Resoconto stenografico dell'Assemblea
Seduta n. 25 del 27/7/2001
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(Discussione sulle linee generali - A.C. 1137)

PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione sulle linee generali.
Informo che il presidente del gruppo parlamentare dei Democratici di sinistra-l'Ulivo ha chiesto, relativamente alla discussione sulle linee generali, l'ampliamento senza limitazione nelle iscrizioni a parlare, ai sensi del comma 2 dell'articolo 83 del regolamento.
Avverto che le Commissioni riunite II (Giustizia) e VI (Finanze) si intendono autorizzate a riferire oralmente.
Il relatore per la maggioranza per la II Commissione, onorevole Pecorella, ha facoltà di svolgere la relazione.

GAETANO PECORELLA, Relatore per la maggioranza per la II Commissione. Signor Presidente, onorevoli colleghi, il dibattito in Commissione su questa proposta di legge è stato sicuramente aspro e ancor più aspro si annuncia in aula.
Il puro e talora personale attacco politico spesso ha prevalso sull'analisi razionale dei problemi. Ho affidato perciò ad un testo scritto l'illustrazione dei criteri, dei principi guida e delle soluzioni scelte dalla Commissione perché, chi lo voglia, possa in quest'aula dare il proprio contributo di intelligenza e di cultura, come dovrebbe essere quando si affronta un tema complesso quale quello al nostro esame.
Chiedo alla Presidenza la pubblicazione del testo della mia relazione in calce al resoconto stenografico della seduta odierna.

PRESIDENTE. Onorevole Pecorella la Presidenza la autorizza.
Il relatore per la maggioranza per la VI Commissione, onorevole La Malfa, ha facoltà di svolgere la relazione.

GIORGIO LA MALFA, Relatore per la maggioranza per la VI Commissione. Signor Presidente, onorevoli colleghi, dopo un ampio ed approfondito esame nelle Commissioni finanze e giustizia, giunge all'esame dell'Assemblea il progetto di legge di delega al Governo per la riforma del diritto societario.
Intendo riservare ampio tempo alla mia replica, quindi chiedo la pubblicazione del testo della mia relazione in calce al resoconto stenografico della seduta odierna.

PRESIDENTE. Onorevole La Malfa, la Presidenza la autorizza.

GIORGIO LA MALFA, Relatore per la maggioranza per la VI Commissione. Signor Presidente, in questo intervento mi limito a sottolineare alcuni aspetti delle


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modificazioni al testo del Governo apportate dalle Commissioni dopo il dibattito che in esse si è svolto.
Voglio sottolineare, in primo luogo, che è di particolare importanza che la legislatura si apra con l'approvazione di una riforma di questa portata.
Ciò è dovuto sia alla procedura di urgenza che la Presidenza della Camera ha deciso su richiesta, tra l'altro, dei gruppi dell'opposizione per l'esame della materia - e che spero essi non vogliano contraddire, dilazionando invece l'esame della materia che avevano giudicato e giudicano urgente - sia al lavoro molto importante, di cui è giusto dare atto, svolto dal Parlamento nella precedente legislatura che aveva condotto alla redazione di un testo, noto come la legge Mirone, adottato dal Governo; esso è utilizzato, su proposta dei relatori, l'onorevole Pecorella ed il sottoscritto, come testo base per la discussione nella Commissione.
Le motivazioni della riforma sono essenzialmente tre.
La prima è che sono trascorsi oltre cinquant'anni dalla definizione giuridica del diritto delle società, in un periodo di grandi cambiamenti dell'economia italiana ed internazionale e del diritto; pertanto è giusto procedere ad un aggiornamento, ad una riscrittura completa del codice civile in merito a tale materia.
La seconda motivazione è che è cambiato profondamente il quadro dell'economia italiana, attraverso l'integrazione internazionale; ciò pone il problema, fra le altre cose, della concorrenza tra i sistemi istituzionali ed impone al nostro paese l'adozione di sistemi moderni che, in qualche modo, possono costituire un elemento per mantenere nel nostro paese ed attrarre verso di esso attività economiche. Da questo punto di vista il quadro giuridico del diritto delle società è di particolare importanza.
La terza ragione fondamentale è che, in una fase in cui il cambiamento economico è molto rapido ed incisivo, appare importante che il diritto delle società possa consentire quegli adattamenti delle strutture sociali che siano al passo con i cambiamenti delle tecnologie e dei mercati finanziari e così seguitando. Queste erano, onorevoli colleghi, le ragioni che avevano ispirato la legge Mirone, tre fondamenti che rimangono in pieno nel testo che le Commissioni hanno adottato. Spero quindi che si pervenga ad una sorta di piattaforma comune per tutta la Camera, per quella che era la vecchia maggioranza e per quella che è l'attuale maggioranza.
Rispetto al testo della legge Mirone, negli articoli 1 e 9 della stessa e 1 e 10 nel testo riformato, per la parte civilistica, la Commissione ha introdotto quattro modifiche che formeranno oggetto principale del dibattito.
In primo luogo, abbiamo voluto attenuare alcuni caratteri di rigidità che, in contrasto con lo spirito dichiarato della legge Mirone, permanevano in quella formulazione e tendevano a stabilire alcune gabbie (per cui le società a ristretta base sociale dovevano assumere la forma di una Srl, quelle a larga base sociale la forma di una Spa), rendendo meno vincolante tale schema giuridico.
In secondo luogo, abbiamo voluto affrontare, con più precisione, il problema della tutela delle minoranze (tema di fondo del diritto societario), garantendo le minoranze contro il rischio di essere spinte fuori dalla compagine sociale, tra l'altro volendo evitare di ingenerare l'insorgere di un contenzioso che sarebbe paralizzante nella vita delle società specialmente delle società non quotate.
Accanto a queste due questioni, che ho illustrato ampiamente nella relazione scritta, ve ne sono altre di maggiore importanza politica. La prima, relativa al diritto delle società, è sintetizzata nell'emendamento che riguarda i patti parasociali, con il quale, dopo ampia discussione, la Commissione ha deciso di vietare l'adozione di patti parasociali di durata illimitata ma di prevedere la possibilità che vi siano patti parasociali della durata fino a cinque anni, estendendo un termine che il decreto legislativo Draghi, per le società quotate, fissa in tre anni.
Su tale questione si è discusso ed è un punto di fondo su cui la discussione in


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Assemblea si deve svolgere. Faccio riferimento ad un vecchio ed importante articolo che scrisse sulla rivista il Mulino, il professor Romano Prodi, circa dieci anni fa, nel quale egli illustrava la differenza tra due grandi modelli di capitalismo, quello che egli chiamava il capitalismo renano, tedesco e quello che egli chiamava il capitalismo anglosassone. L'uno, il capitalismo renano-tedesco, caratterizzato da nuclei societari stabili - cosiddetti noccioli duri - di azionisti, stabilmente al controllo della società e in grado, attraverso l'adozione di patti parasociali, di assicurare nel tempo tale stabilità; l'altro, il modello del capitalismo anglo-americano, caratterizzato dalla piena contendibilità - come si direbbe con espressione moderna - degli assetti proprietari e di guida delle società quotate.
Romano Prodi, in quell'articolo, sosteneva che, per l'Italia, che partiva da un capitalismo pre-familiare e che doveva in un certo senso avviarsi ad un capitalismo moderno, la linea migliore di sviluppo era quella che andava in direzione del modello tedesco. E la stessa opinione di Prodi - lo dico agli stessi colleghi che con forza sono intervenuti sul tema, nonchè per l'autorità che ha agli occhi della sinistra oltre che del mio mondo - esprimeva in quegli anni il professor Bruno Visentini, il quale, in molti articoli apparsi sul quotidiano la Repubblica, scriveva che una delle ragioni per le quali l'Italia doveva guardare, nella sua trasformazione verso il modello tedesco del capitalismo, era rappresentata, e lo è tuttora, dall'assenza di una caratteristica propria del capitalismo anglosassone, ovvero la presenza dei fondi pensionistici. Questi danno stabilità comunque alla guida delle società nelle quali essi investono. Egli diceva, ed io sostengo oggi, che, se introducessimo una piena contendibilità delle società senza avere quegli elementi di stabilità costituiti dagli interessi dei fondi pensione, in particolare dell'interesse alla stabilità nel tempo e alla redditività, noi rischieremmo di aprire la strada, non al capitalismo moderno, bensì ad un capitalismo avventuroso, instabile, nel quale sarebbero soprattutto gli speculatori a contendersi il controllo delle società per azioni.
Per questa ragione, ritengo indispensabile consentire la possibilità che vi sia una certa stabilità, con la presenza di gruppi di comando delle imprese che assumono, nell'ambito del ciclo economico, in momenti favorevoli o sfavorevoli, la guida di una società, dando ad essa stabilità.
Questo argomento, onorevoli colleghi, è rafforzato dal fenomeno dell'integrazione economica, assente dieci anni fa o comunque presente in misura assai minore rispetto ad oggi, nonchè dall'approssimarsi del sistema dell'euro, essendo prossimi all'ingresso in un sistema molto integrato dal punto di vista finanziario e dei movimenti di capitale.
In una situazione di questo genere, onorevoli colleghi, si pone un problema non di tutelare il carattere nazionale dell'industria italiana, bensì di non consentire che troppo facilmente il controllo di attività importanti del nostro paese si trasferisca altrove, all'interno dell'Europa o addirittura al di fuori di essa.
È un tema che, per il sistema bancario, il governatore della Banca d'Italia non si stanca di proporre ed è un tema che, soprattutto per quella parte dell'opposizione di sinistra preoccupata dalla globalizzazione, dovrebbe condurre ad una riflessione con toni diversi rispetto a quelli ascoltati in Commissione.
Il quarto ed ultimo punto, avviandomi alla conclusione, è rappresentato dalla cooperazione. Al riguardo, vorrei limitare il mio intervento nel rispondere alla principale obiezione che è stata mossa con la questione pregiudiziale, ovvero che si sia in presenza di una violazione della Carta costituzionale con riferimento all'articolo 5 del disegno di legge in discussione.
Questa affermazione, onorevoli colleghi dell'opposizione, è del tutto infondata. L'articolo 45 della Costituzione afferma che la Repubblica riconosce la funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata. Pertanto, implicitamente o esplicitamente, si dichiara che esiste una cooperazione


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a fini di mutualità e di speculazione privata, e che ne esiste un'altra rappresentata da una forma societaria perfettamente accettabile, ma per la quale la Costituzione non prevede la promozione e l'incremento. Si tratta di una distinzione che pertanto è presente; tuttavia, ciò che occorre aggiungere, e che è sicuramente importante, ai fini della pregiudiziale presentata, è che il progetto Mirone, del quale l'opposizione tiene conto nell'elaborare la sua proposta, vi è una distinzione alla lettera d), comma 5, dove si afferma: «limitare, in conformità con il dettato costituzionale, il controllo dell'autorità governativa alla cooperazione costituzionalmente riconosciuta.»
Dunque, persino nel testo che l'opposizione oggi vorrebbe sostenere, si distingue la cooperazione costituzionalmente riconosciuta dalla cooperazione non costituzionalmente riconosciuta. Pertanto, credo che la questione pregiudiziale di costituzionalità non avrebbe dovuto essere sollevata.
Naturalmente, se si distinguono i tipi di cooperative, allora è anche giusto che la legge si riservi di promuovere e di favorire quelle che hanno una natura costituzionalmente riconosciuta. Ecco perché abbiamo proposto - con la norma che ha suscitato maggiori polemiche e che poi è coperta dalla polemica costituzionale - di riservare l'applicazione delle disposizioni fiscali di carattere agevolativo alle società cooperative costituzionalmente riconosciute. Infatti, una cosa è sostenere una cooperazione che abbia le caratteristiche costituzionali e un'altra cosa è sostenere che una società a fini di lucro, che opera sul mercato in condizioni di concorrenza con altre società a fini di lucro, goda di un trattamento fiscale preferenziale. Questo è il punto.
Inoltre, ci siamo posti il problema di agevolare le cooperative che hanno fini di lucro nella loro azione economica, consentendo loro di utilizzare le forme societarie e le possibilità consentite dal sistema delle società per azioni.
Infine, abbiamo affrontato un altro problema (e mi avvio alla conclusione, signor Presidente). Il movimento cooperativo ha considerato una proposta del relatore, che consentiva di agevolare la trasformazione delle cooperative in Spa, come un possibile incentivo diretto o indiretto per le cooperative a rinunziare alla loro forma - che socialmente è molto importante - per andare verso una forma di società di lucro. Abbiamo risposto a tale possibile preoccupazione utilizzando una norma dell'articolo 17 della legge finanziaria del 2000 - proposta e approvata dalla maggioranza di allora - che pone delle difficoltà, dei costi molto elevati ad una cooperativa che voglia diventare società di lucro. In tal modo, la preoccupazione che dal «recinto» della cooperazione possano scappare le cooperative è molto attenuata.
Questi sono i grandi temi della riforma del diritto delle società. Vorrei sottolineare che è di grande importanza che la Camera apra la sua legislatura con questa discussione e mi auguro che il provvedimento venga approvato rapidamente per la rilevanza estrema degli argomenti trattati. Per questo motivo, chiedo all'Assemblea di esaminare serenamente e con molta attenzione la materia.

PRESIDENTE. La ringrazio, onorevole La Malfa. Vorrei far presente che la decisione in merito all'urgenza di questa discussione non proviene dal Presidente, ma dalla Conferenza dei capigruppo nel suo complesso. Non è quindi un motu proprio presidenziale, ma il risultato di una consultazione collegiale.
Il relatore di minoranza per la VI Commissione, onorevole Pinza, ha facoltà di svolgere la relazione.

ROBERTO PINZA, Relatore di minoranza per la VI Commissione. Signor Presidente, la ragione per cui si è richiesta l'urgenza della trattazione di questo provvedimento, di questo disegno di legge delega che proveniva dalla passata legislatura, fruendo delle possibilità che il regolamento consente quando si tratti di disegno di legge riproposto, nasceva proprio dalle considerazioni che sono state svolte


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poc'anzi dall'onorevole La Malfa. Tutti abbiamo valutato l'importanza di avere un diritto societario più moderno e più rispondente alle esigenze dell'economia di oggi, rispetto a quello che si era stratificato nel tempo, nella considerazione - come lei giustamente rilevava, ripetendo concetti che abbiamo espresso ininterrottamente per più di due anni, prima di istituire la commissione Mirone e poi durante i suoi lavori -, ritenendo che i sistemi giuridici siano anch'essi elementi di competitività del paese.
Una volta affermato questo principio - non ricordo, il tempo è passato, ma immagino che ciò avvenne con il concorso di quelle che allora erano minoranze, opposizioni - si è deciso anche un metodo. Non si tratta di apportare una piccola modificazione ad un comma di un articolo qualunque di una legge speciale. Qui si tratta - come giustamente ricorda anche il Comitato per la legislazione - di modificare profondamente uno dei libri fondamentali del codice civile e quindi di conferire un'articolazione diversa ad una parte del sistema, in attesa che arrivino a compimento i lavori di un'altra Commissione, che aveva iniziato ad occuparsi delle società personali. Tutto ciò in modo che, attraverso quello che è già stato fatto con la legge cosiddetta Draghi, e poi con questo «blocco» che riguarda le società di capitali, con il lavoro svolto fino a ieri - e immagino lo sia ancora per quello che riguarda le società in nome collettivo - e nello stesso tempo con la riforma delle procedure concorsuali, si potesse avere un sistema normativo completamente modificato, in ragione del fatto che vi è una situazione economica radicalmente evoluta rispetto al passato.
Si tratta di un grande disegno, credo - lo ripeto - condiviso. Non ho memoria degli atti parlamentari di allora, ma mi pare impossibile che non vi fosse dissenso su una necessità d'iniziativa di questo genere. Allora, però, si scelse non il metodo della rapida decapitazione normativa o della sostituzione di una norma con un'altra, attraverso una meditazione molto limitata nel tempo. No, si decise un coinvolgimento completo della società italiana in tutte le sue espressioni: le associazioni economiche, gli ordini professionali, le università e le professioni che maggiormente avevano espresso valutazioni in questa materia. La commissione Mirone, addirittura, chiese una proroga, perché non gli fu sufficiente il termine che originariamente era stato previsto. Lavorò per due anni ad un testo complesso ed articolato che raccoglieva consenso, proprio perché era stato compiuto questo lungo lavoro.
Allora, la logica qual era? Era quella di portare con urgenza, all'inizio della presente legislatura, questo provvedimento in maniera che, su un consenso già largamente stabilizzato, si potesse arrivare rapidamente alla sua approvazione. Questo è stato il primo atto di questo Governo, ciò ha fatto l'esecutivo e ha fatto bene. Ha ripresentato lo stesso testo ma poi, l'ha cambiato. E lo ha fatto nei punti che maggiormente contano, non solo quelli, pure importanti, su cui ci soffermeremo in sede di discussione degli emendamenti relativi ai primi quattro articoli - per i quali è stata mostrata minore attenzione politica, ma che hanno un indiscutibile interesse -, ma, in modo particolare, nei due punti dell'articolo 5, riguardanti la normazione penalistica, ossia cooperative e normative penalistiche, sui quali si è determinata una situazione completamente diversa da quella che era logico prevedere nell'interesse comune, ovverosia un dibattito molto lento, molto tecnico, orientato rapidamente all'approvazione. Viceversa, si è determinato esattamente l'opposto proprio perché sono stati radicalmente mutati due degli aspetti essenziali della riforma, così com'era stata predisposta nel testo Mirone.
Questa è la ragione di fondo per la quale noi ripresentiamo il testo Mirone, non solo perché vi è l'opportunità - ed ovviamente anche la facoltà - di compiere aggiustamenti e modificazioni che possano essere valutati in sede parlamentare, ma perché si trattava di un sistema compatto ed organico di principi e di valutazioni sul quali c'era stato un lunghissimo dibattito


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nella società italiana che non può essere sostituito - anche se istituzionalmente, ovviamente, ciò può avvenire - da qualche giorno di dibattito nelle Commissioni della Camera e del Senato o nelle due Assemblee parlamentari.
Questo era il segnale che poteva essere lanciato a questa legislatura, nella quale non si è partiti con l'idea di dibattiti comunque aspri. Anzi, l'idea dell'opposizione di accelerare la discussione e l'approvazione di un testo - che era di questo Governo - significava esattamente un'impostazione opposta. Ed è stato caricato di asprezza il dibattito nel momento in cui sono stati introdotti temi ed orientamenti che modificano completamente l'assetto originario.
Dico ciò perché siamo nella fase iniziale della discussione generale. Anch'io, a volte, mi rimprovero per qualche eccesso, che c'è sempre nei dibattiti, presente anche nelle mie parole, come in quelle di tanti altri, ma vorrei dire - raccogliendo l'invito dell'onorevole Pecorella e rivolgendomi anche all'altro relatore - che non giova, nelle interviste rilasciate prima della discussione generale - lo dico io che non faccio parte di quel gruppo - spiegare che le ragioni per le quali si sostiene una tesi derivano dall'essere legati a centri di potere ai quali quel gruppo politico - che non è il mio - per ipotesi si riferisce. Non giova. Le tesi vanno viste per quello che sono, senza dietrologia sulle intenzioni e sui rapporti, anche perché, così facendo - io mi occupo dell'articolo 5 -, si ottiene tutto tranne un dibattito che, invece, si vorrebbe oggettivo e sereno.
Non spiegate le ragioni per le quali viene riproposto il testo Mirone. Mi rifaccio, per esigenze di rapidità, ad un appunto scritto, ma sarò comunque concisissimo. Lasciando all'altro relatore di minoranza l'esame delle altre questioni e, soprattutto, della nuova disciplina penalistica che si intende introdurre - sulla quale, incidentalmente, non posso non esprimere il mio più totale dissenso -, intendo concentrare questa sintetica nota sull'articolo 5 della proposta, così come modificato - ma, forse, sarebbe meglio dire stravolto, sfigurato - nel testo della Commissione.
Come è stato esattamente osservato - il relatore ha già respinto le seguenti obiezioni, ma ne discuteremo ancora, se non ho inteso male quale sarà il calendario dei lavori dell'Assemblea della prossima settimana, nel pomeriggio di mercoledì -, il nuovo testo prospetta, anzitutto, gravi problemi di legittimità costituzionale, là dove introduce una bipartizione fra cooperative costituzionalmente protette - questa era la definizione originaria, successivamente cambiata - e cooperative non protette, che la Costituzione, all'articolo 45, non solo ignora ma, sostanzialmente, respinge, limitandosi ad individuare i requisiti della «cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata», cosicché l'unica alternativa che essa prevede è quella tra la cooperazione, avente tali requisiti, e le altre forme di esercizio di attività economica.
La distinzione tra cooperazione protetta e cooperazione non protetta ricalca quella contenuta nella legge spagnola del 1990 che, sebbene non recentissima, e neppure brillantissima, ha fatto breccia, evidentemente, nei banchi della maggioranza; tuttavia, quest'ultima sembra essere stata letta troppo in fretta, se si considera che non è stata neppure riportata nei suoi termini esatti: si è dimenticato, infatti, che la legge spagnola distingue fra cooperazione protetta e cooperazione specialmente protetta e, inoltre, che tale distinzione risulta superata per effetto della legislazione regionale (che non è il caso di menzionare).
Il compito che la Costituzione assegna al legislatore ordinario - e, conseguentemente, lo spazio in cui gli consente di operare - è quello, come il medesimo articolo 45 afferma, di assicurare e di controllare il carattere e le finalità della cooperazione, non di creare differenziazioni all'interno della categoria. Su questo piano, è evidente che il provvedimento, qualora venisse approvato nel testo attuale, sarebbe incostituzionale nella parte in cui attribuisce al legislatore ordinario


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un potere di spezzettamento del mondo cooperativo che in nessun modo gli appartiene.
Queste considerazioni inducono a richiedere espressamente che tale testo venga ritirato: esso ha già creato notevole allarme nel settore ed avrebbe ben poche possibilità di radicarsi nell'ordinamento giuridico a causa della sua intrinseca illegittimità costituzionale, aggravata, peraltro, da tre ulteriori circostanze.
La prima, che è stata poi superata, consisteva nel fatto - come ha osservato anche la Commissione affari costituzionali - che veniva utilizzato, con un intento politico evidente, il termine cooperazione «protetta», del tutto diverso da «riconosciuta», che la Costituzione emblematicamente riserva alle formazioni naturali che reputa meritevoli di tutela. Il problema è stato poi superato, come ho detto, su suggerimento della Commissione affari costituzionali, nel testo della Commissione.
La seconda è che viene introdotto un criterio, quello dello svolgimento di attività prevalentemente in favore dei soci o con il lavoro prevalente dei soci, totalmente ignoto alla Costituzione.
La terza è che questo sconvolgimento del mondo cooperativo in una materia costituzionalmente disciplinata dovrebbe avvenire non attraverso una legge ordinaria assistita dalle garanzie tipiche del procedimento legislativo, ma addirittura mediante un decreto legislativo preceduto da un rapidissimo dibattito parlamentare sul nuovo testo del disegno di legge delega.
Si tratta di problemi di costituzionalità molto gravi, che inducono a chiedere l'accantonamento del nuovo testo, a meno che non si ritenga, forse con maggiore saggezza, di portare la disciplina della cooperazione ad una autonoma e più approfondita sede legislativa.
Un ulteriore aspetto, rilevante sotto il duplice profilo della legittimità costituzionale e del merito, ha riguardo all'articolo 5, comma 2, lettera g), dovuta all'emendamento La Malfa, cui il relatore ha accennato. Qui siamo di fronte ad un rovesciamento completo della linea costituzionale della politica di questo mezzo secolo. Il principio costituzionalmente affermato dall'articolo 45 della Costituzione, quello della promozione e dell'incremento della cooperazione; ma il testo menzionato stabilisce che la legge ne promuove e ne favorisce l'incremento con i mezzi più idonei, e così in effetti è avvenuto. Questa è stata la linea della legislazione ordinaria a partire dall'immediato dopoguerra. I dati aggiornati, che prendo dalle fonti ufficiali, anche se oggi il maggiore giornale economico ne pubblica altri più ampi, indicano una realtà cooperativa formata da circa sessantamila cooperative, se si considerano quelle con addetti, e da oltre ottantamila, se si considerano anche quelle senza addetti, con oltre 7 milioni di soci.
Questa è la realtà attuale della cooperazione, profondamente radicata nella nostra struttura sociale, a differenza di alcuni semplicismi paraideologici di qualche parte che la individua come una sorta di escrescenza inutile non condivisa dalla società italiana. A questo si aggiunga che, proprio in risposta ad esigenze più complesse ed umanamente più sofferenti della società moderna, come quelle socio-sanitarie ed educative, la cooperazione è stata la prima a dare una risposta significativa con la creazione, negli ultimi anni, di oltre 3.500 cooperative che operano nei settori più difficili ed esposti dell'organizzazione sociale.
La proposta dell'onorevole La Malfa inverte questa linea di continuità, prevedendo che la legge ordinaria, lungi dal favorire l'incremento della cooperazione, come la Costituzione impone, al contrario, ne favorisca la dissoluzione o la riduzione, imponendo e delegando al legislatore ordinario di favorire la trasformazione delle società cooperative in società lucrative. Evidentemente, vi è una linea complessiva - perché negarlo? - politica, quasi ideologica, se si possono ancora usare questi termini, in virtù della quale la cooperazione deve essere confinata nell'area della marginalità protetta; una sorta di piccola riserva indiana, mentre la normalità imprenditoriale viene identificata nelle società lucrative. Una linea non solo profondamente incostituzionale, ma anche


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politicamente errata, dipendendo forse il sistema italiano in gran misura proprio dalla varietà delle sue forme imprenditoriali e, comunque, completamente difforme dalle esperienze dei più moderni paesi occidentali che hanno favorito ovunque lo sviluppo della cooperazione.
D'altro canto, stupisce che questo emendamento, che, in perfetta contraddizione logica, spinge verso la trasformazione delle cooperative in società lucrative, sia stato proposto da chi ha respinto l'emendamento assai più ragionevole, proveniente da esponenti della maggioranza (l'onorevole Pepe), che facilitava la trasformazione in società di capitali delle società personali.
Si tratta, quindi, di una impostazione non condivisibile sul piano delle politiche dell'impresa, che fa inutile violenza alla storia italiana dell'evoluzione del suo sistema, che istituisce, complicandolo, un doppio sistema cooperativo in luogo di quello assai più semplice previsto dalla Costituzione repubblicana, che si limita a distinguere tra cooperazione vera con caratteri di mutualità, senza fini speculativi, e ciò che cooperazione non è.
Concludendo, signor Presidente, non posso sottacere che lo stesso relatore di maggioranza, con gli ultimi due emendamenti sui quali si è soffermato, ha ridotto la portata della propria iniziativa originaria, ampliando il campo della cosiddetta cooperazione protetta e rendendo meno appetibile, se non - diciamo la verità - , di fatto, pressoché impraticabile (è stato conservato il principio ma, di fatto, è stato integralmente svuotato), la trasformazione in società lucrative.
Tuttavia, per quanto apprezzabili, questi emendamenti non sono sufficienti, essendo necessario ripristinare un testo, come quello Mirone, che resta all'interno di precisi binari costituzionali; a meno che non si ritenga di portare la nuova disciplina....

PRESIDENTE. Deve concludere, onorevole Pinza.

ROBERTO PINZA, Relatore di minoranza per la VI Commissione. ...della cooperazione, sulla cui opportunità concordiamo, in una sede propria ed autonoma.

PRESIDENTE. Mi dispiace interromperla. Capisco che l'argomento meriti una trattazione degna della sua capacità, però i tempi sono quelli che i colleghi conoscono.

ROBERTO PINZA, Relatore di minoranza per la VI Commissione. In questo caso, signor Presidente, le chiedo l'autorizzazione alla pubblicazione, in calce al resoconto odierno, di alcune considerazione integrative.

PRESIDENTE. Sta bene. La Presidenza l'autorizza.
Il relatore di minoranza per la II Commissione, onorevole Finocchiaro, ha facoltà di svolgere la relazione.

ANNA FINOCCHIARO, Relatore di minoranza per la II Commissione. Signor Presidente, onorevoli colleghi, la discussione tra di noi è stata certamente aspra ed ancora più aspra sarà - credo - nel corso della discussione dei singoli emendamenti e dei singoli articoli. Non per la ragione che è stata presentata in questa sede in apertura dall'onorevole Pecorella, che vede in contrapposizione, da una parte, una linea teorica scientifica di scelta politica e, dall'altra, un accanimento personale nei confronti di un soggetto, nel caso di specie - usciamo dalla metafora - il Presidente del Consiglio. Non è così. Il presidente Pecorella conosce bene i toni, la natura, la qualità, gli argomenti del dibattito in Commissione. Siamo intervenuti più volte, sebbene in questo caso la sfida si giochi su un altro versante, quello del danno che noi riteniamo la modifica della disciplina civilistica e penalistica in materia societaria rechi al sistema produttivo del nostro paese - ed io dico - all'onorabilità del nostro paese. Ciò che troviamo assolutamente inelegante - utilizzo questo termine per rispetto di questa Assemblea - è il fatto che questo sacrificio, il sacrificio delle ragioni del nostro paese, del


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nostro sistema produttivo, della nostra competitività, della nostra onorabilità, della nostra affidabilità, si faccia in nome e per lo scopo di favorire interessi personali.
Il testo di cui discutiamo è il risultato dall'esame svolto dalle Commissioni e, come sapete, il testo che noi difendiamo e ripresentiamo è un testo che ha una storia parlamentare, una storia non commendevole: presentato nella scorsa legislatura dal ministro Fassino e dai ministri coproponenti venne assediato da molte centinaia di emendamenti da parte dell'attuale maggioranza, perché non si potesse arrivare ad una approvazione, perché neanche se ne potesse compiutamente discutere. Dopo di che, con grande disinvoltura, il ministro Castelli lo ripresenta, appone la propria firma (non è un passaggio di carte, è un'altra cosa, è la responsabilità politica di un Governo che firma un disegno di legge, peraltro frutto di una concertazione lunghissima - lo ha ricordato poc'anzi l'onorevole Pinza - con tutte le categorie e i soggetti istituzionali interessati) e dopo aver firmato questo pezzo di carta, dopo averlo soltanto letto (un cavallo di Troia, in realtà), in Commissione avviene ciò che noi riteniamo sia la devastazione del testo e, meglio e di più, la devastazione dei suoi fini, dei suoi obiettivi e degli strumenti con i quali conseguirli.
Allora non si tratta di fisiologia, onorevole Pecorella, non è fisiologia la presentazione di emendamenti da parte della maggioranza ad un testo del Governo quando la qualità, la natura, il contenuto di questi emendamenti tramuta il senso ed i fini di questo provvedimento. Non è fisiologia, è un'altra cosa! Vi siete comportati con grandissima disinvoltura. Il Governo e la sua maggioranza si sono comportati con grandissima disinvoltura: disinvoltura che, peraltro, ormai, connota l'agire di questo Governo, in molti campi, e sarebbe sciocco continuare a stupirsene.
Quali erano i fini del provvedimento per quanto riguarda la questione di cui mi occupo, e cioè la questione penalistica? Io credo che il fine fosse assolutamente trasparente ed esplicito: costruire un sistema nel quale il diritto penale, fuori dai guasti più volte denunciati dalla dottrina, dalla giurisprudenza e anche dalla giurisprudenza costituzionale, svolgesse un ruolo di sussidiarietà; un sistema che fosse in sé autosufficiente rispetto all'osservanza delle regole; regole che garantissero e promuovessero lo sviluppo nel nostro sistema societario e complessivamente, quindi, del sistema produttivo; un diritto penale che si uniformasse a quelli che ormai sono i principi inequivoci e direi fuori da ogni contesa, ormai teorica, tra di noi; quindi un diritto penale che ha uno spazio di marginalità, un diritto penale minimo che riconoscesse il rilievo del principio di offensività, il principio di rilevanza del fatto e tutti gli altri principi di cui, in questi anni, abbiamo discusso trovandoci sempre d'accordo.
Peraltro, la parte penalistica in un provvedimento è, come dire, la celebrazione ultima, se volete anche la più esplicita ed emblematica, di quelli che sono i fini di una riforma, perché coglie il dato della estrema patologia e dunque rivela, completamente, i fini di quel complesso sistema di norme civili e penali (forse ciò è particolarmente vero nel caso della disciplina del diritto societario), e quindi era ovvio, ed è ovvio, che è lì che possiamo verificare quanto di quello spirito e di quei fini originari risulti tradito.
Abbiamo sempre sostenuto, e lo sosteneva esplicitamente il disegno di legge Mirone, torneremo a discuterne fra qualche minuto, che il fine del provvedimento è quello di rendere il nostro sistema competitivo (cito esplicitamente il progetto di legge Mirone); non è un aggettivo che mi torna utile per un artificio retorico: questo è lo scopo del provvedimento. E la competitività si articola in regole che siano adatte alla realtà economica del momento e si declina come snellimento di una serie di passaggi (alcuni li abbiamo già affrontati nella scorsa legislatura, mi riferisco alla omologazione) affinché il sistema produttivo possa muoversi con maggiore celerità e con minori costi, possa avere un accesso ai mercati di capitale interno ed internazionale più agevole e, infine, chiaramente,


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perché sia governato da un insieme di regole civili e penali che lo renda affidabile all'esterno.
In tutto ciò risiede la competitività di un paese. Non si tratta di un'accezione nuova, anzi, la ritroviamo continuamente negli atti internazionali, in particolare dell'Unione Europea, in cui il termine competitività, spesso esteso anche alla grande questione del sistema giurisdizionale di un paese, diventa un attributo di quel paese, portando implicito in sé il criterio dell'affidabilità del sistema di regole che lo governa. A tal proposito, come tutti ricorderanno, nel giugno dello scorso anno venne emanato un decreto legislativo con il quale, per una serie di reati sulla base di un'imposizione - lo dico tra virgolette - che veniva dall'Unione europea, anche nel nostro paese - come in tutte le altre nazioni aderenti all'Unione stessa - si introduceva la responsabilità amministrativa delle imprese per i fatti illeciti commessi dai propri dipendenti.
È stato obiettato che ciò avveniva solamente in riferimento ad alcune tipologie di reato: ebbene, l'ultima lettera dell'articolo 10 del testo Mirone estende la responsabilità amministrativa delle imprese - o meglio intendeva farlo - a tutte le ipotesi di reato previste dall'articolo 10; ciò dimostra che si voleva costruire un sistema affidabile. L'Italia avrebbe presentato il proprio sistema riformato al resto dell'Europa e del mondo - in epoca di globalizzazione mi sembrerebbe sciocco e miope se così non fosse - dicendo: «guardate, siamo un sistema nel quale le regole, compresa quella penale - che pure consideriamo marginale e di garanzia finale del sistema stesso -, sono tali da potervi fidare delle nostre imprese». Lo avremmo detto ai nostri concorrenti, ai nostri fornitori, ai creditori, ai mercati internazionali, al sistema bancario e finanziario internazionale, nonché ai governi degli altri paesi.
Tutto questo viene invece frantumato dallo scempio che si è fatto del testo Mirone con gli emendamenti della maggioranza. Ciò svela la diversità di approccio tra opposizione e maggioranza nei confronti di questo testo. Quello che noi vogliamo è assecondare l'ambizione di quella parte del paese che ha bisogno e che chiede, anzi vi chiede - perché la maggioranza si è presentata come un interlocutore privilegiato in questo dibattito - di essere aiutata a recuperare efficienza, competitività ed affidabilità. È in ciò che risiede la grande differenza tra le nostre posizioni. L'onorevole Pecorella mi ha sfidato, anzi, lo ha fatto con tutta l'opposizione, su questioni tecniche, sostenendo che ciò che viene opposto come critica all'articolazione della riforma del sistema penale in realtà nasconde una volontà persecutoria. Ebbene, credo di aver capovolto i termini del problema; avremo comunque tanto di quel tempo per continuare a discutere di tale questione in Assemblea che sicuramente i miei argomenti avranno modo di essere accolti anche da altri colleghi che probabilmente li espliciteranno meglio. Vorrei svolgere comunque alcune osservazioni puramente tecniche: il reato di falso in bilancio ormai, per comune ed assestatissima riflessione dottrinale e giurisprudenziale, è un reato plurioffensivo. Ciò non piace alla maggioranza.
L'interesse massimo da tutelare, proprio scomodando la potestà punitiva dello Stato, è per noi l'affidabilità, la competitività e l'onorabilità del nostro sistema. Ebbene, questo interesse si scontra con una costruzione del sistema penale che trovo irragionevole. Dovete spiegare perché l'articolo 11, primo comma, lettera a), sancisca i principi ai quali il legislatore delegato dovrà attenersi nel riformulare il reato di falso in bilancio prevedendo due fattispecie. Nella prima parte della disposizione troviamo infatti descritte due condotte diverse: l'esposizione di fatti e materiali falsi sulla situazione economica della società e l'omissione di informazioni sempre su tale situazione (informazioni imposte dalla legge). Solo nel primo caso si richiede l'idoneità della falsità ad indurre in errore i terzi. Questo requisito non è invece necessario nella seconda ipotesi, perché si tratta ovviamente di un obbligo di informazione previsto dalla


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legge. In entrambe le ipotesi deve esserci l'intenzione di ingannare i soci ed il pubblico, nonché il dolo specifico del conseguimento dell'ingiusto profitto e la rilevanza della falsità.
Nella seconda parte della disposizione si prevede che debbano essere formulate autonome figure di reato a seconda - e questo è il punto - che la condotta abbia cagionato o meno un danno patrimoniale ai soci o ai creditori.
Abbiamo così una prima ipotesi che vorrei definire di falsità senza danno, per la quale è prevista la pena di un anno e sei mesi di arresto. La seconda ipotesi è la falsità con danno. Qui si opera una distinzione a seconda che si tratti di società non quotate oppure di società quotate in borsa: è la questione che abbiamo già discusso in Commissione. Nel caso di società non quotate si prevede la perseguibilità a querela: si tratta di un delitto e la pena è da sei mesi a tre anni di reclusione. Nel caso di società quotate vi è la procedibilità d'ufficio ed è prevista la pena della reclusione da uno a quattro anni. Voglio, in questa sede, riprendere molto sinteticamente le considerazioni già svolte in merito a questa differenziazione fra società quotate e non quotate. Non voglio spingermi in discussioni per le quali, tra l'altro, credo di non avere il tempo...

PRESIDENTE. Onorevole Finocchiaro, mi scusi se la interrompo, ma abbiamo il piacere di avere in aula la delegazione del Parlamento dello Stato dell'Utarpradesh di cui sono presenti il Presidente ed il Vicepresidente che ho avuto il piacere di incontrare precedentemente. Desidero rivolgere i saluti del Parlamento italiano ai nostri graditi ospiti (Applausi).
Prego, onorevole Finocchiaro, può continuare il suo intervento.

ANNA FINOCCHIARO, Relatore di minoranza per la II Commissione. Grazie, signor Presidente.
Non voglio utilizzare moltissimo tempo, ma voglio dire che, in realtà, l'effetto che si determina, rispetto al progetto originario contenuto nel disegno di legge Mirone, rischia di creare nel nostro sistema una sacca di bad company (cattive compagnie), nella quale la società e il sistema possono riversare tutto ciò che è meglio non mettere nelle società quotate in borsa, perché queste ultime sono sottoposte ad un regime assai più rigido sotto il profilo penale.
Se anche questo non accadesse, la presunzione e il pregiudizio che ciò si possa verificare, quale danno arrecherebbe al nostro sistema economico e produttivo e in particolare - lo ripeto - all'affidabilità, alla competitività e all'onorabilità del nostro sistema? Non voglio spendere molte parole al riguardo, ma l'assoluta incongruità logica e giuridica del sistema che avete costruito con l'articolo 10 del provvedimento in discussione merita, invece, qualche parola.
Con il quadro che avete disegnato è da ritenere che il legislatore delegante richieda la punibilità del fatto anche quando non si sia prodotto un danno patrimoniale ai soci ed ai creditori. L'ipotesi di falsità senza danno costituisce un reato punito con la pena fino ad un anno e sei mesi di reclusione. Dunque, evidentemente, ritenete che, anche nel caso in cui non vi sia un danno ai creditori, ai fornitori, ai soci e via dicendo (lasciamo perdere la società, che è sparita dal vostro articolato e poi vedremo anche perché), esista comunque un danno rilevante ad un bene che io ravviso - come ho detto prima - nell'affidabilità complessiva del sistema (altri lo possono chiamare fede pubblica, altri lo possono definire - come nel 1942 - economia nazionale). Comunque, certo è che esiste un bene collettivo talmente rilevante che si prevede un reato, sebbene non vengano prodotti danni patrimoniali nel patrimonio di singole individualità (soci, creditori e così via), che comunque viene punito con la pena fino ad un anno e sei mesi di reclusione.
Nella seconda parte tale bene sparisce, tant'è vero che si prevede la perseguibilità a querela nel caso di falsità con danno per le società non quotate. E quel bene di prima che fine ha fatto?


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GAETANO PECORELLA, Relatore per la maggioranza per la II Commissione. Resta punibile, se non c'è la querela!

ANNA FINOCCHIARO, Relatore di minoranza per la II Commissione. No, non è possibile!

CARLO TAORMINA, Sottosegretario di Stato per l'interno. Si!

ANNA FINOCCHIARO, Relatore di minoranza per la II Commissione. Allora mi dovete disegnare un regime di specialità tra le norme, che qui non esiste. Neanche mi pare che possa funzionare la teoria di un bilanciamento, che pure funziona in altre fattispecie presenti nell'ordinamento penale, ad esempio nei reati contro il patrimonio che si realizzano nell'ambito familiare e via dicendo. Allora, non capisco che fine faccia quel bene. Riteniamo sia un bene essenziale e che, rispetto ad esso, non possano essere sacrificati i margini di una riforma del sistema penale societario che assicuri e continui a conferire al nostro sistema piena affidabilità.
In fondo, forse - signor Presidente, mi segnali quando il mio tempo sta per esaurirsi - ciò che si scontrerà in quest'aula, come si è già scontrato in Commissione (e mi dispiace che sia così) è l'idea che abbiamo di paese. Da una parte vi è stata una riflessione approfondita, una sintesi alta delle necessità, delle aspettative, dei bisogni dei soggetti del nostro mondo economico e produttivo. Da una parte, cioè, vi era un progetto di legge che tentava di spingere in avanti questo paese cogliendo l'ambizione della parte migliore. Sapete benissimo che molti soggetti hanno ritenuto, anche durante la relazione che abbiamo svolto in Commissione finanze, che il testo Mirone addirittura fosse arretrato, e, comunque, ancora troppo debole. Noi non lo abbiamo ritenuto perché abbiamo pensato - e continuiamo a pensare - che non si possa imporre un riformismo che non assecondi ciò che chiede di essere assecondato.
L'operazione che state conducendo nella riforma della parte civilistica del sistema societario, e che ha la sua conclamazione nella parte penalistica, è esattamente l'affermazione del contrario. È una visione - scusatemi il termine - un po' misera di questo paese la quale, piuttosto che assecondarne le ambizioni, accontenta quella piccola regola del vivere dove è più comodo, del tentare di sfuggire al controllo, del rifugiarsi dove non vi è necessità di sforzo, di ideazione, di coraggio (che ritengo, invece, essere l'anima ed il senso dell'impresa).
Che voi facciate questo perché sotto il profilo civilistico avete da salvaguardare alcune posizioni oligopolistiche (che sono ciò che di vecchio e di incatenante è presente nel nostro sistema) e sotto il profilo penalistico dovete sovvenire alle esigenze particolari di questo o di quell'altro processo, francamente non lo trovo all'altezza nemmeno della vostra propaganda. Non lo trovo elegante, non lo trovo all'altezza delle promesse che avete fatto al popolo italiano e neanche all'altezza di ciò che questo paese, che ha votato voi, si merita (Applausi dei deputati dei gruppi dei Democratici di sinistra-l'Ulivo, della Margherita, DL-l'Ulivo e Misto-Verdi-l'Ulivo).

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare il rappresentante del Governo.

MICHELE GIUSEPPE VIETTI, Sottosegretario di Stato per la giustizia. Signor Presidente, onorevoli colleghi, svolgerò qualche breve considerazione, riservando il resto del tempo a disposizione del Governo per la replica.
L'aver inserito questo disegno di legge delega nei provvedimenti relativi ai cosiddetti primi cento giorni segna, a nostro parere, una priorità politica molto rilevante. Non era mai capitato che un Governo, nel disegno di un rilancio dello sviluppo economico del paese, inserisse come provvedimento essenziale la revisione della disciplina societaria, la sua semplificazione ed il suo svecchiamento. Credo sia un dato politico importante aver collocato la disciplina delle società al centro del dibattito e delle concrete ed immediate iniziative di rilancio del paese.


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Il richiamo all'iniziativa di riforma del diritto societario è stato anche inserito, con lo spicco che merita, tra le misure previste e contemplate dal documento di programmazione economico-finanziaria.
Quindi, sarà forse vero - come ci rimproverava l'onorevole Finocchiaro - che il Governo è stato spregiudicato? Non lo credo e non capisco a che cosa ci si riferisca.
Certamente, l'esecutivo ha assunto un'iniziativa politica rilevante perché - a differenza di chi per molto tempo su questa materia aveva parlato - ha sottoposto questo provvedimento di riforma all'esame delle Parlamento per trasformarlo in legge.
Alla base di questo c'è il convincimento, già espresso dai relatori, che l'economia vada sostenuta non soltanto con misure di carattere strettamente materiale, ma anche con provvedimenti che aiutino i soggetti dell'attività economica a dotarsi di nuove strutture, più agili, efficienti, flessibili, in un quadro ordinamentale che sappia fornire certezza e semplicità.
Abbiamo già sostenuto - questo è un dato su cui, per fortuna, tutti sono d'accordo - che le forme associative che consentono nel nostro paese l'esercizio dell'attività economica in forma associata si sono, ormai, dimostrate del tutto inadeguate a reggere il confronto e a soddisfare le necessità in un quadro europeo.
La diagnosi era ampiamente condivisa ed ora è il momento del cambiamento: questo è l'obiettivo importante a cui ci siamo accinti. Ritengo che il Governo in tutto ciò abbia dato prova non di spregiudicatezza, ma di responsabilità e di concretezza: esso non ha voluto sprecare il lavoro che era stato svolto nel corso della XIII legislatura, ma ha ripresentato esattamente il medesimo testo già elaborato da autorevoli studiosi, affidandosi, poi, al dibattito parlamentare per ottenerne - questo l'abbiamo dichiarato in Commissione all'inizio dei nostri lavori - affinamenti e aggiornamenti, convinti che solo dal confronto dialettico questi ultimi potessero essere conseguiti.
Credo che lo sforzo dell'esecutivo di collocare la propria azione entro linee di continuità con il passato possa e debba essere apprezzato anche dall'opposizione. Si è inteso riproporre all'attualità della produzione legislativa non un ennesimo nuovo - spesso solo propagandisticamente nuovo - progetto di riforma, ma ci si è voluti muovere dal frutto di una riflessione ed elaborazione attenta, seria, che era già stato trasfuso in disegni di legge della scorsa legislatura e che, a loro volta, avevano costituito oggetto di dibattito pubblico e di generale conoscenza.
Non credo che in questo atteggiamento di continuità, di scelta di economia processuale e, nello stesso tempo, di doveroso ascolto del dibattito parlamentare ci sia contraddizione. Il Governo continua a confidare, nonostante certi toni della discussione in Commissione, che l'opposizione non neghi il proprio contributo nella difficile opera di concludere un itinerario che la stessa opposizione aveva intrapreso e che sarebbe dannoso per il paese lasciare incompiuto: i tempi sono maturi per avviare a conclusione questo sforzo e questa riflessione riformatrice.
Tuttavia, l'opposizione ha appuntato le sue critiche - che, in qualche modo, dovrebbero giustificare una presa di distanza rispetto alla proposta del Governo - sostanzialmente su due punti: le materie delle società cooperative e del regime penale. Vorrei limitarmi ad un accenno su questi due argomenti. La fonte di preoccupazione - espressa dall'onorevole Pinza dell'opposizione - riguarda l'introduzione della distinzione tra cooperazione riconosciuta e non riconosciuta: mi pare, francamente, che tale scandalo sia ingiustificato.
La delega si è posta lo scopo di distinguere l'area della cooperazione, che presenta determinate caratteristiche e che, in forza di quelle caratteristiche, può essere ritenuta meritevole di ammissione a fruire dei benefici, conseguenti all'adozione di una determinata forma giuridica, da un'area, ben più vasta, che si avvale delle forme della cooperazione, ma senza che a


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queste forme corrisponda una piena omogeneità con il fenomeno socio-economico.
In sostanza, il disegno di legge, nella sua versione attuale, tende solo ad ottenere che coloro che sono ammessi al beneficio per una specifica ragione siano possessori effettivi di quelle qualità e di quelle specifiche ragioni sostanziali che indussero il costituente ad una speciale considerazione e il legislatore ordinario a introdurre regimi privilegiati.
Il ragionamento che ha fatto l'onorevole Pinza è viziato da ingenuità, perché sembra ignorare totalmente che la forma cooperativa oggi, nel nostro paese, ammanta e copre di sé realtà economiche che, per la verità, hanno poco a che fare con la cooperazione in senso proprio. E ciò con un danno, in quanto, da un lato, figure sostanzialmente coincidenti per dati economici, assetti strutturali, meccanismi decisori, reclutamento manageriale a società commerciali, fruiscono di benefici al pari di realtà infinitamente più modeste e, dall'altro, perché operatori di mercato, alcune società nominalisticamente definite cooperative, inducono distorsioni concorrenziali rispetto ad altri protagonisti del mercato che non possono fruire - anche per il maggior grado di aderenza alla legge - di una equivalente posizione di privilegio.
Per quanto riguarda le sanzioni penali, l'utilizzazione di fattispecie di pericolo astratto - lo ha detto, se ben ricordo, lo stesso onorevole Finocchiaro, in Commissione - urta, confligge, con principi fondamentali del nostro diritto penale - ricordati anche questa mattina - quali, l'offensività, la proporzione, la frammentarietà. Perciò, non può condividersi una scelta punitiva che preveda pene edittali elevate per reati di mero pericolo. Categoria, quest'ultima, della quale una certa dottrina mette ancora in discussione, proprio con riguardo ai reati economici, la stessa compatibilità con il diritto penale. Quindi, da tale affermazione deve conseguire che nuove scelte di politica criminale, in ambito societario, debbano essere caratterizzate per il diverso trattamento sanzionatorio tra pericolo e danno.
La scelta del disegno di legge è tutta qua. Ferma restando la rilevanza penale del falso in quanto tale, a salvaguardia della fedeltà della rappresentazione verso i terzi della situazione economico-patrimoniale della società, non può però negarsi una diversa valutazione di disvalore del fatto quando la sua offensività si manifesti in un danno patrimoniale ai soci o ai creditori.
Anticipo - riservandomi, semmai, di tornare sul punto - una considerazione all'onorevole Finocchiaro, che ha invocato, con grande enfasi, la sanzione penale come unico rimedio a garanzia della trasparenza e dell'affidabilità del mercato. Mi limito ad un dato: il numero dei procedimenti per falso in bilancio, pendenti al 31 marzo 1998 (il dato non è aggiornatissimo, ma è l'unico che ho reperito), era di 4.767 procedimenti, di cui circa duemila nelle regioni settentrionali del paese e circa millecinquecento nelle regioni meridionali.
Credo che basti questo dato per dimostrare che la distribuzione sul territorio delle iniziative relative a tale materia non corrisponde alla consistenza del flusso economico, alla ricchezza ed al grado di strutturazione del mercato. Non credo si possa sostenere che sia stata questa limitatissima serie di procedimenti aperti la misura che ha garantito la trasparenza del mercato, la fedeltà delle rappresentazioni contabili, la creazione di condizioni di mercato concorrenziale.
Si può in buona fede sostenere che siano stati gli effetti deterrenti delle sanzioni penali gli unici fattori di garanzia e di tutela del mercato? Certamente il diritto penale concorre alla tutela delle condizioni di esistenza e funzionamento del mercato, ma non può essere considerato né il solo né il più importante; altri strumenti di equilibrio finanziario, di credibilità commerciale, di affidamento, di onorabilità delle persone giocano un ruolo ben più importante nella platea di riferimento commerciale e finanziario.
Prima di concludere, vorrei fare un riferimento all'ex articolo 11 del disegno di legge: la disposizione è stata soppressa, in


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quanto è prevalso il timore che una concentrazione degli affari presso poche sedi giudiziarie potesse costituire elemento di perturbamento eccessivo delle regole di distribuzione delle competenze. La preoccupazione è stata così forte da determinare la soppressione anche della possibilità per il Governo di prevedere speciali forme procedurali per la trattazione degli affari societari.
Si tratta di un elemento che rischia di incidere sulla capacità della riforma di attecchire credibilmente ed efficacemente; se non si creano procedimenti semplificati, rapidi ed agili, si rischia di allontanare dal controllo giurisdizionale un mondo, quello societario, nel quale le esigenze di celerità sono il prerequisito della stessa bontà della decisione e della regola di cui essa fa applicazione.
Sul tema della creazione delle sezioni specializzate, il Governo non si nasconde che è necessario ripensare l'intera materia della distribuzione dei flussi del carico civile, per realizzare un maggior grado di efficienza del sistema e di distribuzione del lavoro tra le diverse sedi; tuttavia, il Governo si permette di esprimere questa preoccupazione riguardo almeno alla possibilità di recuperare le norme procedimentali.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Benvenuto. Ne ha facoltà.

GIORGIO BENVENUTO. Signor Presidente, onorevoli colleghi, vorrei innanzitutto sottolineare il fatto che la necessità di una riforma del diritto societario e, quindi, di un quadro normativo favorevole allo sviluppo dell'impresa rientra negli obiettivi dell'opposizione e dei Democratici di Sinistra. Siamo convinti che una riforma debba essere fatta: ci siamo battuti per questo nella precedente legislatura ed abbiamo operato in tal senso nell'attuale, presentando anche una nostra proposta di legge e sollecitando il Governo ed il Parlamento ad agire di conseguenza.
Perché questo quadro normativo? E quale la logica? Quella di tener conto che l'attuazione dell'euro, di una realtà nella quale convivono 12 paesi, e l'allargamento dell'Europa richiedono un quadro normativo nuovo, che dia dinamismo alla nostra economia, che faccia crescere le nostre imprese, che favorisca il flusso delle risorse. Abbiamo la convinzione - ed importanti modifiche sono state già apportate nella precedente legislatura - che dobbiamo combattere questo sistema, impropriamente detto di nanismo della nostra economia: infatti, se le imprese sono nane non possono crescere, in realtà sono imprese piccole e quindi vi è la necessità di un quadro normativo che ne favorisca la crescita.
È questo il senso delle nostre proposte e della battaglia aspra che abbiamo condotto in Commissione finanze, perché le modifiche che sono state introdotte nel corso del dibattito in Commissione hanno alterato e modificato la logica del provvedimento e di una riforma del diritto societario. In questo senso, voglio sottolineare tre aspetti essenziali delle modifiche, che rappresentano un vero e proprio cambiamento.
Prima di tutto, le modifiche della parte civilistica. Il presidente La Malfa (l'aveva già fatto nel corso del dibattito in Commissione e lo fa di nuovo in questa sede) ha sollevato e giustificato queste modifiche - non parlo ancora delle cooperative - con l'esigenza di tenere conto dei rischi della contendibilità e dei rischi a cui si espone il nostro sistema. In questo senso, ha rievocato dibattiti svolti da tempo, che appartengono alla storia del nostro paese. Non condivido questa posizione: so che essa è presente e che ha sempre caratterizzato il nostro capitalismo, prima agricolo e ora industriale e dei servizi, il quale ha sempre oscillato tra protezione e competitività. Quindi, le modifiche che sono state introdotte le vedo tendenti a rassicurare, si rivolgono alla paura che caratterizza una parte del nostro mondo imprenditoriale, quella paura che ha sempre portato ad una visione provinciale e che, in altri momenti, lontani e vicini, ha spinto, ad esempio, la Confindustria, prima, con Angelo Costa, a rifiutare la realizzazione del mercato comune, e di


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recente alla ostilità di larghi settori del mondo imprenditoriale all'Europa e al suo allargamento. Ritengo, invece, che, più che ricercare norme di carattere protettivo, dobbiamo pensare e puntare a una vera competizione, che si realizza attraverso la modifica dell'ordinamento normativo, favorendo la contendibilità, perché questa è la logica di un mercato che deve avere regole e perché questo sollecita il nostro sistema capitalistico ad essere più vivo, più vivace, più vitale. Essa si rivolge a quella parte del mondo imprenditoriale che è stata capace di realizzare, nonostante un ordinamento giuridico sfavorevole, una capacità di competizione riuscendo anche a sviluppare forme di multinazionali tascabili, e che richiede non misure di carattere protettivo ma di potere avere un accesso maggiore alle fonti di finanziamento, attraverso la riduzione dello scalino tra le società quotate e quelle non quotate, perché è nella logica del mercato e della contendibilità.
Le modifiche che sono state introdotte non vanno in questa direzione: si rivolgono a quei settori e a quella parte del mondo imprenditoriale che ha paura della competizione, che richiede protezioni, che va alla ricerca di forme e di soluzioni che lo portano ad avere un distacco tra l'innovazione e la conservazione.
Ho trovato, anche da questo punto di vista, particolarmente significativo il fatto che, ad esempio, anche i timidi accenni fatti in alcuni emendamenti per favorire nell'ambito dell'autonomia societaria una possibilità di partecipazione del mondo del lavoro, siano stati praticamente respinti; l'esatto contrario dell'indicazione proveniente dagli altri paesi, l'esatto contrario di ciò che avviene in Germania che, di recente, ha ampliato il ricorso a forme di partecipazione che comprendano anche il mondo del lavoro.
La seconda contraddizione è quella relativa al mondo della cooperazione. Il collega Pinza si è già soffermato a questo riguardo; anche qui colpisce il fatto del cambiamento di rotta rispetto ad un lavoro che era stato fatto dalla commissione Mirone nella precedente legislatura, cambiamento effettuato attraverso iniziative che finiscono per essere - come dire - schizofreniche e contraddittorie perché si va a colpire un settore che ha una grande rilevanza nell'economia del nostro paese.
L'onorevole Pinza ricordava alcuni dati, io ne voglio ricordare un altro che ha un particolare valore; in quel settore noi abbiamo registrato, ad esempio nell'anno passato, un incremento del 3,9 per cento dell'occupazione. È quindi presente una contraddizione; da una parte, si vuole creare lavoro, dall'altra, un meccanismo che crea lavoro e che utilizza risparmio viene penalizzato. Questa è quella che io definisco una schizofrenia: prima si fa un discorso che tende alla distensione del mondo delle cooperative e poi si prendono provvedimenti generici e contraddittori per ciò che concerne l'emersione dal lavoro nero.
Che delle cooperative si possa parlare, per carità - questo è un discorso da approfondire - ma introduce modifiche senza un dibattito reale, senza un confronto con il mondo della cooperazione penso sia un errore che creerebbe le condizioni per un dibattito aspro, che anche in precedenza veniva lamentato.
Il terzo rilievo che trovo contraddittorio è quello riguardante le misure relative al reato di falso in bilancio e l'eliminazione delle sezioni specializzate della magistratura. Anche qui siamo tutti quanti dell'avviso che doveva esserci una modifica della legislazione in questa particolare direzione. Tutti siamo convinti che questo eccesso di panpenalismo, che ha caratterizzato spesso la nostra legislazione, dovesse trovare delle soluzioni.
Francamente le soluzioni che sono state trovate sono soluzioni che, oltre alle preoccupazioni, ai rilievi che possano essere fatti rispetto a tanti altri aspetti, finiscono per rendere difficili gli obiettivi della riforma societaria.
Nel dibattito che si è svolto in questi giorni si è citato un vecchio brocardo del XVI secolo in cui era detto: «falsum quod non nocet ne puniatur», si parlava cioè di falso innocuo; questo è stato lo spirito che ha caratterizzato la maggioranza per modificare


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le norme di carattere penale. Le modifiche che sono state introdotte finiscono per realizzare uno strano risultato: di fatto, per le società non quotate, il falso è consentito. Tali modifiche, quindi, introducono la nuova categoria del falso consentito, soluzione che ritengo sia nociva. Condivido quanto affermato dalla collega Finocchiaro: si tratta di un problema di affidabilità del nostro sistema. È un problema che rientra in quella logica provinciale che caratterizza spesso il nostro paese, una logica conservatrice per cui non ci si rende conto che, se si vuole favorire un accesso al risparmio, un utilizzo del risparmio diverso, in una realtà che è cambiata, la tutela del risparmiatore e della collettività, per quanto riguarda il falso in bilancio è una realtà che non si può eludere.
Signor Presidente, il risparmiatore è uno strano animale: ha la memoria dell'elefante, la paura del coniglio e quando ha paura scappa come la lepre. Le soluzioni relative al falso in bilancio, che vengono introdotte nel provvedimento, finiscono per rappresentare un limite obiettivo allo sviluppo dell'economia e ad un più favorevole accesso al credito per il sistema delle piccole imprese. Altra cosa sarebbe stata - ma qui ci troviamo solo alle promesse - se, invece di preoccuparsi di chi imbroglia, quindi di concedere questa specie di amnistia generalizzata anche per il futuro, ci si fosse preoccupati di chi rischia.
La modifica del sistema, delle leggi fallimentari - e mi avvio alla conclusione - sarebbe la soluzione migliore perché, in un mondo dove il rischio è crescente, il fallimento deve essere accettato come esito possibile dell'attività imprenditoriale. Non si può, invece, accettare come esito possibile dell'attività imprenditoriale il falso in bilancio e la licenza di poter realizzare questo falso.
Per tali motivi ci opporremo. Il dibattito sarà certamente aspro e vivace ma, del resto, quando si mettono le dita negli occhi del proprio interlocutore, non si può immaginare che l'interlocutore non reagisca.

PRESIDENTE. Constato l'assenza dell'onorevole Sergio Rossi, iscritto a parlare: si intende che vi abbia rinunziato.
È iscritto a parlare l'onorevole Antonio Pepe. Ne ha facoltà.

ANTONIO PEPE. Signor Presidente, rappresentanti del Governo, colleghi, svolgo solo una breve considerazione per dichiarare che la riforma che andremo ad approvare è estremamente importante per il paese. Essa nasce dall'esigenza di garantire alle imprese italiane una parità competitiva con quelle estere, di rafforzare l'autonomia statutaria delle società, di ridurre i costi di regolamentazione delle imprese, allo stato eccessivi e spesso superflui, di favorire la nascita di imprese in un quadro normativo certo. È pertanto un'esigenza reale e sentita.
Per economia di tempo, signor Presidente, chiedo alla Presidenza di autorizzare la pubblicazione in calce al resoconto stenografico della seduta odierna del testo del mio intervento; aggiungo solo che spero che la riforma venga approvata perché contribuirà al rilancio della nostra economia

PRESIDENTE. La Presidenza la autorizza.
È iscritto a parlare l'onorevole Lettieri. Ne ha facoltà.

MARIO LETTIERI. Signor Presidente, onorevole sottosegretario, onorevoli colleghi, vorrei, in primo luogo, sottolineare che il testo licenziato a maggioranza dalle Commissioni finanze e giustizia non è più il testo Mirone. Lo ha già affermato il relatore di minoranza per la VI Commissione, l'onorevole Pinza, ma a me preme ribadirlo poiché ripresentiamo quel testo alternativo.
La maggioranza ha stravolto e modificato nella ratio e nelle norme, in quelle più importanti, il testo Mirone. Grave ed immorale - mi sia consentita questa espressione forte - è la scelta del Governo che, prima fa proprio un testo, successivamente non lo difende ed anzi ne asseconda o forse ne suggerisce le modifiche, ovviamente per stravolgerlo.


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La nostra disponibilità ad approvare il testo Mirone, fatto proprio dal testo del ministro Castelli, era piena. Invece, in Commissione, si è assistito al classico «gioco delle parti», tra Governo, relatori e presentatori di certi emendamenti, ripeto di certi emendamenti. Non vi è stata una dialettica normale, vera, che nella discussione ovviamente è legittima anche fra il Governo e le forze di maggioranza.
La riforma del diritto societario, come quella del diritto fallimentare, è una oggettiva necessità. Le società e le imprese devono potersi dare autonomi statuti, vanno liberate da vincoli ed obblighi oggettivamente anacronistici che ne frenano la crescita. L'economia complessiva del nostro paese ne ha sicuramente risentito in questi anni.
Noi della Margherita e dell'Ulivo non ignoriamo affatto le nuove esigenze del mercato e delle società. Sappiamo che occorre avere efficienti e moderni assetti societari, aziende solide. Sappiamo però che è altrettanto necessaria la tutela dei diritti dei soci e dei risparmiatori.
Se gli intenti del Governo e della maggioranza fossero stati questi, il nostro consenso sarebbe stato scontato e convinto. Così non è stato!
Si e voluto infatti perseguire un altro obiettivo, un obiettivo preciso e politicamente assai grave. Si è prima cercato di colpire il vasto e diffuso mondo della cooperazione. Lo si è fatto ignorando volutamente la funzione sociale, solidale e democratica che la Costituzione riconosce alle cooperative. Nel corso dei decenni di vita repubblicana, la cooperazione ha rivestito questa funzione, contribuendo non poco alla crescita economica e democratica del nostro paese.
Per fortuna, il testo portato all'esame dell'Assemblea oggi supera le posizioni estreme espresse nei primi emendamenti presentati dal presidente La Malfa. Esso prevede oggi soluzioni più caute ed accettabili; tuttavia, noi continuiamo a sostenere le nostre proposte. Vogliamo infatti una cooperazione non marginale, non «stracciona», onorevole Vietti. Una cooperazione forte, in grado di competere sul mercato con gli altri attori pubblici e privati operanti nel nostro paese ed in Europa, naturalmente senza venire meno ai principi fondamentali di mutualità.
Ma, senza infingimenti, anche se c'è il rischio - ed io voglio correrlo - di essere considerato aspro e magari inelegante, devo dire che il vero obiettivo del Governo e della maggioranza è stato un altro: la modifica del reato di falso in bilancio. Secondo me, questo è il vero obiettivo che si è voluto perseguire in questa occasione.
La maggioranza ha voluto approvare norme che, come sostenuto dal noto professore Carlo Federico Grosso in una intervista dei giorni scorsi, di fatto renderanno non punibile il reato di falso e i reati societari. Tra querela di parte, attenuanti e prescrizione, questo è ciò che accadrà.
Naturalmente, tali norme si applicheranno anche ai processi pendenti che, come è noto, riguardano tante persone autorevoli, tanti autorevoli amministratori delegati, tanti titolari di società, in primis, purtroppo, anche il Presidente del Consiglio.
Abbiamo proposto di rinviare al naturale iter legislativo la definizione di nuove norme da approvare magari con procedura d'urgenza. Non siamo stati ascoltati! Ma la delega al Governo in questa materia è davvero inaccettabile! È poco serio!
Questa scelta della maggioranza, avallata e probabilmente sollecitata dallo stesso Governo, cozza contro il senso comune dell'opportunità. Non vi è il rispetto per il sentire diffuso dei cittadini che rappresentiamo, rispetto che avrebbe dovuto consigliare a tutti lo stralcio delle norme in questione.
Ma davvero si pensa che i cittadini non sappiano che il falso in bilancio - con le false fatturazioni, le sovrafatturazioni e le false comunicazioni - è stato ed è la madre di Tangentopoli per i grandi gruppi e le grandi società? I processi più eclatanti di questo decennio lo hanno dimostrato o ipotizzato.
Se verrà approvata la normativa al nostro esame, che fine faranno i grandi processi - All Iberian, Sme, Milan Spa -


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per i quali vi sono contestazioni di danno alle società e ai soci o ai creditori? Certo, quest'aula è la sede più alta della politica e della volontà popolare, non è un'aula di giustizia ed io non sono né giudice né avvocato né, tantomeno, un giustizialista, ma ho l'obbligo di rappresentare, nel mio piccolo, il sentire della gente comune del nostro paese. Ma al di là del danno ai soci e ai creditori, il reato di falso in bilancio - a mio avviso - è ancor più grave, perché è un reato contro la fede pubblica e ritengo che la politica debba tenerne conto.
Non sono un giurista - lo ripeto -, ma i colleghi che lo sono conoscono bene la gravità di tale reato. Comunque, onorevoli colleghi, se queste norme saranno approvate nel testo proposto dalle Commissioni, produrranno danni enormi e devastanti, prima di tutto nella vita delle stesse società, di quelle che finora hanno avuto comportamenti limpidi e corretti. Il danno lo subiranno l'intera collettività nazionale e l'economia del nostro paese, che per crescere - come è stato detto dai colleghi che sono intervenuti in modo più autorevole del sottoscritto - ha bisogno di società sane, credibili, con bilanci in regola, in grado di attrarre investimenti e capitali anche esteri. Ma il danno più grave, signor Presidente, sarà sicuramente nella coscienza di ogni singolo cittadino italiano, delle persone perbene che di fronte all'impunità dei potenti e dei furbi si convinceranno sempre più del fatto che, nel nostro paese, la giustizia non è uguale per tutti: lo è solo per i classici «ladri di polli», ma mai per lorsignori.
Ci opponiamo con tutte le nostre forze a tale idea. Speriamo vi sia un ripensamento in quest'aula e che l'Assemblea accolga gli emendamenti che noi presenteremo. Nel frattempo, preannunciamo il nostro voto contrario su questo testo - se sarà messo in votazione così come è - e raccomandiamo l'approvazione dei nostri emendamenti, per dare al provvedimento il giusto equilibrio, il rigore e la serietà che la società italiana si attende (Applausi dei deputati dei gruppi della Margherita, DL-l'Ulivo e dei Democratici di sinistra-l'Ulivo).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Kessler. Ne ha facoltà.

GIOVANNI KESSLER. Signor Presidente, onorevoli colleghi, il 3 luglio scorso il Governo presentava alla Camera un disegno di legge, a firma del ministro Castelli, sulla riforma societaria che ricalcava quasi completamente la cosiddetta «riforma Mirone», già ampiamente discussa nella scorsa legislatura. Su questo testo iniziava la discussione nelle Commissioni riunite. Ebbene, 16 giorni più tardi (il 19 luglio) il sottosegretario per la giustizia, a nome del Governo, annunciava l'assenso ad una serie di emendamenti, presentati da esponenti di Forza Italia, che riscrivevano completamente il testo di alcuni articoli chiave - come quello sulle società cooperative e sul falso in bilancio - stravolgendone l'originaria impostazione e ribaltandone fini ed obiettivi. Non una parola di spiegazione su questo improvviso ripensamento ci è stata concessa in Commissione da un sempre sorridente sottosegretario Vietti...

MICHELE GIUSEPPE VIETTI, Sottosegretario di Stato per la giustizia. Dovrei fare la faccia feroce?

GIOVANNI KESSLER. Era un complimento, signor sottosegretario, non una critica. Siamo costretti, dunque, a porre qualche domanda in questa sede al ministro Castelli, sperando di avere qualche risposta.
Cosa è successo al signor ministro, tanto da fargli cambiare idea così repentinamente? Forse, non di questo si è trattato, ma di uno scavalcamento da parte del suo sottosegretario? O dobbiamo, forse, pensare che il Governo non abbia avuto il coraggio di presentare quel testo fin dall'inizio ed abbia usato la tattica del cavallo di Troia con il disegno preordinato di puntare ad obiettivi diversi da quelli inizialmente dichiarati?


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Non facciamo queste domande per spirito polemico. Crediamo che il Parlamento e l'opposizione meritino una risposta, al fine di impostare un rapporto limpido con il Governo basato sulla distinzione dei ruoli e delle funzioni. Crediamo che quanto avvenuto ponga un problema di credibilità del ministro della giustizia. L'onorevole Castelli ha, pochi giorni orsono, esposto in Commissione il suo impegnativo programma di riforme per la giustizia che ci occuperà per l'intera legislatura. Sono tutti temi delicatissimi ed importanti.
Ebbene, vorremmo sapere, quando saranno presentati alla Camera i disegni di legge di riforma firmati dal ministro Castelli, se li dovremo prendere per buoni o se non sarà il caso, anche per risparmiare tempo ed inutili discussioni, di passare prima dal capogruppo di Forza Italia in Commissione giustizia, onorevole Vitali, o dal sottosegretario Vietti, per avere subito il testo autentico. Non a caso, precedentemente, ho parlato di stravolgimento del testo. Voglio qui soffermarmi sul caso del falso in bilancio. A fronte di una proposta originaria di moderna razionalizzazione della fattispecie - quella del progetto Mirone-Castelli, dovremmo dire - tramite un emendamento del capogruppo di Forza Italia, onorevole Vitali (benedetto dal sottosegretario Vietti e dal relatore, onorevole Pecorella), si è realizzata quella che definiamo una vera e propria privatizzazione del falso in bilancio.
Secondo il testo approvato dalla maggioranza, per la sussistenza del delitto è necessario il danno patrimoniale ai soci o ai creditori della società. Si riduce così il bene protetto dalla norma penale al portafogli dei soci e dei creditori, tanto che, nella maggioranza dei casi, si lascia solo ad essi, addirittura, la decisione se procedere o meno per il reato introducendo la perseguibilità a querela. Il che equivale a dare il potere di iniziare un procedimento penale o allo stesso autore del reato - che ovviamente non lo farà mai - o a chi, come il piccolo azionista o il creditore estraneo alla società, non dispone nemmeno degli strumenti per rendersi conto della commissione del reato a suo danno.
La tutela della fede pubblica, della trasparenza dei mercati e della concorrenza - che si realizza anche attraverso l'attendibilità dei bilanci societari - è lasciata alla «foglia di fico» di una contravvenzione, che punisce il falso quando non si può dimostrare il danno a soci o creditori. Parlo di «foglia di fico», perché la pena dell'arresto da 15 giorni ad 1 anno e sei mesi copre la vergogna di una depenalizzazione di fatto. Tutti sappiamo che non ha alcun effetto dissuasivo una contravvenzione che si prescrive in tre anni specie per un reato, come questo, di non facile ed immediata scoperta e che, per la sua natura, necessita di complesse indagini per ottenerne la prova. In quei pochi casi in cui la contravvenzione di falso dovesse riuscire a varcare le soglie di un tribunale, sarà facile ottenere una pena entro i tre mesi di arresto, che potrà essere così comodamente convertita in una inoffensiva pena pecuniaria di pochi milioni di lire.
Il gruppo di Forza Italia e la maggioranza lanciano con questa riforma un messaggio chiaro, quello dell'impunità: niente più pubblici ministeri ficcanaso che curiosino tra le contabilità. Non ne avranno titolo, se non li richiamerà qualcuno che non li chiamerà mai. Si potranno falsificare i bilanci per costituire disponibilità extracontabili, per corrompere, vincere gare o appalti, crearsi una posizione dominante in un mercato per vincere la concorrenza. Certamente soci e creditori non avranno di che lamentarsi. E se, malauguratamente, magari per una lite tra soci, qualche procedimento dovesse iniziare, è pronta la mannaia della prescrizione, i cui termini vengono «opportunamente» dimezzati anche con riferimento alle ipotesi di delitto più gravi.
Si tratta di un messaggio che non tarderà ad essere recepito dalla cattiva imprenditoria di casa nostra e dai corsari della finanza internazionale, i quali vedranno nell'Italia un luogo sicuro nel quale operare più tranquillamente.


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In tutti i grandi paesi e mercati europei, ed anche negli Stati Uniti, il reato di falso in bilancio è posto a tutela della veridicità delle scritture contabili, non richiede la prova del danno ed è punito ben più severamente. Sono questi la modernità, il liberalismo, la logica di mercato che questa maggioranza ha promesso di introdurre nel nostro paese? Sono queste le privatizzazioni di cui avevate parlato? Noi non potremo seguirvi mai su questa strada di sterilizzazione e di privatizzazione del falso in bilancio, poiché abbiamo un'altra idea del paese ed anche dell'economia.
Ma vi è un'altra ragione, onorevoli colleghi, di natura essenzialmente politica, per la quale esprimiamo la nostra preoccupazione e che rafforza la nostra opposizione alla norma che si tenta di introdurre: le modifiche della fattispecie criminosa che la maggioranza ha introdotto andranno ad incidere direttamente sui processi in corso. E non possiamo fingere di ignorare che almeno tre di essi vedono imputato l'onorevole Silvio Berlusconi, leader della forza politica che ha proposto questa sterilizzazione del reato e capo del Governo delegato alla scrittura finale della nuova norma incriminatrice. È in corso un procedimento davanti al tribunale di Milano nel quale Silvio Berlusconi è imputato del reato di falso in bilancio nella qualità di presidente della Fininvest Spa; in un altro, in trattazione davanti al medesimo tribunale, l'onorevole Berlusconi è imputato del predetto reato quale presidente del consiglio di amministrazione del Milan Spa; infine, il Presidente del Consiglio è stato rinviato a giudizio - insieme con il fratello ed altri collaboratori - per l'occultamento di operazioni finanziarie per la creazione di decine di società off shore collegate alla Fininvest Spa, di cui era presidente.
Ebbene, l'effetto del nuovo testo proposto dal capogruppo di Forza Italia, con l'assenso del Governo e del relatore, onorevole Pecorella, il quale è anche difensore dell'onorevole Berlusconi, sarà l'immediato ed automatico proscioglimento del Presidente del Consiglio in tutti i procedimenti citati, all'esito dei quali il reato verrà dichiarato estinto per intervenuta prescrizione.
Come cittadino, mi auguro sinceramente che il Presidente del Consiglio del Governo del mio paese venga riconosciuto estraneo alle accuse che gli sono state mosse: non vorrei certo avere un Presidente riconosciuto falsario da una sentenza; nemmeno vorrei avere, però, un Presidente su cui pendono accuse gravi come quella di corruzione o di falso in bilancio...

PRESIDENTE. Onorevole Kessler, la invito a concludere.

GIOVANNI KESSLER. ...che svaniscono nelle nebbie della prescrizione. Quello che troviamo inaccettabile, come cittadini, prima ancora che come parlamentari, è che si possa ricorrere alla via legislativa per risolvere i problemi giudiziari di chicchessia. Ma ciò che la maggioranza oggi propone è esattamente questo: la via legislativa all'impunità del Presidente del Consiglio su proposta del partito di Forza Italia di cui egli è leader e addirittura mediante la delega a scrivere la norma incriminatrice al Governo da lui medesimo presieduto. C'è un evidente conflitto di interessi, politico e morale, tra il Presidente imputato ed il Presidente delegato a riscrivere la norma incriminatrice, tra l'imprenditore accusato di falso e il leader del partito che propone oggi la norma autoassolutoria...

PRESIDENTE. Onorevole Kessler, le rinnovo l'invito a concludere.

GIOVANNI KESSLER. C'è un modo per uscire da questa situazione.

PRESIDENTE. Vediamolo...

GIOVANNI KESSLER. La prescrizione è rinunciabile: rinunci, allora, il Presidente Berlusconi all'eutanasia per prescrizione dei suoi processi; prenda l'impegno, di fronte al Parlamento ed al paese, di non avvalersi di questa opportunità che gli


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viene offerta dalla sua maggioranza, di non servirsi dei vantaggi di una norma che egli stesso dovrebbe scrivere e dichiari di voler comunque portare a termine i processi che lo riguardano.

PRESIDENTE. Onorevole Kessler, adesso deve proprio concludere. Sono molto tollerante, in genere, ma c'è un limite a tutto.

GIOVANNI KESSLER. Non per questo muteremo il nostro voto, che sarà contrario a questa norma, negativa per i motivi che abbiamo esposto; ma, almeno, agli italiani non arriverà l'inquietante messaggio che vincere le elezioni significa anche vincere i processi.

PRESIDENTE. Faccio presente che non interrompo soltanto per ossequio al regolamento, ma anche per rispetto nei confronti degli altri colleghi. Se un collega supera il tempo a sua disposizione, agli altri ne resta meno.
È iscritto a parlare l'onorevole Nicola Rossi. Ne ha facoltà.

NICOLA ROSSI. Signor Presidente, le questioni di cui ci occupiamo oggi sono di straordinaria importanza perché, in buona sostanza, ci occupiamo degli strumenti attraverso i quali i finanziatori si assicurano di ottenere ritorni sui fondi investiti nelle imprese. Questi strumenti, come noto, non si esauriscono nella forza contrattuale esercitata o esercitabile da parte dei soci di controllo delle banche di altri istituti finanziari in grado di esercitare un controllo diretto e indiretto sull'operato del management. A quella forza si associa di solito un sistema legale di protezione degli investitori che garantisce unità di indirizzo della gestione e, al contempo, impedisce a chi detiene il controllo di abusare della sua posizione di forza. I due strumenti non solo coesistono, ma sono o dovrebbero essere opportunamente bilanciati. Un eccessivo affidamento sui rapporti di forza è infatti causa di conflitti di interessi, e una presenza troppo diffusa di meccanismi di tutele e, quindi, di poteri di interdizione porta spesso allo stallo. Ciò di cui ci occupiamo oggi, è quindi il cuore di una moderna economia di mercato. Quest'ultima non esiste in natura, non è semplicemente la somma di un ampio numero di comportamenti individuali, è, al contrario, un meccanismo di grande complessità e sofisticazione, il cui funzionamento riposa su regole certe e trasparenti e su un elevato grado di fiducia reciproca. Tra le prime, tra le regole, un posto cruciale va assegnato ai meccanismi decisionali delle imprese e quindi ai loro effetti sulla canalizzazione del risparmio verso le attività produttive. Questa impostazione credo fosse assolutamente ben presente nel testo Mirone, che si era posto proprio l'obiettivo prioritario dell'incremento della competitività del sistema economico nazionale. Lo era altrettanto ben presente al Governo Amato, che aveva approvato e presentato al Parlamento il risultato di quei lavori. Ora, il sottosegretario Vietti ci dice che quel testo è stato ripresentato, con lo stesso obiettivo, all'interno del pacchetto dei 100 giorni ed è stato richiamato con molta enfasi nel documento di programmazione economica e finanziaria. Non so se il sottosegretario ricordi che cosa il ministro del tesoro Tremonti diceva del testo Mirone, non più tardi di un anno fa; forse è opportuno ricordarlo. Leggo da un'intervista il Giornale del 27 maggio 2000: «È ingenuo pensare, come fanno gli autori della legge delega, che un rilancio dell'economia delle imprese passi attraverso questi strumenti. Non ho mai visto un imprenditore lamentarsi perché i tempi di omologa del tribunale sono lunghi. Costituire un'impresa non è difficile. È difficile gestirla; invece, si moltiplica la tipologia societaria, si attua un vasto shopping legislativo, andando a pescare nei diritti societari tedesco, francese e di altri paesi. Il rischio di confusione è elevato.» Questo diceva non più tardi di un anno fa il ministro Tremonti, uomo di ferme convinzioni, da quanto possiamo capire, evidentemente.
Ora, non credo sia un genuino interesse per l'economia nazionale che spinge il Governo a presentare un provvedimento


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così criticato dal ministro dell'economia. Evidentemente, c'è qualcos'altro che spinge il Governo ad occuparsi della corporate governance. La risposta non è difficile - io credo - ed è stata data eloquentemente in Commissione dall'attività della maggioranza, che non è sembrata - devo dire la verità - impegnarsi allo stremo sui rapporti tra imprese e stakeholders, sui sistemi di checks and balances, espropri del diritto societario, sulla questione della self regulation, per citare solo alcuni aspetti del dibattito internazionale. No, qui i punti sono sembrati chiaramente altri. Primo: il sistema cooperativo o, meglio, per essere più precisi, l'ammissibilità, in linea di principio, di comportamenti economici non legati in via esclusiva a motivazioni di carattere strettamente individualistico.
Secondo: Il ruolo della trasparenza nella tutela del risparmio popolare e quindi il tema della rilevanza della democrazia azionaria, quindi della natura stessa del capitalismo più moderno. Ora sul primo tema altri colleghi hanno compiutamente illustrato le questioni ed i motivi di un profondo dissenso, che non riguardano, vorrei proprio sottolinearlo, gli aspetti più direttamente legati alla tutela della concorrenza, che erano del resto ben presenti anche nel testo Mirone, ma che riguardano, soprattutto, la difficoltà, evidente in questa maggioranza, a comprendere le motivazioni dell'agire economico efficiente che non siano di carattere strettamente individualistico. Quella della maggioranza sembra, come dire, una battaglia di retroguardia, come poche altre se ne sono viste (ma a pensarci bene, forse, nell'ultimo mese, ne abbiamo viste anche altre), il sintomo di una classe dirigente provinciale, incapace di vedere ed ascoltare altro se non le sue piccole idiosincrasie.
Sul secondo tema, invece, mentre l'Italia si avvia verso l'azionariato di massa, la maggioranza manifesta la sua profonda allergia alle regole ed ai tribunali e sceglie di rappresentare le oligarchie dei consigli di amministrazione piuttosto che i valori di trasparenza che rendono efficiente il mercato. Ancora una volta ciò che sorprende più di ogni altra cosa è l'incapacità di questa maggioranza di comprendere le ragioni della modernità e dell'efficienza. Ci si schiera a favore di un provvedimento miope, come è quello che emenda l'articolo 10 del disegno di legge Mirone, eloquentemente completato dalla soppressione delle norme sulle giurisdizioni che, fin troppo visibilmente, comporta il rischio di favorire comportamenti illeciti e, soprattutto, non tiene conto del fatto che il vero valore da tutelare, in questo caso, non è tanto l'azionista o il creditore, quanto il potenziale investitore e le imprese concorrenti. Ciò in un momento in cui l'Italia vive, anche per merito delle scelte degli ultimi anni, la rivoluzione silenziosa del capitalismo diffuso, quando ormai milioni di italiani affidano i propri risparmi alle società quotate e non quotate, quando le tendenze demografiche fanno, o faranno presto, dei fondi pensione gli attori principali del nostro mercato finanziario. Insomma, una classe dirigente, quella che emerge da questa riformulazione del disegno di legge Mirone, animata da motivazioni esclusivamente ideologiche, il che, devo dire, già di per sé non è un bel vedere, ma, quando all'ideologia si somma una bella dose di provincialismo, allora diventa matematico che si finisca per rendere un pessimo servizio al paese.
Poco più di un anno fa, in un articolo intitolato «Vince il volto peggiore del capitalismo», ecco quanto osservava Federico Rampini, parlando del disegno di legge Mirone: «ma» - diceva Rampini - «una riforma così, Amato non poteva lasciarla fare al Governo Berlusconi? Il disegno di legge sul nuovo diritto societario» - cito sempre Rampini - «approvato ieri dal Consiglio dei ministri, contiene un regalo ai poteri forti, di fatto restringe il reato di falso in bilancio. Una vittoria per il volto peggiore del capitalismo italiano allergico alle regole e ai tribunali».
Questo non più tardi di un anno fa. Ebbene, ho la netta sensazione che, passato un anno, Rampini oggi possa toccare con mano la differenza che passa fa centrodestra e centrosinistra in questo paese.


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Un ultimo punto. Con il provvedimento che stiamo esaminando la Camera interviene indirettamente su procedimenti che vedono coinvolto il Capo del Governo. Ora sia chiaro, non sarebbe certo questo un motivo per impedire al Parlamento di legiferare su quelle materie, né è legittimo ipotizzare che il comportamento di singoli colleghi possa essere stato dettato da altro se non dalla convinzione di operare nell'interesse del paese. Ciò che è sorprendentemente grave (e sorprendentemente è dir poco) è altro: è che il Capo del Governo, di questa maggioranza, non abbia avvertito la necessità di intervenire sui parlamentari della sua maggioranza e abbia permesso che essi avanzassero proposte emendative capaci di incidere in senso a lui favorevole - lo abbiamo appena sentito - sulla sua posizione processuale. Questo grave peccato di omissione avrà una ed una sola conseguenza: sul Capo del Governo pesa oggi un sospetto destinato a trovare un esito, positivo o negativo che sia, nei tempi della giustizia; nel momento in cui questo provvedimento sarà approvato quel sospetto, che oggi è temporaneo, diventerà un sospetto perenne che accompagnerà l'intera vita politica del Capo del Governo e che, inevitabilmente, si riverbererà sull'intera classe politica di questo paese e sul paese stesso.
Non so se i colleghi di maggioranza ricordino (se devo giudicare dalla campagna elettorale credo che il centrodestra sia più attratto dai Bignami che non dai testi originali): il Global competitiveness report, che ha fornito la base per molte delle argomentazioni sostenute in campagna elettorale dal centrodestra a proposito della scarsa competitività dell'economia italiana. Il grado di competitività delle diverse economie è misurato a partire da diversi indicatori, di cui uno è chiamato public trust in the financial honesty of politicians, cioè la fiducia pubblica nell'onestà in campo finanziario dei politici.
Credo che, se una cosa può essere detta, è che in questi anni sotto questo profilo l'Italia ha compiuto importanti passi in avanti. Con questo provvedimento, e per le modalità con cui il provvedimento Mirone è stato emendato in Commissione, il paese viene senza dubbio ricacciato all'indietro, e a tal proposito vorrei proprio invitare la maggioranza a valutare questo indicatore da ora a quando questo Governo cesserà di essere in carica.
Credo che, francamente, non vi sia esempio migliore di questo per chiarire il disinteresse profondo che questa maggioranza e questo Governo, o meglio questo capo del Governo ha per il problema della competitività del paese.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Carboni. Ne ha facoltà.

FRANCESCO CARBONI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, il tema del diritto societario ritorna in discussione in questa legislatura principalmente per iniziativa della proposta di legge dei Democratici di sinistra, sostenuta da tutta la coalizione dell'Ulivo e del centrosinistra, e non, come sostenuto dal sottosegretario Vietti, per l'impegno dei 100 giorni. Il Governo, infatti, si è affrettato, dopo la presentazione della nostra proposta di legge, a presentare il disegno di legge a firma del ministro Castelli, che in qualche modo ha mutuato le norme del precedente disegno di legge e di quello della scorsa legislatura (sul quale si è intrattenuto il collega Rossi anche in relazione ai giudizi che, appunto nella XIII legislatura, furono su di esso formulati da Forza Italia).
La proposta di legge ha ripreso i temi già presenti in quest'ultimo disegno di legge, temi che l'onorevole Finocchiaro ha puntualmente illustrato, quale l'esigenza di dare una nuova struttura al diritto societario - esigenza diffusamente avvertita in quanto la vigente legislazione risulta ormai superata ed inadeguata - per rafforzare in maniera significativa la trasparenza nell'attività di gestione delle società, per rendere una tutela migliore ai soci, ai terzi, ai dipendenti, nonché ai creditori ed ai fornitori, per adeguare il sistema alle nuove esigenze di mercato. Le soluzioni proposte nel provvedimento non hanno la pretesa - non potrebbero ovviamente averla - di fornire risposte a tutti i quesiti; avevano,


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ed hanno, però, lo scopo di fornire modelli di migliore gestione con diverse soluzioni organizzative delle società e strumenti adeguati, aggiornati, di controllo e di contrasto delle situazioni illecite.
Voglio dire che è significativo il fatto che vi siano quattromila processi che riguardano il reato di falso in bilancio. Ciò significa che, in qualche modo, le norme precedenti hanno consentito al sistema di reggersi e che lo hanno in qualche modo tutelato. La normativa proposta vuole, almeno quella della nostra proposta di legge e non certo quella contenuta nel disegno di legge del Governo, ulteriormente tutelarlo e garantirlo.
La proposta di legge che presentiamo si è affidata allo strumento della delega: è significativo che da parte dell'opposizione si voglia delegare il Governo ad emanare e rendere definitivi i decreti legislativi sulla riforma del diritto societario.
Non vi è, quindi, e sicuramente non vi è stata nelle premesse, da parte del centrosinistra, alcuna intenzione di vanificare o di contrastare pregiudizialmente il lavoro del Governo e della maggioranza. Si è partiti, anzi, da premesse di assoluta collaborazione e di assoluta fiducia. Quel disegno di legge contiene la riforma delle società per azioni, delle Srl e del mondo della cooperazione, introduce nuovi modelli come le società semplificate, disciplina tutte le fasi della vita sociale, disciplina nuovamente, in maniera sistematica, gli illeciti ed introduce le norme sulla giurisdizione che oggi sono state cassate e che, invece, erano significative, perché nel settore del diritto societario vi è l'esigenza di avere una magistratura attenta, specializzata e apprezzata anche per la continuità dell'attività nel settore medesimo.
Vi era, quindi, la volontà di imprimere criteri di trasparenza nella gestione delle società con un impianto nuovo, diverso e moderno che si prefiggeva di valorizzare le autonomie statutarie e di garantire la trasparenza in un settore che tutti abbiamo riconosciuto come delicato e sensibile, perché coinvolge il mercato, il lavoro, gli investimenti, ma soprattutto la fede pubblica.
Il disegno di legge proposto successivamente e frettolosamente dal Governo mutua parte delle norme e dei principi contenuti nel progetto di legge Mirone. Non esprime, invece (lo diciamo e su ciò possiamo fare una valutazione, poiché eravamo disponibili ad un lavoro migliorativo), la completezza del progetto contenuto nella proposta di legge di iniziativa dei deputati Fassino ed altri. Il disegno di legge in esame è tanto incompleto che sono stati proposti diversi emendamenti da parte della maggioranza: mi riferisco soprattutto a quelli presentati dall'onorevole Leo che in qualche modo, poi, sono stati superati e vanificati.
L'iter parlamentare segna una novità che giudichiamo negativa. Nella scorsa legislatura le questioni di rilevante importanza, compresa quella riguardante il diritto societario, sono sempre state affidate al lavoro di relazione di due colleghi di maggioranza e di opposizione: gli onorevoli Agostini e Mantovano si sono occupati della riforma del diritto societario, gli onorevoli Lucidi e Tarditi del diritto di famiglia, gli onorevoli Giuliano e Detomas della riforma del giudice unico. Vi era, quindi, da parte della maggioranza di allora la volontà di collaborare e di approvare riforme che coinvolgessero - per la loro importanza - tutto il Parlamento.
Vi è stata, ora, una innovazione e non mi riferisco al superamento inopportuno di una prassi parlamentare improntata alla collaborazione. Tale innovazione era mirata: la relazione, infatti, è stata affidata ai colleghi Pecorella e La Malfa, rispettivamente, per la II e la VI Commissione, entrambi espressione della maggioranza. Già da tale fatto avvertivamo che vi fosse un lavoro finalizzato a raggiungere alcuni scopi precisi, che non erano quelli di riformare il diritto societario, ma di utilizzare il momento per introdurre alcune questioni con valenze ben definite che, comunque, non rispondevano e non rispondono evidentemente all'interesse collettivo. Rinveniamo tale intento negli emendamenti proposti dai colleghi Vitali e Ghedini, nella riscrittura dell'articolo 5


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che disciplina le cooperative e nella soppressione dell'articolo 11 sulla giurisdizione.
Il quadro di oggi sicuramente permette di conseguire due obiettivi: impedisce controlli efficaci e consente - come ha sostenuto il collega Kessler - la costituzione di fondi non controllabili, con le conseguenze a tutti note: la corruzione, l'alterazione di gare di appalto, una patologia continua nella vita della società. Con l'articolo 5 si aggredisce, a nostro avviso, l'impresa sociale che rappresenta una storia positiva del lavoro e dello sviluppo economico sociale e culturale della nostra società che ha radici nel mondo cattolico, nel mondo socialista e, con il presidente La Malfa, nel mondo laico.

GIORGIO LA MALFA, Relatore per la maggioranza per la VI Commissione. Non lo sapevo. È utile saperlo!

FRANCESCO CARBONI. Lei lo sa, ma non ne ha tenuto conto. In qualche modo ha tagliato quelle radici!

GIORGIO LA MALFA, Relatore per la maggioranza per la VI Commissione. Sono ammirato dalla sua conoscenza!

FRANCESCO CARBONI. Sono così arrivate le riscritture degli articoli 5 e 10 e, con l'articolo 10, il colpo di spugna. Traspare, in molte parti della maggioranza, la fatica e, in alcuni casi, il disagio per non riuscire a separare la funzione istituzionale da quella politica e da quella privata. Ciò suscita perplessità su un operato che contiene anche risvolti di natura morale, come sottolinea molta parte della stampa con sempre maggiore continuità. In quest'aula abbiamo segnalato, anche con atti di sindacato ispettivo, queste situazioni: neanche in quelle occasioni è stata trovata una risposta.
Avvertiamo, dunque, due problemi: l'avere introdotto modifiche che avvantaggiano solamente e certamente alcune posizioni processuali facilmente individuabili (ed anche individuate), ma abbattono - e questo è l'altro aspetto grave - ogni garanzia di tutela della fede pubblica che il vigente impianto sanzionatorio, in qualche misura, ha garantito e che il nostro testo alternativo migliorerebbe sensibilmente.
Riteniamo di non accogliere l'affermazione fatta sulla stampa dal presidente e relatore per la II Commissione secondo cui i processi riguardanti il Presidente del Consiglio sono prossimi alla prescrizione. Vi è, evidentemente, una consuetudine a quel tipo di soluzione da parte del Presidente del Consiglio in carica, posto che ne ha beneficiato già altre volte. Adesso si avvia a migliorare il record, a fare il filotto (come si dice nel linguaggio tipico del biliardo) dato che mette in fila altri tre processi che, sicuramente, verranno dichiarati prescritti se l'emendamento Vitali sarà approvato. Non vi è alcun appunto all'imputato Berlusconi se le conclusioni sono queste, perché è evidente che ciò dipende dalla gestione del processo. Sicuramente, però, è grave il comportamento del Presidente del Consiglio che di queste situazioni si avvale e che viene delegato a predisporle in concreto per avvalersene in maniera ottimale per il futuro. Questo è il significato che noi diamo all'emendamento presentato dal collega Vitali, poiché riduce ulteriormente il tempo della prescrizione, anzi la assicura certamente a quei processi.
Ci troviamo di fronte ad una considerazione: nell'attesa, sino ad oggi vana, di avere una soluzione al conflitto di interessi, si pongono al sicuro, per altra via, quegli interessi medesimi. In tutto questo percorso il Governo ha presentato un impianto che è completamente diverso da quello definito in Commissione. Abbiamo sentito oggi che viene in qualche modo accolto, con qualche riserva, e troviamo in ciò un minimo di soddisfazione per quanto riguarda le norme sulla giurisdizione. Di fatto, però, le modifiche introdotte hanno cancellato il reato. Questa è una posizione diffusa, che ha trovato eco nella stampa ed anche riscontro in posizioni assunte dall'associazione nazionale magistrati. Vi è una difficoltà nel condurre le indagini introducendo il concetto di reato di danno in luogo di quello di reato di pericolo, un


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incomprensibile affidamento dell'azione penale alla querela di parte per le società non quotate (e sappiamo che vi sono società non quotate che hanno un rilievo fortissimo nell'economia nazionale).
Siamo, a nostro avviso, di fronte ad un'ipotesi di tutela assolutamente mirata, che trova conferma nell'emendamento presentato dall'onorevole Ghedini che delega il Governo a predisporre norme transitorie sui processi penali pendenti. È incredibile l'operazione che si sta portando avanti in quest'aula: siamo al limite della soluzione e della definizione privata del procedimento penale. Si tratta quasi di un'estensione del programma del ministro Castelli che ipotizza la gestione privata del processo civile.
Per queste ragioni noi abbiamo ritenuto e riteniamo di non poter aderire in nessun modo al disegno di legge del Governo e al testo che è stato elaborato a maggioranza dalla Commissione e per tali motivi abbiamo predisposto il testo alternativo sul quale ci attesteremo nell'esame parlamentare.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Fanfani. Ne ha facoltà.

GIUSEPPE FANFANI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, signori rappresentanti del Governo, credo di parlare per ultimo in un'aula quasi vuota di colleghi che ascoltano, ma non di intelligenze...

PRESIDENTE. Al suo intervento seguirà quello dell'onorevole Pistone.

GIUSEPPE FANFANI. Mi scuso con la collega Pistone, signor Presidente, ma non l'avevo vista nell'elenco.

GABRIELLA PISTONE. Per carità!

PRESIDENTE. Ritengo sia un bel modo di terminare la discussione sulle linee generali. Prosegua pure, onorevole Fanfani.

GIUSEPPE FANFANI. ... dicevo, non di intelligenze in grado di capire e, soprattutto, di decidere. Agli stessi chiederò, al termine del mio intervento, di riflettere sull'opportunità politica ed istituzionale di ritirare l'articolo 10, ora articolo 11, del provvedimento, iniziando un ragionamento serio e profondo sui metodi con i quali affrontare, in termini sanzionatori, il problema del falso in bilancio: mi occuperò solo di questo aspetto.
Leggerò gli atti con attenzione - come ho fatto con la relazione del collega Pecorella - e risponderò con la correttezza che credo mi sia propria e con la fermezza di convincimenti che, certamente, mi è propria, cercando di apportare al dibattito della settimana prossima quello che il presidente Pecorella ha definito un contributo di intelligenza e di cultura.
Oggi svolgerò un'unica osservazione sul problema che ritengo sia più grave ovvero, quello di carattere istituzionale. Esso sottende - nei termini con i quali è stato prospettato da più parti in questa sede e analizzato dal collega Kessler - un rapporto tra etica e politica, quello stesso che l'onorevole Finocchiaro chiamava onorabilità del sistema e che induce o non induce, che enfatizza o nega quella affidabilità esterna che presiede alla nuova normazione e che, in questi giorni, a seguito dei fatti del G8, è grandemente discussa da molte parti e da molti stati esteri.
Si tratta di un problema istituzionale che, innanzitutto, attiene alla scelta della legislazione ordinaria delegata: se la materia in discussione fosse stata affrontata con un procedimento legislativo ordinario, non avremmo sollevato questioni.
Oggi, con il procedimento delegato, per i motivi che sono stati più volte avanzati in quest'aula, si apre un evidente conflitto di interessi non personali - ai quali non ho interesse -, ma profondamente istituzionali, per il semplice motivo che il Governo non può essere delegato a legiferare in una materia che oggi, nella situazione data, e dopo il 13 maggio diventa legislazione in re propria, almeno in parte, e per il metodo usato che, oltretutto, non ci è piaciuto.


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Infatti, il Governo non può presentare il disegno di legge Mirone come sua proposta sulla quale discutere e poi esprimere parere favorevole su emendamenti che ne hanno completamente stravolto il senso, il disegno e la funzione.
Cosa avrebbero detto quegli ospiti che stamattina erano presenti, quei delegati di un Governo orientale, se avessero assistito al nostro modo di procedere? Avrebbero detto: ma quanto sono singolari questi governanti italiani, che si fanno dare una delega dal Parlamento per legiferare in materie nelle quali hanno interessi diretti di carattere processuale! Se questa fosse un'abitudine, se ciò fosse consentito da quest'Assemblea, nella quale la giustizia deve essere per definizione sacra, noi avremmo negato quel principio fondamentale della separazione dei poteri che esiste da almeno 220 anni, vale a dire dalla prima grande rivoluzione degli Stati moderni.
Non dico che si sia fatto apposta e non lo voglio neanche pensare, per il rispetto che ho nei confronti di tutti coloro che sono in quest'aula e per il rispetto che ho per le istituzioni. Dico che ciò costituisce l'effetto necessario di questo procedimento legislativo, al quale tutti abbiamo il dovere etico, prima che istituzionale, di porre rimedio. Sono concetti che oggi accenno, ma che la settimana prossima dirò a tutti quanti, anche perché tutti sono interessati a un problema di questo tipo e tutti devono essere invitati ad una riflessione, a cominciare da Alleanza nazionale, che ha sempre ostentato il sentimento di patria, di Stato e di istituzione, mentre questa è una scelta contraria al senso delle istituzioni; lo dico, poi, agli esponenti del CCD-CDU Biancofiore, che trovano nei loro padri storici il fondamento delle istituzioni repubblicane, fino ai leghisti che oggi esprimono il ministro di grazia e giustizia, che non so con quale difficoltà affronterà questo problema di carattere istituzionale.

PRESIDENTE. La grazia non c'è più, c'è solo la giustizia!

GIUSEPPE FANFANI. Ha ragione, Presidente, ma vede c'è chi ormai ha diversi anni di professione sulle spalle ed è stato abituato ad un linguaggio che è difficile eliminare; ogni tanto chiamo pretori anche i magistrati monocratici, i quali, comunque, non si offendono.
Mi domando con quale dignità il paese uscirà da tutto questo.
Ieri sera, domandandomi cosa avrei detto ho riflettuto e ho riletto alcuni passi di un testo che, a mio avviso, sotto il profilo dell'analisi del rapporto tra etica, istituzioni e leggi, è un testo fondamentale della nostra cultura, vale a dire il dialogo tra Socrate e Caritone, nella parte in cui egli affronta il problema del rapporto tra istituzioni, interessi personali e leggi, nel momento stesso in cui gli allievi di Socrate andarono a chiedergli se voleva fuggire.
Leggo solo alcuni passi; è la legge che parla (parla Socrate in forma retorica): «Che hai in mente di fare, Socrate, non è forse vero che con il tuo gesto stai cercando di distruggere, per quanto sta in te, le leggi dello Stato intero o pensi che possa sussistere e non essere sovvertito uno Stato in cui le sentenze non hanno vigore o possano essere invalidate o distrutte da privati cittadini?» e finisce, dicendo, sempre in forma retorica: «La tua sapienza non ti permette di vedere che la patria è più preziosa di tuo padre, di tua madre ed è più veneranda e più sacra e degna di considerazione agli occhi degli uomini che ragionano e che si deve onorare ed obbedire anche alla sua collera?».
Credo sia assolutamente necessario ristabilire, in quest'aula e da questo momento, il rapporto che esiste tra etica e politica, ribadire il principio della separazione dei poteri e ribadire il rispetto verso le istituzioni.
Invito, dunque, a ritirare il provvedimento nella parte in cui disciplina il falso in bilancio e ad affrontare un procedimento legislativo ordinario, nel quale tutti possiamo ritrovarci intorno ad un tavolo a ridisegnare un sistema sanzionatorio che possa prevedere anche provvedimenti alternativi di carattere inibitorio, sanzionatori peculiari, tenendo presente anche il principio - più volte ribadito - della sussidiarietà del sistema penale.


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Noi siamo disponibili e credo che la nostra disponibilità sia un senso di rispetto anche nei confronti della maggioranza.
Ma se la maggioranza vorrà andare avanti sul disegno di legge che ha modificato e che ha portato oggi alla discussione dell'Assemblea, vi sarà un'opposizione estremamente seria e decisa. Se vorremo discutere ed affrontare i temi in termini di ragionamento e di disponibilità, sono certo che le istituzioni ne guadagneranno in prestigio e noi tutti ne guadagneremo in dignità.

PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Pistone. Ne ha facoltà.

GABRIELLA PISTONE. Signor Presidente, signor rappresentante del Governo, dopo l'intervento dell'onorevole Fanfani e di altri colleghi dell'Ulivo, che hanno spiegato benissimo il significato e le motivazioni del nostro dissenso su questo testo, vorrei partire da due considerazioni principali.
La prima: secondo noi, il testo è incostituzionale e perciò abbiamo presentato una questione pregiudiziale di costituzionalità relativa all'articolo 5, in particolare, chiedendo la non procedibilità. La seconda considerazione è relativa all'ex articolo 10, oggi articolo 11, ovvero alla disciplina degli illeciti penali ed amministrativi riguardanti le società commerciali, argomento sul quale il collega Fanfani ha appena svolto un discorso di alto profilo etico-politico. A tale proposito, a mio parere - ma credo a parere di molti o di tutti -, si configura un palese conflitto di interessi. Mi trovo veramente a disagio, e lo dico sinceramente: ritengo sia abitudine o, comunque, quanto meno desiderio di un membro del Parlamento, sia di opposizione sia di maggioranza, agire nella massima trasparenza e correttezza, perché noi rispondiamo al paese e perché il fine per il quale lavoriamo è il bene collettivo, non il bene personale.
Ritengo tutto ciò sia gravissimo, al di là delle considerazioni, anche di ordine tecnico, che sono state svolte; tali considerazioni, infatti, ed i cambiamenti cosiddetti tecnici - fra virgolette - apportati al testo, determinano un conflitto d'interessi per soggetti che oggi - io dico: casualmente, perché eletti dal popolo italiano - ricoprono posizioni di rilievo nel nostro paese. Questo è il punto, indipendentemente dal fatto che si sia più o meno d'accordo con le norme proposte.
Avevo pregato il sottosegretario Vietti di rimanere in aula per una ragione semplice: egli ha accusato, in un certo senso, il precedente Governo di essere un Governo parolaio; ha detto praticamente così: ha fatto parole. Ritengo che il Governo precedente su questo tema, ma anche su tanti altri, non abbia prodotto soltanto parole: abbiamo semplicemente osservato una procedura democratica, che è stata quella di svolgere le audizioni, concluse in data 30 ottobre 2000. Il sottosegretario sa che, in quel periodo, iniziava l'esame della legge finanziaria; successivamente, a gennaio si è ripreso l'iter del provvedimento, che è stato ostacolato dall'attuale maggioranza, allora opposizione, con la presentazione di numerosissimi emendamenti.
Tuttavia si era arrivati al cosiddetto testo Mirone, che è stato, in maniera un po' spregiudicata - lasciatemelo dire, mi pare il minimo - ripresentato dall'attuale Governo, per poi essere totalmente stravolto nei suoi aspetti di certo fondamentali. Si è trattato di un vero e proprio attacco e queste sono le considerazioni che ci spingono e mi spingono ad assumere un atteggiamento fortemente negativo nei confronti di questo disegno di legge. Sono la prima ad essere convinta che ci possono essere modi differenti di pensare e di intendere l'economia, ma non ci possono essere azioni finalizzate - ripeto -, non al raggiungimento del fine collettivo, quindi di un bene collettivo, ma a fini personali. Infatti, anche lo stravolgimento dell'articolo 5 mira a questo obiettivo; ripeto: non solo l'articolo 11, ma anche l'articolo 5. Vorrei fare una domanda sostanzialmente provocatoria...

GIORGIO LA MALFA, Relatore per la maggioranza per la VI Commissione. Onorevole


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Pistone, l'affermazione è molto grave: quali sarebbero i fini personali di cui parla? È bene precisare!

GABRIELLA PISTONE. Mi scusi, onorevole La Malfa, quando parlo di interessi personali, non parlo della singola persona ma intendo riferirmi alla filosofia degli schieramenti, di centrodestra e di centrosinistra: personali in questo senso.
Tuttavia, la Confindustria si è schierata: su questo non vi sono dubbi. Inoltre, l'altro giorno si è schierato in maniera forte anche il governatore della Banca d'Italia Fazio, che forse avrebbe dovuto tenere una posizione neutrale, dato il suo ruolo. Tuttavia, visto che siamo abituati ormai a vedere di tutto in questo paese, quantomeno lo voglio denunciare: solo questo, non altro! Poi può essere legittimo - io lo giudico illegittimo - da parte vostra continuare a voler agire in un certo modo.
Sono molte le cose che cozzano con il principio dell'etica. Caro Presidente, nella precedente legislatura, ho ricevuto dal centrodestra più di un invito per partecipare a convegni dedicati al tema «etica e politica». Allora, delle due l'una: non si possono fare gli annunci, o essere belli sui manifesti, e poi agire diversamente. Se dalla mia parte dovesse emergere una questione di analoga portata, personalmente, lo dichiaro, la denunciarei con lo stesso tono di assoluta censura che sto usando in questo momento. Ritengo ci siano dei beni che davvero sono di carattere superiore, i quali travalicano gli schieramenti di Governo o di opposizione. Qui vi è un problema di una politica che è, purtroppo, fatta di annunci e che già è stata percorsa da tempo: ripeto, ho i manifesti che annunciavano i convegni del Polo delle libertà sul tema «etica e politica». Ma allora che rapporto c'è tra le parole e i fatti?
Credo sia esattamente il contrario. Noi siamo stati accusati di aver fatto parole, ma in realtà abbiamo elaborato un testo che era assolutamente il frutto di un confronto...

GAETANO PECORELLA, Relatore per la maggioranza per la II Commissione. Non è vero!

GABRIELLA PISTONE. ...democratico tra tutte le forze politiche coinvolte, che ha avuto una larga convergenza e che non era il testo iniziale proprio perché è stato calibrato sulla base del confronto. Oggi, con un colpo di mano, si presenta il testo e lo si stravolge completamente.
Poi voglio essere provocatoria anche rispetto al tema dell'articolo 5.
Il problema delle cooperative rappresenta la storia di lavoratori e di imprenditori italiani, appartiene a questo paese e non rappresenta un qualcosa che riguarda personalmente me o qualcuno di noi.
Si dice che le cooperative hanno agevolazioni, privilegi fiscali ma mi chiedo: quante imprese individuali, familiari si sono trasformate in cooperative per trarre profitti dalle agevolazioni fiscali? Se le cooperative possono usufruire di tutti questi vantaggi dal punto di vista imprenditoriale, come mai nessuna impresa si è mai trasformata in società cooperativa? Evidentemente, non si sono mai voluti condividere i fini, i quali, contrariamente a quanto si sostiene, sono assolutamente indipendenti dalla dimensione dell'impresa, che non ha nessuna valenza rispetto agli scopi, sempre i medesimi, sia per la piccola sia per la grande società.
Si vuole compiere solamente un'operazione che permetta di trasformare le imprese grandi, quelle che danno fastidio e che creano concorrenza, in società per azioni. Questo e il punto! La mia non è una critica, è semplicemente una presa d'atto. Bisogna cercare di dire la verità, poiché c'è la tendenza a nascondersi dietro a giustificazioni di natura economica e giuridica, adducendo di voler svecchiare e rilanciare il paese. Anche noi vogliamo farlo, sappiamo che il nostro paese è cambiato, le regole economiche sono cambiate e che c'è bisogno di innovazione: l'ha detto benissimo la relatrice di minoranza onorevole Finocchiaro Fidelbo, l'hanno detto tutti gli altri colleghi che sono intervenuti.


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Noi non crediamo questi siano la strada ed il modo giusto per cambiare e nello stesso tempo rimanere nell'ambito di quello che è l'alveo della costituzionalità. Il problema vero è questo!
Spero e penso che mercoledì ci saranno sicuramente autorevoli interventi che - mi auguro - vi possano far cambiare idea riguardo all'intenzione di andare avanti. Accettiamo il confronto, ma vogliamo un confronto vero, di maggiore rilevanza e che non si concluda in una settimana o magari in un giorno e mezzo con votazioni notturne; non si può «bruciare» un provvedimento di questo genere.
Riteniamo ci sia tempo a nostra disposizione - non credo che cambi nulla se si giungerà a settembre od a ottobre -, innanzitutto per stralciare l'articolo 5 ed, in secondo luogo, per rivedere l'intero assetto del provvedimento oggi al nostro esame.
I colpi di spugna in un senso o nell'altro non ci paiono davvero opportuni; tempi più consoni all'attività del Parlamento gioverebbero sicuramente all'economia del nostro paese.

PRESIDENTE. Non vi sono altri iscritti a parlare e pertanto dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali.

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