerto sui ruoli da affidare a comuni e regioni. Mi permetto di aggiungere, su

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questo punto, che una forte autonomia comunale può essere salvaguardata soltanto se si assicura nello stesso tempo una forte autonomia regionale: porre il comune contro la regione e viceversa credo sia un'opera di politica costituzionale assolutamente negativa.
Infine, vediamo il ruolo delle Assemblee elettive, a cominciare da quello del Parlamento. Se, come pare, i governi centrali e periferici si orientano verso l'elezione popolare diretta del Presidente della Repubblica, del presidente della regione, del sindaco, il ruolo delle Assemblee tenderà a conformarsi a quello di rappresentazione di interessi concreti, sociali (in coerenza con l'evoluzione del sistema verso forme di «rappresentanza personale» nel senso di cui si è detto in precedenza) e si muoverà nella direzione di rendere il Parlamento un organo di controllo politico delle strategie e delle scelte del Governo.
Per far sì che il confronto tra Assemblea e Governo non crei inefficienze decisionali, squilibri o incoerenze normative, ma nello stesso tempo resti un confronto vero e costruttivo, è ipotizzabile, per così dire, uno scambio: affidare alla maggioranza parlamentare che sostiene il Governo la determinazione essenziale, anche se non totale, della programmazione dei lavori per ottenere, in compenso, strumenti ed istituti di compartecipazione effettiva (come ha ricordato questa mattina il Presidente Violante, con il quale concordo pienamente), soprattutto da parte delle Commissioni, al processo decisionale generale (salve le coerenze finanziarie, di cui è opportuno che sia arbitro finale il Governo). Un cambiamento del genere comporta non soltanto la trasformazione di istituti come la Conferenza dei capigruppo, ma anche una sostanziale riconversione delle procedure parlamentari nonché dell'attività e delle funzioni degli uffici delle Camere, che siano soprattutto orientate ad assicurare un controllo di qualità delle decisioni legislative attraverso il drafting e l'accertamento delle compatibilità e coerenze finanziarie e di bilancio delle proposte avanzate in Parlamento.
Vorrei concludere con un ricordo di Moro, grande mediatore, per ricordare che non vi è opera di riforma senza un'efficace mediazione. Moro all'Assemblea costituente ci ha insegnato l'arte della mediazione, ma io vorrei ricordare che la sua, non solo all'Assemblea costituente ma anche dopo, non è mai stata una mediazione fine a se stessa; non è stata mai, come ricordava questa mattina il professor Scoppola, al servizio del puro scambio politico, del puro compromesso per dare un po' ad una parte ed un po' all'altra. È sempre stata una mediazione al servizio di un obiettivo generale, di una visione generale della società che Moro ed altri mediatori perseguivano con coerenza.
Questa è la mediazione di cui hanno bisogno le riforme. Le riforme, soprattutto quelle costituzionali, sono destinate a fallire se sono il frutto di mediazioni consistenti nel puro scambio politico, nel puro premio dato ad una parte su un punto della riforma, per avere su un altro punto quanto non si otterrebbe da un libero confronto in Parlamento.
Vorrei dunque sottolineare che l'impegno per le riforme verso una democrazia decidente va concepito e condotto con la stessa forza ed efficacia con cui è stato condotto l'impegno per l'ingresso dell'Italia nell'Europa e nella moneta unica europea; con lo stesso impegno che viene profuso ora per la conquista di un ruolo significativo per la nostra nazione a fianco dei partner europei. Questo per la semplice ragione che l'impegno per le riforme costituzionali non è diverso da questo: è l'impegno per dare all'Italia i vantaggi che prima indicavo. Ecco perché questo processo richiede uno sforzo di tutti verso un obiettivo comune, che non tenga conto, almeno su problemi importanti come la riforma costituzionale, della divisione e delle contrapposizioni fra le parti politiche (Applausi).

PRESIDENTE. Ringrazio il professor Baldassarre e do la parola al professor

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Cammelli, ordinario di diritto amministrativo presso l'università di Bologna, che svolgerà una relazione sulle Assemblee elettive e il decentramento delle funzioni.