Back Forward

Seduta del 13/9/2005


Pag. 37


...
Esame testimoniale di Fabio Fabbri.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'esame testimoniale di Fabio Fabbri, ministro della difesa all'epoca dell'uccisione dei nostri due giornalisti, al quale faccio presente - ma è una menzione formale, non più di questo - che, essendo ascoltato con le forme della testimonianza, ha l'obbligo di rispondere e di dire la verità.
Le chiedo, intanto, di indicare le sue generalità.

FABIO FABBRI. Mi chiamo Fabio Fabbri, sono nato il 15 ottobre 1933 a Ciano Denza e sono residente a Tizzano Val Parma, in via Europa Unita, n. 1. Attualmente faccio l'avvocato; ho cessato l'attività - anzi il mestiere, perché l'ho fatto per molti anni - di uomo politico nel 1994, saturo, e serenamente sono tornato a fare il mestiere che credo sia anche il suo.

PRESIDENTE. Ricordavo prima, presentandola, che lei era ministro della difesa all'epoca dell'uccisione di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, esattamente il 20 marzo 1994. Vorrei, dunque, che innanzi tutto, ci delineasse il quadro d'insieme dei rapporti tra il Governo italiano e la Somalia a quell'epoca, in relazione sia ai fatti specifici e al contesto del momento, sia ai precedenti. Le ricordo, anche se credo non ve ne sia affatto bisogno, che era quello il periodo in cui il contingente italiano era di stanza a Mogadiscio e, anzi, il 20 marzo era proprio il giorno della partenza del contingente medesimo. Dunque, il rapporto, sia politico sia di carattere economico, tra l'Italia e la Somalia in quel periodo, dall'alto della sua esperienza e del ruolo istituzionale che allora ricopriva, qual era?

FABIO FABBRI. Chiedo di essere indulgenti, perché sono passati molti anni. Tuttavia, ho un ricordo abbastanza approfondito di quei fatti, che hanno rappresentato un periodo importante nella mia vita di uomo politico, e anche nella mia vita tout court, perché la missione in Somalia ha comportato decisioni di ordine politico e un insieme di relazioni internazionali, specialmente con l'ONU e con gli Stati Uniti d'America, che mi sono rimaste molto impresse nella memoria.
Ho cominciato ad occuparmi della Somalia - perché prima di me la missione già era in corso - quando sono stato nominato ministro della difesa nel Governo Ciampi, nel 1993. Direi che gli aspetti salienti di questa esperienza hanno soprattutto riguardato il dissenso, molto acuto, fra l'impostazione del Governo italiano, e del ministro della difesa in particolare, e il rappresentante dell'ONU, che era l'ammiraglio Howe, e gli americani.
Sintetizzo il più velocemente possibile di cosa si è trattato. Sostanzialmente, in Somalia noi avevamo un ruolo molto importante, perché la Somalia è in larga misura italofona, perché c'è tutta una serie di rapporti storici ed io, occupandomi molto intensamente della presenza del nostro contingente


Pag. 38

in Somalia, mi resi conto che il nostro ruolo era importante ma anche largamente sottovalutato. In sostanza, noi non eravamo presenti nel comando militare e non c'era un rapporto di collegialità. Questo sotto un primo profilo; sotto un secondo profilo, imparai che gli americani, praticamente, agivano in modo del tutto autonomo, svincolati da ogni rapporto addirittura di coordinamento con l'ONU - Howe era americano - e questo creava una situazione di disagio.
Devo dire, per la comprensione delle decisioni che ebbi ad assumere - che furono molto gravi ad un certo punto, perché noi ci dissociammo dalle modalità di conduzione dell'ONU e degli americani -, che io sono sempre stato politicamente filo-americano (coscienza atlantica). Tuttavia, in quella occasione mi resi conto che noi eravamo relegati in una condizione insopportabile; soprattutto, mi resi conto che le modalità di conduzione dell'attività della forza dell'ONU non coincidevano con le finalità di soccorso umanitario, di pacificazione, di attivazione del dialogo tra le parti somale, finalità volute anche dalla deliberazione delle Nazioni Unite. Quindi, sorse subito un contrasto molto violento, perché io censurai questo modo di agire degli americani e dell'ONU, che avevano trasformato una missione che era inizialmente di peace keeping, ma anche di peace enforcing, in una guerriglia urbana continua, in un uso della violenza che portava a massicce incursioni, bombardamenti e così via.
Posi il problema politico e posi anche in seno al Governo di cui facevo parte l'esigenza di una riconsiderazione della missione, dicendo che il cuore del problema era di trovare un punto di equilibrio tra l'uso della forza e le finalità di pacificazione della missione. Ciò rendendomi conto che via via che cresceva l'impiego violento della guerriglia urbana, dei combattimenti e dei bombardamenti, si riducevano enormemente le possibilità di attivazione del dialogo e di conciliazione tra le parti.

PRESIDENTE. Lei ha detto di essere diventato ministro della difesa nel 1993, se non sbaglio.

FABIO FABBRI. Sì, quando fu nominato il Governo Ciampi.

PRESIDENTE. Dunque, questa diagnosi l'ha accompagnata nello svolgimento di tutto il suo mandato?

FABIO FABBRI. Sì.

PRESIDENTE. Lei quando ha lasciato il ministero della difesa?

FABIO FABBRI. L'ho lasciato dopo le elezioni, quando si è formato il nuovo Governo, il che è avvenuto il 10 maggio 1994. L'episodio della Alpi è del 20 marzo...

PRESIDENTE. Quindi lei era in piena funzione. Questa diagnosi che ora sta facendo riguarda tutto il periodo in cui è stato ministro della difesa?

FABIO FABBRI. Sissignore.

PRESIDENTE. Sulla base di quali circostanze di fatto e situazioni lei ha potuto fare questa valutazione, dall'alto del suo ministero? Lei ci sta rappresentando una situazione di guerriglia e quant'altro che cade, tra le altre cose, proprio nel periodo in cui era presente in Somalia, a Mogadiscio, il nostro contingente ed erano presenti, come ho già ricordato, i due giornalisti, per cui sarebbe per noi molto importante che lei riuscisse a farci una fotografia di quel contesto.

FABIO FABBRI. Riassumo gli aspetti salienti, perché io sono andato due volte a Mogadiscio.

PRESIDENTE. Lo so, poi parleremo di questo.

FABIO FABBRI. Il 10 giugno 1993, dopo l'eccidio dei 23 pakistani, avvenuto il 5 giugno, il comandante del nostro contingente,


Pag. 39

generale Loi, mi comunicò che il contingente era in grado di catturare il generale Aidid e mi domandò istruzioni. Io, che ero per caso sulla nave Vespucci insieme al Presidente della Repubblica, sentii il Presidente, il quale mi disse «Procedete», sentii il Presidente del Consiglio, come era mio dovere, e questi mi disse «Procedete, però prima sentite il comando dell'ONU». Il comando dell'ONU non ci autorizzò alla cattura di Aidid.

PRESIDENTE. Siamo a giugno del 1993.

FABIO FABBRI. Sì. E la cosa veramente singolare è che poi per distruggere Aidid, per liquidarlo, ci fu un bombardamento in cui furono uccise settanta persone e prima c'era stato anche un altro episodio, in cui, ancora una volta su iniziativa dei militari degli Stati Uniti, era stato fatto un eccidio. Io posi allora, esplicitamente, l'esigenza di contrastare le manifestazioni di violenza dei somali non sparando sulla folla, come avevano fatto i militari degli Stati Uniti specialmente, ma utilizzando altri mezzi (lacrimogeni o altro). E questo problema lo posi anche in occasione dell'incontro che ebbi con l'ammiraglio Howe a Mogadiscio, il 15 gennaio.
In sostanza, la frattura era proprio fra noi e gli Stati Uniti, perché, come scrisse successivamente il New New York Times, noi usavamo Machiavelli e loro, invece, erano dei Rambo. In sostanza, la via italiana, che pure riconosceva che operavamo nell'ambito dell'articolo 7 della Carta delle Nazioni Unite, riconosceva anche che l'utilizzazione di forme violente, che comportavano forti perdite tra i civili, era errata, e gli stessi Stati Uniti d'America, in sostanza, finirono per riconoscere che gli italiani in Somalia avevano ragione.
La missione in Somalia dell'ONU è stata un vero disastro, perché l'impostazione è stata completamente sbagliata.

PRESIDENTE. La missione in Somalia di chi, nostra?

FABIO FABBRI. No, degli americani e dell'ONU. Presidente, a un certo punto, quando andai in Somalia, parlai con molti militari ed ebbi la sensazione che, se avessero dato a noi l'incarico di mettere ordine a Mogadiscio, ci saremmo riusciti, perché i nostri militari - «italiani brava gente», è il caso di dirlo - avevano un rapporto straordinario con la popolazione. Aprivamo continuamente dei punti vendita di viveri, abbiamo creato dodici orfanotrofi, abbiamo aperto delle scuole, più di centomila persone sono state curate nei nostri presidi sanitari: in sostanza, eravamo in grado di attivare anche quella conciliazione, quel rapporto tra le parti che, invece, la missione dell'ONU non riuscì a realizzare.

PRESIDENTE. Per quelle che sono state le sue consapevolezze, basate su informazioni importanti, come quelle dovute ad un ministro, rispetto agli italiani che erano in Somalia e allo stesso contingente italiano, qual era la posizione dei somali? Mi par di capire dalla sua diagnosi intorno all'atteggiamento degli americani che non potesse portare molto di buono nei rapporti con i somali; questa situazione negativa che riguardava gli americani si estendeva, per traslazione, diciamo, anche agli italiani, oppure questi erano tenuti in buona considerazione, pur sapendo che si trattava di un contesto militarmente legato a quello americano?

FABIO FABBRI. La mia opinione, il convincimento che mi ero formato era che noi avessimo molte più chance di avere un rapporto con la popolazione che gli americani non erano assolutamente in grado di sviluppare, e neppure l'ONU. Il comandante dell'ONU, che pure io ho incontrato, vedeva l'intervento soprattutto sotto il profilo militare; l'osservazione che facevamo noi era la seguente: se era necessario disarmare la Somalia - perché c'erano munizioni dappertutto, c'erano quelle che avevano lasciato i russi e così via - occorreva una presenza di militari assai maggiore, nel quale caso l'azione violenta avrebbe potuto essere privilegiata; ma poiché non c'erano forze sufficienti per realizzare il disarmo, noi privilegiavamo il


Pag. 40

dialogo fra le parti, la conciliazione, la normalizzazione del paese, il miglioramento della situazione economica. Non dimentichiamo che quando siamo andati in Somalia morivano duemila somali al giorno, successivamente, Restore hope era almeno riuscita a ridurre questa situazione.
Se devo essere sincero, c'è stato un momento in cui ho pensato che la nostra considerazione nella popolazione somala fosse scemata: è stato dopo l'episodio del check point Pasta, quando morirono una settantina di somali. Ma noi ci siamo difesi. Aggiungo, però, che quando ci è stato ordinato dal comando dell'ONU di rioccupare il check point Pasta le relazioni erano buone - dico io qui, visto che ci occupiamo di questa vicenda - anche grazie alla presenza del Sismi, perché siamo riusciti, con il dialogo con gli anziani e, in genere, con la popolazione, a rioccupare il check point Pasta senza spargimento di sangue. In effetti, questo è stato il momento più cruento, perché gli americani ci avevano ordinato di fare l'azione. Il generale Loi mandò a me una relazione da cui risultava che, se avessimo proceduto armata manu, la nostra forza armata avrebbe avuto una perdita del 30-40 per cento e fu allora che io, sentito il Presidente del Consiglio, dissi a Loi che il Governo italiano gli ordinava di non dare esecuzione.

PRESIDENTE. Lei ha nominato il Sismi ed io le dico - anche se torneremo poi su questi problemi - che il Sismi ci ha lasciato una documentazione, molto corposa, che ha un motivo dominante: quello di un forte risentimento della popolazione somala verso gli italiani. Tra l'altro, un risentimento che avrebbe anche delle ragioni sulle quali poi mi permetterò di formulare qualche domanda e che sarebbe cresciuto proprio a ridosso della partenza del contingente italiano, in quanto c'era quasi la sensazione - si dice in alcuni dispacci Sismi - che si volesse lasciare il popolo somalo alla sua sorte. Questa informazione di intelligence che noi abbiamo, e che ci consegna un contesto abbastanza animoso nei confronti degli italiani, a lei risulta?

FABIO FABBRI. Ad un certo punto, mi fu segnalato che comparivano delle scritte anti-italiane sui muri di Mogadiscio. Però, in sostanza, abbiamo - io, per lo meno - sempre creduto che gli italiani fossero i meno malvisti di tutti. Poi, vi fu forse una parte dei somali che non era della stessa idea; come sa, vi erano schieramenti contrapposti.

PRESIDENTE. È mai stato messo a conoscenza del fatto che si rimproverava al contingente italiano di aver disarmato uno dei contendenti o - come si diceva allora - dei signori della guerra, ovvero Ali Mahdi, mentre l'altro (parliamo di Aidid) sarebbe rimasto con la piena dotazione di armi?
La circostanza è certa; è certo che Ali Mahdi sia stato disarmato nel settembre 1993. In verità, per non far vedere di esser stato determinato alla consegna delle armi, costui ci ha dichiarato di averlo fatto spontaneamente ma abbiamo capito che era soltanto, diciamo così, l'ultimo ruggito del leone. Invece, Aidid sarebbe rimasto nel pieno possesso di tutte le armi che aveva raccolto dopo la caduta di Siad Barre. Il dato storico, dunque, è certo.
Quel che bisogna capire - e questo è un elemento di supporto rispetto alle informative Sismi - è se al suo livello, in quel periodo, le sia stata conferita la notizia del disarmo di Ali Mahdi, a fronte della piena disponibilità di armi per Aidid.

FABIO FABBRI. No. Da quel che ricordo, questa discrepanza di trattamento non l'ho avvertita, anche perché avevo una pietra miliare: mi riferisco al fatto che i nostri erano pronti a catturare Aidid, ma ci fu impedito.

PRESIDENTE. Dunque, possiamo dire che la posizione dell'Italia rispetto ad Aidid era di contrarietà.

FABIO FABBRI. Sì, di contrarietà.


Pag. 41


PRESIDENTE. E rispetto ad Ali Mahdi? Che cosa rappresentava Ali Mahdi per le autorità e per le istituzioni italiane? Come era considerato?

FABIO FABBRI. Era considerato come il contraltare, come l'avversario di quell'altro.

PRESIDENTE. Ma in genere gli avversari hanno il comune denominatore di essere uguali tra loro.

FABIO FABBRI. Sì, erano due briganti. Aidid e Ali Mahdi erano due briganti: questa era la nostra valutazione. Ed era quello che mi diceva il generale Loi.
Debbo dire, sempre per assumere le mie responsabilità, che io feci - com'è naturale - una valutazione degli uomini che avevamo sul campo. E credo che il generale Loi, anche per quel che mi dissero gli altri militari ed i diplomatici, fosse il più bravo di tutti sul campo; il più bravo come militare, il più capace, il più equilibrato. Tutto meno che un «Rambo». Anzi, era il più impegnato alla ricerca di soluzioni negoziali, di dialogo, di rapporto con la popolazione, di conquista della popolazione somala. Devo dire, quindi, di aver fatto molto affidamento sul generale Loi. E l'ho difeso quando gli americani volevano che se ne andasse.

PRESIDENTE. Come ci ha appena detto, lei è stato in Somalia. Ci può, con qualche particolare - nei limiti del ricordo, s'intende - descrivere la sua missione?

FABIO FABBRI. Certamente. Andai in Somalia nel momento cruciale, in cui erano avvenute una serie di azioni belliche, capeggiate sostanzialmente dagli americani e in parte dai pakistani, che avevano provocato molti morti fra la popolazione civile. Ebbi un incontro con l'ammiraglio Howe e con il generale Bir. Io ero accompagnato dal mio capo di gabinetto e dal sottosegretario Patuelli. In sostanza, fu lì che per la prima volta ponemmo e cercammo di difendere la nostra impostazione e di proporre agli americani e al comando dell'ONU una riconsiderazione della loro strategia.

PRESIDENTE. Questo viaggio fu preceduto da una missione, che fu effettuata...

FABIO FABBRI. Da Augelli, mi pare.

PRESIDENTE. No, non intendo dire da Augelli ma dal Sismi. Ne ha ricordo?

FABIO FABBRI. No, questo debbo dire che non me lo ricordo. Ho dato un'occhiata, sia pur rapidamente, in questi pochi giorni, agli atti della Commissione su Internet e ho visto che vi è stata una missione. Mi pare che vi abbia partecipato addirittura il direttore del Sismi, se non sbaglio.

PRESIDENTE. Sì, il generale Pucci.

FABIO FABBRI. Non me lo ricordo, né ricordo di essere stato informato.

PRESIDENTE. Andò insieme all'ammiraglio Grignolo. E vi era pure un avvocato, un certo avvocato Duale.

FABIO FABBRI. Non l'ho mai sentito nominare.

PRESIDENTE. Un avvocato somalo che esercitava - ed esercita tuttora - in Italia. Non ha ricordo di questo pregresso rispetto alla sua visita?

FABIO FABBRI. Non ricordo niente e mi pare proprio che non me ne abbiano mai parlato.
Per quanto riguarda il nostro incontro, Howe disse che vi erano dei depositi militari, che risalivano al tempo in cui i russi erano presenti in Somalia; disse inoltre che sarebbe stato bene distruggere tali armi - vi erano anche dei lanciarazzi - e che le truppe di Aidid prelevavano armi dai siti che, invece, sarebbero dovuti restare vergini. Dunque, uno degli obiettivi era quello di smantellare quei siti.


Pag. 42


Ricordo che proposi tre linee di azione: innanzitutto, l'impegno per evitare violenze verso le popolazioni civili. Montanelli, poi, fece dell'ironia al riguardo («Fabbri vuol sparare con le pallottole di gomma») ma in realtà io proposi tale utilizzazione soprattutto per contenere la folla, dato che vi erano delle donne che facevano da scudo ai miliziani somali. Poi, queste misure di contenimento della folla - idranti, spray vescicanti, e così via - furono utilizzate.
Soprattutto, insistetti perché si facessero degli sforzi per riattivare i dialoghi in vista di una soluzione politica, sfruttando l'esperienza italiana e il buon rapporto tra gli italiani e i somali.
L'altro punto fondamentale era quello di togliere gli italiani dall'isolamento e di consentire la presenza di un nostro militare nella cellula del comando. Si badi bene, noi non abbiamo mai disobbedito al comando; quel che chiedevamo era che fossimo coinvolti nella progettazione. Ci fu una volta in cui gli americani vennero anche nel nostro settore e questo diede molto fastidio ai somali. Se io dicessi, però, che non avevamo dei nemici direi una inesattezza.
Non so se interessi alla Commissione, però vorrei precisare che la linea politica che abbiamo scelto - come Governo - non fu il risultato di una scelta indolore: vi fu un dibattito e vi fu un conflitto tra il Ministero degli esteri e quello della difesa. Il primo era molto più propenso ad assecondare le richieste degli americani e dell'ONU. Il ministro degli esteri all'epoca era l'onorevole Andreatta. E ogni volta che si doveva prendere una decisione sulla linea da seguire, avveniva una discussione alla Presidenza del Consiglio. Il Presidente Ciampi ci convocava, con Maccanico, e devo dire che le scelte sono sempre state conformi a quelle indicate da noi, che avevamo i militari sul campo. Lo voglio ricordare, per un dovere di riconoscenza nonché di affetto per il ministro Andreatta che, come sappiamo, ha avuto una vicissitudine tragica. Alla fine, quando andò all'ONU, Andreatta mi disse: «Sono andato a sostenere la nostra politica, anzi, se devo essere sincero, la tua politica», che era stata, poi, la politica di tutto il Governo.
Successivamente, vi fu un incontro tra Clinton e Ciampi e alla fine, dopo che siamo partiti, la risoluzione dell'ONU era tale da trasformare praticamente il peace enforcing in peace keeping e da mutare in sostanza la linea di aggressione scelta dagli americani (così come gli americani fanno un po' dappertutto). E gli americani si convinsero, tant'è che nel settembre il ministro della difesa americano, dopo tutta una polemica, venne a Roma, dove trovammo una conciliazione: in sostanza, riconobbe che noi avevamo visto giusto. Però, il riconoscimento fu tardivo, perché ormai tutti erano già in procinto di lasciare la Somalia.

PRESIDENTE. Su che cosa si fondava lo scontro del check-point Pasta, avvenuto ai primi di luglio del 1993? Da cosa fu determinato?

FABIO FABBRI. Abbiamo perso il check-point Pasta una prima volta - ci siamo difesi e vi sono stati dei morti - il 2 luglio, se non sbaglio. Vi furono 73 morti tra i somali, mentre morirono tre nostri militari, tra i quali Paolicchi e Baccaro. Vi fu uno scontro a fuoco e noi ci difendemmo.

PRESIDENTE. A che cosa era dovuto lo scontro a fuoco?

FABIO FABBRI. Al fatto che le milizie somale volevano occupare il check-point Pasta, che era diventato una specie di Alcazar, di punto di difesa.

PRESIDENTE. Una specie di linea rossa, potremmo dire.

FABIO FABBRI. Qualcosa del genere. Il 5 luglio, il comando Unosom ordinò al contingente italiano di rioccupare il check-point Pasta. Fu allora che il nostro contingente programmò l'azione e comunicò al Governo italiano che avrebbe comportato un alto numero di morti.


Pag. 43


PRESIDENTE. Quando lei ha affermato che guardavate ad Aidid e ad Ali Mahdi come a due signori della guerra, ha riferito quella che era una sua opinione? Oppure, questa era l'opinione del Ministero della difesa o del Governo italiano? Il Governo italiano era conforme nel ritenere che i due fossero dei signori della guerra e che quindi andassero guardati entrambi con il dovuto sospetto, oppure c'era un atteggiamento diversificato nei loro confronti?

FABIO FABBRI. Non mi accorsi di una propensione, di una maggior attenzione o benevolenza nei confronti dell'uno piuttosto che dell'altro. E questa era un po' l'atmosfera che si respirava nel mio gabinetto. Io avevo un eccellente consigliere diplomatico, che è l'attuale ministro...

PRESIDENTE. E al Ministero degli esteri che cosa si riteneva?

FABIO FABBRI. Non lo ricordo, però non è stato un problema politico che io abbia dovuto affrontare. Sul mio tavolo questo problema politico non vi è mai stato.

PRESIDENTE. Il 15 settembre 1993, al porto nuovo di Mogadiscio vengono uccisi due paracadutisti italiani.

FABIO FABBRI. Sì, uno dei due era Visioli, di Casalmaggiore...

PRESIDENTE. Esatto, uno era Giorgio Righetti e l'altro Rossano Visioli. Cosa può dirci al riguardo?

FABIO FABBRI. La versione che mi fu comunicata era che fossero stati colpiti dal fuoco di cecchini somali, inizialmente. Poi - e qui vado a memoria - ad un certo punto si sospettò (ne parlammo) che fosse fuoco amico.

PRESIDENTE. Di chi?

FABIO FABBRI. Non ricordo; di militari che forse erano in partenza, una cosa del genere, però non ricordo chi.

PRESIDENTE. Ma quale ragione fu ipotizzata, rispetto all'una o all'altra versione (cecchini somali o fuoco amico)? Non sappiamo se vi sia stata un'inchiesta giudiziaria, dobbiamo ancora approfondire. Comunque, quale ragione fu ipotizzata?

FABIO FABBRI. Vado a memoria. Si parlò di cecchini somali perché in effetti il clima era come quello che si vive attualmente a Baghdad, cioè si sparava continuamente. Gli italiani erano anche bersaglio, quindi l'ipotesi dei cecchini somali erano nell'ordine delle cose possibili.

PRESIDENTE. Un attimo, mi scusi. Lei ha appena detto che gli italiani erano anche bersaglio.

FABIO FABBRI. Erano anche bersaglio.

PRESIDENTE. Perché erano bersaglio?

FABIO FABBRI. Perché, probabilmente, una parte dei somali si opponevano agli italiani, non so istigati da chi. O forse perché abbiamo avuto più di cento scontri a fuoco, quindi evidentemente avevamo degli avversari. Non si può dire che non abbiamo sparato; quando è stato necessario, lo abbiamo fatto. Non è vero che fossimo soltanto delle crocerossine, abbiamo anche sparato, quindi è evidente che avevamo degli avversari; anche tra i signori della guerra ce n'era qualcuno. Dunque, che si fosse trattato di cecchini era quasi naturale.
Quella del fuoco amico fu un'ipotesi che, invece, non fu mai coltivata e suffragata fino in fondo.Però, ricordo che nel gabinetto serpeggiava anche l'ipotesi che si fosse trattato di fuoco amico.

PRESIDENTE. E perché fuoco amico?

FABIO FABBRI. Fuoco amico per errore.

PRESIDENTE. No - lo dico solo per sollecitare il suo ricordo -, sembra proprio


Pag. 44

che non sia possibile che si sia trattato di un errore, dato che i due militari sono stati uccisi mentre...

FABIO FABBRI. ... stavano facendo ginnastica.

PRESIDENTE. Esatto. Non solo, ma passavano tra due automezzi, dove c'era uno spazio tale per cui furono uccisi man mano che passavano, uno dopo l'altro.

FABIO FABBRI. Ha ragione, ora ricordo questo particolare. Quindi, vuol dire che qualcuno ha voluto colpire.

PRESIDENTE. Per cui, non è assolutamente possibile che si sia trattato di una disgrazia. È certamente un duplice omicidio, chiaramente premeditato, che ha avuto un'esecuzione perfettamente consapevole.

FABIO FABBRI. Ricordo che fu un'ipotesi, un sospetto però non suffragato da elementi di certezza.

PRESIDENTE. Ma il sospetto intorno a cosa ruotava? Quale poteva essere il motivo di questo fuoco amico? Una reazione, una vendetta, una ritorsione?

FABIO FABBRI. Rimase oscuro.

PRESIDENTE. Ha ricordo dell'identificazione del fuoco amico con due pakistani?

FABIO FABBRI. Non ho capito la domanda. Intende dire se ho ricordo che furono accusati due pakistani?

PRESIDENTE. Esattamente.

FABIO FABBRI. Non me lo ricordo. Adesso che me lo ha detto, mi sembra di sì, ma non ne sono sicuro. È passato tanto tempo.

PRESIDENTE. Ha avuto modo di stabilire se la procura militare abbia svolto delle indagini, aperto un fascicolo o un'inchiesta? Ha mai saputo nulla al riguardo?

FABIO FABBRI. Non ricordo. Forse si parlò del fatto che vi era un'indagine della procura.

PRESIDENTE. Come ha reagito il Governo italiano all'uccisione dei due militari? Vi fu qualche reazione, qualche ritorsione, qualche iniziativa da parte del contingente che si trovava sul posto? Mi sembra che vi fosse ancora il generale Loi, nel settembre 1993.

FABIO FABBRI. No, c'era il generale Fiore. Loi era andato via poco prima.

PRESIDENTE. Ricorda se fu assunta qualche iniziativa, se furono date delle direttive?

FABIO FABBRI. No, non ricordo.

PRESIDENTE. Per quale motivo il generale Loi andò via?

FABIO FABBRI. Abbiamo resistito, lo abbiamo tenuto lì finché è stato possibile.

PRESIDENTE. Chi non lo voleva?

FABIO FABBRI. Chi non lo voleva? Kofi Annan. Aveva chiesto espressamente che se ne andasse. E anche Boutros Ghali.

PRESIDENTE. Perché?

FABIO FABBRI. Perché Loi era la personificazione del conflitto fra le diverse impostazioni della modalità di conduzione della missione di pace.

PRESIDENTE. Per non essere in linea con gli americani, insomma.

FABIO FABBRI. Non era in linea con gli americani e neppure con l'ONU.


Pag. 45


PRESIDENTE. Su questo le diamo pienamente ragione. Abbiamo fatto le nostre piccole indagini - da Commissione parlamentare d'inchiesta quale siamo - e possiamo dire che tutto quel che non è accaduto intorno all'uccisione dei due giornalisti italiani è la dimostrazione dell'assoluto disinteresse, da Unosom in giù, per qualsiasi cosa che non fosse un'aggressione violenta. Abbiamo un vuoto assoluto di consapevolezze intorno al duplice omicidio di cui ci stiamo interessando, che ci ha consegnato un Unosom assolutamente inefficiente. Ma la stessa cosa la possiamo dire anche per i militari italiani, insomma.

FABIO FABBRI. Presidente, nei miei interventi in Parlamento, che mi sono rivisto - posso anche lasciare questa documentazione, se lo consente...

PRESIDENTE. Grazie.

FABIO FABBRI. Mi sono ricordato che furono lanciate nei confronti del generale Loi anche accuse di benevolenza nei confronti di Aidid, se non ricordo male, o altro, che noi abbiamo respinto fermissimamente come calunniose. Abbiamo difeso Loi fino a quando si è maturato il periodo di avvicendamento, per cui il contingente della Folgore è rientrato in Italia e allora ci siamo affidati al generale Fiore.

PRESIDENTE. Lei come e da chi fu avvertito dell'uccisione dei due giornalisti italiani?

FABIO FABBRI. Lo seppi subito. La notizia giunse, tra l'altro, nel mio gabinetto c'erano anche dei marinai e quindi vi era il collegamento con la nave che ospitò subito le spoglie della povera giornalista e del suo accompagnatore. Fui avvertito subito, se non ricordo male, il giorno stesso o il giorno dopo: l'unica comunicazione che ho avuto su questo episodio è una comunicazione del capo del Sismi, generale Pucci - che ho trovato; una delle poche cose che ho avuto il tempo di vedere è la deposizione fatta in questa sede dal generale Pucci - il quale diceva che in sostanza la valutazione e l'analisi loro era che si trattasse di un atto di terrorismo islamico o di ordinaria criminalità.

PRESIDENTE. Chi glielo disse, questo?

FABIO FABBRI. Mi arrivò un dispaccio ma me lo disse, mi sembra, anche verbalmente. Io domandai subito, anche perché la cosa mi interessava. Una tragedia è comunque una tragedia; in ogni caso, gli Alpi sono originari di Parma. È una famiglia che io conosco molto bene...

PRESIDENTE. Anche l'onorevole Motta.

FABIO FABBRI. Sì, anche l'onorevole Motta li conosce bene. E francamente anche dopo, a cose fatte, mi sono stupito perché mi sarei aspettato - sempre ex post - che mi dicessero: «Insomma, Fabbri, fa qualcosa». Invece, nessuno mi ha mai chiesto nulla, per cui io fui portato a credere (non so a quali conclusioni giungerete voi) che quella fosse una versione plausibile e che non ci fosse null'altro da fare. Noti bene che, per quanto riguarda il periodo in cui sono stato ancora al Governo, si è trattato di un mese, perché a maggio non ero più nel Governo, quindi ho avuto poco tempo per occuparmene. Non lo dico per giustificarmi.

PRESIDENTE. Per carità, anche perché - glielo dico ai fini della domanda che le debbo fare - un mese bastava e avanzava, per muoversi.
Noi abbiamo acquisito agli atti della Commissione la totale inefficienza di Unosom. Abbiamo acquisito agli atti della Commissione la totale inerzia di coloro che ruotavano intorno ad Unosom, dell'esercito italiano: mi riferisco a Vezzalini e a Salvati. Non le sto a dire i risultati della nostra inchiesta perché sono un po' come quei film di Ridolini, se si potesse parlare senza rispetto di una vicenda così tragica. Abbiamo accertato che da parte del contingente italiano, pur se in partenza,


Pag. 46

nulla è stato fatto nell'immediatezza dell'omicidio. Abbiamo accertato lo stesso anche per i carabinieri che appartenevano al nostro contingente e che avevano funzioni di polizia giudiziaria, per quello che può contare; e comunque non credo che in casi del genere si debba stare a guardare alle etichette, per quanto questa argomentazione è stata il cavallo di battaglia di tutti coloro che sono venuti a dirci che non si sentivano ufficiali di polizia giudiziaria, che si sentivano soltanto informatori, e via dicendo. Abbiamo accertato, insomma, una totale carenza - per usare un eufemismo - di tutte le forze militari che avevano non dico la legittimazione ma il dovere di intervenire.
Le domando: lei è stato messo al corrente, o si è capacitato, di questa assoluta noncuranza rispetto al duplice omicidio di cui ci occupiamo? Ha ricordo se vi siano state e quali siano state le iniziative per eliminare in qualche modo queste inerzie e queste negligenze?

FABIO FABBRI. La risposta è molto precisa. Non ho mai avuto consapevolezze di queste inerzie e di queste manchevolezze. Devo dire che, scorrendo gli atti della Commissione d'inchiesta, come ho potuto fare in questi giorni, ho provato un fortissimo rammarico nel constatare che, se ho capito bene i risultati della vostra inchiesta, molte informazioni si sono perse per strade, come mi pare sia stato detto qui. Debbo dire che io avevo, invece, fiducia nel Sismi in Somalia, perché nell'episodio del check-point Pasta e nell'attivazione dei rapporti con i signori della guerra e con le parti somale, in sostanza, mi avevano fatto ritenere che si operasse positivamente e che questa linea della pacificazione, della ricerca della conciliazione, fosse stata acquisita e fatta propria anche dagli elementi del Sismi.
Aggiungo che ho sentito che operatori del Sismi hanno ritenuto di non essere tenuti a fare informative all'autorità giudiziaria: debbo dire che non mi è mai stato posto una sola volta il problema - che era politico - dell'actio finium regundorum, ovvero dei confini fra quanto deve fare un operatore di intelligence e quanto deve fare un operatore di intelligence in presenza di omicidi, e quindi di reati. Se mi fosse stata posta la domanda, secondo me la risposta sarebbe stata più che ovvia, evidente. Abbiamo visto quel che è successo anche recentemente, in Iraq. Se due cittadini italiani muoiono, è evidente che si è tenuti non solo a ricercare i colpevoli ma anche a fare denuncia all'autorità giudiziaria. Questo non mi è mai stato posto e tutto si è limitato a questa informativa ufficiale, che ha messo tranquillo tutto il gabinetto. Io, tra l'altro, avevo dei collaboratori di cui mi fidavo ciecamente, perché ne avevo le ragioni. Debbo dire onestamente che mi fidavo anche del generale Pucci, che ho ritenuta una persona perbene, una persona corretta, un militare di specchiata onestà. E continuo a ritenerlo tale. Mi sorprende che, per esempio, molte cose che ho letto non siano mai state portate alla mia attenzione.

PRESIDENTE. Non solo a lei, come se non bastasse...

FABIO FABBRI. Ma neppure a Pucci.

PRESIDENTE. Neppure a Pucci, ma neppure all'autorità giudiziaria. Ancora oggi abbiamo potuto constatare di inconsapevolezze dell'autorità giudiziaria a cagione delle omissioni perpetrate da funzionari non proprio fedeli dello Stato.

FABIO FABBRI. Presidente, quando io cominciai ad occuparmi del Sismi, mi resi conto che c'era da compiere un'opera di bonifica e di riforma piuttosto incisiva. Sciolsi la divisione Gladio (la settima divisione), smantellai il centro che era sito in Sardegna, dove si addestrava Gladio, e lo misi a disposizione dell'esercito. E non furono scelte facili. Comunque, io decisi, e quindi attuarono queste scelte. Poi avviammo, insieme alla Presidenza del Consiglio, la riforma dei servizi, con il dottor Manzella, con il presidente Maccanico. Però, evidentemente...
Debbo dire che il capo del Sismi mi parlava bene di questo Rajola, che io non


Pag. 47

ho mai incontrato. Io non ho mai voluto incontrare nessuno. Non so che giudizio vi siate fatti voi...

PRESIDENTE. Ce lo faremo alla fine.

FABIO FABBRI. Ecco, lo farete alla fine. La mia impressione, da quello che mi dicevano, era che questo fosse un conoscitore profondo della realtà somala e che quindi fosse una pedina importante sul terreno.

PRESIDENTE. Unosom le passò informazioni, prese contatto con lei, come ministro, per dare conto di questa vicenda, in qualche modo?

FABIO FABBRI. Mai, ripeto mai.

PRESIDENTE. Tra le altre cose, tra le altre stranezze che hanno caratterizzato questa vicenda, dal punto di vista della individuazione o della possibilità di individuare i responsabili, c'è un passaggio che proviene anch'esso, per la verità, da una informativa Sismi, a proposito di un'interferenza - non so se ne ha mai avuto notizia - che sarebbe stata esercitata sull'ambasciatore Scialoja, il quale, non essendo convinto delle versioni propinate immediatamente (e cioè dell'atto terroristico islamico o della criminalità organizzata), voleva approfondire.

FABIO FABBRI. Nessuno mi ha mai detto niente.

PRESIDENTE. Questo dispaccio del Sismi ci dice che l'ambasciatore Scialoja - il quale voleva approfondire - sarebbe stato distolto da entità (come si diceva una volta) del Ministero degli esteri. Le è mai risultato questo tipo di interferenza?

FABIO FABBRI. Non mi è mai risultato.

PRESIDENTE. Lei ha avuto interferenze? Le risulta che chi con lei collaborava ai massimi livelli possa aver avuto delle pressioni, delle interferenze, affinché non si approfondisse? In tal caso, lo stesso ministro della difesa sarebbe restato in sostanza con l'unica notizia che gli viene data...

FABIO FABBRI. Ufficialmente.

PRESIDENTE. ... il giorno dopo, e poi praticamente, non essendovi più alcuna notizia - come lei ha detto - ha ritenuto che potesse essere una spiegazione plausibile.

FABIO FABBRI. Non solo lo ritenni io, ma lo ritenne la Presidenza del Consiglio, lo ritenne il Cesis, tutti quanti. Questa fu una specie di pietra tombale, per noi, sull'episodio.

PRESIDENTE. Che vuol dire «fu ritenuto»? Che non si fece più niente, e conseguentemente così fu ritenuto, oppure fu esplicitato che le cose stessero così?

FABIO FABBRI. No, non fu mai esplicitato. È così, punto e basta.

PRESIDENTE. E a lei chi ha detto: «È così, punto e basta»?

FABIO FABBRI. A fronte di quella comunicazione, a cui non è mai seguita una fase critica oppure un approfondimento, l'opinione generale del Governo era che questa uccisione...

PRESIDENTE. Però, la polemica montava.

FABIO FABBRI. No, per quel che ricordo io, è montata dopo, non nel periodo in cui sono stato lì. Guardi, io ho fatto il ministro fino all'ultimo giorno, perché mi piaceva molto fare il ministro della difesa: era l'ultima cosa che facevo, perché avevo deciso che poi mi sarei ritirato dalla politica. Non mi sono presentato alle elezioni, perché ero saturo. Quindi, se fosse sorto il problema io ne sarei venuto a conoscenza. Non sono scappato da Roma, sono rimasto lì fino all'ultimo giorno, quindi posso dire che questo problema


Pag. 48

non ci fu. E soprattutto, sulle questioni somale c'era sempre una forma di collaborazione fra Presidente del Consiglio e Ministero della difesa. Io ho avuto con Ciampi e con i suoi collaboratori un rapporto straordinario, che si è tramutato anche in amicizia. Il problema non è sorto, insomma; adesso, quasi quasi mi rimprovero, però non c'era.

PRESIDENTE. D'accordo, ma lei ha avuto come notizia - parliamo di quella più appariscente - il fondamentalismo islamico.

FABIO FABBRI. Sissignore. Anche Fiore...

PRESIDENTE. Fiore ha fatto proprio la dichiarazione. Il giorno stesso dell'uccisione di Ilaria Alpi ha detto questa cosa.
Perché possa essere una spiegazione appagante, è evidente che occorre non dico che ci siano delle situazioni eclatanti ma essere a conoscenza dell'esistenza di un problema di fondamentalismo islamico, laddove appunto avrebbe mietuto due vittime. D'accordo, lei ha avuto la notizia - non è un rimprovero, per carità, è soltanto il disappunto che si prova...

FABIO FABBRI. Sì, certamente. Non mi sento in colpa, però ex post dico...

PRESIDENTE. Allora, lei ha avuto questa informazione: è un attentato consumato dall'integralismo islamico. Io mi sarei acquietato - faccio per dire, perché poi io sarei stato quello che avrebbe reagito peggio, cioè senza magari fare nemmeno quel poco che qualcuno ha fatto - se avessi saputo che in Somalia, a Mogadiscio, esisteva un problema di integralismo islamico. Vi risultava una problematica dell'integralismo islamico? Noi abbiamo scandagliato molto questo aspetto e siamo in una posizione ancora non definita. Per lei, come gabinetto del ministro, come ministro della difesa, c'erano delle evidenze che accompagnavano in maniera non dico naturale ma plausibile la soluzione che le era stata prospettata?

FABIO FABBRI. Adesso che mi ci fa pensare, sono portato a dire che non era così evidente l'esistenza di una presenza di un fenomeno forte di terrorismo islamico. Però, se vado con la memoria a quel tempo, più che appagati dall'indicazione del terrorismo islamico, si pensava anche all'altra ipotesi, quella della criminalità organizzata. Ciò che nella mia mente si formò è che fosse un episodio imperscrutabile, nel senso che in Somalia in quel momento i fucili sparavano da soli e che in sostanza fosse un episodio da iscrivere in quel clima: à la guerre comme à la guerre. E siccome nessuno mi diceva che c'era un problema, l'uomo politico ne ha continuamente che gli cadono addosso su cui deve decidere. Su questo il meteorite non cadde mai; nessuno mi disse mai niente. Il capo del Sismi non mi disse che si doveva approfondire. Era pacifico ma era pacifico per tutti, anche per gli esteri e per la difesa.
Lei mi ha domandato di Scialoja. Ebbene, Scialoja lo incontrai più volte: non ho mai saputo che vi fossero state delle pressioni perché non approfondisse. Non l'ho mai saputo. Dirò di più, con Scialoja simpatizzammo subito. Anche lui concordava - lo dico con un po' di immodestia - sulla mia impostazione, perché non fu facile, sappia, con i militari, dire «disobbediamo agli americani». Non fu affatto facile. Ma siccome era l'ultima cosa che facevo da politico e mi giocavo tutto, feci quello che mi dettava la mia coscienza e quello che mi sembra giusto, in difesa dell'Italia.

PRESIDENTE. Era l'ultimo mandato, che è sempre il migliore.

FABIO FABBRI. Sì, infatti Andreatta mi disse: «È il modo migliore per far politica, perché smetterai di far politica. Quindi, fai quello che ti senti». Perciò, io ero deciso su questa posizione.
Con Scialoja, stavo dicendo, simpatizzammo subito. Poi, Scialoja era amico del mio consigliere diplomatico, l'attuale ambasciatore a Londra, Aragona. Quindi, se ci fosse stato qualche sospetto che c'era


Pag. 49

una minaccia su Scialoja, lui me lo avrebbe detto. Invece, non me ne ha mai parlato. Ecco perché io sono saltato sulla seggiola, a leggere i vostri resoconti.

PRESIDENTE. Non ho altre domande da farle. Chiedo ai commissari se intendano rivolgere altre domande all'ex ministro.

CARMEN MOTTA. No, presidente. ne avevo preparate due, ma le ha già fatte lei.

PRESIDENTE. Meno male. Mi fa piacere di averla preceduta.

FABIO FABBRI. Presidente, al di fuori di ogni piaggeria, mi compiaccio per il lavoro che avete fatto, che non mi aspettavo fosse così approfondito, da quel che avevo capito.

PRESIDENTE. È il primo che lo dice. La ringraziamo anche per questa attestazione. Grazie, soprattutto, per l'interessantissimo contributo che io credo lei abbia dato alla Commissione, oltre a dimostrare per l'ennesima volta le qualità personali e morali della sua conduzione della politica.

FABIO FABBRI. Grazie a voi e buon lavoro.

PRESIDENTE. Dichiaro concluso l'esame testimoniale.

La seduta, sospesa alle 23.50, riprende alle 23.55.

Back Forward