XIV LEGISLATURA
PROGETTO DI LEGGE - N. 1283
Onorevoli Colleghi! - L'emergenza collegata ai
cosiddetti "anni di piombo" in Italia può ormai considerarsi
chiusa: molti di coloro che hanno subìto condanne per reati
commessi in quel periodo hanno già scontato numerosi anni di
carcere, lavorano all'esterno degli istituti penitenziari,
sono impegnati in attività con finalità sociali, dando
concreta prova di essere pronti a reinserirsi definitivamente
nella vita sociale e culturale del Paese.
Non vi sono, quindi, più ragioni - di carattere giuridico,
politico o di tutela della collettività - per ritardare
ulteriormente, ad oltre undici anni dalla prima proposta di
legge presentata in Parlamento, un provvedimento la cui
finalità è soprattutto quella di "riequilibrare" inique
disparità di trattamento sanzionatorio, determinate dalla
legislazione d'emergenza, tra condannati per reati comuni e
condannati per reati di "terrorismo".
Ben pochi, ormai, contestano il fatto che, nei cosiddetti
"anni di piombo", a causa di leggi speciali e di una
applicazione emergenziale delle norme penali e processuali,
sono stati spesso compressi i diritti di difesa; c'è stata una
dilatazione interpretativa dell'articolo 110 del codice
penale; sono state irrogate pene "diverse", pur di fronte a
medesimi reati contestati a imputati per reati comuni e
imputati per "reati politici" (ai sensi dell'articolo 8 del
codice penale è delitto politico sia quello che "offende un
interesse politico dello Stato ovvero un diritto politico del
cittadino" sia "il delitto comune determinato, in tutto o in
parte, da motivi politici").
La necessità - ispirata ad una volontà di equità - di
riequilibrio delle pene è una delle ragioni fondamentali della
presente proposta di legge. Non si può non ricordare che, con
l'introduzione dell'articolo 1 del decreto-legge 15 dicembre
1979, n. 625, convertito, con modificazioni, dalla legge 6
febbraio 1980 n. 15, per i reati commessi con finalità di
terrorismo o di eversione dell'ordinamento democratico (salvo
che la circostanza fosse elemento costitutivo del reato),
punibili con la pena diversa dall'ergastolo la pena era sempre
aumentata della metà. Non era possibile, inoltre, un giudizio
di equivalenza o di prevalenza ex articolo 69 del codice
penale.
Altre norme speciali, introdotte in quel periodo, hanno
determinato un forte squilibrio sanzionatorio tra condannati
per fatti comuni e per fatti di terrorismo: la legge 18 aprile
1975 n. 110, in materia di armi, ad esempio, prevedeva per la
detenzione di un'arma da guerra, in presenza dell'aggravante
della "finalità di terrorismo o di eversione dell'ordinamento
democratico", la pena da cinque a quindici anni di reclusione,
mentre lo stesso reato, senza l'aggravante, era punito con la
pena da due a otto anni.
Ma vi è di più. I detenuti "politici" sono stati
sottoposti anche a un trattamento carcerario differenziato, a
carcerazioni preventive lunghissime (fino a dieci anni e otto
mesi), sono stati esclusi da amnistie e condoni (decreto del
Presidente della Repubblica 4 agosto 1978, n. 413, decreto del
Presidente della Repubblica 18 dicembre 1981, n. 744 e, in
parte, decreto del Presidente della Repubblica 16 dicembre
1986, n. 865).
Altre considerazioni non possono essere ignorate. La Corte
costituzionale, nel momento stesso in cui ha ritenuto che, in
presenza di situazioni particolari, il Parlamento e il Governo
hanno il diritto e il dovere di adottare leggi d'emergenza, ha
anche affermato che "queste misure perdono legittimità se
ingiustificatamente protratte nel tempo". Il che dovrebbe
comportare, come logica conseguenza, il "diritto e dovere" del
legislatore di intervenire affinché, cessata la situazione
d'emergenza, si eliminino le conseguenze inique di quelle
leggi eccezionali.
Restano - e non intendiamo né dimenticarlo né ignorarlo -
il dolore e la sofferenza delle vittime e dei loro familiari;
ma, anche per rispetto a quel dolore, non si propone un
provvedimento di amnistia (che comporta l'estinzione dei
reati) ma un provvedimento che tende solo a incidere
sull'entità della pena. Il legislatore, del resto, non si è
posto il problema delle vittime quando ha approvato norme che,
a fronte della collaborazione processuale, hanno comportato la
scarcerazione e, in molti casi, l'impunità di fatto anche per
persone responsabili di gravissimi fatti di sangue.
Un provvedimento di indulto non può essere in nessun modo
interpretato come "amnesia" nei confronti delle vittime ma,
piuttosto, come scelta definitiva di uscire da un periodo che,
comunque lo si veda, ha comportato una "rottura delle regole":
"quando è giunto a sconfiggere quelli che vorrebbero
rovesciarlo, lo Stato deve impegnarsi a por fine alle pene e
anche alle ricompense" (Montesquieu, Esprit de lois).
A ciò si aggiunga che nell'ultima legislatura sono stati
approvati specifici provvedimenti in favore delle vittime e
dei loro familiari, anche se ben si comprende come qualsiasi
provvedimento legislativo non può lenirne il dolore.
La proposta di indulto non intende affatto rinfocolare le
polemiche che hanno diviso il Paese negli anni passati:
l'obiettivo, anzi, è quello di voltare definitivamente pagina
rispetto a un periodo che ha portato lutto, dolore e
disperazione. Crediamo nella necessità di uscire da una
drammatica fase di emergenza, aiutando a risolvere - sulla
base di criteri di giustizia e di umanità - una situazione che
riguarda un esiguo numero di persone ma che, direttamente o
indirettamente, ha coinvolto gran parte del Paese.
Non vi sono più oggi motivi di carattere giuridico per
opporsi a un provvedimento che ha lo scopo di "riportare nella
normalità giuridica le condanne per i fatti di lotta armata e
quindi ricollocare il dibattito riguardante quegli anni nei
binari del confronto e della riflessione storico-politica": il
senso di equità nel trattamento penale "non può essere succube
né delle ragioni della politica né della vendetta dello Stato
ma il più possibile ispirato alla pietas e alla
responsabilità della convivenza civile" (Forum delle
donne di Rifondazione comunista).
La proposta di legge prevede anche una norma transitoria,
la cui finalità è quella di dare la possibilità - a chi deve
ancora scontare pene detentive, ma ha dato concreta prova di
essersi allontanato da qualsiasi organizzazione eversiva - di
essere ammesso al lavoro esterno o alla semilibertà senza i
limiti oggi previsti dalla legge: è chiaro che non si tratta
di benefici "automatici" o che spettano di diritto e che ogni
valutazione, anche in ordine alla non pericolosità sociale, è
demandata alla magistratura di sorveglianza. Si tratta di una
norma di portata limitata che intende attenuare l'espiazione
della pena per chi ha, in concreto, dato prova di essere
pronto a reinserirsi nella convivenza civile.
Onorevoli colleghi, il nostro auspicio è che, su questo
provvedimento, si possa trovare quella convergenza necessaria
per l'approvazione di una proposta dettata dalla volontà di
eliminare una evidente disparità di trattamento e di ridare
speranza a chi ha già dimostrato, nei fatti, di accettare le
regole dello Stato democratico. Una delle finalità
dell'indulto - provvedimento espressamente previsto dalla
Costituzione - è anche quella di porre fine, o di limitare,
pene ingiuste, ingiustificate o non più necessarie: e una pena
è ingiusta non solo quando è stata inflitta ingiustamente ma
anche quando è diventata inutile, se non controproducente.
"Il diritto di punire deve trovare dei limiti nella
giustizia e nell'utilità sociale, altrimenti i concetti di
giustizia e di umanità si trasformano in vendetta, politica o
divina".