8 maggio 1998


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Svolgimento delle relazioni.

PRESIDENTE. Prego il professor Pietro Scoppola di prendere la parola. Il professor

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Scoppola è ordinario di storia contemporanea presso la facoltà di scienze politiche dell'università «La Sapienza» di Roma e svolgerà una relazione su «cittadini, partiti e istituzioni nella evoluzione della democrazia italiana».

(Cittadini, partiti, istituzioni nella evoluzione della democrazia italiana)

PIETRO SCOPPOLA, Relatore. La coincidenza quasi puntuale dei cinquantesimo anniversario della prima seduta del Parlamento repubblicano con il ventesimo anniversario della morte di Moro è ricca di suggestioni.
Moro, non solo ha fatto parte per trent'anni della Camera, ma è culturalmente, organicamente un uomo del Parlamento.
La sua politica fa appello alla ragione e ai valori morali, è aperta al confronto; è misurata, mai gridata, mai sollecitatrice di passioni e di istinti volgari, consapevole soprattutto dei limiti: «la politica deve essere conscia del proprio limite» dirà al XIII congresso del suo partito; la sua oratoria esprime forti convinzioni personali, è colta ed aristocratica e crea intorno a lui spazi di incomprensione e di solitudine; ma al tempo stesso cerca il dialogo e la mediazione possibile; Moro è attento a quanto accade nella società, fuori del Parlamento, ma l'obiettivo che persegue tenacemente è quello di coinvolgere le realtà popolari e i partiti che le rappresentano nella vita delle istituzioni: il Parlamento non è per lui l'ambito autoreferenziale della politica ma è la sede naturale del momento di sintesi dei processi politici.
Il fatto che in questa conferenza istituzionale l'attenzione si concentri sul periodo 1978-1998, e cioè sul «dopo Moro», e che al tempo stesso la conferenza sia «in memoria di Moro» non fa che sottolineare la profondità e la durata della sua incidenza che va oltre la sua scomparsa dalla scena politica.
Cittadini, partiti e istituzioni sono i tre cardini della democrazia. Non c'è democrazia senza diritti e doveri dì cittadinanza: la democrazia vuole cittadini non sudditi; non c'è democrazia senza partiti, senza «parti», portatrici di diverse visioni del «bene della patria», per riprendere parole e concetti di Cesare Balbo, il primo teorico in Italia del ruolo dei partiti politici; per «i moderni» a differenza che per gli «antichi», come ben comprese Benjamin Constant, non c'è democrazia senza istituzioni rappresentative, in cui la sovranità popolare, da affermazione teorica, diciamo pure da mito rivoluzionario, diventa principio ispiratore di un sistema bilanciato di poteri.
La democrazia non è il regime spontaneo e naturale della convivenza umana; è una conquista della civiltà: quando la si e perduta, riconquistarla è difficile. Al momento della rinascita della democrazia italiana quei tre elementi e il loro equilibrio non sono scontati; sono in progressiva evoluzione. La riflessione di Aldo Moro, per il trentennio di cui è stato protagonista, è lo specchio fedele e quasi un sensibile termometro di questa evoluzione.
L'idea di cittadinanza non fu dominante nei lavori della Assemblea costituente. Come è noto il concetto di cittadinanza si è sviluppato in epoca moderna nel contesto del processo di formazione delle borghesie urbane, ha avuto inizialmente un valore localistico e ha implicato elementi di privilegio; poi, via via, i diritti di cittadinanza hanno assunto un significato più ampio e si sono intrecciati con i diritti dell'uomo: la «Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino» del 26 agosto 1789 apre in Francia la stagione rivoluzionaria. Ma il concetto rimane legato, nella tradizione del costituzionalismo ottocentesco, alle sue origini borghesi.
Lo Statuto albertino riuniva la materia sotto un solo titolo «Dei diritti e del doveri del cittadini», che poi diventavano più prosaicamente i «regnicoli».
Questa tradizione sembra angusta dopo il dramma della seconda guerra mondiale. La dignità dell'uomo è stata calpestata nei campi di sterminio, il valore della vita umana ignorato dalle dinamiche della

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guerra totale, dai bombardamenti a tappeto sulle città, dall'uso dell'arma atomica. Più che al cittadino si guarda all'uomo e alle grandi realtà popolari da integrare nella vita dello Stato.
C'è nella nostra Costituzione una spinta universalistica: non solo i cittadini ma tutti gli uomini hanno diritti che la Repubblica - come recita l'articolo 2 - non crea ma «riconosce e garantisce».
La discussione che si svolse nella prima commissione sui presupposti ideologici della Costituzione riflette questo clima e trova, non a caso, un suo punto di sintesi nel famoso ordine del giorno Dossetti del 9 settembre 1946 sulla centralità della persona umana e «sulla necessaria socialità di tutte le persone».
Aldo Moro, pur avendo subito negli anni della formazione l'influsso dello storicismo meridionale, è legato a quella cultura «personalista» di derivazione francese che di fatto ha fortemente influenzato l'opera dei costituenti democratico-cristiani della seconda generazione.
Vi è dunque nella Costituzione, rispetto ai diritti civili ottocenteschi, una crescita ed una apertura universale, ma con un effetto che un acuto storico del diritto, Maurizio Fioravanti nel recentissimo volume Costituzione e popolo sovrano, ha ben messo in evidenza: i diritti di cittadinanza sono stati pensati dalla grande maggioranza dei costituenti più che come limiti posti al potere, come norme di principio da attuare attraverso l'impegno delle forze politiche e l'opera del Parlamento.
È un clima culturale, di cui Moro è fortemente partecipe, che condiziona anche altre Costituzioni del secondo dopoguerra, un clima lontano e diverso da quello che caratterizza la cultura costituzionale anglosassone in cui i diritti fondamentali rappresentano anche e prima di tutto un elemento di identità del cittadino e una garanzia nei confronti del potere dello stesso legislatore: si sa con quanta difficoltà furono accolti, specialmente dalle sinistre, gli istituti di garanzia costituzionale.
Dunque la Costituzione pone di fatto le solide premesse di una cittadinanza democratica, ma su basi culturali che stentano a farne l'elemento portante di una nuova identità collettiva: il senso della cittadinanza è, in larga misura, un progetto e non colma il vuoto che si è aperto con la crisi dell'8 settembre 1943.
La simbologia repubblicana rimane debole e incerta. L'educazione alla democrazia carente. Le iniziative, incoraggiate dalla commissione alleata di controllo, per dar corso ad una rieducazione alla democrazia partendo dalla scuola, fondate appunto sulla idea dell'esercizio responsabile della cittadinanza, non hanno corso.
Anche Moro, come si è detto, è dentro questa cultura dei costituenti, con le sue aperture universalistiche e con i suoi limiti; è significativo tuttavia che quando, ministro della istruzione, introduce nel 1958 l'educazione civica nella scuola tenti un ricupero, della originaria intuizione, legata alla concezione anglosassone della cittadinanza, ispirando il progetto ai desiderio del giovane di «essere un cittadino».
Ma più che a queste premesse culturali la fragilità del senso di cittadinanza in Italia è strettamente legata al ruolo dei partiti.
Ha giocato una necessità storica: solo i partiti e in particolare i grandi partiti popolari potevano gestire l'eredità del fascismo e cioè la realtà nuova della società di massa.
Il riconoscimento del ruolo dei partiti è un dato centrale della Costituzione. Il diverso destino dei due ordini del giorno, quello di Basso e Dossetti del 20 novembre 1946 nella prima Sottocommissione sul riconoscimento giuridico dei partiti e quello Perassi sul rafforzamento dell'esecutivo nel sistema parlamentare, «mostra con evidenza - ha notato Leopoldo Elia - i caratteri e le contraddizioni del "compromesso costituente"». Nella concezione dei costituenti i partiti sono chiamati a rendere concreto e operante il principio della sovranità popolare; devono interpretare

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e tradurre in legge quei diritti che devono ispirare la politica nazionale.
Di fatto essi svolgono un ruolo complesso e per certi aspetti contraddittorio: mentre pongono, sul piano dei principi, nella Costituzione, le condizioni di una nuova compiuta cittadinanza democratica, diventano essi stessi il fattore dominante di integrazione, creando identità collettive divise e conflittuali. Il concreto esercizio della cittadinanza, di cui la Costituzione ha posto le premesse, rimane condizionato e frenato da un dato sociologico e antropologico che la ricerca storica ha ormai posto pienamente in luce in tutto il suo spessore.
Quello degli italiani, per riprendere il bel titolo di un recentissimo libro di Remo Bodei, è un Noi diviso. Fascismo e antifascismo, comunismo e anticomunismo, il «rosso» e il «bianco», l'americanismo e l'antiamericanismo, interpretano e orientano le passioni popolari ben più della nuova e comune identità repubblicana e democratica.
I partiti sono gli interpreti e i sollecitatori di queste passioni collettive che rendono difficile il formarsi di quel «patriottismo della Costituzione», per usare l'espressione di Habermas, in cui nelle società moderne e democratiche si manifesta la stessa identità nazionale.
Nello scenario della guerra fredda quelle appartenenze di parte diventano aspramente conflittuali; lo scontro politico si configura nei termini di una contrapposizione fra la religione secolare del comunismo e la religione tradizionale degli italiani; fra un partito che diventa chiesa e una Chiesa che diventa movimento.
L'esito delle elezioni del 18 aprile 1948, secondo un giudizio ormai largamente condiviso, è stato decisivo e positivo per la democrazia e per la pace; ma il carattere eccezionale atipico e, vorrei dire, non fisiologico, di quelle prime elezioni è nel fatto che il confronto non avvenne, sulla base di valori condivisi, per scegliere un programma o una classe di governo, ma su una scelta di civiltà. Per questo - io credo - quelle elezioni, pur fondanti nella storia della democrazia italiana, non possono essere rievocate come un modello per il presente e il futuro.
Moro, il più degasperiano del dossettiani, è fra quanti rifiutano l'interpretazione del 18 aprile come blocco d'ordine, accentuano le responsabilità della DC sul terreno delle riforme e cercano poi la via per un ampliamento della coalizione di governo.
Nella riflessione di Aldo Moro è centrale l'idea della fragilità della democrazia italiana, che rende impossibili le dinamiche caratteristiche delle democrazie più mature, fondate sui meccanismi della alternanza, e obbliga ad evitare contrapposizioni nette realizzando aggregazioni politiche articolate e complesse.
Egli denuncia d'altra parte i pericoli di una «passionalità» e di una irrazionalità latente nel paese che, coniugandosi alla fragilità delle strutture dello Stato, può travolgere la democrazia. La aggregazione delle forze politiche nelle coalizioni di governo ha nella sua visione un obiettivo che va al di là della formazione delle maggioranze parlamentari e di governo ma investe i fondamenti stessi della democrazia: le Assemblee rappresentative sono la sede naturale di una reciproca legittimazione e della maturazione di un comune concetto di democrazia.
In definitiva il limite della democrazia italiana - la impossibilità che essa si muova secondo la logica del ricambio e della alternanza - diventa per Moro occasione e talento da valorizzare per il consolidamento della democrazia stessa.
Con la distensione si aprono nuovi spazi. Ha inizio la fase del disgelo costituzionale. I diritti civili che avevano subito pesanti limitazioni nella fase dello scontro frontale ricuperano le loro potenzialità ad opera della Corte costituzionale. «La costituzione si è mossa» scriveva Piero Calamandrei all'indomani della prima sentenza della Corte, del 13 giugno 1956, che cancellava alcune norme della legge di polizia fascista: «I cittadini sentiranno che la Costituzione non è soltanto una carta scritta, che la Repubblica non è stata una beffa». Ad opera della Corte - ha notato

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Augusto Barbera - la Costituzione «non giace inerte»; le sentenze della Corte rendono viventi le sue norme.
L'obiettivo dell'attuazione della Costituzione domina la fase preparatoria della nuova formula politica del centro sinistra di cui Moro, Nenni e La Malfa sono i tenaci artefici. I risultati restano molto al di sotto delle attese; ma pur con tutti i suoi elementi contraddittori, prende forma, anche nel nostro paese, lo Stato sociale nel quale i diritti sociali tendono a diventare realtà.
È la fase della massima esaltazione, nella riflessione di Moro, del ruolo dei partiti, del richiamo più forte alle loro responsabilità.
Il partito deve essere il «punto di passaggio obbligato dalla società allo Stato», l'elemento che «riconduce costantemente lo Stato alla fonte del potere, lo tiene in allarme, lo pone in crisi, lo spinge a controllare in ogni istante la sua giustizia e la sua umanità. La dialettica cittadino-Stato - osserva Moro - è ineliminabile. Ma essa si realizza attraverso la mediazione dei partiti, senza la quale la distanza appare incolmabile e risulta impossibile l'equilibrio della libertà individuale e dell'autorità sociale».
La sua visione sul ruolo del partito va anche oltre: i partiti non sono solo il momento di sintesi fra società e Stato ma anche «tra la realtà del presente, con la quale in larga misura si cimentano i Governi, e le prospettive di sviluppo, quel salto di qualità che si coglie irresistibile nella coscienza degli uomini e dei popoli». I partiti sono insomma l'elemento di saldatura fra il presente e il futuro.
Di fatto gli italiani rivendicano ed esercitano i loro diritti in larga misura sulla base della loro appartenenza ai partiti; il partito di appartenenza procura un lavoro, favorisce l'assegnazione di un alloggio, è veicolo di raccordo del cittadino con il nascente Stato sociale, si fa insomma garante dei diritti dei cittadini. I partiti svolgono una funzione di supplenza delle istituzioni ma al tempo stesso le invadono e progressivamente le occupano.
Non credo che si possa per questo stabilire una sorta di continuità settantennale fra il regime fascista a partito unico e la stagione repubblicana pluripartitica: proprio la realtà democratica del pluralismo introduce un elemento forte di discontinuità e di rottura; i partiti hanno contribuito, nonostante tutto, in una prima fase della storia repubblicana, all'inserimento nella vita democratica di grandi masse popolari.
Ma le forti identità partitiche iniziali impallidiscono nei decenni successivi. A seguito dello sviluppo economico, il paese subisce una trasformazione profonda che incide sul suo tessuto etico: in un intreccio complesso e per molti aspetti contraddittorio: emigrazione interna, consumismo, diffusione della televisione agiscono come fattori di integrazione e di formazione di nuove identità collettive.
La secolarizzazione non investe solo il cosiddetto mondo cattolico: investe tutte le culture e tutte le forme di appartenenza. Il sessantotto giovanile fa nascere forti ed esclusive forme dl integrazione e favorisce una scomposizione radicale delle tradizionali forme di appartenenza.
Con la comparsa del movimenti e l'attuazione di un istituto di democrazia diretta, come il referendum, i partiti cessano di essere gli unici soggetti politici: si pongono le premesse di una più libera e matura partecipazione dei cittadini alla vita politica.
Gli italiani maturano a modo loro un senso più forte di cittadinanza, anche se con una accentuazione dei diritti rispetto ai doveri. Ma si manifesta una progressiva divaricazione fra crescita della cittadinanza e funzionalità del sistema.
In un sistema politico in cui è impossibile una fisiologica alternanza la ricerca del consenso si piega alle logiche del clientelismo. L'egemonia del partiti invade tutto il sistema istituzionale, che manifesta le sue inefficienze non solo a livello di governo centrale ma anche a livello di istituzioni periferiche nel rapporto con i cittadini.

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Quel tanto di autonomie locali che sono state introdotte risulta in larga misura vanificato dal centralismo dei partiti.
La crescita della coscienza dei diritti entra così in conflitto con il senso di appartenenza.
È un paradosso della democrazia italiana: normalmente l'esercizio dei diritti civili, politici e sociali consolida la coscienza di una appartenenza comune. Nel nostro paese invece, dopo cinquant'anni di esercizio di quei diritti, l'identità nazionale entra in crisi. Silvio Lanaro ha parlato di «snazionalizzazione», Gian Enrico Rusconi ha avvertito che «una nazione può cessare di esserlo».
La riflessione di Moro accompagna questa evoluzione. Egli percepisce lucidamente l'affacciarsi sulla scena pubblica di nuove realtà e di nuovi soggetti: il movimento sindacale, il movimento giovanile, il movimento femminile; la sua attenzione a queste nuove realtà è costante e vigile. Le citazioni potrebbero essere innumerevoli. Nella sua riflessione si manifesta una visione più critica del ruolo dei partiti, e in particolare del suo partito, in coincidenza con la sua sostanziale emarginazione dalla Democrazia cristiana. Sferzante, come è noto, è la sua polemica contro la gestione dorotea che egli giudica nel suo intervento all'XI congresso del 1969, «chiusa, inerte, carica di diffidenza e di malinteso spirito di difesa, lontanissima da quel vasto respiro di libertà che dovrebbe caratterizzare il partito». A questa visione torna a contrapporre nel XII congresso l'idea di «un partito che non solo parli al popolo ma in esso sia immerso fino a creare quella sorta di immedesimazione, quella corrente di fiducia che conduce le masse ad essere elemento potente ma ordinato della vita dello Stato».
Moro avverte tutte le ambiguità presenti nella crescita della società italiana: «C'è una sproporzione, una disarmonia, una incoerenza fra società civile, ricca di molteplici espressioni ed articolazioni, e società politica» afferma in un notissimo passo dal discorso dl presentazione del suo Governo alle Camere il 3 dicembre 1974; la vita politica gli appare «stanca», «sintesi inadeguata e talvolta persino impotente».
Egli vede che la società italiana ha raggiunto un punto di svolta di fronte al quale gli strumenti del passato sono insufficienti.
Si apre la sua riflessione sulla «terza fase». L'espressione viene usata per la prima volta da Moro, con riferimento alla DC e non alla politica italiana nel suo insieme: «l'avvenire - afferma Moro nel discorso al consiglio nazionale della DC del 20 luglio 1975 - non è più in parte nelle nostre mani», è cominciata una «terza difficile fase per la Democrazia cristiana». La terza fase si definisce per l'emergere di nuove dinamiche sociali che hanno messo in crisi il ruolo centrale della Democrazia cristiana nel sistema politico.
Ma all'indomani delle elezioni politiche del 1976 la formula «terza fase» assume un più ampio e comprensivo significato: la «terza fase» non è riferita solo alla DC ma investe tutto il sistema. Essa esprime la coscienza di una crisi che esige, come nel '45, un coinvolgimento dl tutte le energie disponibili.
L'iniziativa di Moro, ha notato Roberto Ruffilli, è legata ad un visione complessa del rapporto fra il politico e il sociale che supera ogni pretesa totalizzante della politica. Secondo l'interpretazione di Ruffilli, la terza fase avrebbe avuto due tempi: il primo della solidarietà, necessaria alla legittimazione reciproca fra i due maggiori partiti, la seconda di alternanza.
Moro non pone il problema di una riforma delle istituzioni che renda possibile i meccanismi di alternanza. Si è discusso e si discute su questo aspetto della sua strategia. Non era stato indifferente in Assemblea costituente ai temi istituzionali: si era opposto alla costituzionalizzazione del voto segreto; aveva sostenuto l'emendamento Mortati sulla democrazia interna ai partiti. Aveva difeso la riforma elettorale del 1953 evocando un sistema corretto di rapporti democratici fra maggioranza e opposizione, quasi preannunziando un bipolarismo.

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Nella riflessione sulla terza fase il tema istituzionale è assente. Domina l'attenzione alle premesse morali e su questo terreno la riflessione di Moro si incontra con quella di Berlinguer. Ma Moro riconosce di essere «forse meno interessato ai temi di riforma dello Stato».
Si tratta di un giudizio sulla inattualità del tema? di un rifiuto motivato, come Cotturri ha sostenuto, dal contesto politico? della realistica visione di un quadro internazionale che, se rendeva difficile il coinvolgimento dei comunisti in responsabilità di governo, rendeva impossibile ogni ipotesi di alternativa? di una necessaria scansione di tempi e di priorità?
Difficile rispondere. Sta di fatto che il sistema si è modificato solo nel dopo Yalta, dopo la fine della guerra fredda e il crollo della Unione Sovietica.
A lungo, i giorni della prigionia dopo il rapimento del 16 marzo sono stati rimossi. La stessa figura di Moro, al di là degli omaggi di circostanza, è stata rimossa. Oggi finalmente si è aperta una riflessione critica dalla quale emerge non solo tutta la ricchezza della dimensione umana del Moro prigioniero, ma anche lo spessore culturale e politico della sua riflessione in quei giorni di tormento: il famoso memoriale, anche se incompleto, e le lettere dalla prigione, non sono solo il documento di un disperato tentativo di salvezza personale e del tragico epilogo della vita di un uomo, ma anche un documento per la storia della Repubblica dal quale non si potrà prescindere.
Ma dagli studi recenti emerge soprattutto con chiarezza crescente, come ha scritto il fratello di Aldo, Carlo Alfredo Moro, «che la ricostruzione data da coloro che si dichiarano gli autori del sequestro è non solo poco convincente sul piano della logica ma anche contraddetta da quei pochi elementi obiettivi e sicuri che sono stati rilevati; che i 'buchi neri' sono ancora troppi e perciò inquietanti».
Vi è un debito di verità verso Moro che è anche un debito di verità verso la storia del paese.
C'è un filo nero nella storia della Repubblica intessuto per decenni da poteri occulti, servizi segreti deviati, rotture della legalità costituzionale anche da parte di organi e istituzioni statali che quella legalità avrebbero dovuto tutelare. Questo filo nero traversa anche, con crescente evidenza, il caso Moro.
Ma non credo che si debba parlare per questo di «doppio Stato», adottando la formula usata con frutto da Ernest Fraenkel per il regime nazista. Si rischia con questa formula di mettere quasi sullo stesso piano e dare lo stesso peso a tutto quanto si è svolto alla luce del sole su binari pienamente costituzionali e a quanto si è svolto nell'ombra, al di fuori o contro la Costituzione.
Prima ancora del dibattito, che giustamente si è riaperto sulla morte, o più esattamente sull'assassinio di Aldo Moro e degli uomini della sua scorta, era già evidente che quell'evento aveva segnato una linea discriminante nella nostra storia.
Giovanni Moro nella sua introduzione al volume Aldo Moro e la crisi della forma partito ha ben messo in luce questa discontinuità distinguendo fra una crisi della «fisiologia della forma partito» e una vera e propria «degenerazione patologica» dei partiti che si manifesta nel periodo successivo. La morte di Moro è il punto di svolta fra il primo e il secondo periodo.
Nel primo periodo, pur con i limiti e le contraddizioni di cui si è fatto cenno, i partiti hanno favorito la crescita del paese e della stessa democrazia; proprio questa crescita ha chiamato sulla scena nuovi soggetti, e in forme nuove i cittadini stessi. Il senso della cittadinanza è entrato in conflitto con il ruolo dei partiti. La democrazia italiana non poteva rinascere che come democrazia dei partiti ma come tale non poteva che entrare in crisi. La solidarietà nazionale è stata l'ultimo stadio di sviluppo di un sistema politico; al di là di essa doveva necessariamente aprirsi la via di una riforma di sistema.
Il periodo successivo, dopo la morte di Moro e la crisi della solidarietà nazionale, registra invece per un lungo tratto un ripiegamento del sistema in un disperato

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sforzo di autoconservazione nelle forme degenerative della partitocrazia e della corruzione.
Il processo di riforma si riapre, in un mutato quadro internazionale, negli anni novanta, con un pesante ritardo e con un offuscamento di quel primato della questione morale ben presente a Moro.
Non servirebbe forzare il pensiero di Moro per trarne indicazioni sui problemi del presente. La sua opera resta al di là della soglia della riforma istituzionale.
«La vera tradizione nelle grandi cose - ha scritto Paul Valéry - non è di rifare ciò che gli altri hanno fatto, ma di ritrovare lo spirito che ha fatto queste grandi cose: ma che farebbe cose diverse in tempi diversi».
Ritrovare lo spirito di Moro, io credo, significa anzitutto tornare al primato della questione morale: «Questo paese non si salverà, la grande stagione dei diritti risulterà effimera - disse in un passo famoso del suo discorso al XIII congresso della DC - se non nascerà in Italia un nuovo senso del dovere». Moro non ha mai fomentato l'illusione di una società civile buona contrapposta ad una società politica cattiva; coniugando diritti e senso del dovere ha indicato la via della crescita della cittadinanza democratica. Una democrazia compiuta esige e presuppone insieme una cittadinanza compiuta.
Ritrovare il suo spirito significa anche tornare alla strategia dell'attenzione e dell'ascolto nei confronti della società civile: rispondere alla assillante domanda di lavoro dei giovani; prendere atto della profonda evoluzione del rapporto fra cittadini, partiti e istituzioni in cinquant'anni di storia; cogliere la domanda di reale autogoverno che le realtà locali esprimono; rispondere alla volontà dei cittadini, non di delegare, ma di scegliere concretamente chi li governa. Il passaggio dal voto di opinione al voto dl decisione - per riprendere l'espressione di Maurice Duverger - è avvenuto, anche se in forme imperfette; lo hanno imposto i referendum elettorali che i partiti in larga misura non hanno voluto ma subìto: bisogna completare il processo. In questo spirito la riforma, necessaria e auspicabile, non sembra possa essere pensata e definita secondo le esigenze di equilibrio e di reciproca legittimazione fra i partiti, ma in funzione di questa centralità dei cittadino e del suo rapporto con le istituzioni.
Ritrovare lo spirito di Moro, per i partiti di oggi, necessari protagonisti in Parlamento di una riforma che i cittadini dovranno giudicare, significa soprattutto, io credo, senso del limite e della misura di fronte alle cose grandi del passato: e la nostra Costituzione è una cosa grande del passato.
«Oggi - ha notato con severità Maurizio Fioravanti - nessuna classe politica occupa più quella posizione centrale che era occupata dalle forze politiche nel momento in cui furono chiamate a redigere le costituzioni democratiche dell'ultimo dopoguerra».
Il senso storico conduce per sua natura a quella «cultura dell'emendamento» con la quale si sono sviluppati, modificati in maniera anche incisiva e consolidati nei secoli gli ordinamenti delle grandi democrazie anglosassoni, piuttosto che a illusorie ambizioni di nuovi inizi.
Aldo Moro con il suo pensiero e la sua opera appartiene alla storia della Repubblica, la sua figura è lontana nel tempo e la distanza la rende più grande; ma lo spirito che lo ha animato è ancora un orientamento sicuro, nel presente, per le grandi cose nuove che il paese attende (Applausi).

PRESIDENTE. Ringrazio il professor Scoppola e do ora la parola al professor Tom R. Burns, docente di sociologia presso l'università di Uppsala, che svolgerà una relazione su «Evoluzione di Parlamenti e società in Europa: sfide e prospettive».