8 maggio 1998


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Interventi introduttivi.

(Intervento introduttivo del Presidente della Camera dei deputati)

LUCIANO VIOLANTE, Presidente della Camera dei deputati. Signor Presidente del Senato, signore e signori, la manifestazione che si svolge oggi non è una celebrazione, né un convegno. È una Conferenza istituzionale alla quale partecipano formalmente le rappresentanze delle assemblee elettive che sono espressione dell'intera comunità nazionale.
Un evento di tale natura non può che avere luogo in un'aula del Parlamento nazionale.
Si svolge nell'aula della Camera dei deputati, in quanto il nostro lavoro è dedicato ad Aldo Moro, un uomo di Stato che ha fatto parte di questa Assemblea per circa trent'anni e la cui vicenda politica e personale si è intrecciata più di ogni altra con la storia repubblicana.
Ricorrerà domani il ventesimo anniversario del suo omicidio.
Dico «omicidio» e non uso il termine «morte» perché Aldo Moro non morì. Aldo Moro fu ucciso. Ed in questi venti anni è stato oggetto di molteplici tentativi di rimozione. Il termine «morte» riporterebbe la mente alla ineluttabile fine biologica e quindi si inquadrerebbe nella liturgia della rimozione.
Ma non è così. La sua fine non fu né biologica né inevitabile. Il suo è stato l'unico caso di un uomo di Stato sequestrato ed ucciso nel mondo occidentale avanzato in questo secolo.
Oggi, inoltre, ricorre il cinquantesimo anniversario della prima seduta delle Camere repubblicane.
L'intelligenza ci permette di cogliere i nessi tra vicende lontane nel tempo, distanti nel significato, ma apparentate dal loro rapporto con la recente storia politica italiana.
Con quella seduta di cinquant'anni fa si apre un ciclo della vita italiana, fondato sulla capacità dei partiti politici di rispondere alle esigenze del paese. Questo ciclo si chiuderà con l'assassinio di Aldo Moro.
La coincidenza degli anniversari con le giornate di oggi e di domani è casuale.
Ma il caso in molti campi diversi dal nostro, si pensi ad esempio alla ricerca scientifica, è motore di conoscenza e di progresso. Non c'è motivo, quindi, per non riflettere sui nessi tra ciò che si aprì cinquant'anni fa e ciò che si chiuse vent'anni fa.
I primi trent'anni della Repubblica, dal 1948 al 1978, corrono tra la speranza di quella prima seduta del Parlamento repubblicano e la tragedia. Gli ultimi venti anni corrono tra quella tragedia e la

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speranza di oggi di un'Europa unita, di una finanza pubblica risanata e di un sistema costituzionale riformato.
Quella tragedia, da qualunque parte la si guardi, rappresenta uno spartiacque. L'Italia non è stata più quella di prima ed oggi non è più quella di allora.
Sono presenti in quest'aula i familiari di Aldo Moro e quelli dei componenti della sua scorta, maresciallo maggiore dei Carabinieri Oreste Leonardi, appuntato dei Carabinieri Domenico Ricci, guardia di Pubblica sicurezza Giulio Rivera, guardia di Pubblica sicurezza Pasquale Iozzino e vicebrigadiere di Pubblica sicurezza Francesco Zizzi, uccisi nell'agguato di via Fani, nonché i rappresentanti dell'Accademia di studi storici «Aldo Moro». Ad essi rivolgo il mio personale saluto e quello dell'intera Assemblea.
Sono presenti anche alcuni colleghi che fecero parte del Senato e della Camera nella prima legislatura repubblicana. Anche ad essi rivolgo un saluto ed un ringraziamento per essere qui.
Ringrazio, infine, il Presidente del Senato, che prenderà la parola subito dopo di me, e il Presidente della Repubblica, che domani terrà il discorso per ricordare Aldo Moro.
Questa Conferenza nasce dopo un lungo lavoro preparatorio nel corso del quale ci siamo chiesti come le istituzioni della rappresentanza devono oggi modificare le proprie regole per poter rispondere in modo adeguato ai bisogni della società e dei cittadini. Siamo consapevoli che una politica lenta o impacciata è una «palla al piede» dei cittadini. Siamo consapevoli che il bisogno di rapidità e di efficienza può condurre a sacrificare il senso stesso della rappresentanza, che costituisce il fondamento delle democrazie europee. Siamo consapevoli, perciò, che in un sistema di carattere federale, come quello che stiamo costruendo, con un forte protagonismo dei comuni e delle province, accanto alle regioni, le nuove regole devono riguardare non solo le aule parlamentari, ma tutte le sedi nelle quali si esplica la rappresentanza, intesa come la forma più alta della sovranità popolare nell'età moderna.
Aldo Moro non aveva mai nascosto il suo scetticismo sulle interpretazioni taumaturgiche della riforma dello Stato, come allora venivano chiamate le riforme istituzionali. Egli riteneva prioritario l'allargamento delle basi della democrazia per costruire le condizioni dell'alternanza al governo del paese.
Significativo è un passo del discorso tenuto al XIII congresso del suo partito nel 1976, due anni prima del suo omicidio. La soluzione della crisi doveva realizzarsi, secondo Moro, principalmente sul piano morale e politico, ma aggiungeva: «Dove c'è da riformare, e da riformare c'è certamente, si riformi con coraggio, perché le istituzioni sono al servizio dell'uomo».
Oltre vent'anni prima, nel difendere la legge elettorale maggioritaria dalle eccezioni di costituzionalità, esprimeva il suo concetto di democrazia parlamentare in termini del tutto simili a quelli contemporanei: «Bisogna, nell'ambito di un reggimento democratico, che la maggioranza possa orientare, dirigere, prendere iniziative e decisioni, e che la minoranza possa con forza e sicurezza operare secondo la sua funzione di controllo, proporre delle alternative, permettere eventuali mutamenti nell'orientamento del paese».
È lo stesso tipo di considerazione che sta alla base di questa Conferenza e di una serie di riforme di questa fase della vita costituzionale, dal sistema elettorale, al regolamento della Camera, alla riforma della seconda parte della Costituzione.
Tuttavia, signori, ciascuno di noi sente che sarebbe banale e retoricamente celebrativo fermarsi a questo tipo di considerazioni.
Moro, infatti, con le sue umane contraddizioni e le sue laceranti intuizioni, con la sua fine tragica e che appare oggi quasi prevedibile, non è solo un leader politico, rapito ed ucciso per ragioni criminali tutte interne alla logica dei suoi assassini.

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Moro, oggi, ci appare una figura eroica della politica. Intuisce che la società italiana ha bisogno di una democrazia compiuta, sa che le condizioni internazionali non permettono questo obiettivo, e tuttavia opera per esso. Viene ucciso dalla grandezza e dalla novità del suo stesso progetto. Il rischio della rimozione della sua memoria è figlio della diffidenza con la quale una parte considerevole, anche se non maggioritaria, della società italiana, e non solo italiana, guardava allo sblocco ed alla compiutezza della democrazia italiana. Poco importa che i suoi assassini, e quelli della scorta, oggi vezzeggiati a volte come reduci da una nobile battaglia e non invece da una serie di atroci omicidi, fossero consapevoli di questo. L'assassinio di Moro ha una sua tragica coerenza. Risponde al senso più oscuro di una storia che trova la propria continuità nel distorcere con la violenza il corso della democrazia e della quale solo in questi ultimi anni cominciamo, forse, a sbarazzarci.
Moro fu oggetto, è stato scritto di recente, di un odio quasi teologico. Persino dopo il suo assassinio non sono mancate aggressioni all'uomo per demolirne il ruolo politico, anche da parte di noti commentatori, tutt'oggi operosi. Ragione ulteriore, quindi, per cui da quest'aula si debba esigere tutta la verità sul suo sequestro e sul suo omicidio. Moro si trovò ad essere indispensabile non per sua presunzione o per sua scelta né per decisione altrui. Il corso degli avvenimenti, la sua interpretazione strategica della storia italiana, la sua capacità, in quella fase, di mettere in moto forze ed idee fecero di lui la pietra angolare di un edificio difficile da costruire, ma non impossibile. Gli assassini non sapevano, forse, di sfilare quella pietra angolare. Ma noi ci accorgemmo che l'edificio, privo dell'uomo che allo stesso momento era equilibrio e forza, crollava.
Cambia repentinamente e disordinatamente in quelle giornate la storia dell'Italia moderna.
Si apre una lunga fase nella quale il conflitto politico, sempre così radicale nel nostro paese, per la prima volta diviene orfano di una visione comune dei valori fondamentali e delle prospettive di lungo periodo.
In quella confusione tutti i fattori vengono improvvisamente rimescolati. I grandi protagonisti della politica italiana cominciano a perseguire ciascuno una propria linea e non si riesce a ricomporre una dinamica positiva del sistema politico istituzionale, che precipita in una lunga stasi.
Si accentua la separazione tra la società civile ed un mondo politico sempre più chiuso in se stesso. Quella stessa separazione aveva rappresentato una delle preoccupazioni costanti di Moro. Al consiglio nazionale democristiano del 25 novembre 1975 spiega: «Rinunciare a comprendere giovani, donne, lavoratori, significa rinunciare ad una posizione storica, ad una funzione storica, per accontentarsi sinché si possa, di gestire timidamente il presente». «Sappiamo che nei giovani», dirà due anni dopo, mentre i suoi giovani assassini cominciano a pensare all'omicidio, «c'è il senso del nuovo, l'attesa del nuovo, la consapevolezza non disperata però, né distruttiva né inerte, di una civiltà ancora incompiuta nei suoi valori essenziali. Questo è un pungolo che ci sollecita a schierarci con l'apertura verso l'avvenire».
La sua fine rompe lo sforzo di comprensione in tutto il mondo politico.
I temi che si propongono oggi alla democrazia italiana sono in gran parte maturati nella parte più recente della storia repubblicana, quella svoltasi senza di lui. Strumenti e strategie sono lontani da quello a cui Moro aveva pensato. Ma sul terreno dei fini e delle grandi idee di riferimento, resta l'intuizione di fondo del compimento e della stabilità della democrazia.
Si è consumata la crisi dei partiti tradizionali, ma la politica si è riappropriata del compito di delineare prospettive per il lungo periodo attraverso il risanamento finanziario, la riforma dello Stato sociale, un maggiore protagonismo della

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politica estera, l'ingresso nell'unione monetaria europea, la riforma della Costituzione.
Questa riforma non ha certamente il carattere eroico della sfida di Moro, ma ha lo stesso carattere strategico e la stessa forza innovatrice.
La democrazia italiana, dopo il crollo delle grandi contrapposizioni ideologiche, ha bisogno di una nuova legittimazione. Questa legittimazione si guadagna per la capacità di costruire benessere per i cittadini, non più per la sola capacità di opporsi all'altro sistema. Per costruire occorrono nuovi strumenti adatti alla decisione ed al controllo nel mutato contesto nazionale ed internazionale.
Nell'Europa della moneta unica, come nei paesi che più direttamente risentono delle interdipendenze conseguenti alla globalizzazione, saranno più competitive e garantiranno meglio i diritti dei loro cittadini quelle democrazie che riusciranno a coniugare stabilità, rappresentatività ed efficienza.
Stiamo passando da una «democrazia di tipo verticale», nella quale i diversi livelli istituzionali sub-statuali (regioni, province, comuni) sono legati tra di loro da un rapporto di tipo piramidale, ad una «democrazia di tipo orizzontale». In questo nuovo modello ciascun attore istituzionale, dal cittadino, al comune, alla regione non é «mero ingranaggio» dello Stato, inteso come apparato istituzionale sovraordinato, ma è esso stesso motore, soggetto attivo che, assieme a tutti gli altri attori istituzionali, «muove» consapevolmente e responsabilmente la società. Tutte le assemblee elettive, per poter adempiere ai nuovi compiti, hanno bisogno oggi di nuovi assetti e di nuove regole. Siamo qui per discutere di questo.
Occorre rispondere alle esigenze di un cittadino, molto più consapevole e avvertito, che chiede non indicazioni ideologiche, ma spazi di autonomia reale e risposte concrete a problemi concreti. Di un cittadino che, proprio perché maturo, non cerca più la mediazione del partito per il proprio rapporto con le istituzioni e chiede perciò che le istituzioni siano in grado di dargli i servizi necessari a costi accettabili ed in tempi rapidi.
Nei cambiamenti in corso, il sistema delle assemblee elettive è su un crinale. Può crescere, ma corre il rischio di un'emarginazione istituzionale. Il bisogno di sintesi e di decisione avvantaggia gli esecutivi. I molteplici canali di partecipazione diretta e di autonomia sociale superano la tradizionale delega rappresentativa.
In un paese complesso come il nostro, con un forte senso di autonomia dalla politica ed un ancora debole Stato nazionale, la costruzione del consenso è sempre all'ordine del giorno. Le Assemblee, nella esperienza italiana, costituiscono tradizionalmente il luogo del raccordo tra politica e società e del consolidamento di una difficile unità nazionale. Il nostro sistema parlamentare, in particolare, è garanzia di questo raccordo e di questo consolidamento perché evita un impatto troppo diretto e violento delle esigenze sociali sui governi e delle decisioni degli esecutivi sulla società. Non c'è spinta sociale di un qualche peso che non giunga in Parlamento e di qui non pervenga al Governo attraverso la mediazione propria della sede parlamentare. Non c'è decisione dell'esecutivo di un qualche significato che non passi dal Parlamento e non giunga nella società solo dopo un'opera di correzione e di valutazione parlamentare. Nel Parlamento passa la gran parte di ciò che accade nel paese e la gran parte di ciò che decide Palazzo Chigi. Può essere faticoso per chi governa; ma così sono garantiti l'unità nazionale ed il raccordo tra società civile e Governo. Nei sistemi a parlamentarismo debole, si pensi alla Francia, ad esempio, lo scontro è inevitabile, perché manca una sede nella quale possano avvenire un'efficace rappresentanza, una mediazione ed una correzione. Ma lo scontro non ha gli effetti laceranti che potrebbe avere in Italia per la particolare compattezza dello Stato e dell'amministrazione centrale.
Gli italiani hanno tollerato tre manovre finanziarie per complessivi 100 mila miliardi

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in dieci mesi, senza i disordini che si sono manifestati, per meno, in altri paesi europei, proprio per la forza e la capacità rappresentativa e di mediazione di questo Parlamento. Dall'impegno del Parlamento, del Governo, dei cittadini, di tutte le istituzioni rappresentative possono nascere oggi nuove ragioni e un nuovo cemento per l'unità nazionale.
Il nostro parlamentarismo e, più in generale, il nostro sistema di rappresentanza politica, ha peraltro gravi difetti: lentezza nelle decisioni, mancato calcolo degli effetti economici, sociali ed istituzionali delle deliberazioni adottate, mancata individuazione delle priorità. Perciò ci siamo posti la domanda centrale di questa Conferenza: come costruiamo un sistema, che conservi la propria capacità di rappresentanza, di mediazione e di indirizzo, ma che al tempo stesso sappia offrire risposte certe, rapide, competenti? Come salvaguardiamo, nella modernità che stiamo vivendo, i valori della prima parte della Costituzione, primo fra tutti la sovranità popolare, che sono costitutivi della nostra identità repubblicana e democratica, ma rischiano di deperire per la inidoneità dei vecchi strumenti?
Abbiamo chiesto ad alcuni illustri studiosi - che ringrazio per essere qui - di farci conoscere le loro opinioni. Il Capo dello Stato ci comunicherà le sue riflessioni. Il Presidente del Senato parlerà fra un attimo. Gli interventi consentiranno di ascoltare sensibilità ed esperienze diverse.
Siamo qui, riuniti per la prima volta nella storia della nostra democrazia, perché consapevoli delle nostre responsabilità e perché sappiamo che una classe dirigente non può limitarsi ad essere specchio della società. Deve essere motore dei cambiamenti.
Questa stessa conferenza può essere considerata una testimonianza vivente della capacità acquisita dalla democrazia italiana di affrontare nelle sedi istituzionali le proprie difficoltà per superarle e andare avanti.
Dopo queste due giornate di lavoro dovremo tradurre le idee in regole ed in costume politico.
Lo faremo, amici, con la consapevolezza che cominciamo ad essere parte di una rete di istituzioni comunicanti, non più chiuse nelle loro antiche gelosie, coraggiose nell'affrontare la sfida dei tempi, come coraggioso fu l'uomo al quale dedichiamo i nostri lavori (Generali applausi).
Prego il Presidente del Senato di prendere la parola.