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Seduta del 13/9/2005


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Esame testimoniale di Francesco Forte.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'esame testimoniale del professor Francesco Forte, che avvertiamo che sarà sentito con le forme della testimonianza, quindi con l'obbligo di rendere dichiarazioni e di dire la verità.
Le chiedo, intanto, di darci le sue generalità precise e l'attuale luogo di residenza.

FRANCESCO FORTE. Mi chiamo Francesco Forte, sono nato a Busto Arsizio, in provincia di Varese, l'11 febbraio 1929 e risiedo a Torino, in corso Francia, 7.

PRESIDENTE. Per quanto tempo ed in quale periodo ha svolto attività parlamentare?

FRANCESCO FORTE. Io sono stato parlamentare dal 1979 al 1994, per due legislature alla Camera e due al Senato.

PRESIDENTE. Quali incarichi non parlamentari ha ricoperto ed in quale periodo?

FRANCESCO FORTE. Si tratta solo di incarichi politici o anche economici?

PRESIDENTE. Politici.

FRANCESCO FORTE. Allora, io sono stato presidente della Commissione industria della Camera fino al 1982. Poi - non so se questo sia rilevante - sono stato responsabile economico del partito socialista per un breve periodo, esattamente fino a quando, nel 1982, sono diventato ministro delle finanze nel Governo Fanfani. Nel successivo Governo Craxi sono stato ministro delle politiche comunitarie e poi, a seguito della legge Pannella, Rutelli, Forte e Piccoli sulla modifica della cooperazione allo sviluppo, sono stato nominato sottosegretario delegato - una forma giuridica anomala; in sostanza, le politiche giuridiche di alto commissario - per gli aiuti allo sviluppo di intervento straordinario, di cui alla legge che avevamo presentato, appunto, alla Camera, in relazione al fatto che in quel periodo c'erano state, guidate da Pannella, Piccoli e altri, delle marce contro la fame nel mondo e tutta una serie di iniziative per modificare la cooperazione italiana, che pareva inadeguata, per dare un aiuto diverso ed anche, in qualche modo, più ampio e particolarmente rapido, però basato sull'idea che non si dessero, diciamo, i pesci ma le canne da pesca per pescare (questo era il concetto generale).


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Poiché io - per disgrazia... - avevo redatto il testo, pur non occupandomi di quell'argomento, come si vede dal mio curriculum, alla fine hanno messo me ad occuparmi dell'Africa, mentre stavo preparando il vertice di Milano della Comunità europea. In seguito, invece, smessa questa attività, sono tornato al partito socialista.
Ho fatto il relatore di varie leggi finanziarie e, nell'ultima legislatura, passato al Senato, sono stato presidente della Commissione finanze e tesoro ed ho anche fatto parte - questo è importante in questa sede - della Commissione d'inchiesta parlamentare sulla BNL Atlanta, nella quale ho svolto il principale lavoro, tra Italia e Stati Uniti. In quel periodo ho anche assistito Craxi nel rapporto alle Nazioni Unite riguardante i problemi del debito del terzo mondo, su cui abbiamo scritto il famoso libro con ordini del giorno delle Nazioni Unite sulla riduzione del debito.
Poi non sono stato più eletto, quindi le mie attività politiche, per così dire, parlamentari o istituzionali sono terminate.

PRESIDENTE. Ma non la politica.

FRANCESCO FORTE. Di politica mi occupo in qualche modo.

PRESIDENTE. Torniamo al suo ruolo di sottosegretario delegato per gli interventi straordinari. Quali erano i punti specifici di questo alto commissariato, come lo ha definito lei?

FRANCESCO FORTE. Diciamo che i compiti specifici erano quelli di fare interventi rapidi, avendo 1.800 miliardi da spendere in 18 mesi (poi è stato brevemente prorogato il termine), in paesi colpiti dalla fame e dalla siccità, ovviamente poveri, a basso reddito, interventi che fossero caratterizzati da elementi strutturali che evitassero che si ripetessero questi fenomeni. Adesso non ricordo il numero esatto, ma mi pare che con i miei collaboratori abbiamo individuato 23 paesi, avendo costruito una serie di parametri di reddito pro capite, di insufficienze alimentari, di situazioni di desertificazione e così via; ero infatti assistito dai miei precedenti collaboratori, che avevo utilizzato al Ministero delle finanze e alle Politiche comunitarie e che costituivano una équipe di economisti molto distinta (per cui, benché la Farnesina fosse completamente disorganizzata, o non adatta a questo, invece io avevo una équipe di economisti di alto livello, tra cui il professor Somogy). Quindi, abbiamo costruito questa nuova metodologia, abbiamo fatto un piano di sviluppo e abbiamo svolto questi interventi. Abbiamo anche - cosa importante - costituito un comitato scientifico (di dodici membri, mi pare) e un comitato giuridico, che ci assistevano in queste attività.
Tra questi paesi c'era anche la Somalia, sì, ma non solo; per una pubblicistica erronea (direi), semplicistica, in Italia si parlava di aiuti alla Somalia, ma la legge parlava di tutto il mondo. Quindi, per quanto noi abbiamo limitato il campo all'Africa - perché ci sembrava quasi impossibile andare in Bangladesh, benché avessimo i parametri anche per il Bangladesh, o in America latina, dove, peraltro, i parametri non erano così brutti - i paesi dell'Africa erano tanti. La somma che per la Somalia venne fuori, però - anche qui sulla base di parametri -, fu molto consistente rispetto ad altri, cioè circa 400 miliardi di lire, cui si devono probabilmente aggiungere (questo è difficile calcolarlo) gli aiuti trasversali. Per esempio, noi avevamo un programma di oltre 200 miliardi con l'UNICEF, per vaccinare otto milioni di bambini: è chiaro che questo è un programma trasversale, che poteva interessare anche la Somalia, così come altri programmi trasversali.

PRESIDENTE. Come strutture, istituzioni o quant'altro, quali erano quelle che ricadevano sotto la responsabilità di questo alto commissariato?

FRANCESCO FORTE. Diciamo che esisteva da un lato la cooperazione allo sviluppo del Ministero degli esteri, con una direzione generale; dall'altro esistevamo


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noi, per questi interventi straordinari caratterizzati da urgenza, ma, ripeto, non solo alimentari. Diciamo che avevamo un compito di struttura speciale, sia pure coordinata con l'altra, che era poi articolata, a sua volta, con funzionari del Ministero degli esteri o personale comandato da altre amministrazioni (la legge consentiva anche questo), diviso grosso modo in due direzioni generali, se così mi posso esprimere: una per gli aiuti strutturali, per così dire, e una per gli aiuti di emergenza, di pronto intervento, sanitari e alimentari.

PRESIDENTE. Quali erano i rapporti con il Fondo aiuti italiani?

FRANCESCO FORTE. Questo eravamo noi. Io l'ho chiamato così poiché dal punto di vista del bilancio pubblico noi avevamo un particolare stanziamento e dovevamo dargli un nome; io l'ho chiamato Fondo aiuti italiani, perché era una voce di bilancio, e così è diventata FAI, per semplificare, anche questa cosa, che però si chiamava con un nome molto più lungo, cioè «aiuti ai sensi della legge....». L'abbiamo chiamato FAI perché lo stanziamento si chiamava così.

PRESIDENTE. Comunque, è nell'ambito di questi incarichi che lei ha avuto che si consolida nel tempo il rapporto con la Somalia?

FRANCESCO FORTE. In questo articolo de la Repubblica del 1988, che io le lascerò, che elogia i nostri interventi (in particolare questa strada, che questo tale era andato a vedere, ma anche altri), però si fa un quadro - che io, devo dire, ho preso da qui, o da altri giornali, perché non mi ero mai occupato di questo argomento in precedenza, tranne che per scrivere una mozione parlamentare - secondo cui sembra che la cooperazione avesse fatto in Somalia molti interventi non particolarmente felici, di cui alcuni sono indicati.
Da un punto di vista giuridico, l'Italia aveva un particolare rapporto con la Somalia, perché era stata per un certo periodo delegata a un'amministrazione speciale con la Somalia; poi, in seguito, la cooperazione - pur avendo smesso l'Italia questo - aveva intrattenuto un particolare rapporto con la Somalia. Quindi, noi ci siamo trovati a dover gestire una situazione, come dire, un po' compromessa, con la Somalia o, meglio, con il suo entourage di governo un po' dispiaciuto, arrabbiato con l'Italia per il fatto che molti interventi non avevano funzionato, nonostante il rapporto stretto che c'era. Ad esempio, c'era un'università a Mogadiscio, costituita dall'Università di Padova. Quindi esistevano vari legami, però c'era anche un interesse politico - questo è importante da tenere presente -, perché quando io ho incominciato ad interessarmi di queste cose era ancora in atto la guerra tra Etiopia e Somalia e sussisteva una divisione sulla base, diciamo, non della divisione di Yalta, ma successiva, per cui il confine del blocco sovietico in Africa era tra la Somalia e l'Etiopia.
Diciamo che l'Italia aiutava ugualmente l'Etiopia e la Somalia, però c'erano particolari motivi per considerare questo un fronte caldo. Ad esempio, per dare un'idea, posso dire che, quando sono andato in Etiopia, io ho parlato con il presidente comunista marxista (non so bene se si può chiamare così un generale) Menghistu tramite un elicottero gestito da soldati della Germania orientale, che erano la sua principale scorta; quindi, da una parte c'era il blocco sovietico, dall'altra c'erano altri tipi di truppe. C'era un fronte lunghissimo, lungo tutto il confine, con una guerra. Insomma, c'erano ragioni, in parte umanitarie, molto importanti, e in parte strategiche, per considerare la Somalia una zona delicata, come anche l'Etiopia, e la Farnesina sosteneva l'equivalenza tra le due: cioè bisognava fare di qua come di là. Io sostenevo una tesi un po' diversa, che era l'equivalenza, per così dire, umanitaria: cioè che bisognava - questo anche in base alla legge - fare interventi che fossero condizionati dal rispetto di certi principi e che, dunque, non si potessero fare, come sosteneva la Farnesina tradizionalmente, interventi prescindendo,


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ad esempio, dal fatto che il regime somalo teneva in carcere delle persone che, poi, scarcerate sono finite (ho qui anche un documento sui ribelli)... o dal fatto che in Etiopia fossero in atto quegli spostamenti demografici per ricostituire la razza (una cosa molto complicata) e anche lì c'erano dei problemi. Diciamo che c'erano aspetti molto delicati.

PRESIDENTE. Ovviamente, a cagione di queste situazioni delle quali si interessava, lei ha tenuto rapporti con le autorità somale. In particolare, quali erano i suoi rapporti con Siad Barre?

FRANCESCO FORTE. Premesso che ho avuto molti altri rapporti con altri Capi di Stato più importanti di Siad Barre, come quello dell'Uganda o quello del Sudan, preciso di aver avuto rapporti sia con Siad Barre, che era il presidente, che con Jama Barre, che era il ministro degli esteri.

PRESIDENTE. Quando ha conosciuto Siad Barre?

FRANCESCO FORTE. Nel 1985, quando ho espletato il mio incarico. Perché io, a differenza di altri, l'ho svolto quasi tutto sul posto, quindi ho fatto migliaia di voli, ho passato circa quattro mesi, complessivi, in Africa, andando nei vari luoghi, una volta cinque giorni qui, un'altra cinque giorni lì. Quindi, a un certo punto ho fatto il mio viaggio di una settimana e lì ho avuto contatti con Siad Barre; mentre in Italia avevo conosciuto Jama Barre, che era laureato a Padova (perché c'era questa storia dell'università) e era ministro degli esteri e suo parente. Questi sono i principali ministri che ho conosciuto, poi c'erano altri personaggi.

PRESIDENTE. Che tipo di rapporto lei aveva con Siad Barre? Di amicizia?

FRANCESCO FORTE. No! Diciamo che gli ho parlato varie volte di queste sue cose. Lui mi ha spiegato il disastroso stato della cooperazione, mi ha detto che bisognava fare delle opere che restassero e mi ha anche detto che i suoi intendevano rubare, quindi se le opere erano concentrate invece che distribuite si poteva meglio controllare. E le opere che restano, appunto, non si possono portare via!

PRESIDENTE. Ma Siad Barre ha avuto anche un periodo complicato, che si è poi concluso con la sua caduta. Che tipo di assistenza, istituzionale, amichevole o di altro genere lei ha intrattenuto con lui?

FRANCESCO FORTE. Lui è stato colpito - durane il 1987, direi; io ero al mare quando ebbi questa notizia - alla testa, si dice in uno scontro automobilistico, ma presumo che fosse un attentato, su una strada verso Mogadiscio e mi telefonarono, dall'Africa, chiedendo se potevamo indicare qualche ospedale italiano. Noi ne abbiamo allertato, credo, uno a Torino; poi non se ne fece nulla. Io gli avevo indicato l'ospedale di Novara, dove c'era il professor Geuna, bravissimo in questo campo, e le Molinette, invece lui - secondo me commise un errore - andò a farsi curare in Egitto. Quando è tornato - io poi ebbi modo di parlargli - Siad Barre praticamente non era più lui: era peggio di come si crede fosse; ogni tanto gli usciva dalla bocca qualche parola che lui tentava di dire, ma che non si capiva; ogni tanto riusciva a dire qualche parola; quando però riusciva a parlare, poi gli veniva meno la capacità intellettuale. Quindi, i due o tre incontri che ho avuto con Siad Barre dopo l'incidente erano ufficialmente per discutere dei programmi...

PRESIDENTE. Chi teneva in mano le sorti del paese?

FRANCESCO FORTE. Questo io non lo so. So solo che l'incontro era finto e che probabilmente...

PRESIDENTE. Era Aidid?

FRANCESCO FORTE. No, Aidid era un nemico terribile. Teniamo presente che Aidid era uno degli incarcerati di Siad Barre. Cioè: Barre aveva dei nemici, che


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erano stati messi in carcere e alcuni anche condannati a morte. Per la mia, forse sciocca, azione umanitaria, furono graziati e alcuni scarcerati: tra questi Aidid. Ma certamente non era un suo amico: era un feroce nemico. Bisogna aggiungere che lì c'erano anche aspetti tribali, oltre che politici; comunque credo che il governo di fatto fosse di quel suo cugino Jama Barre, che ho già detto, e poi di uno che si diceva potesse essere il suo successore ma di cui mi sfugge il nome, che era il ministro della difesa e che sembrava il più equilibrato. Questi credo fossero i capi; poi c'era un capo militare, che si chiamava generale Morgan, ma che stava al fronte. Nel frattempo, la guerra con l'Etiopia era finita, perché noi avevamo costretto...

PRESIDENTE. Lei ha avuto rapporti con la Somalia anche dopo la caduta di Siad Barre?

FRANCESCO FORTE. No. Appena ho finito questa cosa - che ho fatto per senso del dovere, ma non era il mio mestiere - non me ne volli occupare più. Io mi occupo di tutt'altro, non mi ritengo competente in questo campo.

PRESIDENTE. Quando finiscono i suoi rapporti con la Somalia?

FRANCESCO FORTE. I miei rapporti con la Somalia finiscono il 26 febbraio 1987 e gli ultimi documenti li ho firmati il 28 febbraio sulla pista da sci di fondo di Bormio, dove io ero sindaco e dove andavo a fare la mia attività sportiva. Da lì...

PRESIDENTE. Non ha avuto più nulla da spartire.
Sarà letteratura, però glielo devo dire. Sembra che Siad Barre avesse una grande necessità di armi e che anche l'Italia abbia contribuito - naturalmente non dico in modo illegale, ma in modo ortodosso - a fornirlo di armi, in tutto il percorso della sua attività politica, fino agli ultimi tempi. Gli ultimi tempi lei non li ha vissuti, noi abbiamo il ritorno da quelli che sono stati gli accertamenti effettuati: armi dirette a Siad Barre sono poi diventate di dominio di chi, in qualche modo, ha cercato di prendere il controllo del territorio; ma si trattava sicuramente di armi fornite anche dall'Italia.

FRANCESCO FORTE. Io penso di sì, che Siad Barre o meglio l'esercito somalo, non da noi, che facevamo aiuti allo sviluppo puri e semplici, ma, probabilmente, nel quadro delle attività dell'esercito italiano, armi ne abbia ricevute. Non era un segreto che c'era una guerra tra Etiopia e Somalia, che, peraltro, nel gennaio 1987 finì con un armistizio scritto da me, a Gibuti: quindi, almeno fino a quell'epoca le armi servivano a quello scopo. E ripeto: l'Etiopia era in un regime politico diverso. Quindi io trovo verosimile che l'Italia - forse non solo l'Italia - abbia fornito armi alla Somalia.

PRESIDENTE. Trova verosimile anche il fatto che - sempre secondo la letteratura di cui dicevo - la cooperazione rappresentò un veicolo attraverso il quale si provvide a smerciare o a dare armi alla Somalia?

FRANCESCO FORTE. Per quello che ci riguarda, tutto ciò che abbiamo fornito - noi non eravamo la cooperazione - è accuratamente schedato, ed è stato anche oggetto di un'analisi da parte di una società di revisione americana, perché il ministro Andreotti ha voluto così. Era tutto quanto di tipo, diciamo così, civile: abbiamo fornito forse cento camion; sugli aerei sono stato molto cauto, perché ho avuto pressioni infernali per fornire degli ATR, invece gli ho fornito due piccoli aerei Piaggio e un vecchio aereo da trasporto, in modo che loro non potessero assolutamente farne usi militari, anche se gli sarebbe piaciuto. Ripeto: la cooperazione, l'altra, da quello che so - uno potrebbe anche fare il contrabbando, ma mi pare inverosimile che la cooperazione lo faccia - gli ha fornito navi da pesca (qui se ne parla anche), pescherecci di una società di Viareggio, la SEC.


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La armi possono essere state fornite non dalla cooperazione ma dal Ministero della difesa, mediante dei rapporti loro, oppure dai servizi segreti, per quanto questo mi sembri un po' difficile per il costo degli stanziamenti. Probabilmente gli hanno mandato armi tramite questa via, non tramite la cooperazione.

PRESIDENTE. È solo una ipotesi, questa che lei fa, oppure ha qualche elemento?

FRANCESCO FORTE. Giuridicamente, per me era impossibile saperlo.

PRESIDENTE. Ma andando così frequentemente in giro, quindi anche in Somalia, lei ha avuto modo di prendere cognizione che da parte del nostro paese, sempre nella legalità, si fornissero armi a Siad Barre, o no?

FRANCESCO FORTE. No. Io immagino che qualcuno le armi gliele abbia date. Devo dire che non erano gran che le armi che ho visto io; a differenza di altri, io sono stato al fronte dell'Ogaden, ho varcato anche il ponte, parlando con gli etiopi, e ho visto sia le armi di questi poveracci che facevano la guerra dalla Somalia contro l'Etiopia, sia le armi degli etiopi, perché gli ho fatto fare quella pace preliminare tra loro. Erano fucili, spesso fucili 91, probabilmente (non sono un esperto militare); teniamo presente che Siad Barre era stato capitano dei carabinieri. Ma diciamo che le armi di cui si parla per la Somalia, per quanto ho visto io... Una volta sono andato nel nord, non nella parte di cui mi occupavo io ma nella Somalia inglese, la Somaliland, dove c'era il generale Morgan che stava facendo la guerra con l'Etiopia, e lui aveva delle cose che a me sembravano dei mitra. Diciamo che queste erano le armi. Carri armati, per esempio, non ne ho mai visti.

PRESIDENTE. Omar Mugne lo ha mai conosciuto?

FRANCESCO FORTE. Sì, Omar Mugne era notissimo a me per il semplice fatto che era laureato in economia, o qualcosa di simile, all'università di Bologna. Non so se la laurea l'avesse davvero, certo è che veniva da Bologna, dove aveva un'abitazione, parlava l'italiano perfettamente, sicuramente conosceva discipline di tipo economico e giuridico e - anche questo mi consta - era consulente o collaboratore della società cooperativa di costruzioni Edilter.
A causa di queste sue conoscenze italiane non dico che venne nominato da Siad Barre o da Jama Barre rappresentante ufficiale della Somalia presso di noi, perché il nostro interfaccia - di cui, se faccio mente locale, posso ricordare il nome: era qualcosa come Enfas - era un signore più importante, che credo adesso abbia una società di consulenza tecnica a Nairobi, o qualcosa di simile, ma era il contatto, l'ufficiale di collegamento per così dire, e serviva a fare le cose pratiche. Ad esempio, quando si arrivava si occupava dei passaporti, o altro, e veniva trattato dai miei collaboratori quasi come un inserviente.

PRESIDENTE. Mugne?

FRANCESCO FORTE. Mugne, sì. Per fare un esempio, quando noi arrivavamo per i rifornimenti in Egitto, o in altri luoghi, dove per vari motivi loro avevano, o non avevano, i visti, il mio collaboratore, che sia chiamava Imbalzano, che era un addetto della Farnesina, lo metteva sotto il sedile dell'aereo, per non farlo vedere, e lo teneva lì per un'ora! Questo è il personaggio Mugne: un omino piccolo, magro, che beveva molto whisky, pur essendo, a sentir lui, mussulmano, e mangiava prosciutto crudo...

CARMEN MOTTA. Questo perché era vissuto a lungo in Emilia-Romagna!

FRANCESCO FORTE. Però il prosciutto cotto no...! (Si ride).

PRESIDENTE. Ma parliamo di un altro Mugne, quello della cooperazione: è sempre lui, sì?


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FRANCESCO FORTE. No, non della cooperazione. Lavorava solo per il FAI, almeno nella mia epoca. Poi avrà fatto anche altro.

PRESIDENTE. Lei ha mai sentito parlare delle navi Shifco?

FRANCESCO FORTE. Ne ho sentito parlare perché ne ho letto in questa conferenza stampa che mi è stata data. So che c'erano queste navi della cooperazione...

PRESIDENTE. Che erano della Somalia.

FRANCESCO FORTE. Sì. Che la cooperazione ha dato alla Somalia e che, quando la Somalia è finita, probabilmente Mugne se l'è prese.

PRESIDENTE. Ma come se l'è prese?

FRANCESCO FORTE. Come se l'è prese... Lì ciascuno ha preso qualche cosa, presidente, visto che giuridicamente il governo non c'era più.

PRESIDENTE. Non erano nostre quelle navi?

FRANCESCO FORTE. No. Le cose che venivano date, dal punto di vista giuridico, diventavano di loro proprietà. Attenzione: anche per i camion che io ho dato alla Somalia, l'unica cosa che potevo fare, finché c'ero, era di sorvegliare che il loro uso fosse corretto; ma dal punto di vista giuridico era un dono del Governo italiano (nel mio caso, camion; nel caso della cooperazione, navi da pesca) al Governo somalo. Quindi, la proprietà era del Governo somalo e Mugne le ha rubate al Governo somalo, ammesso che ci fosse ancora.

PRESIDENTE. Ma se il Governo somalo non c'era, erano res nullius, e lui se l'è prese.

FRANCESCO FORTE. Oppure c'era un altro governo. C'erano dei somali.

PRESIDENTE. Sì, Ali Mahdi e Aidid.

FRANCESCO FORTE. Io penso che sia così. Io questo l'ho letto...

PRESIDENTE. Ha mai letto su qualche giornale - sempre secondo quella letteratura di cui abbiamo detto - che con questi pescherecci Mugne avrebbe fatto pure traffico di armi?

FRANCESCO FORTE. L'ho letto sui giornali, come altri. Non so se abbia realmente fatto traffico di armi; l'ho letto.

PRESIDENTE. Non le risulta nulla, personalmente?

FRANCESCO FORTE. Era in un periodo successivo al mio. Prima di tutto, le navi non erano mie: io, tra l'altro, non ho mai dato navi a nessuno, ma solo barche, perché pensavo che potessero servire per altri scopi. Comunque sia, è nel periodo successivo al mio. È possibile...Qualcuno certamente faceva contrabbando d'armi, però - attenzione -, per quello che ho capito io, non per darle a Siad Barre piuttosto che ad Ali Mahdi o a qualcun altro, ma per commerciare armi tramite la Somalia. Questo lo so dall'inchiesta sulla BNL Atlanta: la Somalia era diventata, come altri paesi, un territorio da cui passava...

PRESIDENTE. Di transito.

FRANCESCO FORTE. Di transito, di commercio. Peraltro, la Somalia è sempre stata un paese commerciale. Per fare un esempio, anche l'Etiopia, durante la guerra, le derrate le comprava in Somalia e in Etiopia usavano denaro somalo; cioè, la Somalia è sempre stato un paese commerciale. A un certo punto ha preso a commerciare armi e anche, probabilmente, residui radioattivi, da quello che io ho visto nell'inchiesta BNL Atlanta.

PRESIDENTE. Ecco, che cosa ha visto nell'inchiesta BNL Atlanta, a proposito dei residui radioattivi?


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FRANCESCO FORTE. In generale - non sulla Somalia - ho saputo delle cose da un ingegnere che altri, nell'inchiesta parlamentare, dissero che era pazzo...

PRESIDENTE. Garelli?

FRANCESCO FORTE. Non ricordo se si chiamasse Garelli. Non credo. Era un ingegnere dell'ENEA.

PRESIDENTE. Un uomo di corporatura grossa?

FRANCESCO FORTE. Era un ingegnere dell'ENEA piuttosto robusto...

PRESIDENTE. Comerio?

FRANCESCO FORTE. No, non è nessuno di questi nomi. È un personaggio che, poveretto...

PRESIDENTE. Giorgio Candeliere?

FRANCESCO FORTE. No. Ve lo posso dire in seguito, dato che non mi aspettavo questa domanda. Comunque, questo ingegnere aveva un tragico cruccio: ignorando che in Iraq si stavano facendo ordigni nucleari, aveva guidato una missione dell'ENEA - ogni lavoratore, infatti, percepiva tre stipendi: quello dell'ENEA, quello della missione in Iraq e uno stipendio pagato dall'Iraq - in un sotterraneo dove si dovevano fare dei lavori; e a posteriori scoprì che si trattava della raffinazione di materiale nucleare e che non vi erano protezioni. Pertanto, - me lo ha detto molte volte, piangendo - si sentiva responsabile della probabile successiva morte dei suoi collaboratori che avevano ignorato di correre un rischio così tremendo.

PRESIDENTE. Dove è accaduto ciò?

FRANCESCO FORTE. Succedeva in un paese - di cui non ricordo il nome - dell'Iraq, in un sotterraneo. Ripeto, può darsi che fosse pazzo come si dice; questo aspetto della storia è vero, però si tratta sicuramente di una persona che non aveva avuto una vita molto felice, all'epoca. Diceva, inoltre, che molto di quel materiale radioattivo poteva venire da centrali italiane dismesse. Tutto qui.

PRESIDENTE. Ma la Somalia con questo non c'entrava niente!

FRANCESCO FORTE. Dico: da qualche parte saranno passati. Possono essere passati dalla Somalia piuttosto che dall'Egitto, non so. Siccome sono arrivati in Iraq, il percorso per la Somalia è il seguente: si va dalla Somalia allo Yemen e da lì si va in Iraq. Oppure si può fare il giro dell'Egitto. Sono vari i giri che si possono fare. Sicuramente, di traffici di scorie radioattive ce ne sono stati. Si parla degli anni novanta, perché c'era questa esigenza di Saddam Hussein.

PRESIDENTE. Comunque, con riferimento alla Somalia, può dare notizie precise?

FRANCESCO FORTE. No, anche perché non me ne occupavo. Comunque, nell'inchiesta BNL Atlanta non è emerso.

PRESIDENTE. Lei ha detto di essere stato nominato capo staff del rappresentante del Segretario delle Nazioni Unite per i problemi del debito estero nei paesi in via di sviluppo. Quali erano i suoi compiti, in tale veste?

FRANCESCO FORTE. Intanto, ho scritto il rapporto - un documento di circa trecento pagine, in inglese - riguardante la situazione dei vari paesi e le misure da prendere. L'ho scritto con dei collaboratori. Ma, soprattutto, accompagnavo il delegato delle Nazioni Unite - ovvero Craxi - nelle sue visite nei vari paesi indebitati ed in alcuni paesi creditori, quali gli Stati Uniti ed il Giappone. In ciascuno di questi paesi raccoglievo, anche con i collaboratori, l'oggetto della discussione e gli facevo formulare delle domande che servivano ai fini del rapporto. Però, non ci siamo occupati tanto dell'Africa


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quanto soprattutto dell'America latina, che aveva i maggiori debiti ed i maggiori problemi.

PRESIDENTE. E per quanto riguarda la Somalia?

FRANCESCO FORTE. Il problema del debito della Somalia lo avevo risolto con un meccanismo di questo genere, presso la Banca mondiale: avevamo stabilito che i fondi che venivano erogati alla Somalia - erano, appunto, circa 400 miliardi di lire; anche quelli della cooperazione avevano accettato questa soluzione - sarebbero serviti come valuta in relazione al pagamento degli interessi, anche se era solo valuta di transito. In questo modo, la Banca mondiale e gli altri creditori erano soddisfatti.
La Somalia aveva parecchi debiti, che credo non abbia mai pagato; comunque, in quell'epoca la problematica non emerse, probabilmente perché il paese veniva aiutato dalla cooperazione. Il Fondo monetario e la Banca mondiale non protestavano perché avevano utilizzato questo metodo di cassa; non so quanto sia serio, ma insomma loro lo utilizzavano come fondo di contropartita, in sostanza. Infatti, si spendeva moneta locale e quindi vi era una valuta. Però, il debito della Somalia non fu mai affrontato in quell'epoca.

PRESIDENTE. Nel 1985, lei fece una missione insieme all'allora Presidente del Consiglio Craxi in Somalia. Vi incontraste con Siad Barre e in quell'occasione si parlò di cooperazione, di sviluppo e delle esigenze della Somalia. Tra le altre cose, si parlò della costruzione della strada Garoe-Bosaso. Ricorda?

FRANCESCO FORTE. Certo.

PRESIDENTE. Può rievocare questo episodio per la Commissione?

FRANCESCO FORTE. In quell'occasione furono stesi ufficialmente sia il programma del FAI che quello della cooperazione. Ovviamente, avevamo già elaborato le varie proposte, sulla base anche delle richieste del Governo somalo, e il progetto che avevo presentato per il FAI era basato in parte notevole, anche se non del tutto, sul nord della Somalia: prevedeva questo asse, ovvero la strada di 420 chilometri tra Garoe e Bosaso, il porto di Bosaso, una serie di pozzi per l'acqua lungo la strada per consentire al bestiame di potersi abbeverare - essendovi la strada era possibile, ovviamente, accedere anche ai pozzi -, due ospedali collegati alla strada e, infine, un mattatoio ed una conceria a Mogadiscio, dato che la principale risorsa del paese era rappresentata da pecore, cammelli e capre (quindi, era importante avere questo ciclo alimentare).
In più, nello stesso progetto - ma al di fuori dello schema - si prevedeva il recupero e la riabilitazione del cosiddetto «villaggio del duca degli Abruzzi» a Johar. Questo era il nostro programma, che fu approvato allora. Si prevedeva anche una parte in camion e aiuti diretti.
Così, fu costruita la strada in questione, a proposito della quale posso lasciare agli atti della Commissione un articolo de la Repubblica che ne parla entusiasticamente. Effettivamente, la cosa funzionò e, anche quando in Somalia si verificarono quegli eventi terribili, consentì al nord di rifiorire.

PRESIDENTE. Comunque, costò un miliardo a chilometro.

FRANCESCO FORTE. No, è una delle strade più economiche! Sono circa quattrocento chilometri - l'abbiamo indagata, studiata e vista - per cui, essendo il costo complessivo pari a 180 miliardi, non è affatto costata un miliardo al chilometro. È costata la metà di quanto previsto nel progetto americano. Infatti, la strada non è stata inventata da noi. Esisteva un progetto americano che ho preso e - facendo in questo caso il mio lavoro di economista - ho dimezzato i costi e i tempi. Dimezzando i costi e i tempi, la nostra strada è costata ancora meno di quel che doveva costare. Diciamo che, pur essendo in doppia corsia, pavimentata - non asfaltata -,


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con qualche guado, con una parte in montagna, in quanto l'ultimo tratto attraversa alcune colline, è costata 400 milioni al chilometro. Se si fanno i conti, risulta.

PRESIDENTE. Mi sembra che i conteggi fatti a livello giudiziario fossero diversi; comunque, non importa.

FRANCESCO FORTE. No. A livello giudiziario, abbiamo subito un processo - io e Lodigiani - in cui siamo stati assolti; il processo, ovviamente, non riguardava i costi della strada, ma Lodigiani ci ha tenuto a chiarire nel modo più sicuro quali fossero stati. È stato chiarito nel modo più sicuro che questi sono stati i costi, che la strada è stata collaudata e che vi è stata una riduzione dei prezzi. Tutto ciò che a questo riguardo è stato detto o scritto (compreso quanto scritto da agenti della CIA, in una certa epoca, ovvero cose del tipo che era una strada asfaltata, con i semafori) è completamente falso.
In questo articolo di giornale si legge: «A qualcosa giova donare miliardi. Viaggiando in Somalia su una strada italiana». È l'articolo pubblicato su la Repubblica del 28 aprile 1988. Aggiungo, a onore delle imprese italiane, che questa strada che si trova nel cosiddetto deserto di sabbia - in realtà non si tratta di un deserto bensì di radure - è stata costruita, con i gruppi Lodigiani e Astaldi, ad una velocità di circa un anno e tre mesi, compreso lo sbarco dal nord di un naviglio. La strada, infatti, è stata realizzata con un sistema inventato da me: metà iniziando dal nord, metà iniziando dal sud, per dimezzare i tempi che gli ingegneri americani si erano inventati. Io li ho dimezzati con questo sistema. Astaldi è sbarcato col suo macchinario a Bosaso, dove ancora non c'era il porto. Adesso c'è un porto a Bosaso, fiorente. Non solo, ma grazie alla strada è arrivata la cooperazione danese, che ha realizzato un progetto per la pesca.

PRESIDENTE. Ha mai saputo dell'utilizzazione della costruzione di questa strada per interrare materiali radioattivi?

FRANCESCO FORTE. No. Questo si può escludere nel modo più assoluto. Infatti, la strada veniva costruita col seguente sistema: c'era un consorzio di ditte di Lodigiani da una parte e un consorzio di ditte di Astaldi dall'altra; c'era la società di ingegneria Techint, che presiedeva ai lavori, che venivano fatti ogni chilometro - o qualcosa di simile - e vistati. Poi, c'era l'alta vigilanza di una società del gruppo Ansaldo, che controllava che la società di ingegneria e l'altra società facessero i lavori a regola d'arte. Tutto questo, naturalmente, non veniva fatto per controllare se ci fossero rifiuti, bensì per accertare che lo spessore della strada fosse quello giusto, che i materiali impiegati fossero quelli richiesti, nonché altri dettagli tecnici, quali la larghezza e la pendenza. Tutto quanto, infatti, veniva pagato a misura, sulla base di prezzi di mercato che dovevano essere stabiliti. Quindi, non è possibile che una cosa del genere sia accaduta.

PRESIDENTE. A lei non risulta. Che non sia possibile è un altro discorso. Tutto è possibile.

FRANCESCO FORTE. No, non è possibile, perché c'erano dei convogli, c'era qualche centinaia di lavoratori italiani con le roulotte, scaglionati nelle varie parti mentre si costruiva la strada! Per quanto riguarda il poi, non so, ma posso dire che mentre si costruiva la strada era pieno di lavoratori che facevano i rilievi per il nuovo tratto; dietro, c'erano i lavoratori che avevano completato il lavoro e dietro ancora altri lavoratori, i quali avevano scavato. Pertanto, mi sembra assolutamente inverosimile che ci potesse essere, con tutta questa folla di lavoratori, in gran parte italiani, qualcuno che posizionasse dei residui o dei residui tossici! Tanto più che i residui si possono mettere dovunque, nel deserto. Lo si sarebbe potuto fare, per esempio, ad Hafun, dove vi è un'enorme salina: lì non c'è nessuno, sul lato destro. Si sarebbe potuto andare lì e mettere tutto quel che si voleva. Mi sembra assurdo immaginare che si vada proprio nell'unico posto dove c'è gente che lavora, per mettervi dei residui!


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PRESIDENTE. Vittorio Brofferio, dirigente della Lodigiani che ha lavorato alla costruzione della strada Garoe-Bosaso, così dichiara alla Commissione: «In occasione di uno dei suo viaggi, poiché lui stesso accompagnava personalmente i convogli dei camion, mi mostrò un telex» - si riferisce al signor Marocchino - «nel quale si riferiva che venivano offerti dei container per essere interrati, alla sola condizione di non aprirli, erano sigillati».
Brofferio dichiara, in sostanza, che si sarebbe fatto questo accordo...

FRANCESCO FORTE. Ma dove erano sigillati e interrati?

PRESIDENTE. Sotto la strada Garoe-Bosaso.

FRANCESCO FORTE. Non riesco a capire come si possa. Non c'ero, ma ragionando tecnicamente, considerato che una strada ha una pavimentazione, non si capisce per quale motivo si debba fare una buca proprio sotto la strada! Non mi sembra tecnicamente possibile. In più, mi sembra assurdo perché, ripeto, si possono nascondere dappertutto rifiuti tossici o non tossici.

PRESIDENTE. Stiamo cercando di capire.
Lei afferma che non era possibile, dato che c'era una lavorazione in corso. Il punto è che prima della lavorazione si possono fare gli interramenti; poi, si fa la lavorazione, in presenza di diecimila persone.
«Il nostro turno di lavoro» - prosegue Brofferio - «durava dodici o quattordici ore e alla fine del lavoro ogni gruppo di macchine veniva ordinato nel fronte di avanzamento. C'erano una decina di camion, una paio di ruspe e tutto il necessario, tutti ben ordinati per il giorno seguente. Queste macchine erano custodite da custodi locali, all'inizio. Va notato che gli operatori erano totalmente locali; c'erano dei capi squadra italiani per organizzare i movimenti. La mattina, quando si riprendevano i lavori, spessissimo si trovavano i camion tutti disseminati da una parte e dall'altra e ricordo che ciò si fece presente alle autorità locali. C'era una controparte locale che si incaricava dei contatti con i locali, per problemi di comunicazione. Questa indisciplina si è sempre verificata e poi ci è stato chiesto di mettere dei militari, che dipendevano dal generale Morgan, della divisione di Garoe: peggio che andar di notte! Il fatto che le macchine fossero usate localmente...», eccetera.
In buona sostanza, Brofferio afferma che gli interramenti dei quali stiamo parlando si sarebbero verificati di notte e che questo disseminarsi - o trovar disseminati - i camion era il segno dell'operazione notturna.

FRANCESCO FORTE. Va benissimo, posso anche ammetterlo! A me non importa nulla, perché è chiaro che la strada l'abbiamo fatta per altri scopi e da qui risulta che era una cosa nascosta. Non so se Brofferio mente, se è scemo o se le cose non le sa, ma va detto che lì, in giro, c'erano i ribelli. Io avevo fatto degli accordi con i ribelli del Fronte di liberazione somalo affinché non ci attaccassero. Anzi, ho fatto un viaggio personale con mia moglie, con l'elicottero, dando notizia di questo. Quindi, in loco c'erano anche i ribelli; e potevano esserci anche di notte.
Allora, mi domando il perché di una cosa del genere, se si volevano nascondere dei rifiuti, con tutto lo spazio disponibile, in cui nessuno andava mai a guardare (vi sono zone assolutamente impervie, sulla costa o all'interno, nelle montagne)! Benissimo, le avranno messe sotto questa strada ma a me sembra una operazione illogica. Sarà così, anche se lo trovo assolutamente strano.
Possono aver fatto molte altre cose, possono essersi rubati dei materiali (questo è possibile), possono aver usato i camion per altri scopi; possono aver fatto un mucchio di cose del genere, ma a me sembra strano che sia stata fatta proprio una cosa così, perché mi sembra complicata, non utile e rischiosa, non tanto per i nostri; a parte che c'erano i soldati del


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generale Morgan, i quali potevano sparare se vedevano qualcuno che non c'entrava...

PRESIDENTE. Va bene, abbiamo compreso il suo pensiero.
Ha mai sentito parlare del progetto Urano?

FRANCESCO FORTE. No. Non so cosa sia.

PRESIDENTE. Ha conosciuto Guido Garelli?

FRANCESCO FORTE. Non so chi sia.

PRESIDENTE. Ha mai sentito nominare Ezio Scaglione?

FRANCESCO FORTE. No.

PRESIDENTE. Giancarlo Marocchino?

FRANCESCO FORTE. No.

PRESIDENTE. Non sa chi sia Giancarlo Marocchino?

FRANCESCO FORTE. No.

PRESIDENTE. Nicholas Bizzio?

FRANCESCO FORTE. No.

PRESIDENTE. Spada?

FRANCESCO FORTE. No. Chi sono queste persone?

PRESIDENTE. Ha conosciuto Renzo Pozzo, della SEC di Viareggio?

FRANCESCO FORTE. No, io con la SEC non avevo niente a che fare, perché è una cosa della cooperazione.

PRESIDENTE. Ha conosciuto la famiglia Malavasi?

FRANCESCO FORTE. Qual è la famiglia Malavasi? Se non mi fa il nome di un imprenditore, la «famiglia Malavasi» a me non dice nulla.

PRESIDENTE. Ha mai saputo nulla della perdita dei documenti FAI che erano stati custoditi presso l'ambasciata italiana a Mogadiscio?

FRANCESCO FORTE. I documenti FAI erano custoditi presso una delegazione, non credo fossero presso l'ambasciata. Comunque, non lo so. So che a Mogadiscio c'erano i documenti riguardanti le attività che venivano fatte sul posto. In seguito, seppi da dicerie che si erano persi. Ma queste erano, diciamo, le copie locali dei documenti.

PRESIDENTE. E gli originali?

FRANCESCO FORTE. Gli originali erano a Roma, alla Farnesina, negli uffici. Da una parte ci sono i contratti, che venivano custoditi lì per le autorizzazioni, eccetera. Poi, vi erano probabilmente dei documenti tecnici sui lavori. Però, ripeto, a Mogadiscio erano copie, perché tutto quello che doveva servire come documentazione - e che è stato utilizzato ampiamente - è stato sottoposto alla società di revisione. Tutta la parte ufficiale c'era ed è stata regolarmente controllata, ed era alla Farnesina. Quindi, questi documenti o erano dettagli operativi dei lavori oppure erano copie, dato che gli originali, ripeto, sono stati controllati, schedati e archiviati; non può essere che si siano persi.

PRESIDENTE. Non è possibile che siano andati distrutti?

FRANCESCO FORTE. No.

PRESIDENTE. Però noi abbiamo una nota di Augelli...

FRANCESCO FORTE. Chi è?

PRESIDENTE. Augelli era il capo della delegazione in Somalia. Abbiamo una sua


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nota del 9 settembre 1993, con cui comunica alla Direzione generale cooperazione allo sviluppo che la delegazione era riuscita a rientrare in possesso degli archivi dell'ex ambasciata saccheggiata nel 1991. Il diplomatico aggiunge che fra i fascicoli recuperati figurano anche numerosi fascicoli del FAI relativi alla gestione in quel paese, «tenuto conto che, secondo quanto dichiarato alla stampa dall'ex commissario straordinario, onorevole Forte, le carte del FAI sarebbero andate distrutte».

FRANCESCO FORTE. No, questa è un'altra cosa.

PRESIDENTE. «Si segnala ad ogni buon fine che è possibile far giungere a Roma con aereo militare i fascicoli 'Somalia', relativi a quella gestione».

FRANCESCO FORTE. Le carte del FAI distrutte sono un'altra cosa. Ad un certo punto, il mio archivio del FAI era a Roma, tutto il mio archivio, in un magazzino che, non si sa per quali motivi, fu incendiato. C'erano due copie, una della Farnesina e una del ministro; prima si trattava del ministro delle finanze, poi delle politiche comunitarie, poi del FAI...

PRESIDENTE. Quindi, la sua copia è andata distrutta.

FRANCESCO FORTE. La mia era tutta in un magazzino a Roma.

PRESIDENTE. Ed è stata incendiata.

FRANCESCO FORTE. È stata incendiata. E io ne ho recuperato - io - solo qualche fascicolo.

PRESIDENTE. Ma l'originale c'è?

FRANCESCO FORTE. L'originale era alla Farnesina.

PRESIDENTE. Ed è rimasto alla Farnesina?

FRANCESCO FORTE. È rimasto alla Farnesina.

PRESIDENTE. Quindi, a cosa si riferisce la distruzione? Chiariamo.

FRANCESCO FORTE. La distruzione è quella delle mie copie.

PRESIDENTE. Insomma, la distruzione non ha eliminato l'esistenza di nessuno degli atti.

FRANCESCO FORTE. No, sono stati tutti controllati. Avevamo una società di revisione, ripeto, a cura del ministro Andreotti; c'è stata una relazione di questa società, quindi gli atti non si sono persi.

PRESIDENTE. E questa è una questione. Che ci sa dire, per quanto riguarda l'altra questione? Mi riferisco ai documenti che erano presso l'ambasciata a Mogadiscio.

FRANCESCO FORTE. Quelli erano i documenti dell'ENFAI, cioè dell'interfaccia che si occupava, per la parte somala, delle proprie documentazioni oppure delle documentazioni che l'ambasciata riceveva. Infatti, l'ambasciata - come qualsiasi altra ambasciata - riceveva da noi le documentazioni relative alla nostra attività. L'ambasciata aveva un suo archivio che riguardava noi. Quindi, all'ambasciata c'era, evidentemente, un archivio, tra cui vi erano le documentazioni che riguardavano il FAI. L'ambasciata, inoltre, faceva dei rapporti al Ministero su quel che accadeva sul posto, quindi raccoglieva la nostra documentazione...

PRESIDENTE. Che fine hanno fatto questi documenti?

FRANCESCO FORTE. Non lo so. Secondo quel che si dice in quel documento, sembra che siano spariti in questa distruzione.


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PRESIDENTE. No, la distruzione riguarderebbe gli altri. Questi, invece, sarebbero scomparsi.

FRANCESCO FORTE. Come sarebbe a dire, scomparsi?

PRESIDENTE. «La delegazione è riuscita a recuperare a Mogadiscio gli archivi dell'ex ambasciata d'Italia, saccheggiati nel 1991». Lei sa se siano mai stati recuperati questi documenti?

FRANCESCO FORTE. Penso di no.

PRESIDENTE. Avete idea di chi potessero essere in possesso?

FRANCESCO FORTE. No, proprio non lo so.

PRESIDENTE. Veniamo alla camera di commercio italo-somala, presieduta da Paolo Pillitteri. Lei la conosceva come istituzione, come organismo, come ente privato, come associazione o altro?

FRANCESCO FORTE. Ad un certo punto, mi hanno detto che c'era.

PRESIDENTE. Ha mai avuto rapporti con questa camera di commercio?

FRANCESCO FORTE. No.

PRESIDENTE. Nessun tipo di rapporto?

FRANCESCO FORTE. No.

PRESIDENTE. Conosceva Pillitteri?

FRANCESCO FORTE. Sì, certo, ma non per questo.

PRESIDENTE. Pillitteri è mai ricorso a lei, con riferimento alle esigenze di questa camera di commercio, per il compimento di attività commerciali, e via dicendo?

FRANCESCO FORTE. No.

PRESIDENTE. Per la trattazione di questioni di affari?

FRANCESCO FORTE. No.

PRESIDENTE. Non ha mai avuto nessun rapporto con la camera di commercio italo-somala?

FRANCESCO FORTE. No.

PRESIDENTE. Sa che questa vicenda è stata oggetto di parecchie indagini giudiziarie?

FRANCESCO FORTE. Non lo so.

PRESIDENTE. Questi fatti sono finiti su tutti i giornali.

FRANCESCO FORTE. Non ho letto tutti i giornali su tutti i processi che abbiamo subito...

PRESIDENTE. Le faccio una domanda secca, cosicché lei possa risponderci altrettanto seccamente (e, forse, seccato): le risulta che venissero corrisposte tangenti a italiani o a somali per i progetti realizzati in Somalia?

FRANCESCO FORTE. Presidente, vi sono stati dei procedimenti giudiziari, che sono agli atti. E in quei procedimenti risulta che io non ho dato e non ho ricevuto tangenti...

PRESIDENTE. Non mi riferivo a lei.

FRANCESCO FORTE. Appunto. Per il resto, presumo che i somali, tra di loro, abbiano esercitato ampiamente la corruzione. Per quanto riguarda gli italiani, seppure non con riferimento alla Somalia, ne ho cacciati tre o quattro (con grande dispiacere della Farnesina, che non era abituata a questo), perché commettevano atti illeciti e tentativi di tangenti, o anche tangenti, tra cui un certo De Luca, che è noto, e che ha avuto anche un processo. Può darsi che questi siano riusciti anche ad averne. Pertanto, diciamo che a me


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risulta che era possibile che vi fossero atti di corruzione in genere (perché ne ho scoperti alcuni) e in specie (tra l'altro, una delle ragioni per cui è stato costituito il FAI è perché, si diceva, la cooperazione era corrotta).
Voglio aggiungere che avevo un comitato di magistrati...

PRESIDENTE. E questa è la cosa...

FRANCESCO FORTE. Forse a voi non piace...

PRESIDENTE. Come, non ci piace? Siamo tutti magistrati, qua.

FRANCESCO FORTE. Scusate, ma mio nonno faceva il procuratore del Re, mio padre faceva il procuratore della Repubblica ed anche mio zio - il fratello di mia madre -, per cui io mi sono circondato di magistrati. Se è una colpa non lo so, però ho sempre esercitato una vigilanza di tipo paragiudiziario.
Ripeto, so che ci sono stati episodi di corruzione, però - ragionando in termini giuridici - posso dire che quelli da me conosciuti ho provveduto ad eliminarli; per quanto riguarda quelli di cui ho avuto una vaga idea, non posso sostenere che ci sono stati, perché giuridicamente posso solo dire...

PRESIDENTE. Manca la prova.

FRANCESCO FORTE. Esatto.

PRESIDENTE. La ringrazio, ho concluso le mie domande.
La parola all'onorevole Motta.

CARMEN MOTTA. Grazie, presidente.
Professore, mi tolga una curiosità, alla fine di questa lunga audizione. Lei - così ha detto - sa che vi sono stati fenomeni di corruzione.

FRANCESCO FORTE. Certo.

CARMEN MOTTA. Lo sa per sentito dire o ce ne può riferire qualcuno, in maniera circostanziata e precisa? Capirà, professore, che per noi questo è un elemento importante.

FRANCESCO FORTE. È semplice. Esistono dei fascicoli processuali, che potreste acquisire, da cui si può vedere se c'è o se non c'è. Per quanto mi riguarda, le posso dire che quando ho trovato tentativi di corruzione, per esempio di questo De Luca, l'ho espulso. De Luca non so se lo facesse sulla Somalia - adesso non mi ricordo - comunque lo faceva su larga scala, quindi diciamo che vi sono stati sicuramente degli episodi che sono agli atti di un processo sulla cooperazione. Che non è il mio processo, nel quale noi siamo stati assolti. Pertanto, che posso dirle? Nel mio processo non risultano atti di corruzione, in altri processi è probabile che ci siano.

CARMEN MOTTA. La ringrazio.

PRESIDENTE. Se non vi sono altre domande, ringrazio il professor Francesco Forte: per noi è sempre importante sentire la voce dell'esperienza, oltre che della cultura.
Ringrazio, altresì, i colleghi intervenuti e dichiaro concluso l'esame testimoniale.

La seduta termina all'1,05 di mercoledì 14 settembre 2005.

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