8 maggio 1998


Pag. 20


I lavori, sospesi alle 12,30, sono ripresi alle 15,05.

PRESIDENTE. Riprendiamo i nostri lavori.
Do ora la parola al presidente Amato, professore ordinario del dipartimento di scienze giuridiche dell'Istituto universitario europeo.

(Rappresentanza e decisione nell'evoluzione del sistema parlamentare)

GIULIANO AMATO, Relatore. Presidente, signore, signori; rappresentanza e decisione: questo è il tema che investe quelli che possiamo considerare i due «fondamentali» del sistema democratico. Non esiste sistema democratico nel quale non vi siano rappresentanza e capacità di decisione: sono coessenziali l'una all'altra e sono sempre destinate a coesistere, ma - è questo il punto - con caratteri e con interrelazioni reciproche che sono e devono essere mutevoli nel tempo in ragione del mutare dei valori e delle esigenze che assumono priorità nell'evoluzione sociale. La buona salute e il buon funzionamento di ogni democrazia dipendono dalla sensibilità che essa dimostra al mutare di queste priorità e quindi dalla sua capacità di adattarsi al mutamento.
Noi - e non solo noi italiani - siamo oggi in una delicata fase di cambiamento, forse la più delicata e difficile, dei sistemi democratici (dirò il perché tra poco). E corriamo due rischi: quello di restare fermi e quindi di far corrodere le istituzioni esistenti e quello di misinterpretare il cambiamento e quindi di organizzare risposte destinate esse stesse ad una rapida corrosione futura.
Nel sistema di governo della Costituzione e della prassi conseguente, rappresentanza e decisione risultarono felicemente calibrate in funzione del radicamento dei nuovi principi della stessa Costituzione in un sistema sociale e politico ideologicamente fratturato e conseguentemente caratterizzato da identità e lealtà politiche a forte motivazione ideologica. L'appartenenza politica era una «appartenenza» ed era spiegata da ragioni largamente ideologiche.
Su queste premesse il sistema di governo, allora fondato sull'elezione proporzionale, su un forte Parlamento e su un Governo spiccatamente collegiale e privo di poteri indipendenti dallo stesso Parlamento, collimava perfettamente con le priorità del tempo. Non è che - come troppo spesso si è detto - la rappresentanza prevalesse sulla decisione; è vero piuttosto che le decisioni venivano fatte scaturire da un necessario e reiterato confronto tra le rappresentanze: rappresentanze interne alla maggioranza e di maggioranza ed opposizione, con il risultato di farsi accettare le decisioni più ancora che per il loro merito per il solo fatto di provenire o di essere comunque discusse da coloro da cui si era rappresentati in base a superiori princip|fm ideologici. In pratica, si propone un ragionamento del seguente tenore: io seguivo, ad esempio, la democrazia cristiana perché appartenevo ad un mondo e ne accettavo, di conseguenza, le decisioni di merito. Analogo discorso vale anche per le opposizioni.
Esemplare da questo punto di vista - sono stato indotto a ricordarlo pensando al discorso tenuto all'epoca da Amendola in quest'aula - è stata la critica dell'opposizione comunista all'istituzione della Cassa del Mezzogiorno, imperniata soprattutto sull'aspettativa, valutata con grande diffidenza, che le decisioni e le azioni del nuovo organismo sfuggissero al Parlamento, sfuggissero cioè al meccanismo decisionale che consentiva ad una parte

Pag. 21


del paese rappresentata da quel partito di concorrere comunque, sia pure dall'opposizione, alla decisione.
Via via che quel sistema venne producendo i suoi effetti in conformità alle sue originarie priorità e, quindi, concorse a colmare la frattura ideologica, cominciò proprio per questo a zoppicare, a rivelarsi inadatto alla fase evolutiva che esso stesso aveva contribuito a creare. L'indebolimento delle ragioni e delle lealtà soltanto o prevalentemente ideologiche sposta sempre più la formazione del consenso politico sul merito delle diverse decisioni. A questo punto emerge che le procedure consensuali che prevalgono sono troppo pesanti, troppo negoziali, troppo paralizzanti, troppo elusive delle responsabilità che diffondono su chiunque e su nessuno. Lo stesso sistema di Governo appare, ed effettivamente funziona, come se la rappresentanza abbia preso il sopravvento sulla decisione, fino a soffocarla.
Si avvia quindi la ricerca della democrazia governante, come si disse in quegli anni usando in modo improprio la definizione di un grande costituzionalista francese, Burdeau, e, in un modo o nell'altro, si pensa alla democrazia maggioritaria. Dico «in un modo o nell'altro», perché in quei primi anni si contrappone chi pensa a rendere maggioritario il sistema elettorale e chi invece pensa ad un'elezione diretta del Capo dello Stato che, aggirando l'ostacolo del sistema proporzionale, difficile da modificare, crei comunque due schieramenti intorno all'elezione di questa figura.
Si parla - lo feci io tra gli altri - di istituzioni per l'alternativa, ipotizzando un sistema fondato su partiti che non fossero né puri portatori di ideologie né, all'opposto, collettori di domande sociali semplicemente ammassate, ma portatori di indirizzi politici coagulanti e dirimenti, con i quali confrontarsi davanti agli elettori per conquistarne il voto.
Mentre questa ricerca, inizialmente minoritaria, conquistava nel tempo sostenitori (si pensi alla conversione del PCI, poi PDS, a cavallo tra i decenni ottanta e novanta), la realtà dei fatti si incaricava di introdurre nel gioco nuove e non valutate variabili. I partiti diventano il bersaglio di buona parte dell'opinione collettiva. Le ragioni per le quali ciò accade sono state ampiamente spiegate questa mattina (ma anche nei suoi lavori precedenti) dal professor Scoppola. L'opinione collettiva, da un lato, arriverà ad esprimersi per una democrazia maggioritaria; dall'altro, lo farà conquistando i partiti. I referendum dei primi anni novanta portano dentro di loro questo segno ambivalente: la democrazia maggioritaria presuppone i partiti, ma una buona parte dell'elettorato vota contro il sistema dei partiti.
In considerazione di questa ambivalenza, ritengo di poter dire che il populismo fa il suo ingresso in Italia, come lo fa altrove: il populismo che assumerà le vesti sia del localismo (che è esso stesso, sia pure ambiguamente, contro i partiti), sia del rifiuto di intermediazione tra istituzioni e società civile: contro i partiti, leadership diretta, rapporto diretto tra leadership e opinione collettiva.
C'è un rischio strisciante in questi nuovi ingredienti, rischio di vampate emotive al posto di soluzioni meditate; rischio di leadership fondate sul carisma della demagogia anziché sul supporto di un consenso ragionato ed organizzato; rischio, perciò, per i cittadini, di seguire chi ti guida all'assalto senza sapere che cosa c'è al di là delle barricate; rischio di scavare un solco smithiano tra amici e nemici, senza avere né gli strumenti né i valori per una ricomposizione non politica ma civile. E, tuttavia, c'è anche il segno - è questa l'ambivalenza - di domande, sane e ineludibili, a cui né il sistema esistente né l'ipotesi della democrazia maggioritaria danno risposte adeguate.
È il segno della democrazia esigente e difficile del nostro tempo, nella quale il cittadino non si aspetta solo di essere rappresentato e di vedere risolti i suoi problemi - rappresentanza e decisioni - ma pretende che lo si faccia in modo trasparente; vuole, se non esserci, essere in grado di vederci dentro; pretende un potere aperto nei suoi stessi processi interni, in modo da poterlo orientare e

Pag. 22


sostenere, ovvero criticare ed osteggiare, ma sempre, comunque, cogliendo le responsabilità che il potere genera; e pretende, inoltre, che le regole a cui il potere pubblico lo assoggetta siano sempre, esse stesse, trasparentemente motivate, mai ostilmente rigide, sempre adattabili alle sue esigenze e alle sue condizioni.
Non sono domande antidemocratiche, si legge anzi in esse il lungo e sotterraneo lavorìo di principi fra i più radicati nella cultura politica che ha dato fondamento alle democrazie: eguaglianza, limite al potere; potere che deve essere comunque limitato, anche il potere di chi governa; il potere delle maggioranze non può diventare potere di minoranza, il rischio della democrazia che si trasforma in oligarchia. Sono perciò domande di democrazia più sofisticata, più compiuta, meno simbolica, più reale. Ma ciò che più le caratterizza - torno a quel punto dell'ambivalenza, a quella contiguità che già si coglieva nei referendum tra democrazia migliore e rischio populista - è che esse scaturiscono da uno stato d'animo collettivo - basta pensare agli anni che abbiamo trascorso - che non solo è sempre più esigente, ma è anche sempre più intransigente e pronto alla condanna, alla ripulsa e, quindi, al rifugio nel populismo se queste sue domande non sono soddisfatte. È questo il dilemma della democrazia difficile del nostro tempo; un dilemma che non riguarda soltanto l'Italia, ma tutti gli ordinamenti democratici maturi del nostro tempo: da un lato, infatti, non è facile appagare le nuove domande, che aprono, fra l'altro, un fronte istituzionale al quale siamo solo in parte preparati (sappiamo inventare i sistemi elettorali più sofisticati, ma dare trasparenza al potere pubblico è un compito largamente nuovo, ed è il più richiesto); dall'altro, se non lo si fa, se non si dà soddisfazione a queste domande, si cade immediatamente in una democrazia a rischio.
Insomma, tra una democrazia spinta ad essere, e capace di essere, più efficiente e più trasparente e la caduta nel populismo, nell'emotività, nella presa dei leader carismatici, non c'è via di mezzo, c'è, anzi, un confine pericolosamente sottile. Per questo io la chiamo democrazia difficile.
Come si risponde allora alle nuove domande? Come devono articolarsi rappresentanza e decisione nella democrazia difficile?
Io continuo a pensare che i pilastri dell'impianto debbano essere ancora quelli della democrazia maggioritaria e, quindi, non tanto i partiti, quanto i grandi partiti di un sistema politico robustamente disboscato, capaci di fare da tessuto comune fra gruppi e interessi sociali, in modo da contrastare il loro immanente potenziale centrifugo, che c'è, è nel nostro futuro.
Le nostre società, ormai, per le tante diversità che vi albergano, le tante cittadinanze distinte che pretendono ciascuna diritto di cittadinanza, hanno un elevato potenziale centrifugo. Se il sistema politico si limita a riprodurre quel potenziale e non ad incanalarlo in più grandi collettori, rischia di contribuire alla deflagrazione, amplificando, anziché concorrere a farla essere convivenza civile e cooperazione.
Senza partiti del genere gli interessi deflagrano ed a prevalere sono gli interessi e/o le emozioni più forti. Ma fermarsi a questo impianto non basta; sono tante altre, infatti, le cose che servono ed in assenza delle quali questo stesso impianto finirebbe per essere rigettato.
Serve un sistema di poteri divisi e ciascuno perciò limitato nel suo mandato e nei suoi fini, alcuni di derivazione politica, altri no. Il sentimento collettivo delle nostre opinioni nazionali non è giacobino. Non tutte le decisioni vengono condivise dai cittadini se ed in quanto vengano dalle loro rappresentanze politiche. Vi sono delle decisioni di cui si vuole, al contrario, che non siano politiche, che non siano funzione delle rappresentanze politiche. La giustizia, l'attività di regolazione e di decisione in materia di diritti e di libertà costituzionali non le si vuole dipendenti dal variare degli umori e delle maggioranze politiche. E qui la certezza deve essere duplice: che non c'è influenza della politica su giudici e autorità indipendenti;

Pag. 23


che giudici e autorità indipendenti non si comportano con modi e con motivazioni politiche.
Le autorità indipendenti sono oggetto di polemica, anche autorevolmente sostenuta, e da me largamente condivisa, nel senso che proprio in ragione della caratteristica quasi giudiziale che deve avere un'autorità che, trattando di diritti e libertà in applicazione pura di norme, non possono dipendere da indirizzi politici, queste autorità, con queste caratteristiche vanno delimitate e distinte da altri organismi di amministrazione decentrata, che invece non hanno la stessa funzione ed assolvono a compiti di regolazione derivante da indirizzi del Governo e del Parlamento. Se questa distinzione non viene fatta l'effetto è devastante, perché assumono caratteristiche di indipendenza autorità che indipendenza non dovrebbero avere e, di rivalsa, potrebbe accadere che, alla fine, perdono indipendenza le autorità che indipendenza dovrebbero avere. Tra l'altro, c'è anche un risvolto che interessa la Ragioneria generale dello Stato ed il Ministero del tesoro, perché con questa tecnica di attaccarsi tutti alla stessa locomotiva, tutti hanno il trattamento della Banca d'Italia, il che naturalmente per il Tesoro e per il cittadino può essere obiettabile.
Servono più forti poteri regionali e locali, perché le rigidità, le lentezze, le esasperate uniformità del centralismo sono fra i principali fattori della ripulsa che alimenta, insieme, la domanda di una democrazia migliore ed il rischio del populismo. Ma attenzione alle risposte che si danno, attenzione a non buttarsi da soli nella trappola del populismo.
I vizi del centralismo generano, di istinto e di impulso, una comprensibile domanda di localismo. Contro uno Stato centrale rigido la prima reazione del cittadino è: «Fatemelo fare a casa mia!». Se però si dà sempre e soltanto una risposta localista e non si ha il coraggio delle essenziali uniformità affidate ad un potere centrale, che dovrà essere certo più flessibile e più trasparente, si prepara un sistema che non sarà in grado di governare le crescenti interazioni ed interrelazioni del mondo in cui già stiamo entrando.
Non dobbiamo mai dimenticare che noi oggi siamo tra due tendenze, destinate entrambe ad essere colonne portanti del nostro futuro: una è per l'appunto quella dell'avvicinamento del potere alle comunità locali, dell'autoregolazione degli affari locali, ma l'altra è l'espansione delle attività economiche, l'integrazione dei mercati, la libertà di movimento, l'abbattimento dei confini. Che succede se riorganizziamo il potere tutto e in funzione della prima? Che il potere centrale regoli, in ogni dettaglio, i requisiti sanitari ed igienici di tutto il paese, dei ristoranti di qualunque villaggio, è ritenuto giustamente intollerabile. Ma se ciascuno lo fa localmente a modo suo, come reagirebbero i cittadini il giorno in cui la Toscana o il Maryland imponessero il vaccino contro la salmonella a quanti si recano nei ristoranti di una città vicina, retta da standard igienici che ad esse appaiono inadeguati? A questi rischi bisogna saper dare una risposta tempestiva.
Insomma, alla domanda di localismo sono due le risposte da dare: la prima è più potere locale e, aggiungo, anche più libertà dei comuni, delle città, di intrecciare relazioni fra loro, di far parte esse stesse della rete dell'integrazione sovranazionale. Ho partecipato giorni fa, mentre ero in America, ad un convegno organizzato da un istituto spagnolo e quindi promosso da comuni spagnoli insieme a comuni dell'America latina, nel quale questa esigenza veniva avanzata. Abbiamo gli stessi problemi, dobbiamo adeguarci agli stessi standard nel fornire sanità, servizi locali, asili e strade alle nostre popolazioni, perché non dobbiamo avere una nostra rete? Il mondo - questo era il loro slogan - deve essere un villaggio globale o è meglio che sia un villaggio di città? Certo, è meglio se è un villaggio di città. Quindi bisogna dare più spazio a tutto questo, ma l'altra risposta è rappresentata da un potere centrale che deve avere il coraggio di rimanere e deve essere capace di continuare a soddisfare, in modo però

Pag. 24


trasparente, motivato e flessibile, i bisogni di uniformità, che rimangono e che possono anzi diventare ancora più numerosi.
È questo - questo della trasparenza e della flessibilità del potere - il capitolo più largamente nuovo delle cose che servono e che richiedono, più ancora che nuove figure istituzionali, nuovi ruoli e nuove regole per le istituzioni esistenti. C'è molto da inventare, ma qualcosa, sia pure embrionalmente, è già stato inventato.
Sono già stati inventati i modi di imporre trasparenza ai propri rappresentanti politici, in tutti i loro comportamenti. È una trasparenza a volte ossessiva, a volte gonfiata e amplificata dai mass media sino ai dettagli più privati, ma riflette un'esigenza democratica ormai ineludibile, alla quale chi fa politica deve sapersi assoggettare. Devo sapere a chi ho affidato il mio voto, chi mi sta rappresentando, chi è.
Così come, in parte, si sta inventando un rapporto più continuo, più in tempo reale, fra chi governa i mezzi di informazione. A me, che sono vecchio di attività di Governo di un passato lontano, colpisce il fatto che una volta c'era soltanto la solenne e, per necessità, discontinua conferenza stampa, mentre oggi, quando guardo la televisione, vedo il Presidente del Consiglio ed il ministro del tesoro che camminano con tutti quei microfoni intorno e che parlano, spiegano, danno comunque conto di quanto stanno facendo. Anche questa è trasparenza, per la quale, certo, si può fare di più e meglio. Ha ragione Sabino Cassese quando nota che il Governo italiano fa scarso uso, se non nessun uso, dei libri bianchi o verdi, con i quali altri governi preannunciano indirizzi, prospettano opzioni, raccolgono reazioni, prima che la loro decisione, si tratti pure di una proposta al Parlamento, venga presa. Sono le procedure che gli americani chiamano di notice and comment e che danno spazio e disciplina alla partecipazione interattiva (ma non solo emotivamente simbolica come quella di piazza) dei cittadini.
C'è poi la parte della flessibilità, che è flessibilità delle regole e che riguarda soprattutto i livelli superiori di un sistema decentrato di governo. Anche qui le invenzioni già ci sono, ma si trovano in genere ai livelli superiori a quelli degli Stati: organizzazioni sovranazionali, organizzazioni e rapporti costruiti con trattati internazionali. Gli Stati hanno moduli antichi e resistenti per imporre le loro uniformità e in quei livelli superiori sono abituati a leggere la carenza del loro più compiuto potere, del loro potere sovrano. È un'abitudine da cambiare. Il tempo della sovranità come titolarità esclusiva del potere in capo agli Stati è finito. Un giurista francese ha scritto che ci si aspettava che il diritto delle organizzazioni sovranazionali e lo stesso diritto internazionale, nel progredire dei processi di integrazione, sarebbero stati sempre più somiglianti al diritto degli Stati, mentre potrebbe e per più versi dovrebbe accadere esattamente il contrario, con Stati centrali spinti essi a rinunciare alla loro equazione - uniformità uguale rigidità della regola unica - e ad imparare dai livelli sovrastanti ad imporre non un unico sistema, ma interfacce comunicanti per sistemi anche diversi, non principi fissi, ma principi adattabili, non regole di dettaglio, ma standard minimi.
La Comunità europea è una grande palestra di questo plurimo esercizio.
Lo Stato e le sue tecniche sono ancora intrise di quella nozione di sovranità come titolarità esclusiva del potere che abbiamo ereditato dagli ultimi secoli. Commette un errore grossolano chi dice che è lo stesso Stato un'eredità del passato, che la realtà del nostro tempo sta cancellando. Ma è vero che questa eredità è accolta oggi con beneficio d'inventario: ciò che ne rimane fuori è proprio quella nozione di sovranità, con la conseguenza che devono cambiare i principi e le tecniche del potere centrale.
Il Parlamento e le Assemblee elettive hanno un ruolo cruciale nella risposta alle nuove domande della democrazia difficile. Il loro originario e diretto rapporto di rappresentanza con i cittadini li rende

Pag. 25


veicoli naturali della domanda di trasparenza e quindi di controllo sull'azione degli organi operativi. Mentre le loro responsabilità legislative e di normazione ne fanno i primi garanti dell'uniformità, quando di uniformità c'è bisogno, ma anche i primi responsabili della flessibilità, quando di flessibilità c'è bisogno.
Sotto entrambi i profili, non sono pochi i cambiamenti, di cultura come di regole e di priorità funzionali, che sono necessari in Italia. Ne parla in modo analitico e molto pertinente Marco Cammelli nella sua relazione; ne ha già parlato Burns stamattina. Certo si è che le nostre Assemblee, le loro articolazioni interne, il personale tecnico di cui si avvalgono, tutto è tarato per la produzione di leggi e di norme. E le ragioni della «produttività» in quest'area prioritaria sono spinte al punto da sacrificare molto spesso la trasparenza nel lavoro legislativo delle Commissioni, note nella nostra storia come un luogo di produzione rapida di leggi oscure. Mentre la funzione di controllo sembra interessare soltanto quando raggiunge i decibel necessari a competere sui mass media con il lavoro investigativo delle procure e ad assumere i toni, le cadenze, le allusioni dell'inchiesta parlamentare a sfondo giudiziario.
Alle ragioni e alle domande dei cittadini in molti casi non si può - in molti altri non si deve - rispondere con emendamenti beneficali «aggrappolati» attorno a leggi o a decreti. C'è caso mai da frenare il perdurante particolarismo delle proposte che provengono dagli apparati degli esecutivi, c'è da limitare la loro propensione regolativa a livello sub-primario, c'è da garantire insomma la leggerezza e la adattabilità della normazione. Questo deve diventare il terreno, nutrito molto da analisi economica, su cui va maturata la preparazione tecnica di chi assiste sul piano tecnico gli eletti e su cui essi stessi devono imparare ad acquisire i loro meriti davanti agli elettori, proteggendoli non con la legislazione, ma dall'eccesso di legislazione.
Come pure va ampliato lo spazio del controllo, non nella chiave estrema dell'inchiesta, ma in quella della quotidiana verifica della funzionalità degli apparati e dei risultati che essi ottengono nell'attuazione di leggi e di indirizzi importanti, fornendo di ciò un continuo e trasparente riscontro ai cittadini, anche con incontri itineranti nelle aree interessate. Itinerante tende ad essere la Commissione antimafia - purtroppo; sarà felice il giorno in cui non avremo più bisogno di vederla itinerare - ma non c'è nessuna ragione che esclude un rapporto ravvicinato con i cittadini anche di altri organismi interni che stanno verificando come funziona l'attuazione di leggi che ad aree particolari del paese possono interessare. C'è qui un potenziale che nessuna Corte dei conti potrebbe mai sviluppare in proprio. Ed è un potenziale che può contribuire come pochi a radicare negli elettori la fiducia verso gli eletti e la motivata percezione di esserne positivamente rappresentati.
È stato scritto giustamente che, sebbene stia nel sottofondo di ogni democrazia la tensione fra costituzionalismo e populismo, oggi sono pericolosamente crescenti la disaffezione per i valori democratici e la convinzione che la politica non ascolti a sufficienza la voce dei cittadini. Il problema non lo risolvono né il ricorso alla democrazia diretta, che può da sola alimentare ulteriori antagonismi, né il solo riaggiustamento dei congegni elettorali, perché il voto non basta. Sono tutti gli elementi e tutte le funzioni del sistema democratico che devono concorrere a rendere effettivo il senso del voto, l'aspettativa che c'è nel voto - «mi rappresenterai e deciderai in conformità ai miei bisogni» - conservando ed alimentando nel tempo il legame che il voto testimonia. In un mondo che cambia continuiamo ad affidarci agli elementi e alle funzioni che abbiamo ereditato dagli ultimi due secoli, tanto per ciò che conserviamo, quanto per ciò che ci riproponiamo di cambiare. Le fondamenta sono certo quelle e non le intacchiamo. Ma la solidità futura dell'edificio democratico dipenderà anche dal coraggio dell'innovazione con cui sapremo rafforzarne la presa nella coscienza dei

Pag. 26


cittadini; dei cittadini esigenti e intransigenti del tempo che inizia (Applausi).

PRESIDENTE. La ringrazio, professor Amato.
Ha facoltà di parlare il presidente Antonio Baldassarre, professore ordinario di diritto costituzionale presso la facoltà di giurisprudenza della Luiss. Svolgerà una relazione sulle Assemblee elettive verso la democrazia decidente.