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Doc. XXIII n. 47


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7. I traffici internazionali.

La Commissione monocamerale d'inchiesta sul ciclo dei rifiuti istituita nella precedente legislatura si era occupata del fenomeno dei traffici internazionali di rifiuti pericolosi, anche radioattivi. Evidenti segnali di allarme si coglievano in alcune vicende giudiziarie, da cui peraltro era emersa una chiara sovrapposizione tra queste attività illegali ed il traffico di armi. In particolare, l'inchiesta condotta dalla procura di Lecce aveva individuato il cosiddetto «progetto Urano», finalizzato all'illecito smaltimento in alcune aree del Sahara di rifiuti industriali tossico-nocivi e radioattivi provenienti da Paesi europei. Numerosi elementi indicavano il coinvolgimento nel suddetto traffico di soggetti istituzionali di governi europei ed extraeuropei, nonché di esponenti della criminalità organizzata e di personaggi spregiudicati, tra cui il noto Giorgio Comerio, faccendiere italiano al centro di una serie di vicende legate alla Somalia ed all'illecita gestione degli aiuti del Fai (oggi direzione generale per la cooperazione e lo sviluppo).
Il progetto - già citato dalla precedente Commissione d'inchiesta - prevedeva il lancio dalle navi di penetratori (cilindri metallici a forma di siluro), caricati con scorie radioattive vetrificate o cementate e racchiuse in contenitori di acciaio inossidabile che si depositavano sino a 50-80 metri al di sotto del fondale marino; in alternativa, si affondava la nave con l'intero carico pericoloso, simulando un affondamento accidentale e lucrando, così, anche il premio assicurativo, il che è stato confermato dalle indagini aventi ad oggetto alcuni naufragi assai sospetti di navi assicurate dalla Lloyds di Londra, verificatisi nel Tirreno e nello Ionio, di cui diremo oltre. Il progetto contemplava


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anche la vendita di alcuni ordigni bellici (le telemine) ai Paesi del Medio oriente, da nascondere in profondità marine mediante navi «Ro-Ro» - le stesse navi utilizzate per affondare le scorie radioattive - e col sistema appena descritto.

7.1 L'inchiesta di Reggio Calabria.

Come detto, la Commissione precedente si era già occupata anche del preoccupante fenomeno dei traffici e degli smaltimenti illegali di scorie e rifiuti radioattivi in mare, nell'ambito di alcune inchieste avviate dalle procure di Matera, Reggio Calabria e Napoli, relative all'affondamento di navi cariche di scorie e rifiuti radioattivi, principalmente nel mar Mediterraneo, cui si accompagnava - secondo l'ipotesi formulata dagli organi inquirenti - la consumazione di una serie di truffe alle compagnie assicurative con la riscossione dei premi previsti per i sinistri marittimi.
Si profilava, peraltro, del tutto verosimile anche una relazione fra tale fenomeno e quello relativo al traffico internazionale di alcune tecnologie militari avanzate. Del resto, già l'inchiesta sul «progetto Urano», di cui si è detto, evidenziava un intreccio tra queste diverse attività illegali.
La Commissione ha ritenuto opportuno mantenere costante la sua attenzione rispetto ad ogni elemento di novità che emergesse in relazione a tale tipologia di smaltimenti illegali, che si presenta senz'altro come la più grave ed allarmante. Ha acquisito pertanto informazioni relative all'andamento dell'inchiesta di maggiore interesse nel settore, in carico alla procura presso la pretura di Reggio Calabria e poi trasmigrata per competenza alla locale procura distrettuale, anche in considerazione degli elementi che essa ha offerto sulle relazioni con presunti traffici illegali di armi su scala internazionale, che hanno determinato l'avvio di ulteriori indagini, tuttora in corso, presso le procure competenti di Milano e Brescia.
L'indagine calabrese, avviata nel 1994, ha per oggetto alcuni affondamenti sospetti di navi nel Mediterraneo, al largo delle coste ioniche calabresi (le cd. «navi a perdere», utilizzate per l'affondamento di rifiuti radioattivi) e vede in un ruolo chiave Giorgio Comerio, un personaggio in contatto con noti trafficanti di armi e coinvolto anche nella fabbricazione di telemine destinate a diversi Paesi, come l'Argentina.
Dalle indagini era emerso che il Comerio (che tendeva ad accreditare come del tutto lecito anche su Internet il progetto «odm» per la gestione di depositi marini ove smaltire rifiuti radioattivi e tossico-nocivi ricorrendo ai penetratori) aveva indicato sulla sua agenda personale la data - si tratta di episodi risalenti al 1987 - di affondamento di una delle «navi a perdere» (la Rigel) al centro dell'inchiesta giudiziaria di Reggio Calabria. Era stata altresì rinvenuta nella borsa di un personaggio molto vicino al Comerio una mappa con i siti di affondamento di altre navi sospette.
Il progetto prevedeva, quindi, l'acquisizione di rifiuti radioattivi e tossico-nocivi da smaltire presso Paesi extraeuropei e l'individuazione di siti di affondamento degli stessi, per lo più in tratti di mare


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antistanti Paesi africani, quali la Somalia, la Guinea e la Sierra Leone, secondo una strategia ricorrente nell'ambito dei traffici internazionali di rifiuti (si pensi a quanto evidenziato nell'inchiesta «Urano» o in quella relativa alle «navi dei veleni»: vedi i lavori svolti dalla precedente Commissione monocamerale d'inchiesta).
La partecipazione diretta di clan della 'ndrangheta a siffatti smaltimenti illeciti era un altro dato allarmante prospettato dall'organo inquirente. Gli accertamenti giudiziari, resi assai complessi e difficili anche per le oggettive difficoltà nelle operazioni di rilevamento della presenza di rifiuti radioattivi in navi affondate in tratti di mare con fondali particolarmente profondi, sono stati portati a termine di recente, non essendo affatto mancate nella precedente legislatura sollecitazioni rivolte dal Presidente della Commissione al Ministero della giustizia, affinché intervenisse fornendo i mezzi ed i supporti tecnici e di professionalità necessari.
Dagli accertamenti eseguiti - l'indagine è, tuttavia, ancora pendente - non è stata rilevata la presenza della nave Rigel sul fondale dove la stessa sarebbe affondata, seppure con i limiti e le difficoltà tecniche dipendenti anche dalla precarietà dei pochi dati a disposizione. Ma al di là di questi esiti sotto il profilo squisitamente penale, permane la più viva preoccupazione per una serie di episodi evidenziati dalla stessa inchiesta giudiziaria e da altri dati acquisiti.
Anzitutto il dato numerico relativo ad affondamenti sospetti di navi verificatisi nei mari italiani: ben trentanove risultano i casi per il solo periodo tra il 1979 ed il 1995 (vedi consulenza tecnica disposta nell'ambito del procedimento pendente a Reggio Calabria; dati tratti dall'archivio STB Italia di Genova e Milano, e da varie compagnie assicurative, fra cui la «Lloyd's Register of Shipping», sede di Genova, e ventisei di questi vengono indicati dal comando generale delle capitanerie di porto). Secondo la segnalazione dei Lloyd's di Londra, diverse di queste navi sono iscritte nella capitaneria di porto di Napoli.
Per quanto riguarda la nave Rigel affondata secondo i giornali di bordo il 21 settembre 1987, a venti miglia da capo Spartivento, un dato di particolare interesse - offerto da fatture di vendita, bolle di accompagnamento e polizze di carico, nonché dal manifesto di carico dell'agenzia marittima e dalle varie compagnie assicuratrici - riguarda l'elenco di merci che ufficialmente risultavano caricate sulla motonave Rigel, il cui valore assicurato ammontava a circa 20 milioni (erano stati effettuati pochissimi controlli doganali a campione). Ma, soprattutto, rimane sospetta la gran parte del carico, atteso che i caricatori erano ditte e/o persone in difficoltà economica; talune partite erano rappresentate da merci (materiali, macchinari) fuori produzione o di recupero, per i quali mancava la dovuta congruità tra valore assicurato e valore effettivo, come, del resto, è stato dimostrato nel procedimento per truffa svoltosi presso il tribunale di La Spezia.
L'affondamento, in sostanza, sarebbe stato comunque organizzato per lucrare i premi assicurativi dal sinistro, tanto che il citato procedimento per truffa aggravata ai danni delle assicurazioni si è concluso con la condanna degli imputati. Alla luce di tutti questi dati, non sembra potersi escludere che alcuni caricatori consapevoli abbiano caricato anche prodotti e rifiuti pericolosi.


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Gli elementi più inquietanti della vicenda sono dati, poi, dalle forti analogie che essa presenta con altri casi di affondamento di navi. Ricordiamo quello della motonave Alessandro I, avvenuto il 1o febbraio 1991 nei pressi di Molfetta, che veniva attribuito dall'autorità marittima ad «imperizia» del comandante, mentre i dati tecnici a disposizione consentirebbero di affermare che la stabilità della nave fosse tale da predisporla ad un eventuale «ingavonamento» e, comunque, la causale del sinistro non potrebbe farsi dipendere dalla sola imperizia del comandante; in questo caso, peraltro, è stata recuperata la parte più inquinante del carico (prodotti chimici e derivati del petrolio). Vi è poi l'affondamento della motonave Barbara nei pressi dell'isola di Zante il 26 giugno 1982, che presenta aspetti del tutto peculiari; essa infatti portava circa 1200 tonnellate di manganese contenuto in fusti destinato ad Alessandria (Egitto), ma presso l'isola di Zante si verificava un'infiltrazione d'acqua nel motore ed il progressivo allagamento, che determinava l'abbandono della nave da parte dell'equipaggio. È stato accertato che la nave, mentre era ferma nel porto di La Spezia, era stata urtata da un'altra motonave battente bandiera greca, ma - fatto davvero strano - non era stata avvisata né la locale capitaneria di porto né il registro italiano navale. Insomma, il carico di minerali in fusti, la rotta seguìta, la circostanza che a La Spezia non sia stato dato alcun avviso dell'incidente occorso, a tutela degli stessi interessi armatoriali ed ai fini della convalida della classe della nave, rendono la vicenda certamente sospetta.
Vi è poi la motonave Rosso, incagliatasi il 14 dicembre 1990 nei pressi di Vibo Valentia ed abbandonata. I documenti ritrovati sul relitto potevano essere riferiti al «progetto odm» del Comerio. Certo è che la nave - quando, nel 1988, era ancora denominata Jolly Rosso - giungeva a Beirut per caricare 2.200 tonnellate di rifiuti tossici da trasportare in Italia, precisamente a La Spezia, come in effetti avveniva; dopo che i rifiuti erano stati scaricati, la nave veniva bonificata e, successivamente, l'armatore ne modificava la denominazione (caso rarissimo nell'ambiente marittimo, ove il cambio di denominazione ad una nave viene considerato un elemento foriero di cattiva sorte) e la metteva in vendita, ma subito dopo si verificava l'incaglio a Vibo Valentia.
Ancora: si rammenti la vicenda dell'affondamento della motonave Marco Polo, già affrontata dalla precedente Commissione ed oggetto di indagine da parte della stessa procura di Reggio Calabria, verificatosi nel maggio 1993 all'altezza del canale di Sicilia. In questo caso, si è riscontrata la presenza di radioattività da torio 234 su campioni di alghe e materiale ferroso prelevati a seguito del rinvenimento in mare (nell'aprile 1994), al largo delle coste della Campania, di alcuni containers persi dalla citata nave. Sono notevoli qui le analogie con l'affondamento della motonave Koraline, avvenuto al largo di Ustica. Anche in questo caso sono stati, infatti, rinvenuti alcuni containers che presentavano forti concentrazioni di torio.

7.2 I traffici verso l'Africa.

È dalle inchieste sulle «navi a perdere» che questa Commissione ha inteso avviare i lavori per una migliore comprensione della reale


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portata e dell'attualità del fenomeno illegale. Purtroppo, va detto da subito che gli elementi conoscitivi acquisiti e le verifiche sin qui effettuate attivando anche i poteri autonomi d'inchiesta non sono affatto confortevoli.
L'analisi dei dati emersi da due inchieste riguardanti tali traffici - inchieste tuttora in corso presso la procura di Asti e la procura distrettuale di Milano - ed il riscontro incrociato con materiale acquisito dalla Commissione e quanto già emerso in passato fa ritenere che essi siano ancora in corso, che alcuni Paesi, specie dell'Africa, siano ancora mete di destinazione «privilegiate» di tali rifiuti pericolosi e che l'intero traffico, pur con qualche alternanza, ruoti attorno agli stessi soggetti che in passato sono rimasti coinvolti.
Va detto che le inchieste - giudiziarie e della Commissione - si rivelano particolarmente delicate e difficili, muovendosi tra mille difficoltà sia di ordine burocratico che, in particolare, connesse alle difficoltà di accertamento, rispetto ad operazioni di smaltimento realizzate da pochi soggetti che si avvalgono di una fitta rete di intermediari e società anche straniere spesso costituite artatamente, muovendosi su Paesi che a volte non hanno un organo di governo riconosciuto e con i quali comunque non esistono protocolli d'intesa. Diventa quindi assai difficile, se non impossibile, condurre un'attività di verifica dell'effettivo compimento dei traffici e dell'esistenza di siti contaminati da depositi di rifiuti pericolosi e radioattivi.
Ma al di là dell'esito processuale che tali inchieste giudiziarie avranno e nel rispetto del segreto a tutela delle indagini, la Commissione ha ritenuto opportuno mettere in luce i dati certi comunque acquisiti e che tutti univocamente conducono a ritenere persistenti traffici così pericolosi ed allarmanti, riservandosi di mantenere costante la sua attenzione sul fenomeno e di proseguire nel lavoro di ricostruzione e verifica intrapreso.
Le indagini in corso presso la procura di Asti riguardano traffici internazionali di rifiuti pericolosi provenienti dal territorio italiano e destinati alla Somalia, di cui sarebbero promotori, in particolare, alcuni dei soggetti già interessati nel 1992 al cosiddetto «progetto Urano». Dalle carte acquisite dalla Commissione emerge con chiarezza che i personaggi interessati agli smaltimenti illeciti ricoprono compiti analoghi a quelli che avevano in passato; di particolare interesse l'intermediario che opera in Italia per l'esportazione dei rifiuti in una località somala dove era stata ottenuta una «concessione» dal noto faccendiere italiano di cui si è detto a proposito del «progetto Urano»; e il titolare di una ditta che funge da spedizioniere presso il porto di Livorno e risulta essere in stretti rapporti con Faduma Aidid (figlia del generale uomo forte di Mogadiscio), accreditata in Italia negli anni ottanta come diplomatica e addetta al consolato somalo di Milano durante il regime di Siad Barre (e recentemente espulsa dal territorio italiano).
Il meccanismo con cui avvengono tali traffici di rifiuti presenta analogie evidenti con quello della plastica di provenienza tedesca e destinato all'Egitto (passando per l'Italia), oggetto di un'indagine da parte della procura di Asti, che volge alla conclusione della fase delle indagini preliminari, con esiti che sembrano positivi. I rifiuti venivano inviati in zone del nord Italia, da qui a Roma (dove venivano


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trasformati), quindi ripartivano per La Spezia non più come plastica tedesca, ma come sfridi di lavorazione di plastica italiana. Una volta giunto a La Spezia il materiale, così riclassificato, veniva caricato in containers e spedito in navi dirette al Cairo. In sostanza, il traffico da Bergamo a Roma del materiale plastico tedesco era solo di natura cartolare, fittizio; in realtà, le operazioni di dogana venivano compiute nello stabilimento di Bergamo, mentre nella zona portuale ci si limitava a controllare che il numero dei sigilli corrispondesse e che questi non fossero rotti, senza procedere ad alcuna verifica del materiale nei containers. L'operazione illecita è stata rapidamente bloccata perché le autorità egiziane hanno scoperto la non corrispondenza tra il carico e i documenti; i containers sono stati rispediti alla Germania in qualità di Stato autore del trasporto. Nell'attesa di trovare nuove destinazioni per il materiale, gli autori dei traffici hanno utilizzato alcuni capannoni del nord per lo stoccaggio del materiale stesso: uno di questi, ad Asti, è bruciato nell'agosto 1997, dando il via all'inchiesta.
Con il sistema sopra descritto sarebbero stati smaltiti selvaggiamente (specie nel territorio somalo) ingenti quantitativi di rifiuti pericolosi e radioattivi, tanto da far dire ad un teste sentito dall'autorità giudiziaria che «la cosiddetta strada dei pozzi, chiamata da tutti in Somalia strada della cooperazione, in quanto costruita con i soldi della cooperazione italiana, è una strada che non va e non viene da nessuna parte, perché unisce tre discariche abusive gigantesche considerate tra le più grandi del mondo, da sud verso nord».
È inquietante il racconto di un operaio alle dipendenze di una nota ditta di costruzioni italiana operante in Somalia sui lavori di interramento di alcuni fusti nel territorio del Ganon; questi lavori venivano talvolta eseguiti da operai italiani protetti da tute («scafandri»), ma più spesso venivano affidati alle popolazioni locali (ignare dei rischi per la loro vita) e, in caso di morte, ogni pretesa familiare si tacitava con pochi soldi («non costavano nulla» perché «lamentele, pene e ogni altra cosa potevano essere tacitate con la dazione di 50 o 100 mila lire alla famiglia»).
Un'ulteriore documentazione acquisita dalla Commissione riscontra nomi, ruoli, rapporti e destinazioni illegali dei rifiuti pericolosi e radioattivi, nonché la tipologia degli stessi. In particolare, un faccendiere noto a diversi uffici giudiziari propone ad un console onorario della Somalia l'invio di ingenti quantitativi di rifiuti pericolosi anche radioattivi, facendosi garante del loro trasporto e smaltimento finale in siti che saranno individuati unitamente ai corrispondenti somali, ed avvalendosi di un porto di sbarco che lui stesso ha costruito ad El Maan, una località a nord della città di Mogadiscio: non mancano acquisizioni fotografiche che confermano l'esistenza di questo porto.
Tra i viaggi sospetti all'attenzione dell'autorità giudiziaria c'è quello, nel giugno 1997, di una nave (di proprietà di alcuni degli indagati nel procedimento) in partenza da Livorno con un carico vario, tra cui camion obsoleti, contenitori con macchinari, farmaci e altre merci, con destinazione proprio El Maan (Somalia), dove però non è mai giunta. Alcuni elementi dell'inchiesta lasciano invece ipotizzare che essa trasportava merci pericolose (tra cui rifiuti), alcune provenienti da ditte italiane, con destinazione Dubai.


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In altri atti si fa esplicito riferimento (da parte di alcuni soggetti coinvolti) all'organizzazione di una nuova esportazione di rifiuti pericolosi e radioattivi verso la Somalia: pure in questo caso, le operazioni portuali e quelle di scarico ed interramento dei fusti nel territorio somalo sono gestiti dai personaggi italiani coinvolti nell'inchiesta. Ancora si riscontra l'esplicito riferimento ai traffici illegali di rifiuti spediti in passato (anni 1988-1990) in Somalia, Malawi e Zaire, con indicazione della disponibilità di navi della portata di 5000 tonnellate, di luoghi dove smaltire e di mezzi per scavare buche profonde.
Non mancano documenti relativi a spedizioni di merce da Livorno a Mogadiscio, via El Maan, in cui ricorrono spedizionieri e mittenti che emergono anche negli altri casi di trasporti «sospetti». In un caso, si tratta di merce indicata sotto la dicitura di «ferramenta scarsa», inviata in un container da venti piedi spedita nei primi mesi del 1997 a Mogadiscio tramite la società di un indagato: il carico della nave comprendeva anche vernici provenienti da una ditta italiana, la quale risulta aver redatto alcune schede di sicurezza inviate non allo spedizioniere (come accade normalmente) ma al fax di una società terza e da questa girate nello stesso giorno allo spedizioniere (indagato).
È interessante notare che in queste schede di sicurezza è scritto che si tratta di materiale pericoloso come synuil smalto, diluente S98, acquaragia tre palme, diluente nitro 2800. Perciò, le dichiarazioni di certificazione secondo cui nel container si trova un prodotto non infiammabile, non inquinante ed innocuo, redatte a cura di un indagato, non sono affatto rispondenti al vero, tenuto anche conto che esse risultano inviate quaranta minuti dopo l'invio delle stesse schede di pericolosità. La fattura emessa per la spedizione di tale merce reca un importo di 10 milioni a carico di una terza società che descrive così la merce caricata: «264 confezioni vernici varie dimensioni e colori»; nella stessa fattura si indica altra merce, tra cui cento confezioni di prodotti chimici. Dunque, la merce risulta caricata e spedita. Inoltre, sotto lo stesso numero di fattura, ne risulta emessa un'altra in pari data dallo stesso indagato a carico di una società, con la seguente causale «prestazione di opera per smontaggio negozio e imballaggio materiale per spedizione», pari ad un importo di 7 milioni.
L'operazione descritta induce a ritenere che in realtà sono stati inviati in Somalia dei rifiuti pericolosi, dietro la falsa attestazione doganale che si trattasse di merci non pericolose e destinate come materia prima alla rivendita, mentre in realtà erano vernici e materiale obsoleto destinato allo smaltimento. Insomma, gli elementi evidenziati (e non sono i soli) sembrano davvero troppo numerosi e concordanti, almeno su taluni aspetti fondamentali del fenomeno illegale, perché essi - al di là del giudizio di responsabilità penale e di ciò che esso richiede - possano ritenersi frutto di mera fantasia o di un allarmismo che si alimenta di fantasmi.
Ciò senza considerare gli ulteriori dati di conforto che, nell'ambito dell'inchiesta in corso presso la procura di Milano, sono stati offerti a quanto in passato era emerso sul «progetto Urano», almeno nei suoi aspetti fondamentali, da parte di alcuni protagonisti di quella vicenda: la tipologia dei rifiuti pericolosi e radioattivi e la loro prevalente destinazione in Africa (Somalia, Sudan, Eritrea, Algeria, Maghreb);


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società e personaggi coinvolti, tra cui compaiono nominativi degli attuali indagati, nonché alcuni organismi internazionali.
Né va sottaciuto che i soggetti indagati nella vicenda di Asti sono gli stessi coinvolti nelle ulteriori inchieste che dalla stessa hanno preso avvio presso le procure di Pistoia e Venezia, relative ad una complessa serie di reati che vanno dall'attività di contrabbando, alla truffa in danno di privati e dello Stato, all'associazione a delinquere finalizzata all'attività di movimentazione e riciclaggio di valuta (segnatamente, di valuta kuwaitiana rubata dall'esercito iracheno nella zecca di quel Paese in occasione dell'invasione bellica del 1990 e riciclata in numerosi Paesi, europei e non, e anche in Italia) e di denaro di illecita provenienza tramite attività di finanziamento che venivano attuate mediante utilizzo di German gold bonds degli anni 1926-1930, che sono stati estromessi dal mercato ufficiale e legale e venivano invece usati su mercati finanziari paralleli e del tutto illegali per finanziare progetti parimenti illegali (anni 1997-1998); a tali fini, erano state peraltro create numerose strutture societarie con sede prevalente a Londra, utilizzate fra l'altro per emettere fatture per operazioni inesistenti a favore di ditte italiane. Sia i German gold bonds che la moneta kuwaitiana sarebbero stati impiegati anche per finanziare i diversi schieramenti in guerra nella ex Jugoslavia nonché alcune fazioni in lotta per il potere in Somalia ed altri Paesi africani.
Come si vede, si tratta di fatti gravissimi, significativi della complessiva dimensione criminale in cui si collocano i traffici internazionali di rifiuti, che sono soltanto una tra le tante, complesse operazioni economiche illegali da cui si possono trarre profitti, peraltro elevatissimi. Non solo: l'intersezione talvolta con vicende belliche di risalto internazionale, che hanno portato organismi sovranazionali ad intervenire in maniera diretta, fanno ritenere che alcune di queste operazioni siano gestite, coordinate o comunque conosciute da apparati governativi.
È necessaria una strategia di controllo che studi la ricorrenza di società, personaggi, metodiche dei comportamenti illeciti; soprattutto, che conosca le nuove frontiere del mercato per anticipare sui tempi quali sono gli affari che fruttano nel ciclo dei rifiuti ed intervenire in tempi reali. Del resto, anche nelle relazioni sulla politica informativa e della sicurezza del 1o e 2o semestre 1999 (v. Camera dei deputati XIII legislatura, doc. XXXIII, nn. 7 e 8), è esplicito e preoccupante il riferimento all'attualità delle problematiche ambientali relative ai traffici internazionali di sostanze tossiche e radioattive, in particolare ponendosi l'accento sulla tendenza che si va consolidando anche in questo settore ad operare in una dimensione transnazionale, modulando le progettualità operative sulla globalizzazione dei mercati e sull'evoluzione dei sistemi di comunicazione.

7.3 Le nuove rotte dei traffici.

Le nuove informazioni assunte dalla Commissione riguardano attività di smaltimento di rifiuti tossici in vari Stati, ed in particolare l'organizzazione di spedizioni verso Maputo, in Mozambico, a partire dal 1997. Va da subito precisato che le attività di illecito smaltimento


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in quello Stato non riguardano solo l'Italia ma molti altri Paesi, anche extraeuropei, in particolare la Corea.
Nell'ambito del progetto un ruolo chiave viene ad assumere un faccendiere italiano, contattato proprio perché già protagonista di spedizioni di rifiuti verso l'Africa (in particolare di dodici navi cariche di rifiuti partite negli anni ottanta da Amburgo verso la Guinea), nonché coinvolto nel già citato «progetto Urano». Nella realizzazione dei traffici l'organizzazione si avvale di società di copertura, tra le quali ricompare una delle società al centro dell'indagine della procura di Asti. Anche qui si conferma, inoltre, la disponibilità di navi idonee al trasporto dei rifiuti verso Paesi in via di sviluppo. Non solo: i personaggi italiani coinvolti risultano essere noti a soggetti affiliati alla criminalità organizzata.
Da quanto emerso, l'idea degli smaltimenti illeciti in Mozambico nasce nell'ambito di una cooperazione tra l'Argentina e quella nazione africana, che riguardava anche lo sviluppo di attività industriali nei pressi di Maputo. L'area interessata era stata oggetto di attività estrattiva ai tempi del Governo di Samora Machel. È copiosa la documentazione che mostra l'avvenuta costituzione di società che dovevano gestire la presunta attività industriale, nonché le intervenute autorizzazioni da parte del governo mozambicano allora in carica. Reale interesse dell'organizzazione criminale era naturalmente colmare tale cava con rifiuti di qualsiasi tipologia, mascherando l'operazione con il recupero dell'area.
In particolare, risulta la costituzione nel 1996 di una società con sede a Maputo, avente come oggetto sociale principalmente l'installazione di complessi industriali per lo smaltimento finale di rifiuti di ogni genere, nonché l'autorizzazione a tale società da parte del Ministero dell'ambiente della Repubblica del Mozambico (sempre nel 1996) ad esportare, importare o ricevere tutti i tipi di rifiuti (domestici, ospedalieri e industriali) provenienti da altri Paesi per il successivo trasporto, trattamento e deposito finale nel Paese, in conformità alle norme e regole di salvaguardia ambientale in vigore, assumendo come base la classificazione della convenzione di Basilea. Autorizzazione che però non permetteva una movimentazione dei rifiuti al solo fine dello smaltimento, come in effetti è poi avvenuto. Da evidenziare ancora l'autorizzazione del Ministero del bilancio e delle finanze della Repubblica del Mozambico (1996), a favore del progetto di investimento denominato «smaltimento dei rifiuti», concesso a due società coinvolte nell'inchiesta, relativo all'installazione di unità industriali per la raccolta, il trattamento ed il riciclaggio di scorie e rifiuti domestici, ospedalieri e industriali, nonché per l'installazione e l'utilizzo di inceneritori da realizzare in conformità alla normativa di quello Stato. A tal fine addirittura verrà chiesta ed ottenuta la concessione in godimento di un terreno, sito in località Boane, che si estende per circa 150 ettari, da destinare all'installazione di un impianto di trattamento di rifiuti domestici, ospedalieri e industriali raccolti da alcune città del Mozambico. In realtà, diversa documentazione comprensiva di rilievi fotografici sul posto dimostra che nessun impianto è stato realizzato, mentre esiste un'enorme discarica a cielo aperto destinata ad accogliere rifiuti di ogni genere e provenienti da ogni parte del mondo.


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A dimostrazione del coinvolgimento di alte cariche di quello Stato, esiste una lettera del Ministero per il coordinamento delle azioni ambientali del Mozambico (del 10 maggio 1996), indirizzata all'ambasciatore italiano a Maputo, nella quale fra l'altro si propone un accordo bilaterale al fine di importare rifiuti dall'Italia, per far funzionare un forno inceneritore, in quanto i quantitativi di rifiuti raccolti in Mozambico non sono sufficienti per alimentare il forno inceneritore in modo tale da assicurare un rendimento economico. In realtà tale impianto non esisteva nel 1996, né esiste oggi! Da sottolineare comunque che la rappresentanza italiana non è l'unica ad essere stata interessata, giacché missive di analogo tenore sono state inviate alle ambasciate di Argentina e di Spagna a Maputo.
Tornando ai fatti, risulta che la società costituita nel 1996 a Maputo (filiale mozambicana di un gruppo argentino con filiale anche a Dublino) ha richiesto la concessione dell'area di Boane, asserendo dovervi installare un'attività industriale di trattamento rifiuti provenienti da città del Mozambico. La non rispondenza alla realtà della richiesta discende da un'ulteriore documentazione, dalla quale che come la società mozambicana ha sottoscritto un accordo con una società italiana per operazioni commerciali relative a spedizioni di rifiuti speciali e/o pericolosi italiani presso quel sito, che altro non è se non una discarica.
I rifiuti italiani non sarebbero comunque arrivati per primi in quell'area, giacché gli elementi acquisiti tendono a dimostrare l'avvenuto smaltimento di materiali provenienti dalla Corea e da Taiwan, grazie a traffici gestiti dalla medesima organizzazione criminale. Altro luogo di provenienza dei rifiuti da smaltire in Mozambico risultano essere gli Stati Uniti d'America, sempre con modalità curate - a partire dal 1998 - dall'organizzazione con «sede» in Argentina.
Se non esistono allo stato accertamenti sull'avvenuto smaltimento illecito di rifiuti italiani a Maputo, la documentazione acquisita dalla Commissione fa invece ritenere - per la sua precisione e la sua provenienza - come molto verosimile l'avvenuto smaltimento di circa 600 mila tonnellate di rifiuti nel Sahara spagnolo, probabilmente nell'ambito del «progetto Urano».
Tornando all'«ipotesi Mozambico», l'organizzazione prevedeva anche forme per investire le minori quantità possibili di denaro. Tra l'altro, dovevano essere realizzate miscelazioni di rifiuti ad elevata tossicità con rifiuti poco tossici, in modo da versare una bassa garanzia al Ministero dell'ambiente (la fideiussione è calcolata sulla tossicità della merce). L'imbroglio documentale viene naturalmente proposto anche sulle quantità, per far figurare minori tonnellate rispetto a quelle effettivamente inviate.
È opportuno a questo punto evidenziare come anche tale attività nasconda altre attività illecite: anzitutto operazioni di riciclaggio di denaro proveniente da attività illecite, come il traffico internazionale di armi e di stupefacenti. Il coinvolgimento, in particolare, nell'attività di un soggetto indicato da diverse polizie come appartenente ad organizzazioni attive in quei settori, nonché coinvolto in vicende terroristiche di risonanza mondiale - l'attentato di Lockerbie e il sequestro dell'Achille Lauro - dà la misura del livello criminale. E indica come il traffico internazionale di rifiuti sia uno snodo di più


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attività illecite: ripulitura di denaro sporco, metodo di pagamento per forniture di materiale bellico e forma illegale di realizzazione di ingenti guadagni per ulteriori investimenti leciti ed illeciti.
Una conferma a quanto si è detto viene dall'abilità e dagli «importanti» legami che l'organizzazione criminale riesce a mantenere in diversi ambienti, leciti e illeciti. Le stesse modalità operative sono indicative in tal senso: l'operazione di smaltimento dei rifiuti è coperta da una «facciata» legale che risulta essere l'investimento nazionale ed internazionale per la realizzazione di unità industriali al fine del trattamento dei rifiuti, ottenuta con autorizzazioni avute anche tramite un'attività se non corruttiva quanto meno «compiacente» di esponenti legati al potere politico in Mozambico.
Va rimarcato come, purtroppo, ancora una volta le organizzazioni criminali abbiano individuato ormai da tempo le potenzialità (organizzative e finanziarie) di tale business illecito, anticipando e cogliendo impreparata la comunità internazionale. A fronte di un simile livello criminale e di forza economica - ogni nave carica di rifiuti porterebbe un guadagno di circa 10 miliardi di lire - è evidente che non è pensabile una risposta solo nazionale, ma è necessario un coordinamento internazionale delle forze di contrasto, come quello che si è ormai avviato per affrontare il fenomeno della criminalità organizzata. Non tanto, o non solo, per il traffico di rifiuti in quanto tale, ma per quello che tale traffico nasconde e che si è prima illustrato.

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