9 maggio 1998


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I lavori, sospesi alle 10,30, sono ripresi alle 11,10.

PRESIDENTE. (Si leva in piedi). Signor Presidente della Repubblica, signor Presidente del Senato, signore e signori, sono qui presenti, oltre ai parlamentari, circa 400 rappresentanti dei consigli comunali, provinciali e regionali, per la prima volta riuniti in quest'aula; sono presenti i rappresentanti dell'Accademia di studi storici Aldo Moro, i familiari delle vittime di via Fani, che salutiamo anche per il grande merito che hanno acquisito le forze dell'ordine con il sacrificio di molte vite per la difesa della democrazia nel nostro paese.
Per la prima volta ci siamo riuniti per discutere del modo migliore di rappresentare i bisogni e le speranze dei cittadini e abbiamo voluto farlo dedicando i nostri lavori alla figura politica di Aldo Moro, il quale alla costruzione di un rapporto solido tra società e politica dedicò gran parte della sua vita. Come è stato detto, abbiamo voluto restituire insieme - consigli comunali, provinciali e regionali, rappresentanze nazionali - Moro alla sua dimensione di statista e alla sua aula.
Interverrà ora un rappresentante per ciascun gruppo parlamentare e quindi, signor Presidente della Repubblica, la pregherò di prendere la parola.

Interventi dei rappresentanti dei gruppi parlamentari.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare il senatore Cesare Marini. Ne ha facoltà.

CESARE MARINI (Socialisti italiani). Signor Presidente della Repubblica, signori Presidenti di Camera e Senato, onorevoli colleghi, rappresentanti delle regioni, delle province e dei comuni, signori tutti, si può affermare che l'opera politica di Aldo Moro è stata guidata da un'idea centrale, quella di rendere possibile il superamento delle condizioni di anomalia della democrazia italiana rispetto alle altre grandi democrazie occidentali, l'anomalia cioè di una democrazia bloccata e senza alternanza.
Bisogna dunque accostare il nome di Aldo Moro a quello di altri grandi traghettatori che hanno profuso il loro impegno e la loro intelligenza politica nello sforzo di liberare il sistema politico italiano da un'ipoteca direttamente legata alla guerra fredda. Penso in particolare a Pietro Nenni e al suo programma di un centro-sinistra che non avrebbe dovuto esaurirsi in un parziale allargamento dell'area di Governo, ma avrebbe dovuto rappresentare il preludio verso una democrazia governante non gravata dal peso della conventio ad escludendum. Penso ad Enrico Berlinguer e alla sua chiara consapevolezza della necessità di allargare le basi della democrazia italiana.
Si è aperta ora, signori, nel nostro paese una fase costituente che ha l'obiettivo di modificare il funzionamento degli istituti democratici per garantire la governabilità nel rispetto del rapporto permanente di consenso popolare. La stagione appena iniziata richiama alla memoria altre importanti fasi della vita nazionale, anche quella caratterizzata da vaste e profonde riforme: gli anni del centro-sinistra furono quelli permeati dall'ansia del rinnovamento e del completamento del processo democratico e Aldo Moro fu un protagonista dell'incontro tra cattolici e socialisti, sempre attento a non interrompere l'esperienza riformatrice, pur se garante del vincolo di solidarietà tra i ceti moderati della democrazia cristiana.
Le tensioni che caratterizzarono quell'accordo di Governo trovarono in Moro un paziente mediatore tanto necessario in una fase nella quale si introdussero nel

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sistema democratico importanti riforme. Di quell'esperienza e dei maggiori protagonisti che l'hanno promossa va apprezzato l'alto dibattito che seppero suscitare nel paese sui temi della costruzione di uno stato più democratico. Quel confronto fu un momento importante che ricongiunse culture, ideologie, identità e progetti antagonisti, in una comune ricerca di cambiamento e di progresso.
Con questi sentimenti, rivolgiamo un pensiero di apprezzamento e di gratitudine alla memoria di Aldo Moro.
In quest'aula sono presenti i familiari delle vittime della scorta di Aldo Moro, ai quali va un sentimento di riconoscenza da parte dei socialisti italiani, accomunandole a tutte le vittime che hanno dovuto difendere lo Stato negli anni travagliati del terrorismo (Generali applausi).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Pier Ferdinando Casini. Ne ha facoltà.

PIER FERDINANDO CASINI (CCD). Signor Presidente della Repubblica, signori Presidenti delle Camere, Aldo Moro fu il profeta, qualche volta non ascoltato e molte volte non capito, del compimento della nostra democrazia. Un profeta che si teneva però a debita distanza da ogni certezza dogmatica e che cercava l'approdo della sua politica attraverso un esercizio di misura, di pazienza, di realismo e di rispetto di chi non la pensava come lui. La sua tolleranza era commisurata alla profondità dei suoi convincimenti tanto quanto, all'estremo opposto, la brutalità dei suoi carcerieri avrebbe rivelato vent'anni fa la pochezza delle loro idee e dei loro argomenti. Sono passati, appunto, vent'anni da quella tragedia; vent'anni dedicati a ripensare ad uno Stato che allora, sotto l'assedio del terrorismo, appariva debole e quasi sul punto di soccombere; dedicati a portare avanti una lunga e faticosa transizione, di cui Moro aveva intuito la necessità e alcuni caratteri.
Il nostro debito verso Aldo Moro e verso gli agenti della sua scorta, trucidati 55 giorni prima di lui, è appunto quello del ricordo. Credo che nessuno si possa appropriare in modo esclusivo di questo ricordo, neppure tra quanti - come me ed altri - si trovarono a militare nello stesso partito e a pronunciare le stesse parole d'ordine. Moro non ha lasciato eredi ed il suo testamento ideale riguarda semmai tutti i democratici, anche quelli che dissentirono con lui.
Ma per saldare questo debito credo anche che dobbiamo restituire ad Aldo Moro la sua originalità, la sua personalità, la controversia che lo ha riguardato. Egli non fu solo un grande mediatore; fu un uomo di scelte: seppe assumere responsabilità e rischi e tentò di guidare il processo politico del suo tempo nella direzione che l'intelligenza e l'aspirazione ideale gli suggerivano. Molte volte gli riuscì, qualche volta no; ma nessuna delle leggende che lo accompagnarono è del tutto vera: né quella che lo vorrebbe padre del consociativismo, né quella che lo vorrebbe figlio di una sorta di ambiguità del potere, di una sua mancanza di identità e di rigore.
Il disegno politico moroteo conteneva più di un esito possibile. È legittimo immaginare che esso tendesse verso collaborazioni politiche più larghe ed è legittimo immaginare, all'opposto, che esso sarebbe infine culminato in una alternativa bipolare. Quella che non è legittima e che anzi disturba è la corsa ad interpretare tutto nella chiave di attualità o, peggio ancora, a rivendicare eredità da parte di chi gli è stato vicino e qualche volta perfino da parte di chi gli è stato più lontano.
Non so dire oggi, di fronte allo sviluppo di quel disegno, quanta parte ne avrei condiviso e quanta parte, invece, non ne avrei condiviso.
E con questo dubbio, vorrei esprimere anche il rispetto che è dovuto ad una figura politica e non mitologica. Moro fu un uomo di frontiera; fu leader di partito tenace, orgoglioso e militante. Si alzò in questa stessa aula per ammonire che il suo partito non poteva accettare processi politici che non fossero quelli legati al

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consenso degli elettori. A questa verità, scomoda ed impopolare, sacrificò il senso dell'opportunità politica e la compiacenza verso derive moralistiche e giustizialistiche, che già allora facevano rullare i propri minacciosi tamburi di guerra. Difese l'onore di una democrazia cristiana nella quale, il più delle volte, si trovò in minoranza e contro i cui difetti e le cui negligenze spese parole severe e accorate. Coltivò i diritti di rappresentanza e le espressioni democratiche di tutte le forze politiche. Fu l'uomo che seppe leggere il sessantotto, la contestazione giovanile, il dissenso cattolico, i nuovi protagonisti sindacali e associativi, che non si lasciavano più chiudere nelle maglie di un processo istituzionale che stava diventando soffocante. Aveva il senso del limite della politica, la consapevolezza che oltre i suoi confini si stendeva un territorio di valori, di umanità, di relazioni che il potere non doveva e non poteva calpestare. Forse anche per questo le brigate rosse colpirono proprio lui. Nella loro sciagurata iconografia Moro era il simbolo più visibile del potere democratico. Ma forse, nella loro involontaria intuizione era anche l'uomo che poteva offrire al disordine e alla rivolta un punto di riferimento attento e rispettoso, lontano ma non distratto.
C'è infine un sentimento, che non è né frivolo né cupo, a cui credo che il ricordo di oggi debba lasciare qualche spazio. È il sentimento del dovere, di cui proprio l'ultimo Moro parlava così spesso; la consapevolezza di essere tenuti all'impegno, alla responsabilità, allo svolgimento di un compito se non di una vocazione. La consapevolezza di non essere mai appagati, di conservare sempre un'inquietudine, una ragione più profonda; la consapevolezza che nessun approdo è definitivo, che nessun assetto è mai sottratto al moto infinito delle persone e delle idee.
A vent'anni dall'uccisione di Moro abbiamo sentito parole vuote, parole di circostanza, parole reticenti e magari convenienti. Le parole di quegli ex terroristi a cui il sistema della comunicazione ha offerto tutte le luci dei suoi riflettori, a cui non hanno saputo dare in cambio nessuna verità inedita e forse nessuna sincerità che comportasse l'assunzione di qualche rischio per sé. Tanto più manca oggi ai suoi amici, e anche ai suoi avversari, la parola franca e serena di Aldo Moro (Applausi).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Mauro Paissan. Ne ha facoltà.

MAURO PAISSAN (Verdi). Un saluto, a nome dei deputati verdi al Presidente della Repubblica, ai familiari di Aldo Moro, ai familiari degli uomini della sua scorta ed a tutti gli ospiti.
Trovo positivo, signor Presidente, che l'anniversario di quel terribile 9 maggio 1978, giorno di ritrovamento della salma in via Caetani, venga celebrato oggi con un ricordo della figura di Aldo Moro vivo, di Aldo Moro politico, di Moro protagonista di alcuni decenni della storia del nostro paese. Dico ciò perché ho trovato che il recente anniversario del 16 marzo, giorno della strage di via Fani, sia stato invece vissuto, in particolare sui mezzi di informazione, più come anniversario delle brigate rosse e del terrorismo che come giorno della scomparsa di un protagonista del dopoguerra italiano. Pochissime, allora, le ricostruzioni del personaggio politico, moltissime le ricostruzioni dell'atto terroristico. Oggi, per fortuna, si riequilibra e la vittima è anteposta, come rilievo, agli assassini, la vita alla morte.
Negli anni settanta, giovane cronista politico di un giornale di opposizione, ho avuto modo di seguire da vicino l'azione politica di Aldo Moro, di conoscerne la profondità, l'abilità, la contraddittorietà. Pure da un punto di osservazione da antagonista politico, dunque, fu impossibile non riconoscere l'importanza e la lungimiranza del suo disegno politico; anche se talvolta la contraddizione appariva a noi, allora, davvero insuperabile. Come quando Moro affermava la maturità dell'apertura a sinistra, o quando si mostrava acuto, acutissimo osservatore dei mutamenti sociali e culturali e insieme intendeva - a noi, così appariva - ricondurre il tutto alla conferma di quella che

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allora veniva chiamata centralità democristiana.
Nel celebre discorso al consiglio nazionale del suo partito, nel luglio 1975, dopo la batosta del referendum sul divorzio dell'anno prima e dopo la vittoria delle sinistre nelle elezioni amministrative del mese precedente, Moro nell'introdurre il concetto di «terza fase» - dunque, poi, di unità nazionale - usò un'espressione apparentemente banale che mi ha sempre colpito: «È difficile dire cosa accadrà. L'avvenire non è più in parte nelle nostre mani». Ebbene, c'è forse maggiore consapevolezza politica in queste frasi di apparente buon senso, rivolte ai suoi amici di partito, che non in altri passaggi più tradizionalmente morotei assai più citati, pregnanti di analisi, di riflessioni, di speculazioni, di indicazioni politiche.
Rileggendo il Moro degli ultimi tempi e senza chiamare in causa le lettere dalla prigionia - che offrirebbero al riguardo ben più esplicite conferme - si ha talvolta la sensazione che facesse capolino già in quelle riflessioni la precipitazione drammatica che avrebbe poi travolto quel sistema dei partiti; in mezzo - è vero - ci sono più di dieci anni, ma evidentemente il male aveva già intaccato le radici. Il suo partito in quanto tale non c'è più, ormai da anni: un destino certo impensabile quando Moro in quest'aula tenne quel celebre duro discorso a difesa della DC, a difesa di tutta la DC.
L'universo politico di Moro riguardava la democrazia cristiana e la sinistra tradizionale. Il resto lo inquietava per i suoi riflessi sociali e per l'incapacità della politica ad offrire una risposta, uno sbocco. Le nuove soggettività sociali erano davvero irriducibili alla dimensione partitica: Moro ne era consapevole e visse fino all'ultimo momento questo tormento.
Del presidente democristiano sono state giustamente ricordate le analisi approfondite ed innovative dei mutamenti sociali. Lui, «politico-politico» per eccellenza, sapeva offrire importanti spunti di riflessione su ciò che cambiava nella società: memorabile fu il suo discorso sui giovani del '68; stava - in questo - davvero un metro più avanti. Mi chiedo, noi verdi ci chiediamo, quali sarebbero stati oggi il suo atteggiamento, la sua curiosità, il suo interesse verso quella nuova sensibilità ambientalista che sarebbe emersa con nettezza negli anni successivi alla sua morte. Mi chiedo, ci chiediamo, se anche lui avrebbe manifestato verso il tema del futuro di questa nostra terra la stessa estraneità, la stessa indifferenza che manifestano - oggi purtroppo - troppi che ad Aldo Moro si richiamano. Non abbiamo ovviamente alcun titolo per proiezioni postume del suo pensiero: ci teniamo questo interrogativo.
Signor Presidente, signori ospiti, il mondo che fu quello di Aldo Moro non c'è più, e per fortuna: non ci sono più quei partiti, quella divisione internazionale, quella società italiana. Ma questo mondo diverso, questa Italia diversa, questa politica diversa hanno più che mai bisogno, anche tra i nostri antagonisti, oggi come ieri, di uomini e di donne che nell'impegno civile e politico sappiano riversare l'intelligenza e la passione di uomini come Aldo Moro (Generali applausi).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Natale D'Amico. Ne ha facoltà.

NATALE D'AMICO (Rinnovamento italiano). Signor Presidente della Repubblica, signori Presidenti della Camera e del Senato, signore e signori, l'idea di ricordare Aldo Moro con un convegno sulle assemblee elettive costituisce una scelta di grande importanza culturale. Chi vi parla, non avendo avuto fino ad oggi una frequentazione sistematica con il pensiero di Aldo Moro, ha colto quest'occasione per approfondire il nesso fra l'azione politica del leader democristiano e la questione istituzionale. Ho trovato in questo approfondimento molti spunti utili a comprendere meglio ciò che è successo e ciò che sta succedendo alla nostra democrazia. Proverò a rendervene conto tra poco, non prima però di aver reso esplicito che il mio è il punto di vista di chi attribuisce grande peso alla necessità di una seria riforma delle istituzioni e al completamento

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della transizione italiana verso una democrazia di tipo europeo.
Entrando nel merito, vorrei anzitutto sottolineare come in molti interventi di ieri sia rintracciabile un atteggiamento in senso lato moroteo. Sono state evitate sterili lamentazioni intorno alla centralità perduta delle assemblee elettive; mi pare che nessuno abbia visto l'avanzare, credo ormai inarrestabile, della democrazia dell'alternanza come perdita di ruolo, di funzione e di entità degli organi rappresentativi.
In questo atteggiamento positivo verso il futuro vi è molto del metodo del Moro politico prima ancora che studioso. Come ha osservato Giovanni Guzzetta, un ex presidente della FUCI (organizzazione alla quale Moro era molto legato), vi era infatti in Moro il rifiuto di vedere il futuro come minaccia e il considerarlo semmai come incognita, come problema, infine come opportunità che spetta all'uomo far fruttare, se mi è consentito un accostamento ardito, una visione dell'avvenire simile a quel «futuro aperto» fatto di «sviluppo verso l'alto» delineato da Popper e Lorenz nel loro dialogo di Altenberg.
Dunque bando agli «apocalittici» ma bando anche agli «integrati»; come diceva Moro al congresso DC del 1976 e come ci ricordava ieri il Presidente Mancino noi non siamo chiamati a far la guardia alle istituzioni, a preservare un ordine semplicemente rassicurante, siamo chiamati invece a raccogliere con sensibilità popolare, con consapevolezza democratica tutte le invenzioni dell'uomo nuovo a questo livello dello sviluppo democratico.
Noi tutti dobbiamo prendere atto che nel quadro di una democrazia bipolare dell'alternanza il ruolo delle assemblee, di questa Assemblea, cambia. E che il cammino in questa direzione non sia estraneo alla nostra storia politica viene testimoniato ancora una volta da Aldo Moro. Scriveva nel 1982 Roberto Ruffilli a proposito della terza fase morotea: «In definitiva il presidente democristiano viene a far consistere la terza fase in due tempi diversi. Il primo è quello più noto della solidarietà di tutte le forze democratiche nella condizione di una emergenza assai pericolosa per la democrazia repubblicana. Ma - continuava Ruffilli - nel medio lungo periodo il punto fermo è l'avvento di una democrazia dell'alternanza che consenta a tutte le formazioni popolari del paese di far valere i propri progetti e i propri programmi».
Ho presente che il professor Scoppola ricordava ieri più problematicamente questa ricostruzione; appare però significativo che essa sia venuta da uno studioso come Ruffilli il quale seppe coniugare l'altissima sensibilità costituzionale con un'ispirazione ideale assai vicina ad Aldo Moro, e che purtroppo fu condannato dalla follia terroristica allo stesso destino terreno.
Il punto di vista che mi interessa confutare è quello secondo il quale la prosecuzione del cammino verso una democrazia bipolare dell'alternanza comporterebbe una riduzione del grado di democrazia delle istituzioni. Ci aiuta in questa confutazione il Moro, già ricordato dal Presidente Violante, dell'appassionata difesa della cosiddetta «legge truffa», quando egli rifiuta l'identificazione della democrazia con il sistema proporzionale e delinea un modello di democrazia deliberante con una chiara distinzione dei ruoli tra Governo ed opposizione.
Emerge già allora, mi pare, una visione delle Assemblee parlamentari estremamente moderna; esse cioè non sono più concepite in termini di alterità rispetto al Governo, secondo quegli schemi archeoparlamentari e di contrapposizione che avranno a lungo seguito nel nostro paese, fino alla teorizzazione delle doppie maggioranze governative e legislative e fino alla deriva assemblearistica.
Si apre la strada ad una diversa concezione nella quale l'arena parlamentare non ha la funzione di consentire una continua ed estenuante negoziazione e codecisione tra le forze politiche, bensì quella di rappresentare al paese un confronto programmatico che veda da una parte il Governo con la sua maggioranza e dall'altra l'opposizione e rispetto al

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quale il momento elettorale diventa il luogo dirimente della responsabilità e della investitura politica.
Questo modello non è ancora oggi interamente realizzato e se la transizione è incompiuta dipende in grande misura dal fatto che non è ancora stato interiorizzato nella cultura politica il ruolo diverso ma non meno importante che le assemblee parlamentari sono oggi chiamate a giocare. Da questo punto di vista mi pare che la Commissione bicamerale e le recenti modifiche regolamentari abbiano cominciato a muoversi sulla strada giusta ma che il cammino sia ancora lungo. Permangono vecchi residui di una cultura della codecisione interpretata come momento di garanzia e difetta la chiara delineazione della funzione di controllo nella quale l'opposizione dovrebbe riconoscersi e che all'opposizione dovrebbe essere riconosciuta.
Infine - è questa l'ultima tesi che mi interessa confutare - sbaglia chi vede nel riformismo istituzionale teso a radicare meccanismi bipolari un tentativo di indebolire la politica a beneficio dei più forti. È invece vero il contrario. Il processo di globalizzazione tende a sottrarre alla decisione politica un numero sempre maggiore di decisioni. Ad un politico di ispirazione liberale non sfugge il fatto che in questa evoluzione vi è qualcosa di positivo, in quanto si riduce la capacità della politica di vincolare decisioni che debbono essere lasciate alla libera scelta dei cittadini. Ma credo non debba sfuggire neanche il rischio implicito in questa evoluzione delle cose. Nell'assenza della politica i forti riescono comunque a difendere le proprie ragioni e i propri interessi e i deboli rischiano di soccombere.
Dunque, una democrazia più efficiente, capace di decidere attraverso processi trasparenti di assunzione di responsabilità, non è il disegno di tecnocrati più o meno illuminati, bensì il necessario approdo di una politica che non voglia rinunciare a tutelare anche nell'era della globalizzazione i più deboli. Che al fondo di questo spirito riformista sul terreno delle istituzioni vi sia questa aspirazione al recupero di un ruolo della politica a difesa dei più deboli è indirettamente confermato dal fatto che lo stesso referendum in materia elettorale, dal quale ha preso avvio il processo di riforma delle nostre istituzioni, nacque all'interno di quella FUCI alla quale Moro era tanto legato e che certamente non ha mai abbandonato le proprie aspirazioni nobilmente etiche.
In conclusione, anche come parlamentari credo che non dobbiamo avere timore di contribuire a disegnare il nuovo e diverso ruolo che le Assemblee di cui siamo parte saranno chiamate a giocare in una Italia finalmente giunta ad una moderna democrazia dell'alternanza. È già stato affermato che il mondo esiste solo perché al momento della genesi non esistevano ancora i conservatori: se Dio li avesse interpellati, essi avrebbero probabilmente preferito conservare il caos (Applausi).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Mario Clemente Mastella. Ne ha facoltà.

MARIO CLEMENTE MASTELLA (Per l'UDR/CDU-CDR). Per chi lo conobbe e gli volle bene, signor Presidente, signore e signori, questa è certamente una giornata particolare. Aldo Moro ha contrassegnato un'epoca della nostra vicenda politica nazionale per circa vent'anni. Più che per i suoi atti, però, egli è entrato nella storia del paese per i suoi disegni, per i suoi progetti politici, sempre commisurati al variare degli orientamenti della società e all'evoluzione delle forze politiche. Dunque, le sue parole erano i suoi fatti, il suo agire politico, il suo procedere con coerenza per concorrere a far crescere la democrazia in Italia.
Moro ha avuto molti critici proprio per questa sua peculiarità. Ma chi pretendeva da lui attivismo non capiva che Moro concepiva la politica come un continuo ragionamento, una continua analisi delle ragioni proprie e di quelle altrui, perché da un generale confronto sortisse la soluzione

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pratica più equa e forse anche più redditizia per tutti. I periodi più felici della presenza politica di Moro sulla scena nazionale sono quelli del dibattito, della ricerca, dell'autocritica, risultando invece di livello decisamente inferiore - diciamo la verità - la sua gestione, la sua amministrazione, si trattasse di partito o di governo. Chi lo accusava di fumoserie non aveva compreso che le sue apparenti astrattezze erano in realtà i suoi più abili e convincenti strumenti di azione politica. Le famose convergenze parallele, decisamente un classico di apparente illogicità ed astrattezza, sono state nella storia d'Italia una tappa significativa nell'evoluzione dei rapporti politici, con un cambiamento di impostazione e comportamenti indubbiamente radicali rispetto a situazioni ormai consolidate.
Nella concezione democratica che Aldo Moro aveva della politica due erano le leggi fondamentali: il consenso e l'aggregazione, il voto e le alleanze, il suffragio popolare e la tendenza ad interpretarne gli orientamenti in termini aperti, mai però integralisti. Dalle responsabilità che egli ebbe nella vita delle istituzioni e in quella del suo partito Moro dimostrò, pur provenendo dall'amicizia fraterna e da studi comuni con Giuseppe Dossetti, di possedere un senso dello stato più affine a quello di Alcide De Gasperi. In politica estera, l'europeismo, che per personalità come Adenauer, De Gasperi e Schumann rappresentava una scommessa per assicurare al vecchio continente un futuro finalmente di pace e di fraternità tra i popoli, fu anche per Aldo Moro un obiettivo cui tendere, col consenso delle popolazioni e con le più larghe intese fra partiti. Con l'ingresso dell'Italia nell'euro in questi giorni si può dire che sia stato conseguito anche uno dei risultati auspicati da Moro, la parità di considerazione per tutte le nazioni divise per secoli da lotte cruente e distruttrici.
Moro non era un utopista, semmai fu un anticipatore, un profeta. Le lotte giovanili nelle università e nelle fabbriche lo interessavano moltissimo, non perché egli giustificasse una qualsiasi forma di reazione violenta alle ingiustizie sociali (ché anzi aborriva giudicandola comunque incompatibile con le regole della democrazia), ma perché rimetteva alla doverosa responsabilità dei politici una lettura attenta degli eventi per capirli e dominarli con intelligenza.
Moro espresse bene le intuizioni, i dubbi, le istanze del movimento politico dei cattolici, cresciuto con strumenti e programmi che coglievano via via il maturare degli eventi, il senso della storia; un movimento politico di cattolici che valeva allora ed è auspicabile anche oggi, superando la logica del frammento e della riconosciuta subalternità, comunque della riconosciuta subalternità.
Accentuò, anzi, e questa rappresentò una sua caratteristica, quel problematicismo che ai cattolici derivava dal loro sapersi correttamente mescolare con la democrazia e con la politica intesa come unità possibile fra soggetti diversi.
Al centro della sua considerazione politica, delle scelte che si indusse di volta in volta a compiere c'era l'uomo. Per affermare la centralità dell'uomo nella società egli riteneva che, per valorizzarlo, per sottrarlo alla mortificante tutela dello Stato accentratore e soffocante, per operare una giusta sintesi, rispettosa ad un tempo delle ragioni dello Stato e dei diritti umani, l'Italia non potesse fare a meno, anche per l'avvenire, di un forte movimento di cattolici.
Visse la democrazia senza badare ai danni che potevano derivarne ad un partito largamente maggioritario come il suo. Riguardò gli alleati liberamente, non sentendosi vincolato da catene né immaginando di doverne imporre. Vide, insomma, la politica come una quotidiana ricerca di riscatto da qualsivoglia mortificazione, privilegio, ingiustizia, mantenendo sempre responsabilità e realismo, insegnando quella prudenza, che veniva addebitata all'onorevole Moro, non come ritardo, ma come un modo per trasformarsi in effettiva operosità.
Uomo del sud, attento studioso delle colpe come dei torti subiti dai meridionali, rimase sempre turbato dalle arretratezze

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irresponsabili e pungolò la gente del Mezzogiorno. Ad una parte di questa gente sia consentito, signor Presidente, rivolgere proprio in questi giorni grande affetto, grande solidarietà e l'impegno, spero, di tutto il Parlamento a non dimenticare.
Rifuggì l'onorevole Moro dal meridionalismo piagnone ed ebbe fede nella riscossa civile e democratica dei meridionali; una riscossa necessaria, urgente e possibile, fuori dai condizionamenti della violenza, dello scontro pregiudiziale, delle furbizie dei privilegiati.
Moro non temette, anzi auspicò la democrazia compiuta, cioè quella democrazia fatta dell'alternanza al potere fra partiti o, meglio, tra coalizioni, nella certezza che in qualsiasi momento si fosse andati alle urne non sarebbe mai insorto il minimo dubbio da parte di alcuno circa il rispetto che i vincitori avrebbero osservato verso i vinti e viceversa.
Forse proprio per questa concezione sincera - chissà? -, magari per questa massima apertura verso tutte le componenti della società politica, espresse liberamente da voti popolari, Moro fu violentemente sottratto alla politica, vulnerato nei suoi affetti più cari, nelle amicizie più solide e assassinato.
Dal momento della strage di via Fani e ancor più dal ritrovamento del corpo senza vita di Aldo Moro la democrazia italiana forse non è più la stessa per molti di noi. Pur essendo maturati più tardi processi modificativi delle forze politiche, specie sotto l'influenza di vicende internazionali certamente non prevedibili alla fine degli anni settanta, l'assenza di maestri, l'assenza di un maestro della politica, di un maestro credibile e tenuto in massima considerazione anche dagli avversari, forse ha pesato e pesa nei partiti e nelle istituzioni.
Moro uomo di pensiero, dunque, Moro seminatore di parole dense di idee, Moro ricercatore del consenso per proposte e ideali: questo è il Moro vero, il Moro autentico, il Moro che ci piace ricordare e che va ricordato.
L'unica cosa che chiediamo a tutti è che si smetta di giocare sulle sue vicende umane a guardie e ladri. Un conto è far luce, altro è accendere fuochi fatui. Questo non significa cessare di interrogarci nell'intimo della coscienza e non nella strumentalità delle polemiche. Questo non significa non darsi pace per quanto è accaduto, anche per la rigidità simbolica che il caso Moro assunse agli occhi del mondo intero e che domandò solo a questo nostro paese, solo alla classe dirigente di questo nostro paese una prova senza precedenti, inibì ogni principio chiamato in causa, ogni sua non contraddittoria flessibilità umana.
Alla sua famiglia, alle famiglie che collaborarono con lui il nostro affetto e la nostra solidarietà. Ai suoi uccisori il perdono cristiano, francamente altro no (Applausi).

PRESIDENTE. È iscritta a parlare la senatrice Ersilia Salvato. Ne ha facoltà.

ERSILIA SALVATO (Rifondazione comunista). Signor Presidente della Repubblica, signori Presidenti, autorità tutte, tornare a ragionare di Moro dopo vent'anni, nell'epoca odierna in cui la crisi dei partiti è così forte davanti a noi ed i partiti tutti - i vecchi ed i nuovi - hanno una vita democratica al loro interno a mio avviso molto povera ed incapace di leggere attentamente i mutamenti sociali, una vita democratica tutta dentro un'idea liberistica ed una concentrazione di poteri, tornare a ragionare di Moro nel momento in cui in Parlamento e nella società civile stiamo ragionando delle stesse riforme, significa porre l'accento su un assillo che accompagnò gli ultimi anni della sua vita, che posso tentare di riassumere in questo modo: una consapevolezza forte della necessità di rideterminare, attraverso una nuova idea della democrazia, la possibilità reale di tutti i soggetti sociali di entrare nel circuito democratico ma anche di essere i realizzatori degli interessi e di portare avanti bisogni in larga parte allora insoddisfatti; una consapevolezza cioè della crisi di egemonia che il 1968 e il

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1969 - anni che per me sono degli spartiacque della vicenda democratica di questo paese - avevano squadernato davanti a lui ed agli uomini ed alle donne di quel tempo.
Moro e pochi altri, a mio avviso, seppero leggere l'intensità di quanto stava accadendo e soprattutto la necessità di rispondere con una progettualità alta e complessiva, capace di riavvicinare cittadinanza ed istituzioni, di dare alle nuove soggettività sociali che erano e sono ancora oggi così irriducibili al sistema dei partiti, che fa tanta fatica a radicarsi socialmente, una cittadinanza diversa, da costruire certamente attraverso la linea del consenso popolare ma anche immaginando nuove forme della democrazia stessa.
Eppure Moro era un sostenitore convinto del ruolo del Parlamento. Nel Parlamento vedeva il punto di raccordo tra i valori fondanti della Repubblica; nel Parlamento vedeva quel luogo istituzionale in cui costruire la «terza fase» di cui ha ragionato negli ultimi anni della sua vita ma anche in cui costruire realmente un progetto di alternativa che certo era progetto di alternanza; un Parlamento verso il quale non solo nutriva forte convinzione ma che anche allora sentiva al centro di tensioni cui non riusciva a dare risposta. Questo assillo lo accompagnò negli ultimi anni; esso è secondo noi alla base anche della stessa idea di solidarietà nazionale, che non era il compromesso storico (sul quale dovremmo tornare a ragionare). Sia l'idea di solidarietà nazionale sia quella di compromesso storico altro non erano che una necessità forte per culture diverse di tornare a confrontarsi, a costruire dialogo, a tentare risposte efficaci, a dare senso e sostanza all'idea di una democrazia compiuta.
Il 1978, altro anno periodizzante della nostra storia, fu l'interruzione violenta e traumatica della vicenda umana di Moro ma anche, in un certo modo, della vicenda politica di questo paese. Nel 1978 il passaggio alla transizione fu interrotto bruscamente e violentemente e al 1978 sono seguiti anni in cui certo il Parlamento ha continuato ad essere al centro di una tensione, ma si è trattato di un Parlamento che non ha saputo dare all'autonomia politica del sociale risposte alte; una pratica politica, quella quotidiana (per chi come me è stato nelle istituzioni in quegli anni), che era molto dentro un'idea verticistica delle relazioni politiche e personali. Gli anni della solidarietà nazionale sono stati anni nei quali le decisioni venivano assunte nella ristretta pratica di vertici di maggioranza con pochissimo dialogo con le stesse opposizioni, ma soprattutto con una afasia rispetto al Parlamento e alla società tutta. Dopo ancora, si è assistito ad una precipitazione nella semplificazione, nella parola craxiana, molto tesa ad una riduzione della complessità attraverso scelte chiaramente decisioniste, in altre risposte che forse, al di là della stessa volontà di Craxi, furono soltanto risposte di ingegneria costituzionale.
Le stesse Commissioni che hanno lavorato sul tema delle riforme, a mio avviso, hanno sofferto e patito anche di un'assenza e di una afasia della cultura istituzionale che in quegli anni certamente si è misurata su tali temi, ma la cui parte prevalente ha tentato di spostare, come accade ancora oggi, l'asse del potere normativo dal Parlamento all'esecutivo, pensando che soltanto lì si sarebbe potuta realizzare una dialettica tra potere politico e società. Sono le questioni di cui stiamo ragionando e di cui abbiamo ragionato anche nei mesi che sono dietro le nostre spalle, ancora, a mio avviso, con una povertà di analisi, con una fretta di chiudere la transizione soltanto per fissare regole per legittimare una classe dirigente, tentando di razionalizzare un percorso senza interrogarci sulla crisi della rappresentanza, sui sensi e sulla sostanza della democrazia, sui nessi inediti che oggi ci sono tra nuove libertà, ricerca del senso individuale della vita, misure condivise nell'agire collettivo. Le risposte prevalenti, che continuano ad essere tali, vanno in tutt'altra direzione e a me lasciano dubbi ed inquietudini. Credo che dovremmo tornare a riflettere

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e nuovamente a lavorare su questi temi, perché senza un'analisi dei processi reali, con uno svuotamento nei fatti del Parlamento, non soltanto della Camera di serie B, quale sarà il prossimo Senato della Repubblica, se rimarrà valido questo disegno istituzionale, ma il Parlamento nel suo insieme, non potrà svolgere un nuovo ruolo. Senza un'analisi reale della capacità nuova del Parlamento di essere il soggetto-cerniera di un'idea diversa della democrazia, l'assillo di Moro non sarà raccolto, così come non stiamo raccogliendo l'assillo di altri uomini, che pur distanti e lontani da lui, ne condividevano l'idea alta della politica ed il travaglio culturale: penso ad uomini come Berlinguer ed altri come lui.
Se giornate come quella di oggi hanno un valore, a mio avviso, questo valore è un'ulteriore occasione che ci viene data per riflettere di più e meglio su quanto stiamo facendo e soprattutto per non tentare scorciatoie su questioni molto grandi, che non possono essere risolte soltanto con l'ingegneria istituzionale (Applausi).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Franco Marini. Ne ha facoltà.

FRANCO MARINI (Popolari e democratici). Signor Presidente della Repubblica, signore e signori, voglio esprimere, a nome del gruppo dei popolari e democratici-l'Ulivo, un sentito ringraziamento ai Presidenti della Camera e del Senato per aver voluto legare ad una riflessione sull'evoluzione delle nostre istituzioni parlamentari il ricordo di uno statista come Aldo Moro, che aveva certamente una grande sensibilità sul tema della centralità e dell'evoluzione della nostra democrazia, della forza e della rappresentatività delle istituzioni.
Come era naturale, la nostra riflessione si è ampliata in questi due giorni, perché Moro è stata una figura certamente centrale, non esclusiva, nelle realizzazioni della nostra storia repubblicana, nelle prime difficoltà che si affacciarono quando venne meno il suo contributo. Moro è un punto di riferimento - credo - per noi e per molti rispetto alle speranze ancora vive di stabilizzazione e di innovazione di una fase nuova della nostra democrazia.
Prima di svolgere due brevi riflessioni di merito vorrei toccare un punto di metodo, che faccio fatica a sottolineare per la sua rilevanza. Mi riferisco alla necessità in questa ricerca, in questa riflessione, che certamente non esauriamo in questi due giorni, nel Parlamento e nel paese di evitare il rischio di spingere la storia fuori dai binari e dall'alveo della verità. Questo è sempre un errore, specialmente quando dentro una transizione non compiuta dobbiamo costruire le istituzioni di un paese nuovo o rinnovato.
Non dimentico che in un discorso drammatico pronunciato in quest'aula il 9 marzo 1976 in merito ad una vicenda dolorosa che poi si è risolta positivamente, Moro ricordò di distinguere nella storia dei movimenti politici errori e scorie, quando ci sono, dal cammino complessivo delle forze politiche. Il suo partito, è stato detto in quest'aula questa mattina, non c'è più; ci sono le idee, i valori, ma il ruolo in questo cammino difficile di quella forza politica complessivamente considerata a nostro avviso non può che essere giudicato positivo.
Noi popolari abbiamo ascoltato con simpatia parole pronunciate in quest'aula dall'inizio della legislatura di comprensione e di fine di un rapporto aspro tra le forze politiche del nostro paese a cinquant'anni dalla guerra civile. Questo cammino bisogna incoraggiarlo e noi lo incoraggiamo. Evitiamo però il rischio della rimozione di una presenza e di idee che sono state importanti nel cinquantennio che abbiamo dietro le spalle nella costruzione di questa nostra democrazia ancora difficile. Come diceva Moro, saranno presenti queste idee espresse dal cattolicesimo democratico in condizioni di forza o di minore forza, non è importante, non è fondamentale, anche negli assetti futuri del paese.
Quando parliamo di questa vicenda, noi almeno lo facciamo con un senso forte

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di rimpianto e do atto a molti degli intervenuti questa mattina di aver toccato questo punto. Sono convinto che un sistema politico entra in serie difficoltà quando la politica non è più in grado di capire e di guidare positivamente, non di soffocare, il cammino della società. Ed è stata questa la vicenda italiana degli anni ottanta, di queste difficoltà. È forte dire che Moro forse non fu il solo, ma l'uomo che con maggiore lucidità vide l'avvicinarsi di tempi nuovi, capì la forza del movimento dei giovani, delle donne, dei lavoratori in quegli anni tormentati. Quell'uomo avrebbe svolto, per la forza del suo partito allora, se fosse rimasto in vita, un ruolo straordinariamente positivo per il quale non abbiamo verifiche, ma per il quale forse si può intravedere come avrebbe aiutato la democrazia italiana in questa difficile contingenza ad andare avanti.
I brigatisti hanno dato un colpo duro, hanno arrestato questo cammino. Alcuni di noi questa mattina, partecipando ad un rito religioso per ricordare questo nostro amico, questo grande leader politico, hanno ascoltato parole di comprensione anche per i delitti più aspri e più irreparabili. Noi ci ispiriamo a questa indicazione che transcende la politica e quindi non ci anima spirito di vendetta; ma, signor Presidente della Repubblica, voglio fare due sottolineature, preoccupato innanzitutto del dolore, del ricordo delle famiglie, di tutte le famiglie colpite da questa grande tragedia.
La verità, tutta la verità, lo Stato deve ricercarla. Non amo dietrologie, non credo sempre ai complotti, ma la verità, tutta, non è venuta fuori in questa vicenda. Ed è giusto e innanzitutto le famiglie e chi vuole costruire un'Italia più forte, migliore, più nuova, adeguata ai tempi che abbiamo di fronte, questo può chiederlo. Ed ai protagonisti negativi di questa vicenda - forse non trovo le parole giuste per dirlo - mi sento di dire: almeno il riserbo!
So che hanno pagato, ma invito all'attenzione, a non andare oltre le parole, a non utilizzare gli strumenti della comunicazione in questo modo che lascia interdetti.
L'ultima riflessione, signor Presidente, riguarda l'attualità. Siamo impegnati a lavorare per il paese ed uno dei punti aperti del dibattito di questi giorni in quest'aula è l'aggiustamento della Costituzione, un lavoro profondamente necessario ed a mio parere avvertito dal popolo italiano per tre ragioni: la stabilità dei governi per la sfida europea; il cittadino arbitro, prima dell'espressione del voto per la coalizione, del leader che la guida; il ricambio fisiologico dei gruppi dirigenti della politica in un mondo in cui tutto cambia vorticosamente. Lavoriamo a riformare la Costituzione per questo.
A questo proposito, nel merito e nel metodo, cito parole di Aldo Moro tratte da un volume edito dall'università di Bari che riporta scritti degli anni 1943-44-45 del giovane professore, il quale scriveva che «La politica è fatta anche di compromessi, non tutto quello cui si aspira in una visione idealmente larga delle cose è lecito perseguire, ma solo quello che è concretamente fattibile e salva, insieme con le esigenze altrui, il meglio delle nostre». La Costituzione è la casa comune, quando ci sono impazienze perché si cerca la maggioranza più larga possibile per costruire la casa comune, si mostra di non capire il cuore del lavoro democratico. A questo Moro ci ha invitato e questo è un impegno prioritario: le riforme caratterizzano la legislatura, è un impegno preso con gli elettori ed è uno sforzo che riconfermiamo di voler fare in aderenza a questo insegnamento che ci accompagnerà anche nelle contingenze attuali (Applausi).

PRESIDENTE: È iscritto a parlare l'onorevole Gustavo Selva. Ne ha facoltà.

GUSTAVO SELVA (Alleanza nazionale). Signor Presidente della Repubblica, signori Presidenti delle Camere, signore e signori, il 7 marzo 1977 in quest'aula, di fronte al Parlamento in seduta comune, l'onorevole Moro pronunciava il suo ultimo discorso parlamentare sul cosiddetto

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affare Lockheed. Disse in quel discorso lo statista Moro: «A chiunque ci voglia fare un processo morale e politico da celebrare, come si è detto cinicamente, nelle piazze, noi rispondiamo con la più ferma reazione, con l'appello all'opinione pubblica che non ha riconosciuto in noi una colpa storica».
Poco più di un anno dopo il «processo» si svolgeva nei confronti di Moro, ad opera dei criminali delle brigate rosse e si concludeva con l'assassinio dell'esponente democristiano. A vent'anni dal tragico evento la destra politica, alleanza nazionale, ribadisce con forza la totale condanna per l'atto barbarico che stroncò la vita dell'onorevole Moro e dei cinque uomini della sua scorta.
Si attribuisce a Moro - credo giustamente - l'intuizione per il nuovo che si muoveva negli anni sessanta e settanta in Italia; a me sembra però di dover dire ancora oggi che Moro vedeva il nuovo soltanto a sinistra. Formato nell'associazionismo cattolico, Moro poteva trovare nella destra un rapporto per la difesa dei valori della vita fin dal concepimento, della famiglia, della libertà della scuola; non lo cercò mai e forse fu una sua carenza, soprattutto pensando all'interesse che portava per i giovani.
Come Presidente del Consiglio e ministro degli esteri, ottenne dalla destra in Parlamento il sostegno senza contropartite alla sua politica atlantica ed europea, avversata per decenni dal partito comunista. La crescita elettorale del partito comunista nel 1976 porta Moro ad elaborare la terza fase, che partendo dal suo concetto che «l'avvenire non è più tutto nelle nostre mani», cioè in quelle della DC, produrrà nel 1976 il Governo della non sfiducia e poi, sempre presieduto da Andreotti, quello dell'appoggio diretto del partito comunista, che prende vita nella tragica giornata del 16 marzo.
L'intuizione della terza fase per cui il bisogno del nuovo dovesse realizzarsi con l'accordo tra PCI e DC fu smentita: in Italia, il Governo con l'appoggio comunista durò pochi mesi, mentre nell'arco di un decennio, con il crollo del comunismo, il partito comunista italiano dovette cambiare nome ed oggi cerca la sua linea nuova nel trapasso della socialdemocrazia europea. La DC scomparve, certo anche per ragioni diverse ma non del tutto estranee al pericolo comunista, sfruttato dalla DC in tutte le campagne elettorali.
Sui drammatici giorni della prigionia di Moro, la storiografia degli ultimi tempi, che non dobbiamo lasciare affidata (qui concordo con tutti coloro che l'hanno sottolineato) ai brigatisti assassini, trascura alcuni fatti, per esempio l'assoluta debolezza politica e l'impreparazione tecnica dello Stato di fronte al terrorismo rosso. Sotto la pressione delle sinistre, anche le forze della maggioranza dei Governi non valutarono gli aspetti negativi della contestazione dello stesso sessantotto studentesco ed operaio, di cui pure si esaltavano le conquiste (lo fece anche l'onorevole Moro). Domina la cultura marxista-leninista, o meglio quella vulgata ripetitiva e catechistica negativa, che invade case editrici, giornali, università e quindi si traduce in un'escalation di violenza, che passa negli anni settanta dai cortei con slogan studenteschi al lancio delle molotov, dagli espropri proletari ai rapimenti, dalle gambizzazioni agli assassinii di magistrati, agenti dell'ordine, dirigenti d'azienda, giornalisti, uomini politici di secondo piano, fino a quando l'assassinio di Moro colpisce il cuore dello Stato.
Renato Curcio, nel tribunale di Torino, dove viene processato, grida il 10 maggio: «L'uccisione di Moro è un atto di giustizia rivoluzionaria, il più alto atto di umanità possibile in questa società divisa in classi». E Franceschini gli fa eco: «La morale è ciò che serve a distruggere la vecchia società». Nonostante tutti gli sforzi politici ed umani di Cossiga per liberare il leader democristiano, resta ancora in alcuni di noi l'interrogativo angoscioso: si poteva salvare la vita di Aldo Moro? Le lettere di Moro dalla prigionia lo invocano con accenti documentati e strazianti, proponendo che, per avere salva la vita, alcuni brigatisti vengano assegnati al soggiorno obbligato in uno Stato terzo. Nessuna

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trattativa si apre mai, perché il Governo Andreotti e la maggioranza che comprendeva i comunisti non potevano accettare che i brigatisti rossi venissero considerati prigionieri politici, ma al partito della fermezza - è giusto dirlo - in nome del dovere dello Stato di non cedere si oppone anche un partito della trattativa (di cui furono sostenitori Craxi ed in parte il Presidente del Senato, Fanfani), che sembrava negli ultimi giorni prima dell'uccisione doversi limitare alla liberazione di una sola brigatista, Paola Besuschio.
A vent'anni di distanza, credo si possa concordare in serenità con l'intuizione espressa dal carcere brigatista da Moro, convinto che ad imporre al Governo la linea dura di intransigenza contro ogni trattativa fosse soprattutto il partito comunista. Infatti, a Tullio Ancora, suo amico e consigliere, scrive: «Ricevo come premio dai comunisti, dopo la lunga marcia,» - si intende: di ingresso nella maggioranza di Governo - «la condanna a morte». Ma qui la spiegazione del comportamento di Enrico Berlinguer e di tutto il PCI compatto la si trova in una dichiarazione di Rossana Rossanda, quando dice che «In certi volti e atteggiamenti rivoluzionari dei brigatisti rossi c'è anche una parte dell'album di famiglia del PCI». Entrato nella maggioranza di Governo, il PCI doveva, con la massima intransigenza, legittimarsi come forza che ha rinunciato per sempre, fortunatamente, ad ogni indulgenza verso i compagni che sbagliano.
Nei vent'anni dalla scomparsa di Moro, la storia politica europea e mondiale è radicalmente mutata, e in Italia non tutto secondo la direzione preconizzata da Moro. In Italia, in appena otto anni dopo il 1990, vi sono stati: iniziative referendarie; il maggioritario, per quella democrazia governante di cui ha parlato il Presidente Violante; l'avvio al bipolarismo; la nascita di nuovi soggetti politici, tra i quali anche alleanza nazionale; Tangentopoli, con l'azione di supplenza politica mediante le azioni giudiziarie di certe procure.
Come protagonista, alto protagonista del suo tempo, Aldo Moro è la personalità politica più eminente che ha pagato, con la vita, anche per quella svolta decisiva che finalmente vi fu nella lotta contro il terrorismo, poi sconfitto.
Al di là di tutta la dietrologia, la storia ormai ha accertato che a uccidere Moro sono state le brigate rosse italiane per le loro finalità eversive fortunatamente fallite.
Il suo sacrificio, onorevoli colleghi, ad opera della violenza terroristica, sia di monito a tutti noi in quest'aula, dove sediamo, proprio in queste settimane, come padri costituenti chiamati a costruire una democrazia esigente e difficile, come ha detto ieri Giuliano Amato. Si tratta di chiudere un nuovo patto di convivenza libera e civile per costruire uno Stato moderno ed efficiente, una nazione ed un'Europa unite da realizzarsi, signori, con il confronto democratico e civile fra tutte le formazioni politiche diverse ed alternative al servizio esclusivo del popolo italiano. Grazie (Applausi).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Beppe Pisanu. Ne ha facoltà.

BEPPE PISANU (Forza Italia). Signor Presidente della Repubblica, onorevoli Presidenti del Senato e della Camera, signore e signori, noi ci uniamo idealmente a tutti i democratici italiani nel ricordo di Aldo Moro e degli uomini della sua scorta che lo precedettero nel sacrificio, vittime degli stessi assassini.
Ieri, e anche stamattina, la Conferenza ha rievocato degnamente il pensiero e l'esperienza politica di Aldo Moro, e il suo spirito, amico del bene, è tornato in quest'aula. Ora è forse opportuno soffermarsi a riflettere, più in generale, sulla tormentata vicenda della sua morte, che allora ci rivelò, quasi di colpo, le reali proporzioni della crisi drammatica in cui versava lo Stato e la dimensione tragica della politica italiana. Moro percepì acutamente quella crisi, ne colse le ragioni profonde, ne temette gli esiti possibili: «Io credo all'emergenza, io temo l'emergenza»,

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disse nel suo ultimo discorso. Per questo cercò la salvezza del paese con un progetto politico intelligente e coraggioso che andava anche al di là della crisi.
Voglio testimoniare qui che la solidarietà nazionale non fu mai concepita come una strategia di lungo periodo, ma come una scelta di carattere transitorio per fronteggiare e superare l'emergenza; una scelta per certi aspetti obbligata, perché la pericolante situazione del paese e il risultato elettorale del 1976, con due partiti opposti ma entrambi vincitori, che nel loro insieme avevano raccolto più del 73 per cento dei voti, non offrivano altra plausibile via d'uscita. Ma, compiuto quel passaggio, precisò testualmente Moro, «democrazia cristiana e partito comunista italiano, se pure in un contesto mutato, sarebbero tornati ad essere partiti tra loro naturalmente alternativi». Aveva dunque intravisto la possibilità non remota di una più avanzata democrazia dell'alternanza e si era impegnato scrupolosamente a prepararla, ben sapendo che con il declino della guerra fredda si sarebbe ricomposta la lacerazione più profonda che ormai da trent'anni divideva la società civile e bloccava il sistema politico. Fu questo l'orizzonte suggestivo di quella che egli chiamò «la terza fase della democrazia italiana».
Contro Aldo Moro, allora equilibratore supremo della vita politica nazionale e probabilmente contro il suo progetto democratico, si alzarono gli uomini delle brigate rosse. Forse dobbiamo ancora scavare molto, non solo per accertare la piena verità dei fatti, ma soprattutto per comprendere, per sapere quali furono le cause ultime, determinanti dell'assassinio di Aldo Moro.
Ancora oggi, a venti anni di distanza, è comprensibile che tratti non chiariti di quella vicenda, dalla generale inadeguatezza dei poteri dello Stato ai persistenti silenzi dei terroristi, possano indurre valutazioni negative ed anche giudizi severi sulla condotta dei maggiori politici responsabili del tempo. Non è invece né comprensibile né accettabile che quel momento di storia venga scritto dagli assassini di Moro e della sua scorta e neppure da quanti ancora oggi si ostinano a sostenere che vi fu in Italia un partito non brigatista dell'omicidio, il quale strinse d'assedio le brigate rosse fino a costringerle all'atto estremo. No, non fu così e non si cerca così la verità.
Chi ha vissuto quegli angosciosi cinquantacinque giorni tra il 16 marzo e il 9 maggio 1978 sa bene con quale umana sofferenza e con quale senso dello Stato uomini di Governo e alti dirigenti politici presero sulle spalle la croce delle loro responsabilità. Se mai ci fu un partito non terrorista dell'omicidio, di certo non vi militò nessuno dei politici che dovettero doverosamente imboccare la via della fermezza. Ogni illazione sulla moralità di quella scelta serve soltanto ad alleggerire le colpe dei terroristi. No, Moro fu ucciso dalla rabbiosa impotenza politica di un marasma rivoluzionario sedicente comunista in ritardo con la storia e nemico della nostra libertà.
Oggi i terroristi che nel 1978 imprigionarono e condannarono un uomo buono e giusto assumendosi - ricordo un monito di Leonardo Sciascia -, oltre a quelle che già avevano, la tremenda responsabilità di reintrodurre in Italia la pena di morte, oggi costoro, ormai tutti a piede libero, pretendono la comprensione dello Stato e avanzano questa pretesa con un clamore che soverchia ed opprime il silenzioso dolore delle vittime.
Se ha memoria dei suoi martiri, a questo silenzio lo Stato deve prestare ascolto (Generali applausi).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Massimo D'Alema. Ne ha facoltà.

MASSIMO D'ALEMA (Democratici di sinistra). Signor Presidente della Repubblica, signori Presidenti della Camera e del Senato, credo che sia stato quanto mai giusto ricordare, a vent'anni dal suo assassinio, Aldo Moro con questa assemblea nella quale i rappresentanti della nostra rinnovata democrazia, delle città, delle province, delle regioni e del Parlamento

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nazionale si stringono attorno ai suoi familiari, ai suoi amici ed ai familiari degli uomini che caddero mentre lo proteggevano.
Per chi come me visse quelle giornate essendo già partecipe della vita politica è inevitabile provare una emozione ancora forte e sentire ancora il ricordo vivo di una sconfitta: una sconfitta dell'Italia; una sconfitta dello Stato; una sconfitta della democrazia!
Quell'assassinio segnò una cesura nella storia nazionale. Fermò ed impedì un cammino evolutivo verso una democrazia più forte e compiuta, di cui Moro fu certamente uno dei più grandi interpreti e protagonisti, nella sua visione graduale, antigiacobina e progressiva della evoluzione della democrazia italiana. Ciò accadde proprio alla vigilia di una possibile svolta: nel momento in cui, attraverso la solidarietà, si potevano gettare le basi di una nuova fase della vita nazionale. Contro questa prospettiva mossero forze diverse; certo, il fanatismo ideologico di un terrorismo rosso, ma anche violenze di altro colore ed anche resistenze profondamente annidate negli apparati dello Stato e del potere. Troppo nota è la tragedia italiana in tutti i suoi contorni perché possa essere oggi interpretata con letture parziali, riduttive, inutilmente di parte.
L'azione di Moro muoveva dalla considerazione della difficoltà della nostra democrazia. Difficoltà determinata non soltanto certamente dalla esistenza in Italia di grandi partiti che fra di loro erano così diversi nei principi e nei valori di riferimento, fino a caratterizzare la contrapposizione, le attese e i timori in termini tutt'affatto peculiari rispetto alle altre democrazie dell'occidente; e non soltanto per gli equilibri internazionali, dentro i quali questa contrapposizione appariva anomala e non sostenibile, ma anche per ragioni più di fondo legate alla storia ed al procedere della democrazia italiana, nonché alla difficoltà di quel processo di immissione e di legittimazione delle masse popolari nello Stato, che hanno caratterizzato la vicenda del nostro paese. Si tratta di un paese nel quale si sono dovuti costruire insieme lo Stato e la nazione!
Da ciò io credo sia emersa l'attenzione di Moro verso il partito comunista e verso la sinistra. Al di là dell'involucro ideologico, che egli respingeva, del comunismo sia pure italiano, lo interessava quella capacità del partito comunista di rappresentare una parte della società italiana, una parte del paese, istanze di innovazione e di giustizia sociale. E Moro, nella sua visione dialettica del rapporto fra società e politica, giunse a ritenere che la trasformazione della società italiana, spezzando blocchi sociali e dunque ideologici costituiti ed articolando i bisogni e gli interessi, avrebbe agito sulle forze politiche modificandole e facendole evolvere verso una più compiuta capacità di rappresentanza democratica.
Questo problema, d'altro canto, egli se lo pose acutamente anche per il suo partito quando, dopo il 1968, pose alla DC l'esigenza di essere alternativa a se stessa e di sapere interpretare una nuova fase della vita nazionale.
Io credo cioè che questo tema, quello del rapporto tra società e politica, sia stato centrale in tutta l'azione e nel pensiero di Moro, tutt'altro che un politico puro. Per un verso, il tormento di una politica non sempre capace di rappresentare e interpretare la società, ma dall'altra anche il convincimento che la società senza la politica, senza quella frontiera mobile capace di interpretare, mediare, comporre gli interessi rischia di disgregarsi, rischia il disordine, rischia il conflitto non regolato.
Con la morte di Moro e la sconfitta della sua politica iniziò un declino del sistema democratico dei partiti. Non mancarono istanze di modernizzazione negli anni ottanta, ma quello che mancò fu il legame tra tali istanze ed un profondo movimento popolare, espressione di larghe masse di cittadini e della loro partecipazione. E non causalmente l'interrompersi del processo storico di consolidamento della democrazia attraverso la legittimazione reciproca dei grandi partiti segnò

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anche una crisi dei partiti nelle loro forme organizzate, nel loro rapporto con la società. Da una parte essi ripiegarono nell'occupazione dello Stato, dall'altra parte in una concezione ideologica della diversità che bloccò l'evoluzione e l'innovazione del partito comunista.
Questo fino alla grande crisi degli anni novanta. Oggi la realtà è certamente radicalmente diversa e questo cambiamento è avvenuto in forme che non erano state immaginate, volute o previste. Sarebbe sbagliato nascondersi la novità delle questioni in campo o pretendere di utilizzare in modo strumentale le riflessioni sul passato per piegarle alle esigenze di oggi. Ma io penso anche che non si cancella il filo di una continuità storica; io penso anche che ci troviamo di fronte al riproporsi di grandi nodi irrisolti della storia italiana. Il rischio persistente di una democrazia fragile e difficile, per ragioni magari diverse rispetto a quelle del cinquantennio precedente, se non si sviluppa un campo di valori condivisi, di regole comuni ed accettate, senza un reciproco riconoscimento tra le nuove forze in campo. Il problema di una riorganizzazione dei soggetti della democrazia. Certo, i partiti oggi non possono pretendere di essere tutto, di rappresentare tutto, come fu nel passato, ma è anche vero che senza grandi forze organizzate moderne, in grado di collocarsi sulla frontiera mobile tra società e istituzioni e di rendere protagonisti i cittadini, senza questo rischia di tornare e di vincere quel persistente fondo di qualunquismo democratico che anima tanta parte della società, della borghesia, della intellettualità italiana, che si presenta talora come disprezzo verso i partiti nella forma di una cultura elitaria e tecnocratica, tal altra volta nella forma liberista e plebiscitaria; ma alla fine queste concezioni hanno in comune, a mio giudizio, qualcosa che risale nella storia italiana, nulla di moderno. Al contrario, sono l'espressione di quella ristrettezza della nostra democrazia che continuiamo a portarci dietro anche in questa nuova frase.
Il futuro della nostra democrazia, dunque, è legato al fatto che la nuova classe dirigente sappia vincere le sfide che gli uomini della prima Repubblica videro ma non poterono, vincere. Essi si trovarono di fronte ad un limite che non fu valicabile, quello di una realtà mondiale segnata dalla guerra fredda. Le paure conservatrici, il fanatismo ideologico che segnarono il nostro paese. Oggi lo scenario è diverso. La nuova realtà mondiale, la costruzione europea sono per noi non già un ostacolo, ma un formidabile aiuto ed uno stimolo positivo. Ma la sfida decisiva continua a rimanere nelle nostre mani. Ne saremo capaci? Ne avremo la forza? Io spero che giornate come queste, oltre al ricordo, siano un motivo di forza e di volontà per vincere le sfide per presente (Generali applausi).

PRESIDENTE. Sono così esauriti gli interventi dei rappresentanti dei gruppi parlamentari.
Prego il Presidente della Repubblica di prendere la parola.