V COMMISSIONE
BILANCIO, TESORO E PROGRAMMAZIONE

AUDIZIONE


Seduta di mercoledì 11 settembre 1996


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La seduta comincia alle 11,40.

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Comunico che da parte di un gruppo è stato richiesto che la pubblicità dei lavori sia assicurata anche attraverso impianti audiovisivi a circuito chiuso.
Se non vi sono obiezioni, rimane così stabilito.
(Così rimane stabilito).

Audizione del ministro del bilancio e della programmazione economica e del tesoro, Carlo Azeglio Ciampi, sulle risorse disponibili per le aree depresse e sui connessi programmi di intervento.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione, ai sensi dell'articolo 143, comma 2, del regolamento, del ministro del bilancio e della programmazione economica e del tesoro, Carlo Azeglio Ciampi, sulle risorse disponibili per le aree depresse e sui connessi programmi di intervento.
Saluto i membri della Commissione e ringrazio il ministro del bilancio e della programmazione economica e del tesoro, dottor Ciampi, per aver accolto, come al solito con grande disponibilità, l'invito che gli abbiamo rivolto a partecipare all'audizione odierna.
Sottolineo che si tratta di un incontro che si svolgerà su di un argomento di grande interesse. Al di là delle differenti opinioni, mi pare che la questione che in Italia dobbiamo affrontare sia quella del risanamento, abbinato ad una politica di rilancio dell'economia, e che comunque sia necessario dare risposta al drammatico problema - soprattutto per una parte del paese - dell'occupazione. In tale contesto, tenendo conto anche delle esperienze non felici dell'Italia nell'utilizzo delle risorse comunitarie disponibili, è interesse della Commissione bilancio verificare quanto il Governo sta facendo e puntualizzare i compiti dello stesso Parlamento, affinché il nostro paese acquisisca piena capacità - dal punto di vista qualitativo e quantitativo - di utilizzo di tutte le risorse comunitarie. La Commissione ha quindi chiesto al ministro Ciampi di intervenire in questa sede per fare il punto della situazione e per capire quali siano gli intenti del Governo in materia.
Ringrazio inoltre per la loro presenza i sottosegretari di Stato per il bilancio e la programmazione economica, Sales e Macciotta, i quali - per la titolarità di specifiche deleghe - rivestono un ruolo di responsabilità nella materia che sarà oggetto dell'audizione odierna.
Avverto, infine, che, essendo in tal senso intervenuti accordi con il ministro e con i presentatori, nel corso dell'audizione potranno trovare risposta alcune delle interrogazioni presentate da deputati sui temi oggetto dell'audizione stessa.
Do ora la parola al ministro del bilancio e della programmazione economica e del tesoro.

CARLO AZEGLIO CIAMPI, Ministro del bilancio e della programmazione economica e del tesoro. Signor presidente, ringrazio lei e gli onorevoli deputati membri della Commissione bilancio. Come lei sa, sono sempre ben lieto di partecipare ad audizioni che costituiscono l'occasione per una migliore comprensione reciproca. A volte,


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tuttavia, questi incontri sono condizionati dagli impegni di lavoro, che in particolare nel periodo attuale sono piuttosto intensi.
Signor presidente, ciò che lei ha detto in apertura di seduta per certi versi mi tranquillizza, nel senso che con la mia esposizione introduttiva mi collegherò alle considerazioni da lei svolte. So benissimo, peraltro, che l'introduzione non potrà soddisfare tutte le esigenze conoscitive della Commissione; e, quindi, sarò ben lieto di rispondere alle domande che saranno poste dagli onorevoli deputati. Se lei lo consentirà, signor presidente, nella fase di replica mi avverrò dell'ausilio degli onorevoli sottosegretari, Sales e Macciotta, che più direttamente operano, in posizioni di responsabilità, nel settore. Essi potranno dunque fornire risposta alle richieste di chiarimento riguardanti i problemi più specifici.
Per brevità, mi asterrò dal fare dichiarazioni più o meno roboanti sulla importanza che il Governo attribuisce alla realtà economica e sociale delle aree depresse ed all'impegno ad affrontare la questione. Né, d'altra parte, credo che in questa audizione sia il caso di soffermarsi su cosa sia stato fatto o meno nel passato. Tutte le parti interessate, e l'esecutivo in particolare, si devono confrontare con una realtà dura: la disoccupazione ha raggiunto nel Mezzogiorno e in alcune aree del centro nord livelli drammatici; quella giovanile, poi, è concentrata nel Mezzogiorno.
Di fronte a questa realtà bisogna cercare di operare, di agire, per stimolare il processo di crescita, l'imprenditorialità nelle regioni meridionali, la qualificazione delle risorse umane, la diffusione della tecnologia, e non pensando certo ad interventi transitori.
Mi soffermerei, pertanto, sull'aspetto richiamato dal presidente, parlando delle azioni da intraprendere e concentrandomi in particolare sull'utilizzo dei fondi strutturali comunitari e sulla delibera che il CIPE ha assunto nelle riunioni degli scorsi mesi di luglio e agosto, con la quale ha provveduto all'avvio dell'impegno per l'utilizzo di 10 mila miliardi, a favore delle aree depresse, previsti dal precedente governo con la legge finanziaria e con un successivo decreto-legge; questi fondi dovrebbero permettere interventi aggiuntivi da realizzare in tempi rapidi.
In termini generali desidero richiamare due aspetti a mio avviso gravi in economia. Innanzitutto, la fase espansiva che il paese ha attraversato, grosso modo dal quarto trimestre 1993 al quarto trimestre del 1995, ha ignorato il Mezzogiorno. È un'indicazione chiara del fatto che il nostro modello di crescita tende a penalizzare le aree meno competitive e meno inserite nel mercato internazionale. Direi che questa realtà non si è mai manifestata in maniera così netta come nella fase espansiva, proprio per il fatto che essa è stata trainata prevalentemente dall'esportazione.
Nel contempo, è un dato di fatto che gli investimenti nel Mezzogiorno non hanno avuto un'accelerazione rispetto al resto del paese. Tant'è che se prendiamo ad esempio il 1995 (non per mettere sotto accusa quell'anno, ma perché per esso abbiamo dati disponibili), notiamo come gli investimenti fissi lordi in termini reali siano aumentati nel Mezzogiorno del 2,7 per cento e nel centro-nord del 7,4 per cento. È una differenza sensibile e concerne gli investimenti complessivi, privati e pubblici. Questa è la realtà.
D'altra parte, non vi è dubbio che in alcune aree del sud qualche segnale incoraggiante si è registrato. In particolare si è palesata una tendenza alla diffusione del cosiddetto «modello adriatico» in alcune aree del Mezzogiorno ed anche la tendenza di imprese nate secondo quel modello ad aggregarsi di fatto spontaneamente in distretti industriali. È un segnale che ritengo importante, perché ci indica una delle strade che bisogna cercare di percorrere e al tempo stesso dimostra che non è del tutto vero che nel Mezzogiorno non esistano potenziali capacità imprenditoriali.
Un breve richiamo ora alla situazione delle risorse disponibili per gli interventi. Dal 1992 ad oggi la politica per le aree depresse del paese ha reso disponibili importi ingenti, complessivamente 160 mila miliardi di lire. L'insieme di tali disponibilità


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discende da normative varie, in particolare da residui dell'intervento straordinario nel Mezzogiorno, da leggi di copertura del deficit per incentivi alle iniziative produttive già attivate derivanti dalla stessa legislazione straordinaria (legge n. 488 del 1992 e legge n. 85 del 1995), da integrazioni per le infrastrutture (legge n. 341 del 1995), dai programmi nazionali e regionali cofinanziati dall'Unione europea (questa è la parte principale), e infine dal decreto-legge n. 450 del 1996 che riguarda infrastrutture e incentivi alle attività produttive.
I residui dell'intervento straordinario nel Mezzogiorno comprendono essenzialmente le risorse non ancora erogate derivanti dai tre piani annuali previsti dalla legge n. 64 del 1986 e dalla legge n. 488 del 1992, per un totale di risorse non utilizzate, anche se impegnate, di circa 58 mila miliardi. Le cifre fanno impressione, anche a coloro i quali dovrebbero averne, per così dire, esperienza.

NICOLA BONO. Fanno impressione se guardiamo anche agli anni, perché stiamo parlando di risorse stanziate in undici anni!

CARLO AZEGLIO CIAMPI, Ministro del bilancio e della programmazione economica e del tesoro. Certo.

NICOLA BONO. Secondo i suoi calcoli, si tratterebbe di circa 16 mila miliardi l'anno per tutto il sud. L'impressione è al contrario...

PRESIDENTE. Onorevole Bono, avrà la parola successivamente.

CARLO AZEGLIO CIAMPI, Ministro del bilancio e della programmazione economica e del tesoro. 16 mila miliardi all'anno non sono importi modesti per quanto riguarda gli interventi pubblici.

NICOLA BONO. Ho avuto la fortuna di essere deputato regionale siciliano per alcuni anni: la Sicilia aveva un bilancio di 24 mila miliardi annui!

PRESIDENTE. Onorevole Bono, interverrà dopo!

CARLO AZEGLIO CIAMPI, Ministro del bilancio e della programmazione economica e del tesoro. Gran parte di tale disponibilità complessiva è finalizzata a infrastrutture o a incentivi ad attività produttive in corso di realizzazione per interventi vari. Tra il 1994 e il 1995, con delibere del CIPE, si è preso atto che almeno tremila miliardi di questi fondi erano stati assegnati ad opere non più realizzabili, quindi sono stati riutilizzati attribuendoli al cofinanziamento della quota regionale dei programmi comunitari.
La formazione di un'importante ammontare di disponibilità non utilizzate è stata provocata anche dalla normativa di soppressione dell'intervento straordinario. Detta normativa ha imposto al Commissario liquidatore dell'Agenzia per la promozione dello sviluppo del Mezzogiorno di non assumere nuovi impegni di spesa, anche in presenza di risorse disponibili, ma di procedere al trasferimento all'intervento ordinario dei programmi approvati, provvedendo alla sola liquidazione degli impegni maturati e giuridicamente vincolanti.
Agli effetti negativi di tale procedura, durata circa due anni, si sono aggiunti i ritardi derivanti dal materiale trasferimento degli atti alle diverse amministrazioni centrali e regionali interessate e alle esigenze di organizzazione interna, che ha portato, in alcuni casi, alla nomina di commissari ad acta.
Per quanto riguarda gli incentivi alle attività produttive, la vecchia legislazione a favore del Mezzogiorno prevedeva la possibilità per gli imprenditori di avviare gli investimenti anche nelle more della definizione dell'impegno formale di concessione degli incentivi finanziari e creditizi previsti. È risultato poi che alla soppressione dell'intervento straordinario per il Mezzogiorno, gli impegni derivanti da tale procedura superavano di gran lunga le disponibilità residue per il settore. Dall'esame dei vari fascicoli delle richieste, alla fine del 1994, è risultato che vi era un fabbisogno


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per il pregresso di circa 21 mila miliardi, mentre le disponibilità erano di circa 16 mila miliardi. Si sono quindi resi necessari i provvedimenti legislativi del 1992 e del 1995 per coprire la differenza attraverso erogazioni diluite in un arco di tempo più ampio (per esigenze di bilancio).
Per quanto riguarda il cofinanziamento comunitario, a cui si riferisce la tabella che è stata distribuita ai commissari, per il sessennio 1994-99 la disponibilità complessiva per investimenti ammonta a 106 mila miliardi di lire. È l'aspetto più interessante della trattazione. La tabella, a cui faccio riferimento, è suddivisa in tre parti; l'importo di 106 mila miliardi, riportato nel secondo riquadro, rappresenta il totale generale degli investimenti. Nel primo riquadro sono indicati gli stanziamenti comunitari per il sessennio, distinti per i diversi obiettivi ed aree: il totale generale è di oltre 43 mila miliardi. Tale cifra concorre (insieme con le risorse a carico dello Stato e dei privati, come si può rilevare dalla terza colonna del secondo riquadro) a formare il totale di 106 mila miliardi già citato. Quest'ultima è dunque la cifra disponibile per le operazioni di cofinanziamento e di investimento.
Nella terza parte della tabella è indicato lo stato di utilizzo dei fondi comunitari. La somma di 39.514 miliardi, già riportata nel primo riquadro come totale degli stanziamenti comunitari, viene scomposta nei flussi annuali di impegno e di spesa, mostrando così l'importo delle risorse che vengono messe a disposizione dell'Italia da parte della Comunità in ciascun anno.
Della somma di 106 mila miliardi (totale delle risorse comunitarie e nazionali previste per il sessennio) nello scorso mese di agosto risultavano formalmente impegnati 20 mila miliardi. La parte restante era assegnata a settori di intervento specifico, ma non ancora formalmente impegnata. Sapete come avviene: vi è l'assegnazione alle varie regioni ed ai comuni e poi si passa all'impegno specifico per i programmi di spesa.
Per quanto riguarda i tempi, il quadro comunitario per il sessennio è stato approvato nel luglio 1994 ed i programmi operativi multiregionali e regionali sono stati approvati dalla Commissione europea fra la fine del 1994 e l'ottobre del 1995. Non sono tuttavia stati ancora approvati alcuni programmi importanti che riguardano, ad esempio, l'energia e l'ambiente.
Se calcoliamo le percentuali, vediamo che ad oggi gli impegni ammontano a circa il 20 per cento del totale (106 mila miliardi), mentre l'erogazione effettiva è solo del 7 per cento: sono le percentuali più basse nel confronto europeo.
Tutto ciò indica - a mio avviso - che il vero nodo delle politiche di sviluppo a favore delle aree depresse del sud e di quelle deindustrializzate del centro-nord (cioè l'obiettivo 2) non consiste tanto nella carenza di risorse finanziarie, quanto nella complessità delle procedure, nei vincoli, nei ritardi che ai diversi livelli hanno ostacolato il sollecito avvio degli interventi.
Sono mancate, di fatto, sia nelle amministrazioni centrali sia in quelle regionali, strutture adeguate per la progettazione (uno dei momenti più importanti); sono mancati l'assistenza tecnico-amministrativa ed il monitoraggio sull'avanzamento finanziario e fisico delle infrastrutture.
È mancata inoltre nel nostro paese l'individuazione in tali aree di programmi di investimento nazionali già definiti o in fase di avvio, la cui presentazione agli organi comunitari avrebbe consentito un più rapido tiraggio sulle disponibilità. A questo metodo, praticato con larghezza da altri paesi, si intende ora fare ricorso.
Tali difficoltà rischiano di compromettere l'attuazione delle politiche per lo sviluppo e soprattutto di far perdere definitivamente al nostro paese risorse comunitarie.
Per quanto riguarda le indicazioni di linee di intervento, occorre individuarne necessariamente tre: potenziamento ed adeguamento delle dotazioni infrastrutturali; nuovi incentivi alle imprese per favorire l'allargamento della base produttiva e lo sviluppo di un tessuto imprenditoriale; misure specifiche nel mercato del lavoro miranti a qualificare la forza lavoro


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e ad agevolarne l'inserimento nell'attività produttiva.
Lungo tali linee si stanno promuovendo forme innovative di gestione; rispondono infatti a questo indirizzo i patti territoriali ed il recente accordo per le aree di crisi - ancora in fase di conclusione definitiva - che il Governo e le parti sociali hanno annunciato il 6 settembre scorso. In tale accordo si è convenuto di sperimentare nuove forme di più rapido funzionamento della pubblica amministrazione nonché nuove relazioni tra le parti sociali, in modo da cercare di invertire la tendenza in atto.
Per quanto riguarda i patti territoriali, il CIPE, il 12 luglio scorso, ha elaborato le linee guida per la definizione, la presentazione e l'approvazione dei patti territoriali ed ha destinato a tale iniziativa la somma di 400 miliardi di lire. Il CNEL ha dato e sta dando un importante contributo nella fase di promozione delle iniziative, cioè nella ricerca di individuazione di zone alle quali si possano applicare i patti territoriali. Attualmente sono in via di predisposizione circa 60 patti territoriali.
Le misure indicate non sono distorsive della concorrenza e sono coerenti con l'approccio comunitario: non si tratta infatti né di sussidi né di incentivazioni a pioggia, ma di interventi mirati ad esigenze specifiche delle singole aree di crisi.
In riferimento alle linee di azione che si intendono percorrere, il Governo paventa il rischio - che vedo purtroppo non sufficientemente messo in evidenza - di trovarsi invischiati in un circolo vizioso tra la disoccupazione tradizionale e quella nuova. Quando si parla di disoccupazione bisogna distinguere, per quanto riguarda gli interventi da adottare, tra le due forme. Infatti la nuova disoccupazione è il problema maggiore dell'intera Europa, quanto meno di quella comunitaria, ed è legata alla trasformazione a livello mondiale dei mercati internazionali. È ormai in atto una nuova divisione internazionale del lavoro; sotto questo profilo l'Europa si è accorta di essere in arretrato. Ecco perché l'intera Europa, non solo l'Italia, sta cercando di trovare misure di reazione. Queste ultime vanno proprio nella direzione di individuare i percorsi atti ad accrescere la competitività del sistema economico europeo.
In Europa si è convinti che bisogna certo ricavare indicazioni anche dal confronto con le altre maggiori aree economiche (Stati Uniti, Giappone e modello asiatico di sviluppo), ma è chiaro intendimento di Governi e parti sociali far ciò senza rinunciare alle caratteristiche specifiche dell'Europa stessa sotto il profilo della coesione sociale. Anche durante la mia esperienza come presidente del gruppo europeo per la competitività - terminata quando ho assunto la carica di ministro - questa impostazione ha trovato il consenso pieno in tutti gli imprenditori, sindacalisti ed operatori facenti parte del gruppo ed appartenenti alle diverse nazioni europee. La via di uscita, cioè, deve essere ricercata senza rinunciare alla coesione sociale, che è uno dei punti fondamentali che caratterizza l'economia europea ed il sistema Europa.
È allora necessario rafforzare le infrastrutture tradizionali, materiali ed immateriali, ma bisogna soprattutto dare particolare enfasi ai nuovi modi di produrre, cioè alla capacità delle imprese non solo di indovinare e di anticipare la qualità dei prodotti, ma anche di riuscire ad acquisire il processo tecnologico prima e meglio degli altri. Solamente in questo modo, infatti, l'Europa può essere competitiva; non può certo competere, ad esempio, con il modello asiatico in termini di costi, perché sarebbe necessariamente perdente. La questione della qualità dei prodotti e dei modi di produrre è fondamentale, quanto e forse più dei costi.
In questa impostazione assume particolare rilievo l'evoluzione dei rapporti di lavoro. Innanzitutto, la formazione professionale deve essere intesa - con una nuova impostazione - come processo che dura l'intero arco della vita lavorativa. In secondo luogo, le stesse forze del lavoro devono accettare la realtà che oggi, di fatto, impone una maggiore mobilità: la stessa vita delle imprese ha una durata diversa dal passato ed i cicli produttivi che si pos


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sono impostare hanno una durata molto più breve rispetto alla precedente fase di industrializzazione.
Se l'impresa non ha la capacità di trovare tempestivamente prodotti con caratteristiche nuove o nuovi modi di produrre, è destinata a tramontare, lasciando spazio ad altre imprese; ciò implica ovviamente una maggiore mobilità del fattore lavoro. In questo contesto, la vera assicurazione per il lavoratore di trovare occupazione con continuità è quella del suo bagaglio professionale. Mi scuso per questa divagazione, ma nell'affrontare i problemi del Mezzogiorno occorre tener presente anche questo aspetto. Se infatti avessimo in mente soltanto gli aspetti economici tradizionali, lasceremmo il meridione, come mentalità, in una situazione di ritardo rispetto alle aree più avanzate: il Mezzogiorno rimarrebbe sempre indietro e percorrerebbe con ritardo le tappe che altre zone del paese e dell'Europa hanno già raggiunto, invece di cercare di sfruttare i vantaggi di cui spesso beneficiano gli ultimi arrivati, i quali riescono a «bruciare» dei passaggi. Capisco, peraltro, che il discorso è facile a parole, ma estremamente difficile da attuare.
Per quanto riguarda le procedure, proposito del Governo è rendere efficaci ed effettivi il ruolo e le responsabilità delle regioni e degli enti attuatori a livello locale, attraverso la conclusione di patti programmatici, in cui vengano definiti gli investimenti e gli impegni reciproci tra amministrazioni centrali e regionali. A tale proposito, a mio avviso, deve essere potenziato il ruolo del Ministero del bilancio - anche nell'ambito di una trasformazione dell'assetto ministeriale italiano che potrà portare ad una riduzione dei ministeri - nella promozione e nel monitoraggio dell'attuazione delle politiche di sviluppo. Questo, a mio parere, è un ruolo fondamentale nel Mezzogiorno, naturalmente con particolare riguardo alle aree depresse.
Sempre sul fronte delle procedure, occorre snellire ulteriormente gli iter amministrativi ed i metodi di coordinamento e di controllo delle strutture responsabili dell'esecuzione degli investimenti, anche in attuazione delle indicazioni contenute nel Libro bianco e nell'intesa che il Governo italiano concluse con la Commissione europea nel luglio del 1995.
In questo quadro con la recente risoluzione del comitato di sorveglianza del quadro comunitario di sostegno - obiettivo 1 -, assunta il 19 luglio scorso, è stata approvata una metodologia di riprogrammazione volta ad evitare che i ritardi accumulati nella realizzazione di alcune misure di più complessa attuazione portino ad una perdita dei finanziamenti comunitari. Sviluppando questa linea, il Governo intende farsi promotore di un'iniziativa legislativa che consenta il trasferimento di risorse attribuite a progetti la cui attuazione risulti particolarmente problematica verso iniziative di più sicura realizzazione.
Cosa sta accadendo in sostanza? Al Ministero del bilancio arrivano i fondi, avvengono le assegnazioni ai vari enti (regioni, comuni eccetera), gli enti indicano le opere che intendono realizzare, ma quando poi si arriva alla fase attuativa, alla presentazione di progetti operativi ed esecutivi, si verificano ritardi che portano addirittura alla perdita del finanziamento comunitario; si va fuori tempo. Riteniamo quindi che in questi casi il centro debba avere il potere di richiamare quei fondi e di destinarli ad opere la cui realizzazione sia invece più avanzata. Non possiamo cioè permetterci di perdere risorse comunitarie.

BENITO PAOLONE. Potere sostitutivo!

CARLO AZEGLIO CIAMPI, Ministro del bilancio e della programmazione economica e del tesoro. Potere sostitutivo. Si tratta del principio di sussidiarietà che, in questo caso, comporta assunzioni di responsabilità ai livelli più alti.

BENITO PAOLONE. E chi «sussidia» il centro quando non si riesce a realizzare l'investimento?

CARLO AZEGLIO CIAMPI, Ministro del bilancio e della programmazione economica


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e del tesoro. Quando esiste la norma la cosa diventa semplice. Ad esempio, si parla tanto dell'esecuzione - cui sono pienamente favorevole - del tratto autostradale Reggio Calabria-Salerno: dovremo richiamare risorse da fondi non utilizzati (per iniziative genericamente programmate), per destinarle ad opere per le quali il Ministero dei lavori pubblici assicura che vi sono già progetti cantierabili, che possono essere avviati entro la fine dell'anno.

RAFFAELE VALENSISE. Bisognerebbe «commissariare» i progetti...

CARLO AZEGLIO CIAMPI, Ministro del bilancio e della programmazione economica e del tesoro. Bisogna vedere chi fa i progetti. Questo è il fatto.

PRESIDENTE. Prego i colleghi di intervenire successivamente.

BENITO PAOLONE. Rendiamo più vivace il confronto!

CARLO AZEGLIO CIAMPI, Ministro del bilancio e della programmazione economica e del tesoro. Non sono disturbato dalle interruzioni: anzi...

RAFFAELE VALENSISE. È un terreno interessantissimo. Poi faremo qualche proposta operativa.

CARLO AZEGLIO CIAMPI, Ministro del bilancio e della programmazione economica e del tesoro. Stiamo ora cercando di accelerare gli investimenti pubblici, dando priorità alle opere immediatamente cantierabili. Questi sono i fatti (successivamente riferirò anche in merito ai 10 mila miliardi attivati dal CIPE). La priorità, cioè, è individuata non secondo le zone, distribuendo quote in percentuale, ma con un diverso criterio: hai progetti pronti in questo settore? Me li porti e te li finanzio.
Sul piano operativo, poi, occorre intensificare la collaborazione con le parti sociali e promuovere la diffusione del modello adriatico. Sono convinto che il modello adriatico delle piccole e medie imprese, attraverso i distretti industriali, attraverso iniziative imprenditoriali che fungano da promozione e da «incubazione», possa avere un futuro nel Mezzogiorno, anche se sono consapevole che la realtà storica e le tradizioni storiche sono diverse fra il Mezzogiorno e l'area del centro o del centro-nord: nel centro-nord vi è sempre stata, anche a livello agricolo, una spinta - diciamo così - imprenditoriale che è diventata tradizione della zona. Questo aspetto è meno evidente nel sud, ma ciò non toglie che, attraverso un'opera di promozione e di incentivi, quello che nelle altre zone del paese è avvenuto spontaneamente possa verificarsi ugualmente con grande vantaggio anche nel sud.

NICOLA BONO. Ma non dice come!

CARLO AZEGLIO CIAMPI, Ministro del bilancio e della programmazione economica e del tesoro. Un ultimo obiettivo è quello di favorire un grande rilancio della formazione, nel senso già specificato in precedenza. Si tratta non di creare corpi specializzati, «isole di eccellenza», ma di rivedere l'impostazione della formazione in modo che sia diffusa e permanente.
Un cenno alla recente delibera del CIPE che ha permesso di attivare ulteriori fondi. Nelle riunioni del 12 luglio e dell'8 agosto scorsi, il CIPE ha deliberato il riparto dei 10 mila miliardi stanziati - e attivabili attraverso mutui - a favore delle aree depresse dalla legge finanziaria per il 1996 e dal successivo decreto-legge n. 450 del 1996. Come criteri prioritari per l'attribuzione di queste risorse si è assunto il contributo che i vari progetti possono dare al rafforzamento e alla creazione di occupazione, nonché all'attivazione di cofinanziamenti comunitari e privati.
Operativamente, le quote accantonate sono state destinate per 2.500 miliardi al cofinanziamento dei programmi regionali del quadro comunitario di sostegno 1994-99; per 3.500 miliardi alle agevolazioni ad attività produttive, ricerca e patti territoriali; per 3 mila miliardi ad interventi di settore e di area; per mille miliardi per


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misure specifiche quali la formazione e lo stimolo a nuova imprenditorialità.
Concludendo, devo dire che è fondamentale che si riesca a recuperare prontezza ed efficienza nell'utilizzo e nella gestione dei fondi. A titolo indicativo, si stima che nel 1996 vengano spese risorse comunitarie per circa 1.500 miliardi; puntiamo per il 1997 ad utilizzarne per almeno 4 mila miliardi: il che significherà da un lato accelerare gli investimenti e dall'altro risparmiare le risorse nazionali nella misura in cui queste opere vengano cofinanziate non dal solo Governo nazionale ma anche dalla Comunità.
La filosofia, dunque, è quella del recupero dell'efficienza e della progettazione propositiva dal basso (ma con le riserve descritte in precedenza): in base al principio della sussidiarietà, devono essere consentiti pronti interventi delle amministrazioni centrali laddove difettino le iniziative dal basso.
Per quanto riguarda la liberalizzazione delle procedure promuoveremo un testo unico normativo in cui siano riunite, raccordate e già semplificate tutte le norme relative alle aree depresse.
Il ruolo dello Stato, in questo ambito, è fondamentalmente doppio: innanzitutto, deve porsi come realizzatore diretto delle infrastrutture di base, materiali ed immateriali; in secondo luogo, deve essere stimolatore delle iniziative imprenditoriali. Il Governo crea cioè le condizioni perché le forze di mercato si attivino: si attende dalla capacità imprenditoriale dell'intero paese una risposta in termini di iniziative.
Concludo dicendo che le iniziative descritte non sono in contrasto con gli obiettivi di Maastricht; anzi, vorrei ricordare che sia nelle trattative sia nel testo del trattato si sono sì fissati obiettivi di convergenza fra le economie dei paesi europei, ma si sono anche definite politiche di coesione, proprio per evitare che il perseguimento della convergenza possa determinare svantaggi a danno delle aree in ritardo di sviluppo.

PRESIDENTE. Avverto che la tabella illustrata dal ministro verrà pubblicata in allegato al resoconto stenografico della seduta.
Ringrazio il ministro per la sua esposizione puntuale in cui sono stati evidenziati, oltre alla quantità delle risorse, i motivi degli intoppi che rendono difficile il ricorso a quei fondi e le azioni che il Governo intende intraprendere per arrivare ad un pieno ed efficace utilizzo degli stanziamenti comunitari.
Cedo dunque la parola ai deputati che l'hanno chiesta, ricordando loro che si tratta di un'audizione e raccomandando - per quanto possibile - di unire l'efficacia alla sintesi.

NICOLA BONO. Presidente, per motivi di ordine procedurale ho il dovere di pronunciarmi innanzitutto in merito alla mia interrogazione posta all'ordine del giorno, della cui risposta il ministro Ciampi doveva farsi carico. Ritengo di dover chiedere al presidente della Commissione di rinviare ad altra seduta la trattazione dell'interrogazione n. 5/00258 ed anche dell'interrogazione n. 5/00288, perché il ministro non ha toccato minimamente gli argomenti contenuti nelle stesse.
Come ricorderà, presidente, l'intervento del ministro era stato invocato dal sottoscritto, dal gruppo di alleanza nazionale ed anche da altri gruppi del Polo in occasione della manovra finanziaria che abbiamo approvato prima della sospensione dei nostri lavori per le ferie estive; in particolare, avevo chiesto personalmente al ministro alcuni chiarimenti in occasione della vicenda che aveva portato alle dimissioni del dottor Di Giambattista, presidente della cabina di regia nazionale. Una mattina, aprendo i giornali, abbiamo scoperto che il presidente della cabina di regia si era dimesso e volevamo capire, insieme al ministro, cos'era accaduto. E l'interrogazione all'ordine del giorno riguardava sostanzialmente l'esigenza di chiarire i motivi che avevano indotto il ministro a nominare alla direzione generale delle politiche di coesione la dottoressa Gabriella Palocci, già direttrice della cabina di regia.


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Ci chiediamo se ciò rientri in una logica di assorbimento nelle strutture del Ministero del bilancio di un organo che era sorto per volontà del legislatore con compiti e funzioni di indirizzo e di coordinamento, che non sono propriamente quelli dell'amministrazione in quanto tale.
Volevamo quindi capire se da un chiarimento con il ministro poteva discendere una serie di delucidazioni su questa vicenda.

CARLO AZEGLIO CIAMPI, Ministro del bilancio e della programmazione economica e del tesoro. Sono pronto a darle!

NICOLA BONO. La ringrazio.
Non solo. Era accaduto anche qualcosa di più. Da una dichiarazione - pubblicata anch'essa dalla stampa - del direttore dello SVIMEZ Salvatore Cafiero, resa pochi giorni dopo la vicenda che aveva portato alle dimissioni del dottor Di Giambattista, è emerso che alcune zone del centro nord non avrebbero i requisiti per essere ammesse nel novero delle aree depresse che usufruiscono dei benefici previsti dalla legge, perché gli indici dell'attività produttiva, dello sviluppo industriale non lo consentirebbero. Con una interrogazione in Commissione presentata insieme ad altri colleghi del gruppo di alleanza nazionale ho chiesto un chiarimento anche su questo punto. Si tratta di accertare se sia vero quanto ha affermato il direttore dello SVIMEZ, secondo il quale alcune aree del centro nord sono state inserite nell'elenco delle aree depresse addirittura a seguito di pressioni politiche della lega.
Sono argomenti di non poco conto, che non siamo stati noi ad inventare, in quanto alcuni organi di stampa hanno pubblicato le notizie in questione. Mentre accadeva tutto questo, si è appresa una ulteriore notizia, che io reputo devastante e che è stata poi confermata puntualmente, quarantotto ore dopo, dagli atti politici posti in essere dal Governo Prodi. Tale notizia faceva intravedere un ragionamento per cui, non essendo l'Italia in grado di utilizzare del tutto i fondi dell'Unione europea, si ipotizzava la possibilità di ridurre la quota di partecipazione del nostro paese all'Unione europea stessa per risparmiare qualcosa. Il fatto strano è, signor ministro, che quarantotto ore dopo la pubblicazione della notizia in questione (con un articolo apparso su numerosi organi di stampa, in particolare su Il Sole 24 ore) il Governo italiano ha approvato e ha consentito che venisse approvata una riduzione dei fondi del bilancio dell'Unione europea. Sarebbe infatti bastata l'opposizione del nostro Governo, unitamente a quella della Spagna, del Portogallo e della Grecia, per evitare tale riduzione. A fronte di un risparmio di 700 miliardi del contributo che l'Italia versa annualmente per la propria partecipazione all'Unione europea, a partire dal prossimo anno assisteremo ad una riduzione enorme dei contributi che riceviamo dalla stessa per l'agricoltura e per le aree depresse.
La notizia di cui sto parlando, che sembrava una boutade, è stata oggetto di uno scontro abbastanza vivace tra me e il sottosegretario Giarda nel corso dell'esame della «manovrina». Poiché quell'articolo era stato pubblicato sulla stampa ed eravamo «in corso d'opera», ho chiesto subito chiarimenti al sottosegretario, che ha puntualmente smentito. Ebbene, quarantotto ore dopo il voto del Governo italiano è stato determinante nell'approvazione della riduzione degli stanziamenti del bilancio dell'Unione europea.
Mi chiedo se, di fronte a questi atti, che hanno avuto un riscontro di carattere parlamentare, stamattina possiamo essere del tutto sereni nell'ascoltare l'intervento del ministro Ciampi sulla problematica in questione. Infatti, non solo non sono stati toccati alcuni argomenti (cosa già di per sé grave) ma ritengo che lo stesso approccio alle varie questioni sia in un certo senso «evasivo» rispetto alle nostre attese. Dico questo soprattutto in considerazione del fatto che tutti noi riteniamo che lei, signor ministro, sia uno dei migliori tecnici di cui dispone attualmente l'Europa nelle materie di carattere economico. Stamattina lei ha parlato del problema delle aree depresse in un modo, mi consenta, un po' superficiale, e comunque non organico, che


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non consente di capire quali sono i percorsi veri che il Governo intende seguire, al di là di alcune affermazioni di principio che possono essere tranquillamente sottoscritte da chiunque. Nessuno infatti potrebbe discutere sul principio che si vuole realizzare un'area di sviluppo del tipo di quella adriatica (ci metterei duemila firme!) e che puntiamo ad un migliore utilizzo dei fondi dell'Unione europea. Ma come? Lei, signor ministro, stamattina avrebbe dovuto dirci come è possibile fare tutto questo! Se mi permette, glielo dico io, le spiego io perché lei non sa dirci come si può fare, mentre qualcun altro invece lo sa!
Vi è un problema di impostazione, signor ministro. Stamattina lei ci ha posto un problema di questo tipo: se non siete riusciti a spendere i 160 mila miliardi che il Governo ha dato al sud, che volete?

CARLO AZEGLIO CIAMPI, Ministro del bilancio e della programmazione economica e del tesoro. Non ho detto questo!

NICOLA BONO. Allora cancelliamolo dal verbale! Diciamo che lei ha affermato che per il Mezzogiorno sono stati resi disponibili complessivamente 160 mila miliardi, una cifra congrua su cui costruire un progetto di sviluppo economico. Ebbene, io le dico che questo non solo è falso, ma, ammesso che fosse vero, è del tutto inadeguato al problema che abbiamo di fronte. Perché è falso? Perché non si può affermare, a settembre del 1996, che ci sono 160 mila miliardi disponibili, di cui 54 mila provenienti da una legge del 1986 che in larga misura non è stata quasi mai attuata. Non si può fare il conto della serva su questi 160 mila miliardi!
Tutto questo mi fa ricordare quando il governo Dini «strombazzò» a tutto il mondo che si dovevano realizzare opere pubbliche per 100 mila miliardi. Siamo andati a controllare quell'elenco e ci siamo resi conto che si trattava di una operazione da magliari, perché ci si era limitati ad una elencazione pedissequa di tutte le iniziative finanziabili o potenzialmente realizzabili, sapendo che per l'80 per cento esse non avevano un supporto economico ed erano del tutto fuori dalla realtà.
Ma voglio dire di più. Nei 106 mila miliardi che con una serie di ragionamenti lei, signor ministro, afferma siano disponibili rientrano persino, a suo dire, 21 mila miliardi provenienti dai privati, che sono tutti da verificare. Nei 160 mila miliardi lei fa rientrare 54 mila miliardi che vengono riportati di anno in anno senza che si riesca a spenderli; e non dice che 21 mila di questi 54 mila miliardi sono fondi per l'incentivazione delle attività produttive che avrebbero dovuto essere erogati agli aventi diritto sette, otto o nove anni fa. C'è gente che è fallita perché ha investito pensando che lo Stato italiano, con la legge n. 64, gli avrebbe concesso dei contributi ed è arrivata al 1992, al 1993 e al 1994 senza aver percepito nemmeno una lira! Abbiamo ancora un piano di erogazione di quei 21 mila miliardi che arriva fino al 1999 ed oltre! Anziché dire che siamo in mezzo ad una strada e che abbiamo tradito le aspettative delle attività produttive meridionali, si viene in Commissione a dire che abbiamo 160 mila miliardi divisi in un certo modo!
Lamento l'approccio dialettico e metodologico con cui stamattina stiamo esaminando il problema in questione, ma lamento soprattutto il fatto che le percentuali di utilizzo dei fondi dell'Unione europea non sono state riportate nella misura corretta, come mi sarei aspettato da un tecnico come lei, signor ministro. È vero che è stato impegnato il 20 per cento e che si è speso il 7 per cento, ma mi aspettavo che lei dicesse che questo 20 per cento non è impegnato in misura uguale per tutte le ipotesi di lavoro e che, per esempio, per gli interventi relativi all'obiettivo 1, quelli per le aree depresse del Mezzogiorno, la percentuale è inferiore al 6 per cento. Secondo i dati di cui dispongo - sono del mese di luglio e mi auguro che siano sbagliati e che lei li corregga - gli impegni ammontano a soli 3.500 miliardi. Le percentuali del 20 e del 7 per cento di cui parlavo riguardano in buona parte altri settori come, per esempio, quelli della politica agricola comunitaria o del


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FEOGA; per i settori di cui all'obiettivo 1, ossia le attività imprenditoriali concernenti interventi nelle aree depresse, le cifre sono più deludenti di quelle, già deludenti, che ci ha riferito questa mattina il ministro come media complessiva.
Avevo il dovere di ricordare tutti questi dati e mi piacerebbe capire quando sarà possibile svolgere una riflessione complessiva sul complicato tema delle aree depresse.
Un'affermazione contenuta nella relazione tocca uno dei problemi fondamentali da affrontare e risolvere; mi riferisco al modo in cui vanno spese le risorse dell'Unione europea. All'epoca lei non era ancora ministro, ma i colleghi presenti anche nella passata legislatura ricorderanno che quando affrontammo la conversione in legge del decreto-legge n. 244 (legge n. 341 del 1995), si svolse una vera e propria battaglia in merito alla cabina di regia. Io ed i colleghi di alleanza nazionale sostenemmo allora una serie di emendamenti che andavano in una precisa direzione. Ci si chiedeva se con la cabina di regia si dovesse istituire un altro «comitaticchio» come quelli creati a decine per parlare senza costrutto dell'intervento per le aree depresse, o si volesse invece dare vita ad uno strumento pregnante, capace di incidere realmente sulla capacità di spesa.
Per andare nella direzione di questa seconda ipotesi la strada doveva essere a nostro avviso quella di dotare la cabina di regia di strumenti sostitutivi e tutori in grado di supplire all'incapacità di spesa di chi (organi regionali o quant'altro) non fosse in grado di affrontare tali problemi. Desidero ricordare come tutto lo schieramento della sinistra si oppose in quell'occasione a tali emendamenti, che furono respinti. Il punto, tuttavia, non è questo. Posso infatti capire che il ministro Ciampi sia oggi riuscito a far maturare nella sinistra una convinzione che sembrava ragionevole e che avrebbe dovuto prescindere dalla contrapposizione ideologica; ciò che mi allarma è che non vedo la realizzazione di questo principio. Infatti, il determinismo che emerge dalla relazione non va nella direzione di un commissariamento di quelle regioni che, dopo avere operato una certa scelta, siano incapaci di spendere il denaro, ma addirittura prevede che il denaro non speso sia stornato e rientri in una riprogrammazione.
Si tratta di una possibilità da scongiurare perché in questo modo, di fatto, si penalizzerebbero le popolazioni che hanno la disgrazia di essere guidate da governanti incapaci, dirottando i fondi ad esse destinati verso altre dotate di governanti più capaci. Come altro va infatti interpretata la riprogrammazione?

ISAIA SALES, Sottosegretario di Stato per il bilancio e la programmazione economica. Sullo stesso territorio.

NICOLA BONO. E chi decide? A seguito della programmazione si stabilirà che una certa quantità di risorse servirà per la copertura di determinati progetti. Nel momento in cui alcuni di questi progetti non dovessero andare a buon fine, la riprogrammazione non può che diventare un modo per il ristorno in aree diverse di fondi non più destinati agli obiettivi precedentemente stabiliti. A meno che non si compia - altro limite della relazione - una programmazione basata solo sul principio delle opere cantierabili, ossia priva di un quadro di riferimento e di un obiettivo da realizzare. Cosa significa, infatti, affermare che da questo momento il Governo finanzierà le opere cantierabili? Quando mai è accaduto diversamente? Il problema non è quello di finanziare le opere cantierabili, ma di riuscire a rendere tali opere che assumano nel loro insieme una determinata logica e coerenza. Altrimenti, che tipo di intervento ipotizziamo per le aree depresse?
Come ho già detto, vi è il problema di come intervenire. Il ministro ha elencato una serie di interventi previsti; l'obiettivo del Governo, in ultimo, è quello di promuovere la diffusione del modello adriatico, di favorire il terziario avanzato nei settori del turismo, dei beni culturali e dell'ambiente e di realizzare patti territoriali. Volete spiegarci come intendete realizzare tutto questo? Sull'obiettivo concordiamo,


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sottoscriviamo la pagina della relazione del ministro concernente tali aspetti, ma come si intende intervenire? Quando il ministro afferma che la fase espansiva ha ignorato il sud - ed è vero - come fa, poi, a non porsi il problema (o, se lo ha fatto, ci piacerebbe sapere in che modo lo ha risolto) di quali strade seguire per attrarre capitali privati al sud? Non ci ha parlato, per esempio, del project financing e di come intende realizzarlo. A questo proposito abbiamo portato avanti una serie di proposte metodologiche che non sono certamente quelle che abbiamo potuto leggere sui giornali con riferimento al ministro dei lavori pubblici del Governo Prodi; si tratta di ben altro tipo di proposte che riguardano specificatamente la capacità di intervento nel Mezzogiorno. Nulla ci ha poi detto il ministro sul differenziale del costo del denaro, che rappresenta una mortificazione del principio della par condicio produttiva nonché una delle più pesanti palle al piede del Mezzogiorno. Ci vuole coraggio, signor ministro, perché non è possibile che banche operanti su tutto il territorio nazionale possano praticare un certo tasso di interessi fino a Roma maggiorandolo da Napoli in giù del 2, 3, 5 o 6 per cento.
Vi è infine la questione delle aree di crisi. Sono sconcertato del concerto che si è avuto tra Governo e sindacati su questo tema. Sono sconcertato perché si tratta di un modo alquanto rozzo per la reintroduzione di gabbie salariali nel Mezzogiorno. L'unico vero obiettivo - che denuncio in questa sede e che sarà il motivo conduttore della battaglia di alleanza nazionale contro le aree di crisi che dichiariamo da questo momento - è quello di utilizzare questo strumento per la reintroduzione delle gabbie salariali del Mezzogiorno.
Infatti, chiunque abbia letto in merito alle poche e scarne questioni che ruotano attorno alle aree di crisi sa che queste ultime nascerebbero per introdurre principi di flessibilità salariale e nel rapporto di lavoro, con uno stipendio ridotto del 25-30 per cento nelle aree meridionali; nascerebbero per consentire...

ISAIA SALES, Sottosegretario di Stato per il bilancio e la programmazione economica. Dove sta?

NICOLA BONO. Ti posso fornire questo primo elenco di rassegna stampa, poi...

ISAIA SALES, Sottosegretario di Stato per il bilancio e la programmazione economica. È la stampa!

NICOLA BONO. Scusate, ma siete voi che parlate con la stampa; noi, purtroppo, leggiamo soltanto perché la stampa risponde a voi.

ISAIA SALES, Sottosegretario di Stato per il bilancio e la programmazione economica. Non sta scritto da nessuna parte.

NICOLA BONO. Come avviene nei processi anglosassoni, riformulerò la questione. Se per caso le aree di crisi dovessero servire per quanto è stato detto e si è sentito dire, ossia per introdurre principi di flessibilità salariale in base ai quali il lavoratore del Mezzogiorno, a parità di ore di lavoro e di prestazioni, verrebbe a percepire il 25-30 per cento in meno di un lavoratore pari grado di qualunque altra parte del paese, si sappia che le aree di crisi si configurerebbero come la concessione ad una parte sociale imprenditoriale che da tempo chiede che nel sud si lavori ad un prezzo più basso. Le chiedo allora, signor ministro, questo: prima di avallare le aree di crisi ed ipotesi di flessibilità salariale, vorrei che qualcuno mi spiegasse per quale motivo per trent'anni, nel sud, si è lavorato anche con il trenta per cento in meno del costo del lavoro grazie alle norme sulla fiscalizzazione degli oneri sociali e sui vari incentivi che vi sono stati, ma non si è prodotto un solo posto di lavoro in più. Anzi, signor ministro, dal 1951 al 1995 si è registrata, nel sud, una flessione complessiva, con la riduzione del costo del lavoro, di 621 mila unità. In altre parole, rispetto al 1995, nel 1951 al sud lavoravano 621 mila persone in più. Se è questa la giustificazione della flessibiltà salariale, si sappia che non la consideriamo una giustificazione valida.


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Concludo il mio intervento, signor presidente, chiedendole di mantenere «in vita» le interrogazioni e di inserirle al più presto all'ordine del giorno della Commissione; del resto non posso nemmeno dichiararmi insoddisfatto delle risposte fornite dal ministro, perché i miei quesiti non sono stati presi nella dovuta considerazione.
Per il resto, signor ministro, noi vogliamo impegnarci insieme per creare una condizione di sviluppo, soprattutto per il Mezzogiorno. Io che penso di essere il deputato, diciamo così, più a Sud d'Italia, perché il mio collegio comprende Portopalo di Capo Passero, le posso dire che il dramma che stiamo vivendo da qualche anno a questa parte è un dramma di carattere sociale di dimensioni bibliche. A Siracusa, una piccola provincia di 400 mila abitanti, sono oltre 75 mila gli iscritti nelle liste di collocamento. Se lei considera che alcune migliaia di persone non si iscrivono nemmeno più in tali liste perché è subentrata la sindrome della inutilità dell'iscrizione, ha allora il quadro di una vicenda drammatica sul piano umano e sociale, una vicenda che è ad un passo dalla creazione di un disordine diffuso che potrebbe preludere ad una difficoltà di mantenimento anche dell'ordine pubblico.

PRESIDENTE. Onorevole Bono, lei ha usato il tempo per svolgere una contro-relazione; non so se sia intervenuto a titolo personale o come rappresentante del governo-ombra del Polo! Da alcuni passaggi del suo intervento direi di no perché - se sono un attento lettore - credo che su alcune delle questioni che lei ha affrontato si discuta anche all'interno del Polo.

NICOLA BONO. Non abbiamo fatto ancora Governi-ombra. Semmai siamo l'ombra del Governo!

PRESIDENTE. Vorrei pregare i numerosi colleghi - mi pare dieci - che hanno chiesto di parlare, di svolgere interventi efficaci ma sintetici, altrimenti corriamo il rischio di dover aggiornare i nostri lavori.
Quanto alle interrogazioni a cui lei si è riferito, onorevole Bono, il problema sarà affrontato successivamente.

ALBERTA DE SIMONE. Ho molto apprezzato la straordinaria attenzione ed la grande importanza che il Governo dà all'esame della realtà economica e sociale delle aree depresse e, in particolare, alla situazione del Mezzogiorno.
Mi limiterò a poche considerazioni con l'intento di aiutare in alcuni punti questo progetto del Governo.
Credo che i dati che il ministro Ciampi ci ha fornito siano di per sé indicativi di una situazione che non può essere lasciata così com'è. Vorrei soltanto ricordare che la questione meridionale è stata se non il principale comunque uno dei principali tratti di connotazione del nostro Stato unitario, fin dalle sue origini, fin dalla sua nascita, e che nell'ultimo decennio l'abbandono da parte della grande intelletualità nazionale di tale questione coincide con l'indebolimento del sentimento unitario e con la nascita dei rischi di secessione.
Ritengo che il ritorno ad un'attenzione forte a questa parte dell'Italia sia salutare per tutto il paese e non solo per essa.
Il ministro Ciampi ha parlato della possibilità di procedere alla realizzazione delle opere immediatamente cantierabili, tra le quali si può senz'altro annoverare il completamento della ricostruzione delle zone della Campania e della Basilicata che furono colpite dal terremoto, definito calamità nazionale, del 23 novembre 1980.
In questi mesi il Governo ha compiuto un'azione di semplificazione che a me è parsa quanto mai puntuale ed opportuna. Però nel 1992 la Commissione parlamentare d'inchiesta stabilì - nell'esercizio, appunto, di funzioni ispettive - che l'entità del danno residuo fosse quantificabile in diecimila miliardi. Più o meno la stessa cifra hanno indicato gli ispettori ministeriali inviati dal governo Berlusconi e che hanno completato con il governo Dini la loro opera di esame dei danni provocati in queste aree del Mezzogiorno: essi hanno infatti stabilito che per far fronte all'entità


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del danno sono necessari, oltre ai 4.300 miliardi stanziati con la legge n. 32 del 1992, altri seimila miliardi. Sono dunque due le verifiche effettuate da personale specializzato nella quantificazione dei danni.
È allora necessario, signor ministro, che sia finanziato il completamento della ricostruzione delle zone realmente colpite, possibilmente escludendo le altre. Infatti uno degli scandali principali è stata la dilatazione a macchia d'olio della zona del sisma, fino ad includere in essa comuni che nulla avevano avuto a che vedere con il terremoto. Mi riferisco pertanto esclusivamente alle zone che hanno subito il danno: la zona 1 (cratere) e la zona 2 (danno grave).
Si tratta di stanziamenti destinati ad opere immediatamente cantierabili, perché già sono stati realizzati i progetti. Peraltro alcuni cittadini di serie A hanno utilizzato le leggi esistenti fino al 1992, godendo di una serie di diritti, mentre alcuni cittadini di serie B si sono ritrovati nell'impossibilità materiale di ricostruire il proprio alloggio; mi riferisco ai casi previsti nell'articolo 3, comma 2, lettera c), della citata legge n. 32, che non hanno ottenuto affatto i finanziamenti e che potrebbero rientrare negli interventi previsti in questa legge finanziaria.
Vorrei poi sottoporre in maniera molto sintetica all'attenzione del ministro un'opera ottima, immediatamente cantierabile, relativa all'autostrada Salerno-Reggio Calabria. Si tratta di un braccio di 30 chilometri - si chiama bretella - che collega due grandi poli industriali, l'area dell'alta Irpinia e l'area del Solofrano-Montorese, e che è già strada a scorrimento veloce. Bisognerebbe allungare l'autostrada di 30 chilometri per collegare quei poli industriali ed anche l'università di Fisciano - sappiamo quanto il Mezzogiorno d'Italia sia povero di università - con la Salerno-Reggio Calabria.
I patti territoriali rappresentano una modalità di intervento nel Mezzogiorno a mio parere largamente positiva, però vi è una forbice troppo grande tra i finanziamenti previsti e la qualità e quantità delle domande avanzate attraverso i progetti realizzati dai vari enti. Anche qui bisogna prestare attenzione per evitare di creare grandi attese, dando poi una risposta minimale.
Vorrei passare ora alla questione della disoccupazione. Dice giustamente il ministro Ciampi che la nuova disoccupazione tecnologica è un problema di portata europea, che deve essere affrontato sul versante della qualità e non su quello dei costi, rispetto al quale non siamo competitivi con il modello asiatico.
Dal punto di vista della qualità occorre prestare attenzione alla formazione professionale. Auspicherei un maggiore collegamento con il Ministero della pubblica istruzione e con le politiche dell'istruzione, perché la prima formazione ha luogo nelle scuole. Da questo punto di vista si registra un divario secco tra settentrione e meridione: nel sud vi è una scuola di pessima qualità e strutture scolastiche assolutamente inadeguate. Pertanto il discorso dell'autonomia, che è certamente valido, rischia di essere una sorta di boomerang per le zone dell'entroterra che sono povere e nelle quali essa comporta una minore disponibilità di mezzi. Attenzione dunque a modulare i discorsi sulle necessità del Mezzogiorno a seconda che si tratti di grandi metropoli, come Napoli, Palermo e le altre aree urbane, oppure di zone interne di montagna e piccoli paesi, nei quali vi sono problemi ugualmente grandi e di qualità diversa da quella delle città.
Gradirei in sostanza vi fosse un'attenzione precisa alle questioni perché è assurdo lasciare tutto alla singola scuola, al singolo consiglio d'istituto, soprattutto in comuni di qualche migliaio di abitanti nei quali il 58 o il 59 per cento della popolazione vive con una pensione di 500 mila lire al mese. È assurdo pensare che vi possa essere una spinta autonoma del consiglio d'istituto per creare attività collaterali. Si correrebbe il rischio di una formazione professionale doppia che premia le zone più avvantaggiate e penalizza ulteriormente quelle più povere.
Credo si debba agire in concerto, valutando per esempio anche le differenze sul


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versante dei servizi. È questo l'ultimo problema che sottopongo all'attenzione del Governo: il piano dell'alta velocità a mio giudizio è troppo sbilanciato da Roma verso le Alpi. Già oggi si può prendere il treno verso la Lombardia o il Piemonte con grande comodità di orari e di mezzi, mentre io credo che tutti i ministri, gli esperti e qualche alto burocrate di questo Governo dovrebbero provare a fare un viaggio in treno verso la Basilicata, la Puglia, la Calabria o per attraversare lo stretto di Messina: si renderebbero conto dell'enorme divario che va però colmato. Quindi tutte le politiche devono essere maggiormente coordinate per raggiungere più rapidamente l'obiettivo che il Governo si propone e cioè quello di prestare maggiore attenzione e dare più importanza all'area nella quale si concentra la piaga nazionale della disoccupazione giovanile.

ANTONIO MARZANO. Signor ministro Ciampi, la sua è un'esposizione di buone intenzioni con le quali è difficile non concordare, come si è riconosciuto anche in precedenti interventi, ma temo fortemente che le buone intenzioni non bastino e soprattutto che le popolazioni meridionali siano ormai stanche di proclamazioni di intenti cui non seguono azioni operative concrete.
Premesso questo, vorrei articolare il mio intervento su diversi punti. In primo luogo, il ministro ha fatto riferimento ai problemi che si pongono oggi a causa della globalizzazione dei mercati. A tale riguardo bisogna intendersi: la globalizzazione dei mercati comporta uno sforzo di produttività da parte delle imprese e dei sistemi economici, sicché noi assistiamo ad un aumento della produttività più o meno intenso nei vari paesi, ma comunque molto sostenuto sotto la pressione della concorrenza globale. Ora, se non c'è un tasso di sviluppo complessivo dell'economia superiore al tasso d'incremento della produttività, non c'è spazio per la creazione di posti di lavoro. La globalizzazione dei mercati non c'era negli anni '50 e negli anni '60 ma, se in quegli anni avessimo avuti tassi di sviluppo dell'economia come quelli attuali, anche in quel caso, nonostante l'assenza del problema della globalizzazione, avremmo avuto gli stessi inconvenienti.
Quindi, sullo sfondo vi è il problema di una politica di sviluppo complessivo dell'economia abbastanza sostenuto, in modo da creare posti di lavoro in presenza di un incremento della produttività. Penso che in questo momento le politiche economiche dell'Europa stiano trascurando tale aspetto e in particolare lo stia trascurando l'Italia, che punta alla riduzione del tasso d'inflazione, la quale in questo momento, secondo me, risente del freno dell'economia, di un'economia che non tira. Se surgeliamo l'economia, è chiaro che i prezzi dei surgelati calano, ma questo non è un fatto positivo, non è un sintomo positivo.
Quindi, sullo sfondo vi è la necessità di rilanciare lo sviluppo nel paese. Si tratta infatti di un'equazione aritmetica: il tasso di sviluppo è uguale al tasso di incremento della produttività più il tasso di incremento dell'occupazione. Se il tasso di sviluppo non supera quello della produttività, non c'è creazione di posti di lavoro. È una questione di fondo di ogni dibattito sull'occupazione. Ebbene, mi pare che in questo momento il Governo porti avanti una politica carente per far fronte a questa esigenza, preso com'è da problemi anch'essi importanti ma meno stringenti e determinanti rispetto a quello dell'occupazione.
Nel meridione abbiamo assistito, e i dati lo dimostrano, a fenomeni molto strani. A seguito della politica del passato, le imprese manifatturiere presentano oggi intensità di capitale - intensità capitalistica della produzione: rapporto capitale-lavoro - non inferiore a quella del resto del paese. Al tempo stesso, però, abbiamo una diffusa disoccupazione: ciò vuol dire che le scelte compiute, poiché portavano ad un'alta intensità di capitale ma ad una bassa intensità di lavoro, non erano le più conformi all'assorbimento dell'abbondanza di lavoro. Questo è avvenuto perché abbiamo premiato soprattutto le grandi imprese per le quali il territorio del sud è stato un territorio di conquista e di affari.


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BENITO PAOLONE. L'immondezzaio a favore del nord!

ANTONIO MARZANO. Non abbiamo fatto una politica realmente a favore delle piccole e medie imprese che sono quelle a minore intensità di capitali ed a maggiore intensità di lavoro. Esse sono importanti - sto elencando quelli che secondo me sono i fenomeni fondamentali - soprattutto per evitare un altro problema; mi riferisco al fatto che, quando si investe nel meridione, in realtà con tale investimento non si crea un meccanismo autopropulsivo di sviluppo perché in larghissima parte si trasforma in beneficio per le aree più avanzate del paese. La fornitura di beni viene in larga parte assicurata dalle aree del centro-nord e quindi, in definitiva, l'intervento nel meridione si trasforma in un intervento a favore del resto del paese. Solo con un tessuto attivo di piccole e medie imprese l'indotto può rimanere nell'area. Nella sua relazione vi è un riferimento alle piccole e medie imprese, però, me lo consenta, si tratta di un riferimento abbastanza generico; non si capisce infatti come si intenda concretamente sviluppare il «fenomeno Adriatico» - chiamiamolo così - mediante il rafforzamento e la creazione di nuove piccole e medie imprese.
Il terzo punto sul quale mi vorrei soffermare è quello dei tassi d'interesse. Non ci può essere politica di sviluppo nel meridione fintantoché i tassi d'interesse praticati in tale area sono un multiplo di quelli esistenti nel resto del paese. È una condizione fondamentale perché deve essere associata alla pressione fiscale presente in tutto paese ed anche al sud, dal momento che il regime fiscale si pone in termini molto pesanti anche per il meridione. Infatti, quando un imprenditore deve effettuare un investimento, considerato che gli utili che ne ricava sono per una percentuale molto alta, dal 40 al 50 per cento, prelevati dal socio di maggioranza, che è lo Stato, quello che gli rimane come tasso di rendimento, confrontato al tasso d'interesse che assicurano i titoli di Stato, non è sufficiente a giustificare l'assunzione di un rischio d'impresa. In altre parole, fino a quando i tassi d'interesse saranno così alti, converrà porsi in posizioni di rendita piuttosto che di produzione. Il problema dei tassi d'interesse, associato a quello della pressione fiscale, è una questione che, se non viene risolta, provoca un processo involutivo e non di crescita del nostro sistema economico, in particolare di quello del meridione.
Il quarto problema è rappresentato dal mercato di sbocco. Il meridione è più lontano dai mercati di sbocco del centro Europa. È un problema serio e bisognerebbe verificare nel bacino del Mediterraneo quale sviluppo possano avere le relazioni commerciali tra il meridione e queste aree perché, in caso contrario, si crea una posizione di svantaggio dovuta, se non altro, ai costi di trasporto. Ma vi è anche un problema di rappresentanze commerciali che si rendono più complicate e difficili. Esiste quindi un problema di mercato di sbocco che non trovo citato nella sua relazione sulle aree di crisi.
Riscontro poi che, sempre per quanto attiene alle aree di crisi, è previsto un ruolo particolare per i sindacati. Nella sua relazione si legge che si spera di creare un clima più favorevole nelle relazioni industriali; il che vuol dire che, normalmente, il clima non è favorevole, cioè che il sindacato italiano, se non si interviene in modo particolare - e a tale proposito si congettura l'area di crisi -, assume un atteggiamento sfavorevole all'iniziativa produttiva. Trovo tale affermazione estremamente grave.

CARLO AZEGLIO CIAMPI, Ministro del bilancio e della programmazione economica e del tesoro. È una sua implicazione questa.

ANTONIO MARZANO. Se me lo consente, desidero anche sottolineare un altro aspetto al quale occorre prestare attenzione: l'area di crisi può essere un'idea - e noi nel programma del Polo abbiamo formulato un'ipotesi, secondo me più ricca ma concettualmente analoga - ma bisogna fare attenzione al fatto che l'area di crisi si può trasformare in un'area di gravitazione


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economica. Che cosa succede nelle aree limitrofe, in quelle al di fuori dei confini della cosiddetta area di crisi? Ebbene, in quelle zone si crea invece un problema di «degravitazione»; in sostanza, ai confini dell'area in cui si vogliono creare condizioni favorevoli, si determinano per ciò stesso condizioni sfavorevoli. Il problema del denaro è unitario e non interessa solo singole aree; quindi va affrontato con una visione unitaria di tutti gli aspetti.
Infine, ritengo che esista oggi nel meridione una sorta di circolo vizioso. La minore capacità di progettazione di cui tanto si parla non nascerà per caso anche dalla sfiducia nella realizzabilità effettiva dei progetti, nella disponibilità immediata dei mezzi? Perché un privato dovrebbe mettersi a progettare, sostenendo costi di progettazione, quando non è, almeno relativamente, sicuro che quello che lui vorrebbe progettare si realizzerà?
La verità è che nel meridione in questo momento vi è un clima di profonda sfiducia nei confronti dello Stato e dell'amministrazione. Se non si ristabilisce, con azioni concrete più che con mere proclamazioni d'intenti, un clima di fiducia, sarà molto difficile avviare un meccanismo di sviluppo autonomo nel meridione.

SILVIO LIOTTA. Signor presidente, forse sarebbe opportuno che il ministro cominciasse a rispondere e non lo facesse in modo complessivo al termine degli interventi: ciò consentirebbe di seguire meglio la discussione.

PRESIDENTE. Comprendo la sua preoccupazione, onorevole Liotta, ma corriamo il rischio di sfilacciare la riunione.

SILVIO LIOTTA. Mi rimetto alle decisioni del presidente.

ANTONIO BOCCIA. Signor presidente, esprimo un giudizio positivo in merito alla relazione svolta questa mattina dal ministro «del Mezzogiorno». In proposito, vorrei svolgere alcune brevi osservazioni.
Innanzitutto credo che debba essere corretta la parte in cui si afferma che dal 1992 ad oggi sono stati adottati provvedimenti legislativi per rendere disponibili 160 mila miliardi, perché si rischia di fare una brutta figura dal momento che si tratta di un falso. Infatti bisogna fare riferimento ai 10 mila miliardi stanziati dalla legge n. 488 del 1992, ai 3 mila miliardi derivanti dalla legge n. 85 del 1995, ai 5 mila miliardi della legge n. 341 e ai 10 mila stanziati dal decreto-legge n. 450, per un totale di 28 mila miliardi; se anche aggiungessimo i circa 10 mila miliardi previsti per ogni annualità nell'apposito capitolo di bilancio sul fondo per le aree depresse, non si arriverebbe comunque alla cifra indicata nella relazione. Peraltro aggiungere a tali fondi quelli previsti dalla legge n. 64 è improprio, per cui penso che si sia incorsi in un gravissimo errore.
Un'altra osservazione concerne gli incentivi alle attività produttive relativamente ai quali occorre che il Governo nazionale si faccia promotore di un'iniziativa per sbloccare quelle parti di QCS (quadro comunitario di sostegno) delle regioni ancora pendenti davanti alla Commissione relativamente alle leggi regionali che devono essere compatibili sulle misure di aiuto. Purtroppo tali proposte ancora non hanno trovato esito ed è evidente che, se alla fine del 1996 risultano ancora non approvate parti di QCS, si potranno spendere tali risorse, magari addossando la colpa alle regioni. Occorre invece sbloccare questi provvedimenti, tanto più che talune regioni hanno un contenzioso sulla compatibilità con alcune previsioni di QCS.
È inoltre assolutamente necessario che in vista del prossimo triennio si attui quanto chiede l'onorevole Pagliarini con una certa frequenza, che cioè si eviti di restare fuori dall'Europa seguendo una politica per incentivi non consentita e per la quale sono previste sanzioni piuttosto pesanti.
Dopo l'intesa del gennaio 1995, con la quale per esempio furono adeguati taluni parametri per gli oneri fiscali, successivamente, nel giugno 1995, l'adeguamento è stato allargato alle aree contenute nell'obiettivo 2 e si è così consentito a vasti territori di regioni ricchissime, come la Valle d'Aosta, di attingere con previsioni di incentivi


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che, seppure rientranti tra quelle indicate dalla Comunità europea per le piccole e medie imprese, comunque non dovrebbero gravare sulle risorse dei fondi strutturali. Il nostro paese sarà sicuramente penalizzato per questo motivo.
Sempre in tema di politica degli incentivi, ritengo che fra le azioni che il Ministero del bilancio dovrebbe porre in essere, insieme alle altre già previste, debba essere inserita quella riguardante la figura del «cacciatore di impresa». A mio parere in questo momento c'è bisogno di qualcuno che si dedichi alla ricerca dell'imprenditore, fornendogli le informazioni ed i servizi necessari, favorendo soprattutto il rapporto con le realtà locali perché, nel caso si tratti di un investitore straniero, è utile che egli investa nel Mezzogiorno. È auspicabile che il «cacciatore di impresa», il quale non conosce le potenzialità esistenti nel Mezzogiorno, venga invogliato ad investire specie in quelle zone, come la Basilicata, dove non esistono grandi strutture di supporto né validi collegamenti nazionali ed internazionali. A tal fine potrebbe usufruire di taluni efficaci supporti, appoggiandosi eventualmente alle associazioni degli industriali e delle piccole e medie imprese (quindi con una gestione preferibilmente privata piuttosto che pubblica), anche perché le possibilità che si prospettano grazie a queste leggi non sono del tutto note.
Per quanto riguarda i fondi strutturali, signor ministro, devo notare che purtroppo c'è qualcosa che non va. Peraltro, quand'ero presidente della regione in più occasioni con i diversi ministri del bilancio abbiamo avuto modo di sottolineare come le previsioni adottate a livello centrale sovente ignorino la realtà che vivono gli enti locali e le regioni. Si tratta di una carenza gravissima che andrebbe colmata. Pertanto suggerirei di ascoltare l'opinione, oltre che dei presidenti e degli assessori, anche dei dirigenti che si occupano delle strutture preposte alla gestione dei fondi strutturali perché ciò consentirebbe sicuramente di compiere qualche passo in avanti.
Quanto alle programmazioni, nonostante l'intesa raggiunta a luglio nel comitato di sorveglianza, esse conservano ancora elementi di automatismo che non risolveranno il problema. Se, per esempio, il ministro del tesoro avesse un arretrato di qualche migliaio di miliardi nell'erogazione di cassa nel Mezzogiorno (solo nella mia regione ce ne sono ben 200), non si tratterebbe semplicemente del fatto che non si spendono i soldi perché non funziona la cassa né servirebbe affermare che, per fortuna, le regioni non hanno speso i 160 mila miliardi dei quali si parla nella relazione perché altrimenti sarebbero fallite tutte le imprese meridionali, le quali non avrebbero ricevuto gli stanziamenti dallo Stato centrale. Ricordo che dall'aprile all'agosto del 1994 la nostra regione non ricevette una sola lira e i nostri imprenditori fallirono perché avevano avuto fiducia nella pubblica amministrazione: nonostante i rendiconti presentati, non furono effettuate erogazioni e ci furono numerosi fallimenti. Quando i contenziosi avranno termine, qualcuno dovrà pure pagare per questo!
I fondi previsti dalla legge n. 64 vanno erogati perché già talune regioni hanno deciso (mi sembra che tale tendenza sia invalsa già presso alcuni ministeri) di includere le opere da attuare in base a questa legge tra quelle cofinanziabili, nonostante che i programmi vengano fatti oggi. Non mi dilungo su questo argomento per non suscitare ulteriori problemi. Però, se coloro che si avvalgono di questo sistema non ottengono le risorse indicate dalla legge n. 64, non possono mettere in circuito queste stesse risorse per dimostrare la spesa e quindi per ottenere nuovi finanziamenti anche sui programmi del POP 1993-1996.
Il problema delle erogazioni sui fondi della legge n. 64 è fondamentale se si vuole accelerare la spesa dei fondi strutturali.
Per quanto riguarda il primo triennio, ritengo che sia stato fatto tutto, anzi, a questo punto, meno ci si mette mano meglio è, perché si finisce solo per far perdere tempo alle regioni e agli enti attuatori.


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La conferenza di servizio, il parere del comitato di sorveglianza e le riprogrammazioni concertate - mi vanno quindi bene anche i patti programmatici che lei ha proposto - devono avere un momento di semplificazione gestionale.
Occorre che il Governo individui con forza l'autorità che deve provvedere: in questo caso non può che essere il presidente della regione. Uno dei motivi, forse il principale, per cui non si riesce a spendere i soldi è da individuarsi nelle farraginose procedure in vigore anche presso gli enti regionali. Per realizzare un programma, si parla di un periodo di un anno e mezzo-due anni! È proprio in tale contesto, quindi, che deve essere introdotta una misura di salvaguardia sulla base della quale, se un'opera non viene realizzata entro il 31 dicembre 1996 (so che si è individuata una mediazione per il marzo 1997), la riprogrammazione, con la concertazione dei comitati di sorveglianza, spetterà al presidente della regione che chiuderà la partita assumendosene tutte le responsabilità. Questa soluzione è sicuramente migliore sia di quella di un commissario ad acta che non deciderà mai niente perché non verrà messo nelle condizioni di farlo, sia di quella di una riprogrammazione automatica che comporterebbe sicuramente l'avvio di un contenzioso tra regioni e Stato centrale.
Per il resto, va tutto bene. Mi riferisco alla società Europrogetti e finanza, alle strutture esterne come consulenti, al parco progetti con il fondo di rotazione. Credo che sia stato fatto tutto; adesso è la cabina di regia che deve funzionare.
Non aggiungiamo altre considerazioni, se non quella che condivido gli strumenti individuati per accelerare le procedure, perché non introducono ulteriori accidenti.
Sarebbe opportuno poi che le cabine di regia individuassero - perché esistono e, a mio avviso, sono prevalenti - le opere che sono lotti funzionali di opere più vaste. È infatti evidente che, se verrà fuori che abbiamo finanziato una serie di lotti funzionali di opere più vaste, probabilmente, prevedendo un obbligo del completamento di queste opere, noi, con un automatismo - in questo caso sicuramente serio e penetrante -, riusciremmo a spendere tutti i soldi, poiché diverrebbe obbligatorio portare a compimento un'opera per la quale si è già finanziato il lotto funzionale. Se tali opere verranno «tirate fuori», probabilmente potremmo avviare un processo di accelerazione nella individuazione dei programmi.
Signor ministro, mi consenta di rilevare che nella sua relazione odierna si parla assai poco dei programmi multiregionali. Eppure, dobbiamo rilevare ritardi gravissimi in alcuni ministeri: ad esempio, il Ministero dei lavori pubblici ha accumulato ritardi molto consistenti nella definizione dei propri programmi comunitari. Lei oggi ha citato solo l'ambiente, ma io ho notizie che anche per la viabilità non è stato ancora definito il programma. Mi auguro di sbagliarmi! È però evidente che i multiregionali debbano essere concertati con le regioni. Si insiste molto sull'autostrada Reggio Calabria-Salerno e poi, questa mattina, veniamo a sapere dell'esistenza del modello adriatico, senza scoprire che vi è la necessità di realizzare il completamento dell'autostrada adriatica da Bari a Sibari. Forse, infatti, una parallela all'autostrada del Sole servirebbe molto di più anche ai fini dello scorrimento del traffico della Salerno-Reggio Calabria e del suo ammodernamento, che pure è necessario. Sicuramente servirebbe molto di più del valico, del raddoppio della Roma-Firenze e via dicendo!
Poiché il ministero dei lavori pubblici ha già elaborato un progetto, credo esecutivo, sul completamento dell'autostrada adriatica e poiché si sostiene che non vi sarebbero progetti, sarebbe opportuno portarlo a compimento affinché il modello adriatico si possa sviluppare in Puglia e, poi, lungo lo Ionio, in Basilicata ed in Calabria; in tal modo potrebbe rappresentare una parallela all'autostrada del Sole che probabilmente potrà aprire quel circuito virtuoso con i grandi progetti della Comunità europea che partono dalla Grecia per arrivare fino al nord.


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Signor ministro, la prego quindi di svolgere una integrazione di informativa perché è necessario fare maggiore chiarezza sulla utilizzazione di 1.654 ECU previsti nei programmi di iniziativa comunitaria. Non possiamo, infatti, rimanere indifferenti rispetto all'utilizzazione di queste risorse. A parte le carenze al riguardo contenute nella relazione, dobbiamo registrare una certa distrazione complessiva sull'impiego delle risorse comunitarie, cioè sui programmi (PIC) che la Comunità europea finanzia direttamente. Sarebbe interessante e necessario che noi avessimo un quadro dell'utilizzazione di tali risorse e che compartecipassimo alle scelte per la loro spesa.
Signor ministro, mi consenta inoltre di rilevare che, se si vuole evitare l'errore commesso per il primo triennio, per il secondo triennio non dovremo intervenire nel 1999 o alla fine del periodo come stiamo facendo adesso, ma ora, perché poi, altrimenti, piangeremmo inutilmente. Si potrebbe allora inserire nella legge finanziaria una bella norma - lo dico in maniera un po' grossolana - secondo la quale entro il 31 dicembre 1996 le regioni e i ministeri dovranno presentare il POP 1997-1999; se non lo faranno, il presidente della regione, il Consiglio dei ministri o il ministro, lo farà entro trenta giorni. In questo modo si potrà veramente guadagnare un anno e mezzo, forse due anni, mettendo in campo all'inizio del 1997 la progettazione esecutiva perché, purtroppo, i programmi operativi per i fondi sono quasi sempre di progettazione di massima. Se inizieremo a gennaio la progettazione esecutiva con l'aiuto di Europrogetti e finanza e di supporti esterni e usufruendo dell'anticipo del 90 per cento del fondo messo a disposizione per il parco progetti, forse nella primavera del 1997 potremo aprire i cantieri prima di queste opere del 1997-1999 che non di quelle del 1993-1996. Mi pare che questa procedura sarebbe necessaria per interrompere l'effetto «palla di neve» che si verifica in questi casi; altrimenti, mi deve consentire di dirle che il sospetto che ho sempre avuto da presidente di regione, che poi il governo centrale fa di tutto per non far spendere i soldi perché non li ha in cassa, finirebbe con l'avere qualche conferma.
Occorre poi studiare degli automatismi. Ne citerò uno che so già che solleverà qualche polemica e magari qualche dubbio: l'estendimento automatico agli stessi prezzi, patti e condizioni per interventi di completamento dovrebbe essere individuato come una priorità vincolata. Ricordo che la circolare Di Pietro prevede che si possa fare la trattativa privata per gli estendimenti. Ebbene, solo per decidere se fare o meno la trattativa, di solito l'ente attuatore impiega un anno, a causa di tutte le procedure burocratiche. Se noi affermassimo che per un'opera che è lotto funzionale di un'opera più complessa si potesse procedere con l'estendimento automatico agli stessi patti, prezzi e condizioni (e quindi a condizioni vantaggiose per l'amministrazione, perché saranno state contrattate almeno due, tre, quattro o cinque anni fa), avremmo un programma automatico già fatto per almeno la metà. In tal modo, quindi, non li metteremmo nemmeno in cantiere, perché già lo sarebbero! Bisognerebbe avere il coraggio di realizzare iniziative del genere: se siamo in tempi di emergenza, occorrono provvedimenti di emergenza.
In ogni caso, si possono individuare anche altre soluzioni.
Mi fa piacere che finalmente al Ministero del bilancio si siano convinti del fatto che debbono finirla di fare leggi, leggine e delibere ogni 15 giorni e che dobbiamo introdurre una previsione nella finanziaria del 1997 che delegifichi e dia il potere al ministro - o al CIPE, se volete - di dirimere tutte le questioni che nascono, senza costringerci a rincorrere le previsioni contenute nei decreti-legge per consentire di individuare iniziative in grado di risolvere i problemi (questa mattina la collega De Simone ha giustamente richiamato una questione relativa al terremoto del 1980). È infatti inaccettabile che, per risolvere alcuni intoppi procedurali, si debba attendere un anno o due che qualcuno si convinca ad inserire una previsione in un decreto-legge che consenta, magari, di risolvere


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problemi da quattro minuti! Dobbiamo quindi delegificare tutte queste attività. Mi pare che lei, signor ministro, abbia affermato che nel Governo vi sarebbe tale volontà e ciò non può che farmi piacere.
L'ultima osservazione che vorrei svolgere riguarda il fatto che lei dovrebbe cancellare dalle conclusioni della sua relazione quanto viene affermato nell'ultima parte, perché mi paiono considerazioni veramente strane.
Lei ha ricordato che la disponibilità complessiva ammonta a circa 106 mila miliardi per il sessennio (sperando che i 24 mila dei privati ci siano). Giustamente lei ha indicato una serie di attività per accelerare tale spesa. Tuttavia, lei sa meglio di me che gli impegni vanno stabiliti entro il 31 dicembre 1999 - e non ci sono santi! - e che abbiamo convinto la Comunità a rendicontare entro i due anni successivi; quindi per il 2001 dovremmo aver speso tali somme. Lei sa meglio di me, però, che abbiamo perso 300 miliardi già nel primo intervento e 500 nel periodo 1989-1993, e quindi se continuiamo con questo trend probabilmente nel 2001 registreremo altre perdite.
Ebbene, non può pensare di cavarsela con 1.500 miliardi nel 1996 e 4.000 miliardi nel 1997. Guai a noi se spendessimo soltanto queste somme! Significherebbe, infatti, che avremmo già deciso di non spendere nel 2001 i 106 mila miliardi. La contraddizione mi pare lapalissiana: non possiamo prevedere di accelerare la spesa e spendere almeno la metà della somma, cioè 50 mila miliardi, nel primo triennio, e prevedere che nel 1996 vengano spesi solo 1.500 miliardi e nel 1997 solo 4.000.
Torna allora la questione del rapporto tra cassa ed impegni. Ho constatato questa mattina che la volontà del Governo è forte ed ho molto apprezzato, signor ministro, la sua relazione, che però dovrebbe prevedere anche strumenti compatibili, altrimenti corriamo tutti il rischio di non essere capiti.

LUCA DANESE. Vorrei comprendere se vi è effettivamente un'inversione rispetto al modo in cui in passato il Ministero del bilancio ha affrontato il rapporto con le regioni in relazione al controllo dell'utilizzo dei fondi. Ritengo si ponga alla base un problema che nasce dalla scarsa incidenza dei Governi che si sono succeduti nel far determinare dalla Comunità parametri che fossero maggiormente rispondenti alle esigenze di potenziali interventi nelle nostre aree, soprattutto in quelle depresse, piuttosto che parametri che rispondessero più che altro alle esigenze portate avanti con maggior rigore da altri paesi europei. Ciò è dimostrato anche dai molti programmi, finanziati in sede comunitaria, chiaramente sorti su indicazione di alcuni paesi (penso ai programmi per la riconversione delle industrie pesanti ai quali erano interessati i tedeschi a seguito dell'annessione della Germania dell'Est, ai programmi per la pesca, sollecitati dal Portogallo, e ad altri ancora).
Mi sono reso conto, nel corso della mia biennale attività di assessore al bilancio della regione Lazio, che in molti casi disponevamo di programmi che erano sì utilissimi, ma non prioritari rispetto ai bisogni e alle attese di tutti i comuni delle nostre regioni. Ciò si evince anche dal fatto che molto spesso i programmi finanziati non sono rispondenti alle priorità che gli amministratori locali segnalano insistentemente perché assolutamente necessarie (penso soprattutto alle reti fognarie, alle strade, ad interventi di infrastrutture che il più delle volte non possono essere finanziati con gli stanziamenti comunitari). Credo quindi vi sia un problema di fondo al momento della negoziazione iniziale in cui occorre un intervento del Governo centrale che sia il più possibile tarato sulle priorità degli enti locali.
Occorre poi un momento di chiarezza rispetto al modulo di concertazione in sede comunitaria. Negli ultimi anni, infatti, è parso evidente che le regioni avessero un'autonomia operativa nel negoziato con la Comunità europea che sovrastava decisamente l'attività di coordinamento del Ministero del bilancio. Per non parlare poi del quotidiano, continuo, conflitto di competenze che si avvertiva forte e che finiva con il privilegiare il ruolo autonomo


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delle regioni tra i vari dicasteri interessati all'attuazione dei diversi programmi finanziati con la Comunità. Quando si è trattato di realizzare i documenti di programmazione unitaria da parte delle regioni, sui quali si basano le misure per operare attraverso i fondi che lei, signor ministro, ha riassunto nelle tabelle, le regioni hanno negoziato direttamente con i funzionari della Commissione. E l'atteggiamento di questi ultimi, nel negoziato con gli assessori regionali o con i presidenti delle regioni, in molti casi era viziato pregiudizialmente in modo negativo nei confronti degli italiani che purtroppo hanno, ma anche a ragione, la nomea di non saper spendere i fondi e di essere in molti casi interessati a far approvare determinati programmi ritenuti prioritari dalle lobbies delle grandi aziende italiane e dai sindacati che in sede comunitaria si muovono in anticipo rispetto al Governo centrale e alle regioni. Quando si è trattato di approvare il documento unitario di programmazione della regione Lazio mi sono trovato di fronte a funzionari della Comunità che avevano dichiarato con chiarezza che era prioritario inserire determinati progetti riguardanti Civitavecchia o Cassino, ma emergeva chiaramente l'impronta delle grandi aziende, che svolgevano giustamente la loro attività di lobbing a livello comunitario, e l'intervento diretto delle grandi organizzazioni sindacali che hanno forti interessi nel finanziamento di progetti che, soprattutto per le attività immateriali, consentono loro di gestire grandi programmi.
Abbiamo cercato invano di ridurre i fondi per la formazione. Non è un mistero, infatti, che in alcune regioni una parte consistente dei fondi comunitari non viene spesa perché una quota eccessiva è destinata alla formazione, mentre maggiori sarebbero le reali necessità su altri fronti. Non vi è stata tuttavia la possibilità di ridurre tali allocazioni di risorse nell'ambito del pacchetto complessivo.
In ordine poi al conflitto di competenza tra ministeri, basti pensare a cosa succede per la formazione con il Ministero del lavoro, che la gestisce come se fosse un proprio territorio di pertinenza intoccabile, o alle continue diatribe tra il Ministero dell'ambiente, quello dei lavori pubblici e i ministeri interessati a tutta l'attività di controllo, anche dal punto di vista ambientale, delle opere da realizzare. Mi pare che una risposta fosse stata data, perché ve ne era consapevolezza, con la creazione della cabina di regia, ma soprattutto con la creazione della direzione generale della coesione all'interno della struttura del Ministero, che rappresentava un passo utile (tra l'altro Gabriella Palocci è una donna eccezionale, direi l'unico interlocutore reale che si è avuto in molte situazioni, con conoscenza e cognizione di fatti). Resta però il fatto di un'eccessiva autonomia delle regioni. Oppure, se vogliamo andare verso una maggiore autonomia delle regioni, questa deve essere in qualche modo sancita, perché non può essere affidata alla capacità singola di una regione piuttosto che di un'altra o di un assessore piuttosto che di un altro; penso ad un meccanismo di maggiore supporto rispetto ad alcuni passaggi chiave nel procedere dei programmi.
Si pone per le regioni il quotidiano problema dei programmi che vengono finanziati in ECU e che poi in corso d'opera incontrano in qualche misura difficoltà perché il valore dell'ECU è mutato, la programmazione e il progetto all'origine avevano «sballato» la valutazione. Quindi da questo punto di vista ci si è trovati molto spesso in difficoltà, in eccesso o, al contrario, in difetto.
Si pone, ripeto, un problema quotidiano di difficoltà (non si può dire tout court che le regioni sono incapaci di spendere) ad andare avanti nell'esecuzione dei progetti per la farraginosità non solo delle leggi regionali, come ha ricordato l'ex presidente Boccia, ma anche perché sovrintendenze, ministeri, interventi di vario genere bloccano l'attuazione dei programmi. Vi sono programmi di alcune nostre regioni bloccati da un anno in attesa di pareri che esulano completamente dalla capacità di analisi delle regioni o degli organi regionali e molto spesso, poiché sono cofinanziati, come giustamente si ricordava, con fondi di privati, ciò comporta


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l'assoluta demolizione di qualunque fiducia sulla capacità di procedere dei progetti finanziati anche da privati.
Su questo occorre istituire un binario preferenziale, dovrebbe realizzarsi una forma di concertazione legislativa che garantisca quanto meno, se non delle corsie preferenziali, dei tempi di attuazione, di controllo, di verifica e di concessione dei permessi diversi per quanto riguarda i fondi comunitari rispetto ad altre attività di alcuni uffici centrali. Questo è stato un elemento di blocco quotidiano. Su tali argomenti lei non si è pronunciato nella sua esposizione, anche se nel corso della seduta ci è pervenuto un documento che contiene alcuni dati.

CARLO AZEGLIO CIAMPI, Ministro del bilancio e della programmazione economica e del tesoro. È il testo dell'accordo siglato tra le parti sociali ed il Governo.

LUCA DANESE. È un progetto che in un certo senso mi ha ridato speranza, poiché in esso colgo alcune risposte ai problemi che sto evidenziando.

CARLO AZEGLIO CIAMPI, Ministro del bilancio e della programmazione economica e del tesoro. È un progetto che avevo richiamato.

LUCA DANESE. L'ha senz'altro richiamato; tuttavia nel documento che ci è stato consegnato vengono esposti più dettagliatamente i contenuti, in particolare per quanto riguarda lo snellimento delle procedure.
Vi sono alcuni altri aspetti che vorrei brevemente sottolineare.
Vi è la questione alla quale ha accennato il professore Marzano. Per poter accedere al finanziamento occorre presentare un progetto; quest'ultimo non viene realizzato dalla regione ma, molto spesso, dal comune, generalmente con un cofinanziamento da parte dei privati. Il privato difficilmente finanzia motu proprio la realizzazione di un progetto quando deve partecipare ad una gara. Pertanto, in casi del genere, i privati non sono disponibili al finanziamento, mentre si è in presenza di progetti che costano centinaia di milioni ed anche di più. Ebbene, il comune non ha i fondi...

CARLO AZEGLIO CIAMPI, Ministro del bilancio e della programmazione economica e del tesoro. Vi è il fondo della Cassa depositi e prestiti che, tuttavia, non viene attivato. Si tratta di 500 miliardi annui. È una realtà drammatica nella quale mi sono imbattuto, e la mia non vuole essere un'osservazione polemica.

LUCA DANESE. Forse vi è l'incapacità di accedere al fondo della Cassa depositi e prestiti da parte dei comuni. In ogni caso, spesso ho avvertito la difficoltà dei comuni di concretizzare la propria partecipazione all'esecuzione di un progetto per il quale comunque, pur ammesso che venga finanziato con il fondo al quale lei giustamente ha fatto riferimento, l'ente locale deve assumersi la responsabilità politica di decidere in merito al progettista ed al tipo di progetto. Lei può immaginare, considerata la facilità con cui cambiano le giunte a livello locale, quanto ciò possa rallentare i tempi; in molti casi tale aspetto è stato assolutamente determinante.
Si è cercato di ovviare a questa situazione utilizzando come cofinanziamento programmi già approvati con leggi regionali di aiuto; cioè programmi che potessero essere estesi. È un metodo che si è cercato di seguire, anche se risponde ancor meno alle priorità di fondo che il mercato richiede: per esempio il finanziamento di progetti delle piccole e medie imprese. Con i fondi dell'Unione europea il più delle volte non si può finanziare la realizzazione di una strada, a meno che non sia, per esempio, di accesso ad un'area artigianale finanziata con gli stessi fondi; questo è un paradosso. Per esempio, per tutta la zona di Pomezia, che è in grande crisi, non si possono effettuare interventi finalizzati ad una maggiore viabilità della Pontina, però potremmo finanziare con miliardi e miliardi la costruzione di stradine purché di accesso ad aree artigianali realizzate con fondi comunitari. Questo per far capire che esiste un problema


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di taratura delle misure e dei programmi a seconda delle priorità non solo genericamente italiane ma di singole regioni con esigenze specifiche.
Vi è poi la questione del monitoraggio relativo allo stato di avanzamento dei lavori: chi deve effettuarlo ed in che termini?
In diverse circostanze sono sorti problemi dovuti soprattutto ad una incomprensione da parte della Comunità per quanto riguarda la particolarità italiana. La Comunità eroga i fondi nel momento in cui l'opera viene appaltata; le regioni - giustamente, a mio parere - sostengono che sarebbe più opportuno riuscire ad ottenere il finanziamento reale nel momento in cui la delibera regionale di approvazione del progetto viene emanata. Infatti si potrebbe guadagnare anche un anno sulle procedure di appalto perché spesso, espletata la gara, basta un ricorso, una minima contestazione per bloccare tutto.
Nel documento che ci è stato consegnato si fa riferimento all'esigenza di porre in essere procedure che superino in modo netto, addirittura «in deroga» - cito testualmente - «alla normativa vigente, gli atti amministrativi sostituibili con determinazioni convenzionali, i poteri sostitutivi, le forme di conciliazione arbitrato ed altri eventuali strumenti finalizzati a rendere rapide le decisioni e ad evitare conflitti, veti, resistenze, inerzie e ritardi».
Mi auguro che ciò sia possibile; temo, però, che in un momento di grande terrore nei confronti della magistratura a tutti i livelli, sia difficile porre in essere quanto indicato.
Un ulteriore aspetto riguarda i problemi di cassa. Una parte dei fondi (a seconda dei casi, il 20 o il 15 per cento) viene erogata alla presentazione del progetto. Le regioni, però, nel momento in cui ricevono tali finanziamenti, mettono i soldi nel calderone unico della tesoreria regionale e, in attesa dell'avvio reale del progetto presentato dal comune, dal privato, dal consorzio di bonifica o altro, utilizzano tali fondi per la gestione quotidiana delle attività della regione (per esempio per far fronte alla spesa sanitaria per la cui copertura parziale ancora non sia giunta l'autorizzazione all'accensione del mutuo o per i fondi mensili assegnati alle aziende di trasporto, pagati dal governo centrale di sei mesi in sei mesi). Fatto sta che, nel momento in cui si giunge alla partenza operativa del progetto finanziato con i fondi CEE, sorge un problema di cassa, che ulteriormente penalizza i privati, perché la regione ha già speso i soldi in altro modo. Da questo punto di vista, occorrerebbero forse direttive più precise per quanto riguarda la gestione delle tesorerie regionali.
L'ultima questione, ricordata anche da chi mi ha preceduto, riguarda i fondi della legge n. 64.
Ho già avuto modo di affrontare tale materia nel corso di una precedente audizione, alla quale il ministro ha avuto l'amabilità di partecipare. È reale il fatto che per molti programmi conclusi dalle regioni, i fondi di cui alla legge n. 64 non siano stati ancora erogati. Ciò ha provocato un contenzioso terribile da parte dei privati nei confronti dei comuni, che si trovano in grande difficoltà. È sufficiente il solo aspetto giudiziario, per non andare a vedere cosa abbiano comportato, in termini di calcolo degli interessi a carico dei comuni o delle regioni, sentenze già emesse, per comprendere quanto la situazione sia diventata esplosiva. Si tratta di opere che si rifanno ad una legge che non è più finanziata da tempo ed i cui programmi erano stati attivati molti anni fa.
Non ho altro da aggiungere se non una domanda dovuta ad una mia scarsa comprensione - essendo giunto quando la seduta era già cominciata - del problema che ora le sottopongo.
Per quanto riguarda i fondi dei quali oggi si è parlato, mi sembra che si faccia riferimento al Mezzogiorno, anche se dovremmo parlare di aree depresse. Vorrei invece una maggiore informazione circa le risorse che vengono destinate alle regioni del nord. Ho infatti l'impressione che alcune regioni del nord, che probabilmente avevano seri problemi di aree industriali da tutelare (penso in particolare al Piemonte),


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abbiano però privilegiato, nella gestione dei finanziamenti ottenuti - come ricordava Marzano -, un certo indirizzo, giacché i fondi sono stati utilizzati da grandi e non da piccole e medie imprese. Si è dunque favorito l'assistenzialismo nei confronti della grande industria e ciò sbilancia il nostro ragionamento, poiché si dimostra che il nord, da questo punto di vista, ha «pescato» molto bene.

MARIA CARAZZI. Sono state sollevate dai colleghi questioni di carattere gestionale; si tratta senz'altro di tematiche molto importanti, tuttavia ritengo opportuno riportare il discorso ad un livello più generale.
L'ultima affermazione contenuta nella relazione del ministro è da me condivisa, se l'ho ben compresa. Mi sembra che il ministro sottolinei la necessità di evitare che la convergenza abbia come conseguenza l'arretramento della coesione. Mi sembra di capire che, tra i due obiettivi, la coesione sia prevalente rispetto alla convergenza.
Il ministro ha inoltre affermato che il riequilibrio è affidato alla capacità imprenditoriale, alla capacità dei privati. La mia domanda è però la seguente: se la capacità dei privati, dell'imprenditorialità, non sarà all'altezza, se c'è in questo - anche in questo - fallimento del mercato, deve esserci o meno un altro livello di intervento, che credo non possa essere la sommatoria di esigenze locali, per quanto giuste, ma un intervento che solo una programmazione generale può assumere, anche se in questo periodo sembra che di programmazione non si possa più parlare?
Ho poi una domanda sui patti territoriali e sui contratti di area. Non vedo bene (forse è presto perché sui contratti di area abbiamo solo un protocollo molto generico) qual è il nesso tra un'attività che può essere vista sotto il registro dei patti territoriali e questa ipotesi dei contratti di area. Entrambi questi interventi comportano un rischio. Si tratta di interventi di carattere abbastanza puntuale, localizzati, e avrebbero necessità di essere inquadrati in una previsione di poli di sviluppo - come si diceva negli anni sessanta - o, comunque, dovrebbero tener conto - come i colleghi hanno già osservato in precedenza - di cosa succede ai margini, all'esterno di queste aree delimitate di intervento.
Come il ministro sa, il nostro gruppo è preoccupato per una previsione che è contenuta nel protocollo in questione, una ventilata possibilità derogatoria alle normative attuali del mercato del lavoro e, in particolare, ai minimi contrattuali. Tale possibilità è stata ventilata, non è scritta, ma comunque in questa sede riaffermiamo non solo la nostra contrarietà - già nota al ministro -, ma anche un'osservazione sulla pericolosità di una concorrenza al ribasso, di un dumping sociale fra aree che si mettessero in contrapposizione in questo tipo di deroghe di ultraflessibilità o di sfondamento al ribasso dei minimi, che potrebbero essere controproducenti rispetto agli stessi obiettivi del disegno. Anche quando si parla di aree depresse, infatti, si confrontano due finalità: una che riguarda l'interesse generale e che vuole la crescita ed il riequilibrio ed una finalità che, invece, rispecchia solo un interesse particolare degli imprenditori, che ricerca l'abbassamento del costo del lavoro ad ogni prezzo.

PRESIDENTE. La ringrazio per l'efficacia e la sinteticità del suo intervento.

RAFFAELE VALENSISE. Presidente, cercherò di essere breve e di emulare la sinteticità della cortese collega che mi ha preceduto.
Desidero sottoporre all'attenzione del ministro Ciampi, che ringraziamo per l'esaustività della sua relazione, alcuni problemi precisi e specifici sui quali mi sembra valga la pena intrattenersi e chiedere qualche spiegazione.
Si parla di patti territoriali - lo ha fatto un momento fa la collega Carazzi - sui quali siamo stati informati dalla cortesia del sottosegretario Sales attraverso la consegna di una nota intitolata «Intervento nelle aree di crisi», patti che ci lasciano molto perplessi perché...


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CARLO AZEGLIO CIAMPI, Ministro del bilancio e della programmazione economica e del tesoro. I patti territoriali sono cosa diversa dalle aree di crisi; evidentemente non c'è ancora una sufficiente informazione.

RAFFAELE VALENSISE. Ho capito. Attendiamo informazioni.

MARCO TARADASH. Noi non sappiamo niente!

CARLO AZEGLIO CIAMPI, Ministro del bilancio e della programmazione economica e del tesoro. I patti territoriali sono partiti prima; le aree di crisi sono cosa più recente.

RAFFAELE VALENSISE. Avevamo l'impressione che rispondessero ad una certa logica.

CARLO AZEGLIO CIAMPI, Ministro del bilancio e della programmazione economica e del tesoro. C'è una logica di integrazione...

RAFFAELE VALENSISE. C'è una logica comune, quella di localizzare e di specificare condizioni di flessibilità in aree diverse del paese, a seconda del territorio, diciamo così. Il concetto è questo. Si tratta della stessa cosa. Io avrei delle perplessità, ma per formularle faremo ricorso ad un solo argomento, che è il seguente.
Lei ha sostenuto secondo ragione e secondo verità che molte volte nelle aree di crisi, depresse, in particolare del Mezzogiorno, vi è necessità di una qualificazione e di esaltare tale qualificazione. Ed allora la flessibilità nel Mezzogiorno o l'adeguamento della forza lavoro alle condizioni speciali, di trincea avanzata, in cui la forza lavoro si trova, potrebbero forse individuarsi in un altro e contiguo ordine di idee, quello della specificazione e della qualificazione professionale.
Dal punto di vista della qualificazione professionale le carenze esistenti nel Mezzogiorno sono drammatiche ed una ispezione su tutti i corsi, dovunque tenuti nel meridione, di cosiddetta formazione professionale porterebbe a quelle scoperte sconcertanti che fanno parte dell'informazione corrente, ma a cui i governanti - soprattutto, negli anni scorsi, i governanti locali - sono stati sordi. Pertanto, i corsi di formazione - ed il denaro speso per essi - non hanno formato nulla.
Per converso, nella realtà meridionale abbiamo una certa situazione psicologica ed una tradizione che dovrebbe essere incentivata, quella artigianale. Io chiedo ed invoco il ministro del bilancio affinché siano riconsiderate le condizioni in cui operano gli artigiani in tutta Italia e in particolare nel Mezzogiorno.
Si è parlato di modelli di sviluppo, della necessità di lavoro autonomo a fronte del lavoro subordinato e salariato. Prestiamo allora attenzione alla drammatica situazione in cui versa l'artigianato.
L'artigiano, colui il quale ha un mestiere, una professionalità nel cervello e nelle mani, nel Mezzogiorno in particolare non è in condizione di tentare di rendere impresa la piccola impresa artigiana, perché è «strozzato» dalle situazioni creditizie esistenti nel Mezzogiorno, che sono penalizzanti per coloro i quali non hanno patrimoni alle spalle con cui garantirsi, sono privi di credibilità bancaria, situazioni che derivano da posizioni di potere e di tradizione, non certo dagli artigiani.
Chiedo quindi che a favore di questi ultimi, proprio con riferimento alla formazione giovanile ed alla creazione di posti di lavoro, sia rivolta particolare attenzione. Lei sa, ad esempio, che gli artigiani possono riunirsi in società di persone, ma non in società di capitali. L'artigiano, dunque, ha questa preclusione che sarebbe anche poco in regola con le norme della Costituzione e ciò non privilegia certo la categoria.
Dunque, se si tratta di parlare di flessibilità, chiedo che si ponga mente al grande lavoro ed al grande compito che gli artigiani possono svolgere attraverso una formazione diretta, ossia attraverso la trasmissione del mestiere e l'educazione di coloro i quali possono e debbono portare avanti il lavoro artigianale.


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Un'altra osservazione è la seguente. Il ministro Ciampi afferma - e noi lo ringraziamo - che grande attenzione deve essere posta nell'accrescere l'impegno per il miglioramento delle cosiddette infrastrutture immateriali. Io chiedo al ministro del bilancio, il quale ha avuto questa intuizione, di cui gli do atto, relativa alle infrastrutture immateriali, di esercitare nel Governo ogni possibile pressione perché esse possano funzionare. Le condizioni della giustizia nell'Italia meridionale, ad esempio (non parlo della sanità o dell'istruzione, ma mi fermo all'esigenza primaria, strutturale), sono assolutamente intollerabili e preclusive - dico preclusive - di qualsiasi tentativo di sviluppo. Quando in una sede giudiziaria importante come quella di Palmi, purtroppo resa tale anche dai fastigi della malavita, i processi non possono essere celebrati perché vi sono uno o due giudici, mentre altri nove sono emigrati, siamo in condizioni deteriori per ogni e qualsiasi iniziativa di sviluppo: lì non comanda lo Stato, che è assente perché le infrastrutture immateriali non funzionano.
Andiamo avanti. Valorizzare il ruolo del ministro del bilancio nella politica delle aree depresse: noi siamo d'accordo. È una nostra vecchia idea che il Ministero del bilancio e della programmazione economica dovrebbe «dare il la» nel lavoro di programmazione. Tanti anni fa (forse il sottosegretario lo ricorderà), noi proponemmo addirittura una sessione di programma prima della sessione della legge finanziaria che vedesse protagonista il ministro del bilancio per quantificare le risorse disponibili e fare una programmazione per l'anno successivo. Questo però non si è verificato. Comunque, noi potremmo riconoscerci nel ruolo del ministro del bilancio se questo sarà attento alle esigenze immediate del Mezzogiorno. In proposito, le delibere del CIPE dovrebbero essere meno programmatiche e più dettagliate, dal momento che si tratta di un comitato interministeriale, quindi di coordinamento, per la programmazione economica (cosa che certe volte nella formulazione letteraria di alcune delibere del CIPE viene dimenticata, magari per l'ampiezza dei problemi da affrontare rispetto alla funzionalità strutturale dello stesso comitato).
E ancora, si è parlato del problema della utilizzazione delle risorse comunitarie. Richiamo l'attenzione vigile e sapiente del ministro del bilancio sull'esigenza di venire incontro agli enti locali o comunque ai soggetti che devono accedere ai fondi comunitari, non però attraverso il trasferimento di risorse attribuite a progetti la cui attuazione risulti particolarmente problematica verso iniziative di pur sicura realizzazione, bensì risolvendo la complessità della legislazione comunitaria. Ho pratica indiretta della legislazione comunitaria e degli adempimenti comunitari necessari per accedere alle risorse: devo dire comunque che le giunte regionali, i governi regionali, le province, gli enti locali difficilmente possono accedere ai fondi comunitari per la scarsa preparazione professionale anche dei funzionari preposti. Quando si registrano dei ritardi, ciò è dovuto molte volte a trascuratezza politica, ma soprattutto all'incompetenza dei funzionari che il quarantennio alle nostre spalle ha posto negli uffici delle regioni e degli enti locali!
E allora, anziché trasferire le risorse da un posto all'altro, occorre lasciarle dove sono, ma il Governo ha il diritto-dovere di inviare un commissario. Abbiamo combattuto aspramente, noi del gruppo di alleanza nazionale nella scorsa legislatura, l'idea della cabina di regia; se questa deve essere un soggetto a contenuto, perché non date ad essa il compito di surrogare in maniera commissariale le eventuali incapacità tecniche, programmatiche e procedurali che le regioni Calabria, Campania e Basilicata mostrano nell'approccio con la complessa e a volte incomprensibile normativa comunitaria? Anche a Bruxelles vi sarebbe da lavorare sulla via della semplificazione delle procedure comunitarie! Ella certamente conoscerà la complessità di certe procedure, che a Bruxelles possono definirsi addirittura barocche, per quanto riguarda taluni adempimenti. Vi sono grosse difficoltà a tradurre l'adempimento annunziato di integrazione del


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fondo di risorse nazionali in realtà operativa sul territorio!
Pertanto, ritengo si debba intervenire su questo aspetto, forse anche senza provvedimento legislativo. La cabina di regia, dopo la sua realizzazione, ha visto delle semplificazioni grazie alla battaglia che noi abbiamo portato avanti. Il ministro del bilancio di allora - Masera, se non ricordo male - ascoltò le nostre proposte e provvide a modificazioni e semplificazioni della struttura della cabina di regia. A mio giudizio, all'interno di queste norme può essere previsto l'affidamento alla cabina di alcuni compiti di commissariamento, di supporto delle amministrazioni che devono accedere alle risorse. Non dobbiamo poi dimenticare che il denaro che la Comunità ci fornisce è in parte composto dalle risorse che noi stessi versiamo alla Comunità ed è veramente delittuoso che queste vadano perse per «inciampi» di carattere procedurale.
Saprà benissimo, ministro - perché una delle sue caratteristiche felici è quella della completezza dell'informazione e dell'attenzione ai problemi concreti - che molte volte i progetti con finanziamento comunitario vanno e vengono per l'innocenza - non voglio dire altro! - dei nostri funzionari, per la rigidità di determinate normative, per l'impossibilità di avere un contatto diretto anche di carattere linguistico. Sappiamo che i funzionari che parlano il francese o l'inglese (che sono le lingue della Comunità) sono pochissimi; oggigiorno, senza la seconda o la terza lingua è inutile andare in giro per il mondo a vantare diritti anche presso la Comunità!
Desidero ancora soffermarmi velocemente su altri punti. Signor ministro, lei propone di proseguire con determinazione le azioni per l'accelerazione degli investimenti pubblici: siamo perfettamente d'accordo! Segnalo solo alla sua attenzione la situazione della città di Gioia Tauro, emblematica dei ritardi che le amministrazioni interpongono a realizzazioni che sono già in corso. Gioia Tauro sta vivendo un'esperienza di grandissima portata mondiale: alcuni industriali (iniziativa privata!) hanno scoperto che Gioia Tauro è equidistante da Suez e da Gibilterra (cosa che sapevamo fin dalle elementari). Nei soli mesi di luglio e di agosto sono transitate per il porto di Gioia Tauro 281 navi, con flussi di traffico che aumentano ogni giorno: questo perché è più conveniente ai grandi container transoceanici sbarcare a Gioia Tauro e da qui...

CARLO AZEGLIO CIAMPI, Ministro del bilancio e della programmazione economica e del tesoro. È un'idea che condivido ampiamente...

RAFFAELE VALENSISE. Lei condivide questa idea: bene! Allora mi permetto di impegnarla in questo settore, proprio perché, grazie alla sua capacità di visione dei grandi problemi, lei condivide questa idea. A Gioia Tauro la ferrovia non funziona perché ancora non ci sono i raccordi ferroviari (che peraltro è possibile realizzare). È una situazione che io definisco vergognosa! In questo settore l'occupazione potrebbe decuplicarsi da un giorno all'altro!

CARLO AZEGLIO CIAMPI, Ministro del bilancio e della programmazione economica e del tesoro. Sono d'accordo! Questo rientra nelle infrastrutture materiali!

RAFFAELE VALENSISE. Mi auguro che ciò possa verificarsi nel giro di poche settimane!
E ancora: l'ANAS - altra cosa vergognosa - non ha provveduto ad aprire i raccordi autostradali, che sono lì pronti! Mancano centinaia di metri, mancano i cartelli! Sono fatti che io definisco vergognosi, soprattutto perché si tratta di una zona ad altissimo tasso di disoccupazione (qui si raggiunge il 30-32 per cento). A Gioia Tauro vanno a fare i gruisti persone che hanno il diploma di perito elettronico: questa è la realtà del Mezzogiorno!
Pertanto, mi permetto di impegnare il ministro del bilancio ad intervenire su situazioni che sono emblematiche delle disfunzioni e dei ritardi con i quali si affrontano determinati problemi che producono ricadute sociali infinite, ma che potrebbero invece essere risolti rapidamente.


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Recentemente vi sono stati dei disordini proprio a Gioia Tauro e sono volate imprecazioni, perché mentre i privati avrebbero la possibilità di creare, da un'ora all'altra, da un giorno all'altro, nuovi posti di lavoro perché la domanda dei grandi containers transoceanici è in aumento, le navi non possono essere accolte nel porto di Gioia Tauro perché mancano diverse strutture. Mi permetto quindi - lo ribadisco - di impegnare il ministro del bilancio su questo terreno, le cui problematiche devono essere affrontate già dalle prossime settimane.

CARLO AZEGLIO CIAMPI, Ministro del bilancio e della programmazione economica e del tesoro. È un impegno che accetto di cuore!

RAFFAELE VALENSISE. Si è parlato male delle zone franche, ma una situazione come quella che si registra a Gioia Tauro necessita di una zona franca perché quando si fa il transhipment, non è possibile procedere a tutti gli adempimenti doganali in entrata e immediatamente dopo in uscita. Ci vorrà una zona limitata di franchigia che favorisca questo movimento, altrimenti si aumentano i costi del transhipment che invece potrebbero essere abbattuti appunto con una rigorosa e limitata zona franca che assista il coraggio dell'imprenditoria privata; quest'ultima ha impegnato nell'operazione Gioia Tauro qualche centinaia di milioni che certo non ha trovato per strada ma li ha prelevati dal sistema bancario!
E ancora: si è parlato del modello adriatico (ed io mi sono già soffermato sull'artigianato), del terziario avanzato, del turismo e dei beni culturali. Il problema è quello delle grandi infrastrutture. La separatezza dell'Italia meridionale dipende dalle grandi infrastrutture che sono paralizzanti se sono inefficaci o inefficienti. In proposito vi è un gran discutere sull'alta velocità, sulla velocizzazione dell'azienda ferroviaria: questa ignora - e continua ad ignorare - che la grande linea longitudinale italiana pianeggiante su tutto il percorso, da Capo Spartivento fino a Venezia, è la linea ionico-adriatica e non quella tirrenica. Tant'è vero che nel 1800 la ferrovia ionico-adriatica fu costruita prima perché costava di meno; la linea tirrenica è stata definita una linea di montagna che corre lungo il mare. Con tutto il suo susseguirsi di colline, montagne e quant'altro, l'Appennino pende verso il Tirreno, come sappiamo tutti per averlo appreso dalle carte geografiche. Questo dato continua ad essere ignorato dall'azienda delle ferrovie (privatizzata quanto si vuole!) e i luoghi facilmente accessibili e percorribili sono abbandonati. Il raddoppio della linea ionico-adriatica, la vera, grande e storica longitudinale italiana, è fermo, così come il percorso della strada statale n. 106.
Queste iniziative sono incentivazioni indirette che hanno una potenzialità stimolatrice per gli insediamenti, per l'abbattimento dei costi e per la crescita del modello adriatico di piccole industrie. Quando si tratta di investire e di trasferire le produzioni verso i grandi mercati di consumo del centro e del nord d'Europa, la Fiat può contare sui suoi mezzi e sulla sua credibilità ma il piccolo imprenditore soccombe di fronte al costo dei trasporti. L'anomalia italiana della prevalenza del trasporto su gomma risponde certamente a determinati interessi, ma rimane pur sempre un'anomalia. Dal momento che il Governo afferma di voler programmare, stimolare e quant'altro, abbia la cortesia, la bontà di impegnarsi per far sì che funzionino le grandi infrastrutture, che sono la chiave per l'abbattimento dei costi e delle diseconomie esterne, quindi per stimolare indirettamente la formazione della piccola e media impresa. Altrimenti ci saranno sempre due Italie, a prescindere dalla volontà o meno di intervenire nel Mezzogiorno. Io non distinguo mai tra meridionalisti e antimeridionalisti, ma esiste un antimeridionalismo di fatto, storico, che continua a permanere.
Ho parlato di queste cose in Assemblea al momento dell'insediamento del Governo di fronte al Presidente del Consiglio che stava ascoltando i nostri interventi. Ho chiesto al Presidente Prodi di impegnarsi ad affrontare a monte i problemi di abbattimento


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e di flessibilità dei costi. È chiaro che produrre scarpe nella riviera ionica calabrese è molto più costoso che produrle a Senigallia a causa del costo dei trasporti. La questione non è il modello adriatico! Il modello adriatico si fa con l'abbattimento dei costi e soprattutto con la creazione di reti infrastrutturali all'altezza della produzione che si vuole realizzare.
Chiedo scusa per la passione che metto in questi discorsi, ma quando si vivono ogni giorno drammi che durano da decine di anni (di questo si tratta) vi è la necessità di mobilitare anche la nostra passione, che ci serve per tentare di compiere il nostro dovere.
Ho parlato del rilancio della formazione e dell'artigianato. La società dell'apprendimento parte dall'artigianato, che è la ricchezza del Mezzogiorno. Tale ricchezza è stata strumentalizzata per ragioni politiche nei decenni alle nostre spalle e sta per morire, signor ministro. Se continueremo a comportarci così, con gli artigiani morirà una nobile tradizione italiana e si ritornerà al bisogno del posto fisso, alla mano tesa, all'assistenzialismo più becero, che non ci avvicina ma ci allontana dalla Comunità europea.
Non aggiungo altro e chiedo scusa se sono apparso esagerato per la passione doverosa con la quale ho esposto gli argomenti di cui ho parlato. Se si vuole arrivare alla convergenza delle economie bisogna creare certe condizioni oggettive, anzitutto di carattere infrastrutturale, perché la convergenza con i nostri partner della Comunità europea e la nostra possibilità di aderirvi o meno (lasciamo da parte i parametri) non si basano sulle parole (finora abbiamo assistito soltanto a queste!) ma dipendono dalla nostra capacità di utilizzare le risorse di cui disponiamo e di non essere dormienti di fronte ad esigenze ineludibili della società italiana nel suo insieme, dalle Alpi a Capo Passero.

MARCO TARADASH. Sarò molto breve, anche perché sono state dette dai colleghi che mi hanno preceduto molte cose che condivido.
Vorrei che lei, signor ministro, ci fornisse anche alcuni dati di carattere macroeconomico. Quanto è stato speso, ad esempio, nel nord e quanto nel sud, a prescindere dalle leggi sull'intervento straordinario? Vorrei sapere una cosa molto semplice, ministro Ciampi. Negli ultimi dieci, cinque, tre, due anni o nell'ultimo anno quanto denaro pubblico è stato speso nel nord e quanto nelle cosiddette aree depresse del sud, al di là delle categorizzazioni delle leggi ordinarie, straordinarie e via dicendo? Il settore produttivo del nord quanto è stato capace di recepire dalle leggi, che valgono per tutta la nazione ma che poi finiscono per avvantaggiare soltanto una parte della popolazione? Penso per esempio alla legge Tremonti, che ha carattere generale e il cui esito è stato ottimo, ma che ha avuto effetti benefici solo per le imprese che avevano utili da reinvestire. Questo è solo uno dei mille esempi che si potrebbero fare.
Occorrerebbero anzitutto schemi chiari e semplici per cominciare a pensare al modo in cui riorganizzare un intero settore, quello della spesa pubblica, che mi sembra frastagliato, molto spesso miniaturizzato e oppresso da una serie intricatissima e labirintica di vincoli e procedure che rendono molto difficile l'utilizzo dei fondi. Vorrei sapere, ad esempio, che fine abbia fatto la cabina di regia, che doveva servire a dare ordine a tutto il meccanismo dei fondi strutturali. Esiste ancora? È operativa? È possibile fare una relazione al Parlamento a questo riguardo? Propongo di convocare gli attuali responsabili della cabina di regia affinché ci dicano che cosa stanno facendo, che cosa hanno fatto, quali difficoltà hanno riscontrato e come si possa ovviare ad esse.
Nella relazione del ministro Ciampi, che in linea di massima è condivisibile, manca questo dato. Come si può fare ciò che ci si ripromette di fare? È un dato che generalmente manca nelle relazioni dei vari ministri che si susseguono. La parte integrativa sulle aree di crisi (ne parlerò tra un attimo) contiene una indicazione di quello che si intende fare, ma più in generale non vi è alcuna decisione rispetto al


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problema dei fondi e delle infrastrutture. Un collega intervenuto prima di me ha detto che se gli impegni di spesa per gli anni in corso e per il successivo sono così bassi non si capisce come si potrà recuperare il tempo perduto e utilizzare nel modo migliore fondi che devono essere utilizzati rapidamente, perché la situazione economica italiana è critica e ci sono eventi politici che incombono. Mi riferisco non soltanto a quello del 15 settembre prossimo, ma anche all'unione monetaria che incombe sulle sorti del nostro paese. Vorremmo sapere se abbiamo la capacità di accelerare le procedure per quanto è necessario o se si prevedono tempi biblici, che non corrispondono più alla realtà economica in cui siamo immersi.
Per quanto riguarda più specificamente la politica verso il meridione e la questione delle aree di crisi, uno dei problemi che dobbiamo immediatamente affrontare è quello del sommerso. Le statistiche sulla disoccupazione nel Mezzogiorno sono a mio avviso francamente poco credibili. Se fosse vero che in Campania il 60 per cento dei giovani è disoccupato, credo che tale regione sarebbe in ebollizione, che farebbe la rivoluzione. Altro che il Po! Si farebbe la marcia del Sele, anziché quella del «sale» che vuole fare Bossi! Se questo non avviene, è evidente che esistono meccanismi che il Governo, lo Stato, l'ISTAT e tutti noi non conosciamo e che consentono ad una economia come quella meridionale di sopravvivere fuori mercato, fuori competizione, ma in condizioni tali da permettere ancora una remota ma resistente coesione sociale con il resto del paese. Dovremmo allora preoccuparci di come riportare alla luce il sommerso e domandarci perché il sommerso è tale. Credo che il sommerso sia tale perché le politiche economiche nazionali sono basate su quello che lei oggi ha definito un modello di crescita, ma che forse, in relazione al periodo di crescita economica nazionale caratterizzato dalla svalutazione, potremmo meglio chiamare modello di costituzione economica materiale fondato su meccanismi che lasciano da parte una fetta del paese.
Il modello nazionale di sviluppo è stato incentrato sulla grande impresa manifatturiera e sulla concertazione tra essa ed il grande sindacato confederale ed ha imposto regole e vincoli - a livello di contrattazione nazionale - che hanno di fatto messo fuori gioco anche nel nord buona parte della piccola e media impresa e nel sud tutto quello che esisteva. Salvo il portare da nord a sud, come astronavi piene di luci (non più cattedrali nel deserto), insediamenti industriali come la FIAT di Melfi, che tradiscono anch'essi la contrattazione nazionale senza produrre effetti positivi proporzionali all'investimento compiuto. Tutto questo deve essere modificato e dobbiamo mettere in discussione la politica fiscale che colpisce il reddito di impresa e non consente che nelle aree più deboli quest'ultimo venga alla luce. A fronte di una tassazione del reddito di impresa pari al 55-60 per cento, quando negli altri paesi della Comunità europea ammonta al 35 o, in alcuni casi, addirittura al 10 per cento, è difficile pensare di poter risollevare le aree depresse del paese. Dobbiamo scegliere se continuare, come nel passato, con una gestione dirigistica che contempla anche criminalità organizzata ed economia sommersa perché non è in grado di offrire alternative di legalità in termini di certezza del diritto e del reddito, oppure se vogliamo modificare la struttura economica complessiva del paese.
Affermo ciò anche perché mi sembra che il Governo sappia tutto questo. Il Governo propone 4 o 5 aree di crisi all'interno delle quali far valere una zona franca di carattere politico-sindacale (si tratta infatti di imporre un meccanismo di sviluppo confacente alle esigenze di quelle aree); non si afferma, tuttavia, la volontà di mettere in discussione la contrattazione nazionale, la politica delle tasse e la politica dei tassi. Ci si limita ad ipotizzare zone franche, aree di crisi all'interno delle quali, grazie al controllo dall'alto del Governo, del sindacato, delle banche e così via, mantenere fermo l'impianto nazionale per poi elargire, con una politica di assistenza, normative diverse che possono favorire


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in quelle aree - ma solo all'interno di esse - lo sviluppo del meridione. Considero questa strada sbagliatissima perché non mette in discussione il meccanismo dirigista, perché nega ancora una volta in linea di principio una politica economica orientata al mercato e perché crea conseguenze tali da bloccare la stessa nascita delle aree di crisi.
Come deputato della provincia di Salerno, mi domando infatti perché mai dovrei accettare passivamente il fatto che un'area della provincia di Napoli catalizzi tutte le iniziative nazionali ed internazionali di investimento con ripercussione svantaggiose per altre aree industriali. Perché io ed i deputati delle aree che non rientrano tra quelle predilette dal Governo dovremmo accettare passivamente un processo di emarginazione di questo tipo? Perché gli imprenditori che abitano nelle aree non protette dal WWF governativo e sindacale dovranno subire passivamente il fatto di dover continuare a lottare drammaticamente, giorno dopo giorno, con la burocrazia, con le banche e con i sindacati? Ciò non è accettabile e giacché non lo è per me, ma non lo sarà anche per moltissimi deputati di maggioranza e di opposizione, accadrà che le quattro aree di crisi diverranno quaranta nelle proposte ed il meccanismo entrerà in crisi, cosicché ci ricorderemo delle aree di crisi perché avranno provocato una crisi politica nazionale.
Dobbiamo invece guardare - come si è tentato di fare costruendo questa sorta di zone protette - alla realtà meridionale, fondata su risorse che altri paesi, come per esempio Taiwan, non hanno. Per esempio, Taiwan non dispone delle risorse del turismo o dell'artigianato presenti in tante aree del meridione; e se anche Taiwan dispone delle risorse di lavoro che abbiamo sperimentato al nord attraverso l'immigrazione ed al sud attraverso il sommerso, noi disponiamo di mercati limitrofi sui quali possiamo meglio competere. Se vogliamo compiere una scelta di politica economica nazionale che salvaguardi e costruisca l'unità del paese dobbiamo favorire un processo di unificazione che tenga conto non degli interessi delle confederazioni sindacali, della grande impresa del nord (anche se con filiali al sud) e di una mentalità dirigistica, ma di una politica orientata al mercato che consenta agli imprenditori di utilizzare tanto la loro voglia di sperimentare e di produrre quanto il loro denaro. Infatti, al sud, se anche il denaro c'è nelle tasche degli imprenditori o nelle banche che raccolgono i depositi, è vero che il modello di economia di riferimento, come ha sottolineato Marzano poco fa, favorisce la rendita piuttosto che l'investimento. Le procedure burocratiche, i ritardi della pubblica amministrazione, i vincoli di ogni genere, la corruzione nella pubblica amministrazione e la violenza della criminalità organizzata, certo non inducono molti a rischiare quando, attraverso i BOT, possono guadagnare in modo molto più tranquillo e sicuro il necessario per vivere.
Il nostro non è un paese povero. Le aree povere del nostro territorio non sono, paragonate alla stragrande maggioranza dei paesi del mondo, aree povere. Il problema è quello dell'organizzazione e dell'individuazione delle priorità, della modificazione di una mentalità burocratica sulla quale si sorregge un potere clientelare. Tale meccanismo tende a funzionare solo se esiste un legame con le clientele; oggi le clientele magari non ci sono più ed anche per questo il meccanismo si è bloccato.
Per questo, signor ministro, la politica del Governo mi appare ancora una volta come rinunciataria: non decide di scegliere il mercato ma di contrattare in termini di potere con le oligarchie del paese, padronali, sindacali e burocratiche, costringendole semmai a qualche cedimento o elargizione. Certo non sarà questa la strada perché l'Italia e il Mezzogiorno escano dalla crisi in modo da raggiungere tutti assieme l'obiettivo dell'entrata in Europa.
Quello che chiediamo è un elenco dei problemi e l'indicazione di soluzioni. Quando le banche del Mezzogiorno offrono denaro soltanto in cambio di palazzi o patrimoni reali; quando molte aree industriali sono state oggetto non di conquista


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ma di saccheggio; quando le aziende che operano nelle 21 aree industriali delle zone terremotate non possono accedere al credito perché non detengono la proprietà del terreno e del capannone (proprietà che non rende nulla perché non pagano un affitto ma sulla quale non è possibile neanche accendere crediti); quando la richiesta di terreno per estendere la produzione - se viene accolta - necessita di tempi 3 o 4 volte superiori a quelli garantiti in altre parti d'Italia: siamo di fronte solo a piccoli esempi delle centinaia di motivi che impediscono gli investimenti. Se c'è una scelta reale di liberare risorse, di dare alla libertà di iniziativa economica respiro, ossigeno e capacità di movimento; se c'è l'intenzione di legare il salario non a nuove gabbie salariali ma alla capacità di produzione, alla produttività; se c'è, di conseguenza, la volontà di creare quella integrazione fra Stato e mercato, che è l'unica condizione per lo sviluppo in occidente, allora qualcosa potrà essere fatto. Se invece lo Stato ancora una volta si chiude a riccio e preferisce trattare con le più forti corporazioni piuttosto che consentire lo sviluppo del mercato, allora, signor ministro, temo che noi non caveremo un ragno dal buco e che assisteremo passivamente - domandandoci come mai ciò possa accadere - alla disgregazione economica, politica ed istituzionale di questo paese.

TERESIO DELFINO. Signor ministro, colleghi, credo che la vicenda - tutta o in gran parte italiana - dei residui passivi e dei fondi strutturali comprovi con molta evidenza quale sia la realtà dello Stato italiano: uno Stato burocratico e centralista, uno Stato che sul piano della legislazione e della normativa non consente, al di là delle buone volontà, di operare con l'efficacia richiesta dai tempi attuali.
Partendo da questa considerazione vorrei esprimere, signor ministro, un giudizio sulla sua relazione che ritengo certamente puntuale in ordine alla analisi fatta della attuale situazione ma insufficiente perché limitata soltanto ad una serie di significative enunciazioni e priva di incisive proposte di cambiamento.
Certamente tutte le indicazioni che ricaviamo dalla sua relazione vogliono migliorare l'azione che le amministrazioni debbono compiere nell'utilizzo delle risorse, non vediamo però quel doppio salto, che a un certo punto lei ha evocato, rispetto al grande problema della semplificazione e delle delegificazione. Se qui non diamo dei segnali credo che la volontà di cercare di rattoppare la normativa non sia sufficiente ad individuare uno sbocco operativo concreto.
L'analisi che è stata fatta sa cogliere i problemi, ma è priva di una vera individuazione delle responsabilità; del resto già altri colleghi si sono soffermati su questo punto. Noi dobbiamo anche capire quale sia la distribuzione delle percentuali e dei dati di fondo da lei richiamati (il 20 per cento di impegni finanziari e il 7 per cento di quote di risorse effettivamente erogate) sul territorio, tra le varie aree regionali. Non saprei dire se tale distribuzione sia completamente omogenea o registri una forte differenziazione, ma certamente il rischio che si corre (che lei ha chiamato un delitto verso la collettività) è quello dell'eventuale perdita di risorse comunitarie.
Allora vi sono anche delle responsabilità! Le responsabilità politiche saranno sanzionate evidentemente dagli elettori, ma quelle gestionali, quelle cioè non ascrivibili a difficoltà normative, debbono trovare delle puntuali azioni sanzionatorie, altrimenti questo è il paese che, sul piano della denuncia, sa individuare tutti i problemi, ma sul piano delle soluzioni, lascia poi sempre le cose come stanno.
Bisogna vedere se questi gravi ritardi siano anche colpevoli e nella misura dichiarata da chi guidava la cabina di regia, il dottor Emidio Di Giambattista, allorquando ha rassegnato le dimissioni. A tale riguardo, signor ministro, non credo possa essere considerata esaustiva l'audizione odierna rispetto alla interrogazione a risposta orale riguardante la cabina di regia e i dati sollecitati dal collega Taradash.
Fin dall'11 di luglio di quest'anno abbiamo chiesto di capire quali fossero le misure urgenti rispetto alle denunzie fatte nel momento «forte» di un passaggio qual


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è quello delle dimissioni; sul punto però non vi è stata alcuna risposta.
Sul piano concreto delle terapie indicate a me pare opportuno sottolineare che la questione debba essere assolutamente vista su base nazionale e, tenuto conto delle difficoltà e delle specificità italiane, ritengo che quella da lei individuata tra le misure da promuovere e le ulteriori azioni da intraprendere sia estremamente puntuale al fine di consentire un ambiente favorevole allo sviluppo; mi riferisco alle strutture immateriali ma soprattutto alla sicurezza, alla lotta alla criminalità organizzata.
Ancora oggi sappiamo che molti imprenditori non hanno alcuna volontà di realizzare interventi al sud proprio perché non sono tutelati ambientalmente; rischiano cioè di andare al sud e dopo aver impiantato un'impresa di dover pagare il «pizzo» o cose del genere.
A me pare che ci si debba muovere su un'ottica di carattere veramente generale, che tenda a liberare le forze del mercato da una serie di vincoli che stanno alla base del mancato decollo delle aree depresse e soprattutto delle aree del Mezzogiorno. Questo è il punto, tra quelli da lei toccati, che io intendevo evidenziare.
Quanto alla proposta sulle aree di crisi, non credo che il nostro paese abbia bisogno di aree o di «oasi» liberiste; questo paese ha bisogno di un cambiamento profondo che deve mettere, sul piano nazionale, la classe imprenditoriale, soprattutto la piccola e media impresa, nelle condizioni di poter operare. Da qui l'esigenza di muoverci verso i grandi obiettivi oltre che verso le politiche di accordi specifici territoriali, che alla fine rischiano di creare, a mio avviso, nuove sperequazioni, diseguaglianze e difficoltà.
Nella relazione viene indicato come elemento positivo la necessità di passare all'individuazione di programmi nazionali per consentire un maggiore tiraggio sulle disponibilità. A me pare, a meno che non vi siano delle normative che non conosco, che l'ordinamento attuale deleghi alle realtà amministrative locali il ruolo di utilizzatore ultimo delle risorse europee, quindi anche questo tipo di volontà di superare, diciamo così, inefficienze e inadempienze di realtà locali con l'individuazione di programmi nazionali...

CARLO AZEGLIO CIAMPI, Ministro del bilancio e della programmazione economica e del tesoro. Per «nazionali», qui si intende che vanno al di là della singola area locale del Mezzogiorno.

TERESIO DELFINO. Della singola area regionale, perché i fondi strutturali sono definiti per aree regionali, almeno come riparto di fondi! È ciò che volevo capire.

CARLO AZEGLIO CIAMPI, Ministro del bilancio e della programmazione economica e del tesoro. Ci possono essere progetti che interessano più regioni del sud insieme.

TERESIO DELFINO. C'è quindi la necessità di creare un organismo di coordinamento.
Quanto all'indicazione che lei ha fatto in ordine al ruolo del Ministero del bilancio nella politica di sviluppo delle aree depresse, sono convinto che questo paese abbia certamente bisogno di un'azione di programmazione di carattere generale. Si tratta però di vedere come verrà impostata questa indicazione, questa linea di operazione che emerge dalla sua relazione rispetto ad una grande istanza di federalismo, di volontà di decentramento e di assunzione di responsabilità forti da parte delle regioni.
Esprimo qualche perplessità in ordine all'assunzione di nuovi compiti da parte del ministero in relazione ad un disegno che si dovrebbe invece realizzare con il programma delle riforme...

CARLO AZEGLIO CIAMPI, Ministro del bilancio e della programmazione economica e del tesoro . Intendo delimitarlo nel senso che deve essere nel centro che si promuove e si segue l'attuazione delle politiche di sviluppo.

TERESIO DELFINO. Su questo siamo perfettamente d'accordo, signor ministro. Non si tratta di una novità, poiché già


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rientrava nei compiti istituzionali del ministero stesso.
Semmai, abbiamo assistito in questi anni - non parlo del colore politico del Governo - al sottrarsi ad un compito già previsto. Non vi è dunque l'intenzione di avocare a sé funzioni che rientrano in un processo più ampio di federalismo e di decentramento.
Vorrei ribadire che la lettura dell'ultimo documento che ci è stato consegnato, relativo all'accordo siglato sui contratti di area, ci ha lasciato un certo senso di angoscia. Conosciamo le difficoltà che gli imprenditori già incontrano nel superare una serie di attività burocratiche ed amministrative ed io ho cercato di sintetizzare i passaggi che il documento prevede per la realizzazione di determinati interventi: innanzitutto la Presidenza del Consiglio deve individuare l'area di crisi, poi è previsto un contratto come nuovo strumento di intervento; successivamente vi sono gli accordi tra le parti sociali ed ancora dopo l'accordo di programma con successivi atti convenzionali. A monte di tutto ciò, per realizzare quella «caccia agli imprenditori» di cui parlava un collega prima, vi è la necessità di costituire un'agenzia per la promozione in Italia e all'estero delle aree di crisi.
Francamente tutto questo è anche suggestivo nella sua enunciazione, ma a me ha creato un certo disagio. Anche il collega Taradash ha evidenziato che la concertazione si sviluppa solo con taluni soggetti sociali e, anche se è bene che ciò avvenga, non vedo perché non debba aver luogo anche con altri. Sono state molto puntualmente richiamate le difficoltà di aree vitali e produttive come quelle artigianale, del commercio e dell'agricoltura che però a questi tavoli di concertazione non so se accedano.

CARLO AZEGLIO CIAMPI, Ministro del bilancio e della programmazione economica e del tesoro. Ci sono anche loro!

TERESIO DELFINO. Il problema che volevo sottolineare è che in questa metodologia volta a predisporre nuovi strumenti di intervento nelle aree di crisi le complessità tecnico-amministrative (per non dire burocratiche) sicuramente non sono di poco conto. Noi ritenevamo invece più consono individuare strumentazioni normative, magari per grandi aree territoriali, come la legge Tremonti, che offre ulteriori semplificazioni sotto il profilo dei rapporti con il sistema creditizio, per consentire all'impresa di conoscere i passaggi e gli accordi che devono essere realizzati al fine di usufruire degli incentivi.
Anche in considerazione dell'ora non voglio sviluppare altri elementi, anche se desidero chiosare un'ultima frase che ho letto nella sua relazione, signor ministro, nella quale si dice: «Il Governo crea le condizioni perché le forze di mercato si attivino. Sta alla capacità imprenditoriale dell'intero paese creare nuove produzioni, nuovi posti di lavoro, nuove opportunità per i giovani, soprattutto nel Mezzogiorno». Questa enunciazione fa sicuramente parte di una concezione culturale che condivido pienamente, ma ritengo di poter dire che l'approccio gradualista che emerge dalla relazione rispetto al dramma della disoccupazione ed alle esigenze del mondo imprenditoriale, della piccola e media impresa, di ottenere una reale semplificazione, a me pare, al di là delle sue buone intenzioni e delle sue convinzioni, signor ministro, si scontri con un ostacolo di tipo culturale che deriva da una non completa omogeneità all'interno della maggioranza che non consente di individuare strumenti e risposte nuove più immediate rispetto alle esigenze del paese per vedere rilanciata l'attività dell'impresa ed aumentata l'occupazione.

PRESIDENTE. Do ora la parola all'onorevole Rosso, non senza avergli raccomandato di usare, sì, il massimo di enfasi, se vuole, ma anche di essere il più breve possibile!

ROBERTO ROSSO. Dopo aver letto il manifesto funebre sull'unità d'Italia che ci è stato consegnato oggi, non mi sembra che valga la pena di entrare nel dettaglio


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delle proposte. Mi limiterò ad una considerazione finale sulle proposte.
Perché parlo di manifesto funebre sull'unità d'Italia? Vorrei sapere se viviamo ancora nel paese della meraviglie in cui si recò Alice e se i governanti si rendano conto delle aspettative della gente.
È a tutti evidente che il meridione vive una condizione sociale ed economica diversa da quella del settentrione d'Italia. È altresì a tutti evidente che le metodologie con le quali in questi quarant'anni lo Stato ha cercato di affrontare il divario sono fallite, e giustamente la classe dirigente più avvertita del meridione lo ha denunciato anche questa mattina. È del tutto evidente, infine, che questo Governo ritiene che con quelle stesse metodologie si possa realizzare ciò che nel passato non fu possibile ottenere, avocando a sé una dote miracolistica che in duemila anni di storia dell'umanità è stata riconosciuta soltanto a Gesù Cristo...

BENITO PAOLONE. Una volta sola!

ROBERTO ROSSO. ...quando disse a Lazzaro di risorgere!
Siccome c'è molta gente che ritiene di non credere nella Chiesa cattolica, penso che altrettanto laicamente si possa da parte nostra non credere nella riproposizione delle tre politiche integrate di cui ci ha parlato il ministro Ciampi questa mattina. Si tratta della politica di potenziamento e di adeguamento delle dotazioni infrastrutturali (ma il collega Valensise ci ha ricordato prima le situazioni nelle quali il mercato ha creato le opportunità e lo Stato non è riuscito a corrispondervi), i nuovi incentivi alle imprese e le misure specifiche nel mercato del lavoro. Quanto a quest'ultimo aspetto, pensavo si sarebbe proposto un federalismo normativo in termini «lavoristici» al sud, in modo da far emergere quel sommerso di cui parlava Taradash. Qui invece tutti fanno finta di credere ciò che nessuno può realmente credere e cioè che al sud nessuno lavora. Viceversa succede che alcuni sindacati, la triplice, la Trimurti, il sindacato confederale tutelano solo alcuni - in particolare i sindacalisti - in quelle che Taradash definiva «oasi del WWF». Tutto il resto non è socialismo, non è neppure democrazia del lavoro: è semplicemente il liberismo più scalcagnato, più sfrenato, più ingordo, che si possa concepire sulla faccia della terra! E tutto ciò viene tutelato all'apparenza consentendo a Bolzano e a Calatafimi di avere le stesse condizioni normative sul lavoro, sulla politica fiscale, sull'assistenza.
Ho sentito da parte del Governo Prodi dichiarazioni di tale portata che ho pensato che almeno qualcosa avrebbe fatto. Vi sono centinaia di migliaia di persone che, giustamente, domenica andranno sul Po a reclamare libertà. Non sono convinto delle ragioni per le quali ci andranno, ma loro credono che esse siano giuste e comunque avvertite da molti. In ogni caso pensavo che un Governo che, come me, vuole che il paese resti unito, creando attraverso il liberismo ed il federalismo le condizioni perché esso si riprenda, avrebbe agito diversamente. Invece questo Governo propone la ripresentazione di ciò che per quarantacinque anni ha rappresentato un fallimento.
Inviterei i miei colleghi di alleanza nazionale a suggerire al loro coordinatore nazionale di non andare domenica in piazza a Milano a protestare contro la lega perché Bossi non è che se non un certificatore di un decesso provocato in questo momento dal Governo Prodi il cui autorevole ministro Ciampi è venuto in Commissione a rendicontare circa il fatto che nulla cambierà, che le parole in Italia non corrispondono minimamente ai fatti, che questi esponenti politici si sono presi i voti convincendo molta gente che io conosco che avrebbero fatto l'esatto contrario di quanto viene in realtà proposto in questa sede allo scopo di realizzare l'ammodernamento del socialismo. Mi sembra una situazione analoga a quella che si verificò quando Gorbaciov in Russia tentò di salvare il comunismo e l'URSS, asserendo che il socialismo poteva cambiare ed ammodernarsi, che esisteva una terza via del socialismo. Ebbene, la stessa cosa sta cercando di fare il Governo Prodi.


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Sappiamo invece che nulla ha funzionato a cominciare dalla stessa cabina di regia. Una persona dignitosa, che per fortuna ne era stata posta a capo, dopo otto mesi, visto che non funzionava, ha fatto una relazione e ha dato le dimissioni. Abbiamo chiesto in più occasioni che il ministro venisse a relazionare sul funzionamento di tale struttura e - come ricordava il collega Delfino - pensavamo che in questa occasione si sarebbero chiarite le ragioni del fallimento della cabina di regia sulla quale si era lavorato due anni asserendo che sarebbe stata la panacea di tutti i mali. Come ricordava il collega Valensise in precedenza, alleanza nazionale ha lottato per qualche mese per fare in modo che venisse introdotto nella legge almeno un potere sostitutivo rispetto alla cabina di regia, almeno la possibilità di censurare una burocrazia regionale spesso inefficiente, ma non si è accolta alcuna di questa proposte, anzi ci accorgiamo che si ripropongono le medesime soluzioni.
Ho apprezzato molto il fideistico e tecnicamente adeguato intervento in cui il collega Danese si è soffermato sulle proposte avanzate per denunciare tutto quello che non funziona e per soffermarsi sulle cause di tutto ciò, ma sono drammaticamente preoccupato dal fatto di vedere che in un'occasione così importante, a tre giorni da una scadenza che, secondo me, avrà qualche riflesso sull'unità, sull'integrità e sul futuro del paese, un Governo della repubblica italiana avanza una proposta simile, stante la burocrazia attualmente esistente. A tale riguardo devo dire che pensavo che, almeno come prospettiva, il ministro Ciampi avrebbe proposto una diversa politica del pubblico impiego, contemplando la possibilità di licenziare i fannulloni.
Signor ministro, le faccio un esempio concreto. Io provengo da un comune alluvionato del Piemonte; ebbene, con un emendamento modificammo una norma per fare in modo che gli agricoltori del Piemonte che avevano subito un danno inferiore al 35 per cento potessero ricevere il rimborso come le altre categorie. Infatti, era stato commesso un errore e nella normativa precedente queste categorie non erano ricomprese. Il sottosegretario in carica telefonò alla struttura dell'assessore regionale, mio amico, parlando con un funzionario, guarda caso, di una certa tendenza politica. Quest'ultimo, di fronte alla prospettiva di dover scrivere materialmente insieme con i suoi colleghi altre 4 mila pratiche e di doverle istruire, asserì che ciò non serviva e che il Piemonte era contrario, in contrasto con lo stesso assessore. Ebbene, ho chiesto in tutti i modi che questo funzionario, pubblicamente denunciato per quanto aveva fatto, venisse radiato e gli venisse diminuito lo stipendio, o quanto meno venisse trasferito, considerato che fa delle angherie ai cittadini pur ricoprendo un incarico pubblico al servizio dei cittadini stessi, ma non è stato possibile fare niente di tutto ciò; anzi, è mancato poco che non perdesse il posto l'assessore stesso.
Mi immagino, e il collega Valensise lo ricordava, che cosa sta succedendo oggi nel sud, considerata non solo l'incapacità progettuale delle amministrazioni del meridione, ma anche l'incapacità di quelle amministrazioni di riuscire ad interloquire con la struttura europea. A fronte di tutto questo credo che, attraverso una supplenza, un coordinamento e qualche forma di sanzione, si dovrebbe fare in modo che le cose funzionino. Nella medicina - vivaddio! - c'è anche la chirurgia tra le branche del sapere, non solo l'omeopatia.
Ad ogni modo tutto questo non viene fatto né si parla di federalismo. Spero che nella sua replica il ministro ci dia conto di almeno una misura federalista avanzata nel piano di cui si parla. Mi aspettavo, ad esempio, che si introducesse il federalismo nel settore del lavoro. Torno a ripetere che non ha senso avere le stesse condizioni di lavoro su tutto il territorio nazionale perché ciò comporta che gran parte dei lavoratori operino in condizioni particolari. Sono andato a vedere cosa succede in Puglia perché mi chiedevo come facessero a lavorare le piccole imprese in quella regione. Ebbene, esse operano completamente al di fuori del mercato, del regime


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fiscale; non versano i contributi pensionistici ai lavoratori e i sindacati chiudono gli occhi di fronte a tali situazioni. È un contesto in cui tutti diventano delinquenti, una realtà in cui chi intraprende un'attività imprenditoriale diventa delinquente e finisce sotto il ricatto del magistrato, magari di sinistra, che poi li terrorizza.
A fronte di una situazione del genere un Governo della Repubblica afferma che tutto va bene. Il nuovo socialismo di regime fa, come ricordava prima il collega Delfino, accordi di programma, piani territoriali e via dicendo; ogni volta cambia il termine adoperato, ma sono tutte soluzioni che abbiamo già sperimentato senza che ne abbia mai funzionato alcuna. Mi chiedo allora - onore al merito di coloro che si sono soffermati con attenzione sulle proposte qui avanzate - come si faccia a sperare che da questo morto stecchito possa prendere avvio l'iniziativa che l'Italia e gli italiani si aspettavano per non diventare inesorabilmente padani.
Vorrei fare un'ultima considerazione a proposito di quella che qualcuno ha definito Padania. Il collega Boccia ha svolto un importante ed intelligente intervento e l'ha definita semplicemente ministro per il Mezzogiorno. Mi ricordo che in passato si era parlato di riqualificare il Ministero per il Mezzogiorno denominandolo dapprima Ministero delle aree depresse e poi branca del Ministero del bilancio che si occupa delle aree depresse sul territorio nazionale.
Ebbene, siccome le aree di crisi sono presenti su tutto il territorio nazionale, desidero sottoporre alla sua attenzione una questione. Nella mia regione, il Piemonte, è stata ritenuta unica area di crisi occupazionale la mia provincia, Vercelli. Siccome in tale provincia non vi è una rilevante presenza della grande industria, Olivetti e FIAT, guarda caso, essa non è stata inserita tra le aree dell'Obiettivo 2, per le quali è possibile ottenere questi finanziamenti. Cosa succede allora oggi nella mia provincia, che era già in crisi, un po' sull'esempio di quanto diceva Taradash? Adesso che ha preso avvio l'Obiettivo 2 chi investe, nell'ambito di quindici chilometri, nel primo comune della provincia di Torino, ottiene il finanziamento, mentre chi investe nel primo comune della provincia di Vercelli non ottiene alcunché. In altre parole, l'area qualificata dal Governo Ciampi come area a grave squilibrio occupazionale, area di crisi del Piemonte e che dispone di una documentazione che ne attesta lo stato di degrado, non riceve i fondi per rimediare a tale situazione; non solo, ma subisce anche l'illegittima concorrenza da parte delle aree forti che, in nome di questo squilibrio, se ne avvantaggiano, determinando lo spopolamento delle presenze industriali sul nostro territorio. Infatti, vi sono nella mia zona industrie che abbandonano il Vercellese e si trasferiscono quindici chilometri più in là, nella provincia di Torino.
Ministro Ciampi, i cittadini di certe zone del nord si dovranno rivolgere alla Germania, alla Svizzera o alla Padania, oppure continueranno a pensare che il Governo nazionale del paese, di sinistra, di centro o di destra, è illogico nel riformulare le condizioni con cui interviene sul territorio a favore dell'imprenditoria.
Le faccio notare che, quando l'amministrazione comunale e provinciale di Vercelli, non certamente sotto la guida di esponenti del Polo per la libertà, hanno avanzato alla regione questa richiesta, sostenuta dai parlamentari, la regione stessa non ha accettato. In sede europea il Parlamento europeo aveva accettato di «rimappare» parti non considerevoli del territorio regionale al fine di ovviare a tale incongruenza almeno per l'ultimo triennio, ma il Ministero del bilancio, da lei presieduto, autorevolmente interpellato, ha fatto sapere che per il prossimo triennio, malgrado la normativa in astratto lo consenta, non si ritiene opportuno autorizzare neppure piccole mappature. Pertanto tale situazione rimarrà immutata nel prossimo triennio ed io ho la sfortuna di venire da uno dei pochi spicchi di territorio meridionale in area settentrionale che non potrà neppure appellarsi al sano Governo Prodi per avere il «vantaggio», magari tramite il sottosegretario o il ministro, di essere inquadrato come area di crisi.


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PRESIDENTE. Passiamo, dunque, alla replica del ministro Ciampi.

CARLO AZEGLIO CIAMPI, Ministro del bilancio e programmazione economica e del tesoro. Se me lo consente, presidente, chiederei ai sottosegretari Sales e Macciotta di trattare i problemi più specifici, riservandomi di concludere svolgendo un intervento di carattere generale.

PRESIDENTE. Sta bene, ministro. Do allora la parola, innanzitutto, ai sottosegretari Sales e Macciotta.

ISAIA SALES, Sottosegretario di Stato per il bilancio e la programmazione economica. Desidero fornire alcune precisazioni circa il rilievo formulato dall'onorevole Bono in rapporto ad una presunta decisione del Parlamento europeo di sopprimere quote di alcuni fondi strutturali. Devo informare i membri di questa Commissione che non vi è stata alcuna votazione al riguardo. Nella riunione del 25 luglio il Consiglio dei ministri ha proposto di ridurre per 2,75 miliardi di ECU la spesa del bilancio europeo. Di tale taglio solo un miliardo di ECU riguarderebbe i fondi strutturali, ad esclusione di quelli relativi all'obiettivo 1. Nell'ambito del Parlamento europeo la Commissione bilancio sarebbe favorevole a tale taglio, mentre la Commissione politiche regionali è contraria. In ogni caso, lo ripeto, il taglio non riguarderebbe i fondi dell'obiettivo 1.

LUCA DANESE. E il 2 e il 5b, sì?

ISAIA SALES, Sottosegretario di Stato per il bilancio e la programmazione economica. Si parla di «obiettivo 6», anche se non si sa cosa si intenda esattamente. Comunque, voglio tranquillizzare l'onorevole Bono perché non sono previsti tagli all'obiettivo 1.
Per quanto riguarda il rilievo dell'onorevole Carazzi, le aree di crisi non sono i patti territoriali; si tratta dei vecchi poli di sviluppo che hanno avuto problemi di deindustrializzazione. Il Governo intende affiancare i patti territoriali a quelle aree di crisi per le quali ci sono investimenti già pronti che, per difficoltà burocratiche o di erogazione dei finanziamenti, non hanno avuto attuazione. Più precisamente i patti territoriali corrispondono ad alcune novità intervenute nel Mezzogiorno: non un'attesa dall'esterno dei finanziamenti, ma una concertazione dal basso per trovare imprese che, insieme con gli enti locali, vogliano delineare un tipo di sviluppo diverso. Quindi daremo uguale importanza ai patti territoriali in rapporto anche alle decisioni sulle aree di crisi.

GIORGIO MACCIOTTA. Sottosegretario di Stato per il bilancio e la programmazione economica. Vorrei fornire qualche informazione più dettagliata sulla questione dei fondi e sull'entità delle risorse ed anche qualche indicazione sulle procedure che si pensa di utilizzare.
Per quanto riguarda l'obiettivo 1, tra piani multiregionali e piani regionali i fondi sono utilizzati in percentuali non sostanzialmente dissimili. Se ai piani multiregionali, che hanno percentuali di impegno del 28,15 e di pagamento del 10,88, si sottraggono le voci relative ai tre settori fondamentali (ricerca, telecomunicazioni e trasporti), le percentuali degli altri grandi piani pluriregionali sono non dissimili, anzi in qualche caso nettamente peggiori rispetto a quelli regionali. Se dalle percentuali medie dei piani regionali (rispettivamente pari all'11,27 e al 3,95) si detraggono quelle relative alla Campania, la quale ha impegnato l'1,55 per cento e pagato lo 0,27 per cento, e alla Puglia, la quale ha impegnato il 6,30 per cento e ha pagato il 2,25 per cento, tutte le altre regioni si trovano a livelli nettamente superiori, tali da collocarle tra il 24,19 della Sardegna e l'11,73 della Sicilia. Sono dunque nella media nazionale (al netto dei settori che ho ricordato).

NICOLA BONO. Lei si riferisce alla media di tutti o all'obiettivo 1?

GIORGIO MACCIOTTA. Sottosegretario di Stato per il bilancio e la programmazione economica. Mi riferisco all'obiettivo 1.


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L'obiettivo 2, che riguarda le regioni del centro-nord, ha impegni per il 7,70 per cento e pagamenti per lo 0,54 per cento. Questo dato, ha una corrispondenza nei livelli medi europei, anche se è apparentemente sorprendente, perché non c'è dubbio che le regioni del centro-nord siano più efficienti.

ANTONIO BOCCIA. Chi l'ha detto?

GIORGIO MACCIOTTA. Sottosegretario di Stato per il bilancio e la programmazione economica. Vengono ritenute.

ANTONIO BOCCIA. Allora è diverso! La Basilicata è sicuramente più efficiente rispetto alla media delle regioni del nord!

GIORGIO MACCIOTTA. Sottosegretario di Stato per il bilancio e la programmazione economica. I dati dimostrano che la Basilicata ha impegnato il 19,80 per cento ed è al quarto posto tra le regioni del Mezzogiorno.
Le regioni del centro-nord si collocano in un trend che a livello europeo vede agli ultimi due posti della graduatoria il Belgio e l'Olanda, paesi che hanno un'amministrazione tradizionalmente ritenuta non particolarmente inefficiente e peraltro hanno un «tiraggio» europeo inferiore a quello dell'Italia. Probabilmente, dato che nelle regioni del centro-nord le entrate europee sono assai ridotte, esse dedicano meno attenzione amministrativa (così come il Belgio e l'Olanda) al «tiraggio» dalla Comunità europea.
L'obiettivo 3 ha percentuali del 20,26 e dell'11,60, rispettivamente per pagamenti e impegni; l'obiettivo 4 percentuali del 14,8 e del 2,81; l'obiettivo 5b ha percentuali del 3,27 per l'impegno e dello 0,84 per i pagamenti.
Oggettivamente si registra una situazione di grave ritardo derivata anche dal tipo di scelta che è stata operata: programmi nuovi che hanno stentato a partire e che in qualche caso, come dimostrano i dati, non sono neanche partiti. L'ipotesi sulla quale, attraverso una concertazione con le regioni, si vuole lavorare - a partire dall'accordo che si è già realizzato nel comitato di sorveglianza del 19 luglio - è trasferire (qualora si raggiungesse un'intesa al riguardo perché ciò renderebbe più facili tutte le successive procedure a livello europeo) le risorse per progetti di difficile realizzazione su programmi già in fase di attuazione. In tal modo verrebbe liberata la quota nazionale dei programmi già in corso e queste risorse servirebbero a confermare il finanziamento dei programmi nazionali eventualmente definanziati dalla quota europea.
La questione è oggetto di discussione presso il comitato delle regioni e domani sarà sottoposta all'esame della Conferenza Stato-regioni.
Nella stessa direzione va un'altra misura che si intende introdurre generalizzando l'ipotesi degli accordi Stato-regioni come «contenitori» nei quali considerare in modo aggregato il complesso delle risorse (nazionali ed europee). Si tratta di superare ritardi molto gravi che hanno particolarmente segnato gli impegni di alcune grandi strutture nazionali (cito, per tutte, l'ANAS). Mi riferisco ad un'ipotesi sulla quale nei prossimi giorni avrete modo di discutere poiché sarà introdotta nel disegno di legge collegato alla finanziaria, anch'essa sottoposta all'esame della Conferenza Stato-regioni prevista per domani.
Sempre relativamente ai patti territoriali, che sono lo strumento indicato nella relazione come una delle possibili forme di stimolo dal basso delle attività imprenditoriali, vorrei ricordare che alle risorse già stanziate sul bilancio nazionale con la delibera CIPE e precedentemente con provvedimenti legislativi si aggiungono i circa 800 miliardi di fondi europei segnalati dalla Comunità europea soltanto il 5 settembre scorso e che naturalmente entreranno nel pacchetto delle risorse disponibili. La delibera CIPE, proprio in considerazione di ciò, ha previsto che quei patti territoriali che saranno tali da attivare risorse cofinanziabili e, quindi, consentiranno un «tiraggio» vedranno le risorse cofinanziate valutate al 50 per cento sul


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totale di quelle pubbliche. Verranno così stimolati gli investitori locali a «tirare» maggiormente nella direzione dei fondi europei.
Ho sentito parlare molto qui di procedure straordinarie e sostitutive in direzione delle regioni; vorrei che si guardasse con una qualche attenzione anche al quadro politico perché sarebbe non tollerato, in una realtà che vede una discrasia tra Governo centrale e regioni, un eccesso di potere sostitutivo. A prescindere dalle norme europee, che comunque metterebbero in grave difficoltà procedimenti autoritativi che non fossero fondati sull'accordo delle regioni (perché in Europa è necessario l'accordo di tutti i soggetti contraenti), un procedimento autoritativo potrebbe creare conflitti non irrilevanti tra realtà nazionali e realtà locali, anche stante la diversa gestione politica.

LUCA DANESE. Mi scusi, ma nel documento che avete consegnato si parla di misure di accelerazione.

GIORGIO MACCIOTTA, Sottosegretario di Stato per il bilancio e la programmazione economica. No, non lo abbiamo scritto!

LUCA DANESE. Avete parlato addirittura di modificazione degli strumenti urbanistici...

GIORGIO MACCIOTTA, Sottosegretario di Stato per il bilancio e la programmazione economica. Ma è riferito all'area di crisi; sono i poteri locali!

LUCA DANESE. Mi auguro...

GIORGIO MACCIOTTA, Sottosegretario di Stato per il bilancio e la programmazione economica. Non se lo deve augurare, perché le cose stanno letteralmente così! Poi, se lei intende avanzare un'altra proposta, lo potrà fare in sede di esame della legge finanziaria.

CARLO AZEGLIO CIAMPI, Ministro del bilancio e della programmazione economica e del tesoro. Signor presidente, cercherò di svolgere la mia replica in termini generali dopo che i sottosegretari Sales e Macciotta si sono soffermati su temi particolari.
La prima considerazione. Credo che un'audizione come questa abbia una propria finalità ed una propria vita; invece, da alcuni degli interventi che ho ascoltato, ho tratto quasi l'impressione che si chiedesse a questo incontro di essere onnicomprensivo, cioè che in questa sede si dovesse trattare di ogni aspetto del comportamento, del progetto e della condotta del Governo. È chiaro che l'audizione odierna aveva propri obiettivi e finalità e, quindi, che trovava il proprio «binario» negli aspetti riguardanti in particolare la questione del Mezzogiorno. Preciso che nel mio modo di pensare faccio coincidere le aree depresse sostanzialmente con il Mezzogiorno, perché distinguo tra quelle del centro-nord e quelle del sud: sia pure in presenza di situazioni che nel centro-nord possono risultare talvolta anche più gravi, è evidente che viviamo in due realtà assai diverse. Nella prima, le situazioni di crisi si collocano in zone che hanno una loro tradizione di sviluppo e di esperienza imprenditoriale; nella seconda - il sud - per la maggior parte dei casi le difficoltà si registrano in aree che non hanno conosciuto una vera, reale fase di imprenditorialità (non dico di industrializzazione). Mi riferisco, dunque, al Mezzogiorno dando sempre una particolare rilevanza a questi problemi: ci troviamo di fronte ad una storia diversa in due parti del paese; di ciò bisogna tener conto. Ecco perché quando si parla di aree in ritardo di sviluppo, mi riferisco al Mezzogiorno (forse qualcuno mi critica per questo). Su questa tematica avevo inquadrato l'audizione odierna senza soffermarmi, nella mia introduzione, sulle politiche del Governo: basti citare quelle relative alla riforma della pubblica amministrazione.
Nella mia introduzione ho sottolineato che molte delle cose che non stanno andando come vorremmo dipendono dalle insufficienze delle amministrazioni sia locali che centrali: tutto ciò trova risposta nel programma di Governo con riferimento alla riforma della pubblica amministrazione. Non starò quindi a parlare di


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un argomento di carattere generale che riguarda la politica economica e sociale, perché l'audizione odierna - lo ripeto - trova, negli argomenti che siamo chiamati a trattare, una propria definizione di ambito territoriale.
Ringrazio tutti gli intervenuti perché ho potuto cogliere - a parte alcune deviazioni verso le tematiche generali (certamente molto importanti ma che, a mio avviso, eccedevano i confini dell'audizione odierna) - un'estrema consapevolezza della gravità del problema e della sua complessità. È un dato di fatto che è di fronte a noi e che io ho posto in evidenza fin dall'inizio della mia relazione.
Certamente tutti siamo convinti del fatto che non vi sia una soluzione taumaturgica o rapida ad un problema che ha purtroppo una storia così lunga, ormai secolare; tanto meno il sottoscritto - per il suo carattere e per le sue esperienze professionali - è abituato a prospettare soluzioni, appunto, di carattere taumaturgico, come potrebbe essere la proposta di stanziare un certo numero di decine di migliaia di miliardi... In questo modo, vi getteremmo fumo negli occhi per cercare di evitare la concretezza del problema e la sua gravità.
Ecco la ragione per la quale ho iniziato il mio ragionamento sottolineando un particolare importante: siamo inseriti in una realtà comunitaria. Questa considerazione risponde ad alcune delle diverse osservazioni che sono state avanzate; per esempio, quando si afferma che non si deve procedere per interventi territorialmente definiti, è chiaro che ci inseriamo in un'altra ottica rispetto all'intera impostazione comunitaria. Si invocano così soluzioni affidate di fatto ad una politica economica generale in grado di abbracciare l'intero territorio. Certo l'attuazione di patti territoriali o le aree di crisi può danneggiare le zone confinanti ma allora quale sarebbe la soluzione? Oltre tutto, si è parlato di «rimappare», cioè di rivedere i confini e di modificare il disegno di una certa area...

ROBERTO ROSSO. Era consentito sulla base della normativa comunitaria concordata con lo Stato italiano.

CARLO AZEGLIO CIAMPI, Ministro del bilancio e della programmazione economica e del tesoro. È una logica che prevede interventi che sono anche territorialmente mirati! Se siamo in questa impostazione - come siamo - allora le osservazioni possono riguardare una diversa configurazione dei confini, ma non la logica.
Ciò detto, teniamo presente - e lo ribadisco - che sono a disposizione risorse comunitarie per oltre 39 mila miliardi (che poi salgono fino a 43 mila) le quali, attraverso il coofinanziamento, possono attivare 106 mila miliardi. Questa è la realtà dell'oggi! Non intendo fare il processo a nessuno e contro nessuno, ma devo affermare che noi, di fronte a questa realtà, siamo stati fino ad ora incapaci di utilizzare in maniera appropriata le risorse a disposizione, e ora rischiamo di perderle. Vi abbiamo allora indicato quelle che riteniamo essere iniziative volte al miglioramento delle attuali condizioni, per utilizzare le risorse nel quadro di iniziative concernenti specificamente le regioni. Al riguardo si è avuta larghezza di consensi così come ampia concordanza vi è stata sulla necessità di accelerare la costruzione delle infrastrutture, materiali ed immateriali, e di incentivare la piccola e media industria (perché il futuro dell'Italia e dell'Europa si concentra in gran parte nella capacità di rafforzare questo settore).
Analoga ampiezza di consensi si è avuta sull'esigenza di migliorare in modo particolare la qualità (a partire dalla qualità del lavoro) e la formazione.
Dopo aver analizzato - come ho detto nell'introduzione - le linee generali che hanno trovato consenso occorre chiedersi cosa possiamo fare nel contesto delineato. È la domanda che al Ministero del bilancio ci siamo posti e ci poniamo quotidianamente per accelerare l'utilizzo di queste risorse, che significano sia maggiori investimenti sia - magari - risparmio sul versante dell'utilizzo dei fondi nazionali. Paesi come la Grecia e la Spagna fanno registrare


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un utilizzo delle risorse di 5 volte superiore al nostro. Sono paesi che hanno seguito logiche diverse dalla nostra: in gran parte hanno presentato alla Comunità per il finanziamento progetti già pronti, in fase di realizzazione; così se li sono visti approvare. Noi, invece, siamo partiti da una logica forse più corretta: abbiamo comunicato a regioni, comuni e province che esisteva una disponibilità di fondi da distribuire; ogni ente ha proceduto ad indicare la programmazione generale (frattanto, era già trascorso un lasso di tempo); poi, sulla base dei programmi approvati, è iniziata la fase della progettazione. Qui è cascato l'asino! Purtroppo, infatti, nella maggior parte dei casi la progettazione manca. Allora, cosa facciamo? Perdiamo queste opportunità?
È facile contestare che nel 1996 si preveda di utilizzare una quota di fondi pari a 1.500-1.800 miliardi: questa non è una previsione, è un dato di fatto, che non possiamo modificare nel giro di pochi mesi. Capisco bene che è ancora poco prevedere, per l'anno prossimo, l'utilizzo di 4.000-4.500 miliardi, ma si tratta comunque di un salto enorme e difficilmente riusciremmo a fare di più. Inoltre, mentre nel «sentiero di rientro» sono previste grandezze che rimangono costanti per ogni anno (e in nota alla tabella si osserva che si tratta di un percorso puramente indicativo), nella realtà si avrà una accelerazione della spesa. Noi pensiamo, cioè, che l'anno prossimo impiegheremo 4.000-4.500 miliardi, nel 1998 7.000-8.000, nel 1999 circa 10.000: si accelera quindi il processo di utilizzo, ma perché ciò avvenga è necessario appunto che si modifichino i comportamenti sia al centro sia alla periferia. Al riguardo ci siamo domandati quali fossero i mezzi per velocizzare l'azione dei meccanismi di spesa: abbiamo - fra l'altro - individuato il sistema delle riprogrammazioni. Cosa vuol dire riprogrammazione? Come sappiamo, accade che certi fondi vadano persi (e tutti riconosciamo che è un delitto): si tratta di soldi nostri, che non cadono dal cielo perché quelle assegnazioni sono contributi che vengono versati alla Comunità. Dunque, se non li utilizziamo, se li perdiamo, fra tre o quattro anni saranno assegnati ad altri paesi; si tratta di un delitto di cui dobbiamo rendere conto alla comunità. Riprogrammazione non significa che vogliamo sottrarre alle autorità locali la possibilità di intervenire, ma vuol dire aiutarle a realizzare ciò che hanno difficoltà a fare. Se due o tre comuni non utilizzano determinati fondi, anziché perderli è preferibile impiegarli sempre al sud per l'attuazione di progetti già pronti (o che si riesca a predisporre rapidamente). Ripeto, piuttosto che perdere quelle risorse, è preferibile procedere in tal senso. È tutto qui il ragionamento che stiamo portando avanti. Sarà insufficiente, commetteremo degli errori, ma si tratta di un'azione concreta che ci proponiamo di svolgere quotidianamente.
Quanto alla cabina di regia, si è parlato delle dimissioni del dottor Di Giambattista, del quale ho la massima stima. Il dottor Di Giambattista mi ha inviato una lettera nella quale diceva di ritenere che la cabina di regia non si sarebbe attivata compiutamente. In questa posizione forse è presente anche l'effetto di una certa professionalità: ognuno porta con sé la propria storia e quindi si sente più propenso a fare certe cose anziché altre. Del dottor Di Giambattista debbo pubblicamente sottolineare la grande correttezza dimostrata anche in questa situazione: mi ha detto, come ripeto, che preferiva andar via perché riteneva che l'istituto non sarebbe diventato operativo. Ne ho preso atto e nel giro di quarantotto ore o poco più ho nominato il nuovo responsabile nella persona dell'ingegner Carzaniga, un imprenditore, il quale ha maturato un'esperienza in seno all'amministrazione del bilancio nella costruzione della cabina di regia ed è stato sottosegretario nel Governo Dini. Gli ho chiesto se accettasse l'incarico ed ho ricevuto immediatamente una risposta affermativa.

NICOLA BONO. Il problema non consisteva nella sostituzione del responsabile, bensì nel capire perché si era dimesso.


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PRESIDENTE. Onorevole Bono, su questo punto sarà svolta la relativa interrogazione.

CARLO AZEGLIO CIAMPI, Ministro del bilancio e della programmazione economica e del tesoro. Contemporaneamente, abbiamo cercato non di fondere, ma di reintegrare la cabina di regia col dipartimento per la coesione, perché la prima - in quanto istituita di recente - rappresentava ancora un qualcosa di vuoto. Anziché creare un'altra struttura pesante, abbiamo pensato di mettere il dipartimento per la coesione in contatto diretto con la cabina di regia, affinché diventasse in gran parte il supporto già operante della cabina stessa. Così stiamo procedendo. Sono ben lieto, comunque, di dare chiarimenti sulle dimissioni del presidente Di Giambattista e sul funzionamento dell'istituto.
Cerchiamo di affrontare tutte queste tematiche con concretezza; come dicevo prima, non si tratta di gettare fumo negli occhi, bensì di lanciare, attraverso operazioni concrete, alcuni messaggi. Consentitemi di citare una mia esperienza. Mi riferisco all'effetto su Napoli della decisione da me assunta, come Presidente del Consiglio, di individuare quella città come sede del G7: un fatto secondario, episodico, che in fondo si sarebbe potuto risolvere in due giorni di celebrità, ha rappresentato una scintilla che certamente ha determinato per Napoli un effetto che tuttora permane, pur avendo comportato oneri ridottissimi. Dunque, per noi è importante cercare di dare al sud, attraverso queste iniziative, qualcosa di positivo. Cosa sono i patti territoriali? Attraverso la collaborazione con il Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro, che ringrazio, si è cercato di verificare la possibilità di coagulare, in determinate aree del Mezzogiorno, alcune iniziative per determinare sinergie ed un'azione di sollecitazione di aiuti da parte del Governo. In questo modo, è possibile moltiplicare i vantaggi rispetto alla semplice promozione di singole iniziative.
Questi sono i patti territoriali; sono state individuate oltre 60 aree, in alcune delle quali si è già nella fase della realizzazione; si tratta di tentativi di immettere scintille nel territorio, di dare agli stessi uomini del sud maggiori opportunità per porre in evidenza la loro imprenditorialità.
La mia convinzione non solo intima, ma sempre espressa, è che il ruolo dello Stato non sia quello dell'imprenditore, bensì quello di un soggetto che mette a disposizione le infrastrutture necessarie, che stimola le iniziative, che pone i confini delle regole del gioco, che fa da arbitro nel gioco condotto dai diversi giocatori, cioè dagli operatori. Spesso laddove, come nel sud, ve ne sono pochi, si pone il problema di come dislocarli nel Mezzogiorno e, soprattutto, di come ottenere risultati positivi in questa parte d'Italia.
Sono d'accordo con le osservazioni sulla grande importanza dell'artigianato: spingere per la nascita di piccole imprese in qualsiasi settore, dall'industria al terziario al turismo, è l'unica maniera di creare un po' alla volta un tessuto connettivo nel meridione (chiedo scusa se sono andato un po' fuori dai temi trattati e se mi sono fatto prendere dalla passione che per carattere pongo nelle cose in cui credo).
Tutto ciò rientra in una politica generale di Governo della quale, come titolare dei dicasteri del tesoro e del bilancio, sento l'enorme responsabilità. Il futuro del paese si gioca nel riuscire a convincere della credibilità dell'azione di risanamento definitivo della pubblica amministrazione, dei conti dello Stato, della capacità del paese di governarsi ed intraprendere.
Questa è la grande scommessa: essere capaci di guadagnare (ed un guadagno già vi è stato) in modo crescente tale fiducia, e voi sapete quale ne è il segno. Mi riferisco ai tassi di interesse, al differenziale fra i nostri tassi di interesse e quelli dei paesi europei più stabili, in particolare della Germania. Raggiungere tale obiettivo non è solamente una questione di conti pubblici, ma significa liberare per l'economia, per le imprese, importanti risorse finanziarie e reali. Se vinceremo questa scommessa, saremo definitivamente fuori dal tunnel. Io vedo il problema nell'ottica europea, ma c'è chi può anche non considerarla


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da questo punto di vista; però, gli interessi coincidono: l'Italia ne ha bisogno comunque, anche per coloro che non condividono la costruzione europea (e per fortuna mi pare che in Italia siano una minoranza).
Ci prepariamo a predisporre una finanziaria che cerchi di conciliare le esigenze di risanamento con un importante pacchetto sull'occupazione e sugli investimenti. È quanto ci siamo proposti di fare, perché la prossima finanziaria deve essere quella per l'Italia nell'Europa e per l'occupazione. Spero che ci riusciremo.
Anche l'impostazione della politica per il Mezzogiorno rientra in questa ottica. Dobbiamo essere capaci di accelerare gli investimenti nel sud e nel contempo di utilizzare appieno tutte le risorse di cui il paese può disporre.
Come ha pubblicato qualche giornale, nell'incontro che ho avuto alcuni giorni fa, ho detto al ministro dei lavori pubblici Di Pietro di fornirmi i progetti; alla sua domanda relativa ai fondi ho risposto di non preoccuparsi e di fornirmi progetti cantierabili: sarebbero stati finanziati. Non è una sfida o una superficiale leggerezza, perché sono convinto che con le disponibilità stanziate vi sia la possibilità di finanziare gran parte delle cose di cui abbiamo bisogno.
Certamente occorrono ulteriori risorse e difatti il pacchetto che il Governo si propone di approntare per gli investimenti e per l'occupazione deve trovare un suo finanziamento su due principali linee, quella della vendita dei beni demaniali e quella degli emolumenti derivanti dalla lotta all'evasione.

NICOLA BONO. Sono due «arie fritte»...

CARLO AZEGLIO CIAMPI, Ministro del bilancio e della programmazione economica e del tesoro. No, non sono «arie fritte»!

NICOLA BONO. Finora lo sono state.

CARLO AZEGLIO CIAMPI, Ministro del bilancio e della programmazione economica e del tesoro. È giusta la sua diffidenza, ed è per questo che io non materializzo gli importi. È chiaro che se quelle fonti non dovessero dare ciò che riteniamo possibile, dovremo individuare altre fonti di finanziamento, perché il pacchetto per l'occupazione e gli investimenti deve essere varato e finanziato. Penso che sarebbe importante - quasi sotto un profilo etico - affermare che il pacchetto sarà finanziato mettendo a frutto risorse del paese da anni immobilizzate (beni demaniali, dalle stazioni ferroviarie alle caserme) e i proventi derivanti da un'incisiva lotta all'evasione.
Condivido i suoi dubbi, però penso che ciò che in questo campo il Governo tirerà fuori in primo luogo ridurrà tali dubbi e in secondo luogo dimostrerà, già nel 1997, la concretezza della trasformazione di queste risorse potenziali in risorse effettive. Se così non dovesse essere, è chiaro che il Governo avrà la responsabilità di provvedere in altro modo.

PRESIDENTE. Ringrazio il dottor Ciampi, e i sottosegretari Sales e Macciotta, per il contributo offerto ai lavori della Commissione.
Considerato il tenore dell'intervento del ministro e l'approfondimento della tematica oggetto dell'audizione, ritengo possano considerarsi assorbite dallo svolgimento dell'audizione le interrogazioni Bono n. 5-00288 e Pezzoli e Selva n. 5-00320.
Se non vi sono obiezioni, rimane così stabilito.
(Così rimane stabilito).

La seduta termina alle 15,40.


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ALLEGATO
(Tabella illustrata dal ministro)


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