8 maggio 1998


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(Intervento introduttivo del Presidente del Senato della Repubblica)

NICOLA MANCINO, Presidente del Senato della Repubblica. Signor Presidente della Camera, signore e signori, riflettere sul ruolo delle Assemblee legislative nei venti anni trascorsi dall'assassinio di Aldo Moro significa ripensare un cammino che, per molti aspetti a causa di quell'evento, e comunque dopo di esso, fu certamente diverso da come si era delineato.
Con la scomparsa di Moro, veniva meno non solo un protagonista delle vicende politiche del paese, ma anche uno dei più convinti assertori della funzione del Parlamento come punto di raccordo e di equilibrio fra i valori fondanti della Repubblica, le istituzioni, i partiti ed il popolo.
«Veramente fare una Costituzione» - aveva egli affermato alla Costituente - «significa cristallizzare le idee dominanti di una civiltà, esprimere una formula di convivenza, fissare i principi orientatori di tutta la futura attività dello Stato».
Un'esigenza da lui mai interpretata in chiave di conservazione, che perciò rimane, anche oggi, in tutta la sua attualità. «Noi» - ebbe infatti a sottolineare - «non siamo chiamati a fare la guardia alle istituzioni, a preservare un ordine semplicemente rassicurante. Siamo chiamati invece a raccogliere, con sensibilità popolare, con consapevolezza democratica, tutte le invenzioni dell'uomo nuovo a questo livello dello sviluppo democratico».
Esisteva in lui un forte ed ineliminabile rapporto dialettico tra la volontà di conservazione dello Stato e la convinzione che esso non avrebbe potuto sopravvivere,

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se non avesse accettato di trasformarsi e di adeguarsi ai cambiamenti della società civile. La preoccupazione per i rischi di radicalizzazione della lotta politica, l'attenzione ai margini di compatibilità dell'evoluzione del quadro democratico con le scelte internazionali del nostro paese, il senso vivissimo del legame tra le istituzioni ed il consenso popolare hanno rappresentato le coordinate costanti dell'iniziativa politica di Moro. Il suo non legarsi in maniera statica ad una formula politica è stato tutt'altro che segno di indifferenza: nasceva, invece, dalla consapevolezza della direzione delle cose e, perciò, dal convincimento che alla difesa rigorosa dei valori e dei principi della democrazia può e deve far riscontro la flessibilità nella scelta, volta per volta, degli strumenti più idonei ad attuarla.
«Le democrazie moderne» - sottolineava - «con una vastissima base popolare, con il necessario raccordo tra potere di vertice e fonte del potere, con il significato sostanziale e non meramente formale che assumono, non possono fare a meno dell'iniziativa politica dei partiti e dell'opera di mediazione che essi svolgono, per dare efficacia ed ispirazione ed effettiva base di consenso, in ogni momento, allo Stato democratico».
Di qui il suo costante sforzo di contribuire al progressivo coinvolgimento, nel sistema parlamentare, di forze e ceti precedentemente esclusi; ma di qui anche, nei momenti di maggiore contrapposizione politica e, perciò, di possibile rischio per la tenuta delle istituzioni democratiche, la volontà di ricercare la convergenza fra partiti di diversa estrazione culturale e politica.
Rispetto a questi obiettivi, la realizzazione piena delle possibilità di alternativa democratica era, nella concezione di Moro, qualcosa di più alto ed ambizioso di una formula di Governo: non il compromesso storico, come pure si è detto, ma un'alternanza al Governo senza rischi per il sistema è stata sempre sullo sfondo dell'iniziativa e delle strategie morotee.
La sua scomparsa segnò la brusca interruzione della solidarietà nazionale e, in generale, del dialogo tra le maggiori forze politiche: la scelta della rigidità del preambolo, da una parte, ed il rifugio in una presunta diversità, dall'altra, segnavano l'inizio di una fase che avrebbe avuto ripercussioni e conseguenze anche sul lavoro, sul ruolo democratico, sulla qualità dell'impegno legislativo delle Assemblee parlamentari.
Dopo Moro, l'emergenza dell'ordine pubblico non poteva non diventare emergenza politica, per la portata devastante dell'offensiva terroristica contro le istituzioni democratiche. E fu una lotta coronata da successo, anche per il positivo coinvolgimento di tutte le forze politiche e sociali.
Nel clima di quegli anni, certo, diventa difficile ritrovare condizioni generali di serenità per riprendere il senso di una progettualità complessiva, capace di riavvicinare i cittadini alle istituzioni. L'ottava legislatura, cui gli anni di piombo consegnano una pesante eredità, fu tra le più instabili - con la successione di Governi di breve durata - come la seconda, la legislatura del dopo De Gasperi, e la quinta, segnata dalla caduta del Moro interprete del centro-sinistra.
Alla instabilità politica ed alla ridotta capacità dei partiti di mediare i conflitti e gli interessi sociali, era destinata a far riscontro una più diffusa richiesta referendaria come possibile via di soluzione per questioni non risolte in sede parlamentare. Situazione, questa, che si sarebbe ripetuta più volte negli anni e nelle fasi successive. Le Camere, in quella fase, sono apparse più al rimorchio degli avvenimenti che non capaci di realizzare concrete e lungimiranti iniziative per il recupero del raccordo tra i cittadini e le istituzioni. Ricorrenti emergenze sono sembrate dominare la politica italiana di quel periodo. La stessa vicenda che portò alla legge di scioglimento della P2 - è grave, consentitemelo, che il suo capo sia sfuggito alla giustizia - è stata indicativa di una volontà di difesa da attacchi gravi e pericolosi, ma non altrettanto della

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capacità di elaborare un disegno capace di indirizzare l'ordinamento istituzionale verso traguardi più avanzati.
L'inaridimento delle speranze suscitate dalla Commissione Bozzi sarà la prima di molte disillusioni che, dalla metà degli anni ottanta, accompagneranno fino ai giorni nostri l'itinerario riformatore. Nell'arco di quegli anni, la coesione politica riuscì a produrre nell'immediato coalizioni di Governo ma non, in prospettiva, condizioni reali per assicurare effettiva stabilità e governabilità al sistema politico.
Le esigenze di Governo, da una parte, e la scelta assemblearista, dall'altra, prevalsero sulla necessità di riformare l'ordinamento. La comodità delle rendite di posizione, sul versante della maggioranza ma anche su quello dell'opposizione, fece, insomma, premio sulle urgenze riformatrici.
La stabilizzazione, che alcuni hanno considerato anche come ingessatura, del quadro politico fece riscontro ai fermenti che venivano manifestandosi nel paese, anche come riflessi di una situazione internazionale in movimento. Quando, negli anni novanta, la stagione delle riforme riprende quota, i segnali di deterioramento degli equilibri politici e di una ridotta, se non addirittura nulla, capacità di risposta del sistema sono visibili: anche per questo le iniziative referendarie cominciano a riguardare direttamente il terreno istituzionale, addirittura l'area più importante e delicata, quella elettorale. I referendum del 1991 e del 1993 non solo creano le condizioni sostanziali, ma determinano anche la forma dei cambiamenti che la politica non è in grado di assicurare.
La riforma elettorale di entrambe le Camere e quella dei comuni e delle regioni rappresentarono due momenti di significativa modifica dell'ordinamento, ma già nella zona di confine di un periodo dominato dalle ragioni interne di crisi del sistema politico e, insieme, dalla recrudescenza della criminalità organizzata e dall'emergenza economica. Sul fronte dell'azione di contrasto alla mafia, l'effetto congiunto della legislazione speciale e di nuovi indirizzi operativi permise di conseguire notevoli, e prima insperati, risultati. Sul fronte economico, lo spartiacque fu lo scontro parlamentare e nelle piazze sulla scala mobile: la politica di moderazione salariale, mal sopportata da alcune forze politiche e sindacali; la lotta più incisiva contro l'indebitamento e l'adozione di nuovi strumenti legislativi come la delega al Governo Amato, nel 1992, su pensioni, sanità, finanza locale e pubblico impiego consentirono di imboccare quell'itinerario che ha preparato - giova ricordarlo - il terreno per gli sviluppi successivi, fino all'ingresso del nostro paese nell'Unione monetaria europea.
Chi voglia scorrere l'elenco delle grandi leggi approvate ricava l'impressione che molti anni si siano persi, in particolare quelli vicini a quel tragico 9 maggio 1978. Prima della seconda metà degli anni ottanta, sono pochi gli impianti normativi di rilievo; gli interventi appaiono per lo più di portata limitata e contingente, spesso privi di una impostazione lungimirante e di largo respiro. I provvedimenti più importanti, come la riforma del Concordato, del 1985, e la legge delega per il codice di procedura penale, del 1987, affondano le loro radici in dibattiti lontani.
Le difficoltà degli esecutivi nella realizzazione del programma governativo non erano isolati incidenti di percorso dovuti, o dovuti solo, alla progressiva attenuazione della capacità di coesione tra le forze politiche; ma all'insufficienza degli strumenti messi a disposizione dell'esecutivo, alle mutate caratteristiche dei rapporti tra Governo e Parlamento, spesso ad un parlamentarismo esasperato, dispersivo ed inefficace. Si sono, cioè, riproposte, con diversa intensità, nelle mutate circostanze politiche, le conseguenze di inconvenienti già apparsi evidenti, addirittura, durante l'esperienza centrista ma aggravatesi nel corso degli anni.
Le riforme costituzionali attuate hanno riguardato, non a caso, un ambito collegato con quello penale: la riforma dei reati ministeriali, le leggi sull'amnistia e sull'immunità parlamentare, la modifica

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dei poteri presidenziali nel semestre bianco. Quelle innovazioni, scaturite dall'oggettiva urgenza di alcune questioni, erano anche, complessivamente, segnali delle progressive difficoltà di rappresentatività politica da parte di un sistema logorato nella sua legittimazione, a causa della crescente sfiducia da parte dell'opinione pubblica.
Altro fattore non positivo è stato ed è rappresentato dalle condizioni della pubblica amministrazione, progressivamente indebolita nella sua autonomia e nella sua efficienza. Anche su questo versante, non si è quasi mai riusciti a trovare soluzioni equilibrate, che impedissero di oscillare permanentemente tra un uso incontrollato e senza regole del potere discrezionale e una serie infinita di prescrizioni solo formali, minuziose e paralizzanti. L'opera di graduale ridisegno ora avviata con le leggi Bassanini deve essere innanzitutto effettivamente attuata, e poi perfezionata e completata.
Sul fronte dei rapporti tra Governo e Parlamento, si è registrata una netta prevalenza dell'iniziativa delle Assemblee con fenomeni di consociativismo, non sempre di profilo alto, mentre l'esecutivo si è ritagliato, spesso anche per le lentezze parlamentari, più ampi spazi di operatività: emblematica la vicenda della reiterazione dei decreti-legge, cui la Corte costituzionale ha posto fine. È mancato, insomma, il giusto, necessario equilibrio, anche per l'oggettiva mancanza delle condizioni per l'alternativa.
In questo quadro si iscrive l'occasione mancata della bicamerale De Mita-Iotti; non tanto per una incapacità propositiva della Commissione, che, anzi, aveva indicato significative ed interessanti ipotesi di riforma, quanto per il prevalere di interessi politici strumentali che non resero possibile l'approdo conclusivo dei suoi lavori.
La mutata situazione di oggi permette di considerare con ottica diversa questioni cui il processo riformatore deve dare risposte adeguate: maggiore stabilità politica, un esecutivo effettivamente messo in grado di realizzare il suo programma, ma anche delle Camere autorevoli, non indebolite nelle loro funzioni, differenziate, che continuino ad essere un fondamentale filtro democratico e conservino la loro piena rappresentatività ed il loro ruolo politico. Naturalmente esiste anche il problema della loro funzionalità, che non può essere ignorato, ma che anzi acquista una rilevanza ancora maggiore rispetto ai processi, in atto, di mondializzazione dell'economia e di globalizzazione dei mercati.
La limitazione delle competenze centrali alle sole materie che ineriscono alla sovranità e l'attribuzione alle regioni di competenze legislative primarie segnano una svolta nel processo riformatore in atto.
Non vanno, però, trascurati i rischi di conflittualità derivanti da eventuali doppie legittimazioni: Sono certo che il Parlamento, nella sua saggezza, saprà trovare le soluzioni più idonee per assicurare equilibrio, coesione e tenuta al sistema.
Si ritorna, cioè, sia pure in presenza di situazioni e circostanze profondamente cambiate, al cuore della riflessione di Aldo Moro; una riflessione, perciò, di straordinaria, perdurante attualità. Dalla sua testimonianza politica ed umana ci è venuta la riaffermazione del suo convincimento profondo che le istituzioni democratiche sono le espressioni più alte dei valori fondanti della nostra convivenza civile, e perciò appartengono a tutti. Tutte le forze politiche, che hanno responsabilmente consentito l'inizio del cammino delle riforme, devono quindi, con rinnovato senso di responsabilità, dare il loro contributo in vista del varo definitivo.
Se questo sarà, ne uscirà notevolmente rafforzato quel fondamentale filo di continuità che lega l'opera dei costituenti, il senso della strategia democratica di Aldo Moro, la legislazione e il ruolo politico delle Assemblee parlamentari (Generali applausi).