Le autonomie speciali nella transizione istituzionale:
problematiche attuali e prospettive future"

(Atti del convegno promosso dalla Commissione parlamentare per le questioni regionali e dal Consiglio regionale della Sardegna)

Cagliari, aula del Consiglio regionale
-  30 marzo 1999 -

__________________

Indice degli interventi


TARCISIO ANDREOLLI, componente della Commissione parlamentare per le questioni regionali
ROBERTO ANTONIONE, Presidente della Giunta regionale del Friuli-Venezia Giulia
KATIA BELLILLO, Ministro per gli affari regionali
SALVATORE BONESU, Consigliere della regione Sardegna
GIULIO CAMBER, componente della Commissione parlamentare per le questioni regionali
PIETRO CIARLO, Preside della Facoltà di giurisprudenza dell'Università di Cagliari
MARIO CRISTOFOLINI, Presidente del Consiglio della Provincia autonoma di Trento
GUIDO DONDEYNAZ, Vicepresidente della Commissione parlamentare per le questioni regionali
PIETRO FONTANINI, componente della Commissione parlamentare per le questioni regionali
DANIELE FRANZ, componente della Commissione parlamentare per le questioni regionali
MAURO LEVEGHI, Presidente del Consiglio regionale del Trentino-Alto Adige
ROBERTO LOUVIN, Presidente del Consiglio regionale Valle d'Aosta
ANTONIO MACCANICO, Presidente Commissione affari costituzionali della Camera dei deputati
ANTONIO MARTINI, Presidente del Consiglio regionale del Friuli-Venezia Giulia
GIOVANNI MELONI, deputato al Parlamento
LUIGI OLIVIERI, deputato al Parlamento
FEDERICO PALOMBA, Presidente della Regione Sardegna
MARIO PEPE, Presidente della Commissione parlamentare per le questioni regionali
ANDREA PUBUSA, Professore ordinario di diritto amministrativo presso la Facoltà di giurisprudenza dell'Università di Cagliari
GIAN MARIO SELIS, Presidente  del Consiglio regionale della Sardegna
GAETANO SILVESTRI, Rettore dell'Università di Messina
MASSIMO VILLONE, Presidente della Commissione affari costituzionali del Senato
CARLO WILLEIT, Consigliere regionale del Trentino-Alto Adige

____________________________

 

GIAN MARIO SELIS, Presidente del Consiglio regionale della Sardegna

A nome del Consiglio regionale porgo a tutti voi il saluto più cordiale. Mi auguro che la giornata di oggi sia una tappa importante in questo percorso di riflessione comune per dare e rilanciare nell'ambito della riforma federale dello Stato i problemi del regionalismo in generale e, per quello che ci riguarda oggi, i problemi della specialità. Credo che tutti voi abbiate, nelle vostre regioni, sperimentato forme diverse di insularità, di cultura, di storia che sono la base della nostra specialità. Pensiamo anche alle tensioni e alle difficoltà che questi giorni gli amici della Valle d'Aosta stanno vivendo.

L'iniziativa di oggi è significativa perché si inserisce in una ripresa del dibattito e della riflessione sulle riforme istituzionali, riportando in primo piano il tema della specialità che qualche volta abbiamo avuto la sensazione volesse essere esorcizzato. Esorcizzato da tendenze centralistiche, esorcizzato da un malinteso senso di concorrenza tra le regioni ordinarie e le speciali; esorcizzato anche o attaccato da sistemi ed organizzazioni degli enti locali. E` di qualche giorno fa il documento dell'Unione delle province che ci lascia molto perplessi. Abbiamo anche temuto che la fine della Bicamerale fosse la fine della riforma, e lo abbiamo temuto con senso quasi di preoccupazione, perché ci chiedevamo come mai questa, che dovrebbe essere la legislatura delle riforme, potesse registrare un fallimento così eclatante, potesse - in certi momenti così è parso - verificare ed accertare quasi un senso di rassegnazione o di resa da parte di tutte le forze politiche che avevano aperto la legislatura preannunciando da un lato l'ingresso in Europa, da un altro lato un accentuato processo di riforme. A noi era parso che i due obiettivi fondamentali fossero estremamente ed intimamente connessi, perché l'ingresso in Europa, che ha comportato sacrifici ingenti per il nostro paese, per tutte le categorie sociali di tutto il paese, è un obiettivo che non può essere conservato se lo Stato non riesce a riorganizzarsi e a riformarsi profondamente, perché la mancata riforma delle istituzioni dello Stato e delle sue articolazioni renderebbe praticamente impossibile una gestione delle risorse pubbliche da parte dello Stato, e quindi politiche di rigore e di sviluppo che sono essenziali per il mantenimento della posizione in Europa. Detto per inciso, c'è un terzo obiettivo che a tutti noi, o almeno ad alcuni di noi, sta particolarmente a cuore, ed anche questo condiziona, a nostro avviso, il panorama dell'Europa: è l'attivazione di politiche di sviluppo equilibrato e diffuso nel paese, quelle che vengono chiamate politiche di coesione. In altri momenti le abbiamo chiamate politiche di sviluppo meridionalistico; ora esse riguardano non solo il Mezzogiorno ma aree diffuse del paese e, a nostro avviso, un mancato perseguimento di politiche di coesione porterebbe lo Stato e le istituzioni ad affrontare in termini non efficienti il problema di queste aree, quindi con riflessi sul bilancio, quindi inevitabilmente sul nostro permanere in Europa. Come coordinatore della Conferenza dei presidenti dei consigli regionali, assumerò un'iniziativa per rilanciare il tema della coesione, non in termini meridionalistici, ma in termini più generali della coesione del paese perché l'articolo 119 non venga abrogato, ma riformulato in un'altra ottica.

La riapertura del dibattito che è avvenuta in questi ultimi tempi dà a tutti noi un elemento di fiducia, ma credo che sia doveroso anche un momento di prudenza, se non di pessimismo, non per un vezzo, ma perché questa prudenza deve spingere il movimento regionalista - utilizzando anche il sostegno degli organi parlamentari autorevoli, come oggi ci è venuto - ad essere protagonista attivo in questo processo di riforma. Infatti, noi riteniamo che una delle caratteristiche del processo di riforma in senso federalista debba essere una concezione federalista sul metodo e nel metodo, nel senso che noi riteniamo che le regioni debbano da subito essere coinvolte ed essere protagoniste. Il progetto del Governo è in qualche modo un punto positivo di partenza con luci e ombre. Tra le luci segnaliamo il nuovo ruolo che viene dato al sistema delle autonomie locali, al loro affiancarsi al sistema dei consigli regionali; tra le ombre, oltre al problema del Mezzogiorno, il rinvio della Camera federale, della Camera delle autonomie, che in qualche modo tende a mortificare complessivamente tutto il disegno. Da questo punto di vista, il problema delle autonomie va rivisto; le autonomie debbono essere protagoniste per divenire interlocutori attivi con il Governo e con il Parlamento, per rimettere in discussione e discutere l'impianto complessivo, per sottolineare ed essere soggetti di proposta e di stimolo perché quell'impianto, migliorato, arrivi ad una conclusione. Per quanto riguarda i consigli regionali, abbiamo proposto documenti sia sull'impianto generale della riforma, sia su temi specifici, come l'elezione diretta del presidente della giunta. Oggi speriamo di arrivare a mettere a fuoco almeno un elemento, un nucleo di documento sulla specialità, che, riprendendo le questioni, le elaborazioni, le proposte, le riflessioni, i punti di sintesi a cui arrivammo nei nostri incontri precedenti, sia un punto di iniziativa politica e nei prossimi giorni mi auguro che in altra sede, come la Conferenza dei presidenti dei consigli, dialogando con la Conferenza dei presidenti delle giunte, si possa varare un documento sui problemi della coesione, dello sviluppo integrato, diffuso ed equilibrato come obiettivo centrale dall'intero paese.

La specialità è uno dei temi più controversi. Abbiamo verificato anche all'interno dei vari organi di coordinamento delle regioni, dei consigli e delle giunte, momenti di ostilità provenienti sia da altre regioni, sia da tendenze centralistiche dello Stato e degli apparati statali, sia dal sistema degli enti locali. C'è un'ostilità e talvolta miopia nell'attacco alla specialità. Vogliamo ricordare non solo che la specialità ha fondamenti economici, sociali, culturali, storici, politici, di trattati internazionali, quindi ha una ricchezza di motivazioni e di radici che non può essere così liquidata, considerandola solamente superata. La specialità ha rafforzato il sistema delle autonomie ordinarie, ha trainato e sta trainando il dibattito verso forme più avanzate di autonomia, e ci auguriamo verso una riforma in senso federalista. La specialità non esclude e non ha escluso altre forme di diversità di autonomia, la specialità ha contribuito all'unità del paese nel momento in cui ha posto in primo piano l'esigenza che l'unità venisse costruita non sulla base di una indifferenziata omogeneità, ma riconoscendo le diverse radici storiche e culturali. Questi temi vanno ripresi e rilanciati con molta più forza.

La specialità ha dunque un senso e un valore per il più ampio processo di riforme che si è avviato, e ha un senso per l'intero paese. Allora se questo è vero, oltre a ribadire il principio, lo sforzo che noi dobbiamo fare in mattinata tende a trovare alcuni punti su cui concordiamo. Poniamoci l'obiettivo di trovare il "comune divisore" su cui concordiamo. Concordiamo, oltre che sulle affermazioni di principio, anche sul fatto che nella riforma costituzionale queste affermazioni di principio debbano essere ribadite e che quindi la specialità vada ampiamente costituzionalizzata, e che da questa costituzionalizzazione deve derivare il potere per le regioni a statuto speciale di assumere iniziative per la riforma dei propri statuti; deve derivare la facoltà di promuovere le modifiche e le riforme ai propri statuti, incidendo anche sui rapporti e sul riparto di competenza legislativa tra Stato e regione; deve derivare l'affermazione importante, per noi di principio, che sono estese alle regioni a statuto speciale le competenze che vengono conferite alle regioni a statuto ordinario, lasciando ad un tavolo di trattativa Stato-regione il problema delle risorse e delle condizioni per l'esercizio di queste competenze. Abbiamo necessità oltre che di affermare le ragioni della specialità, di individuare alcuni punti stabili che ci possono vedere uniti nel fare una battaglia per ribadire non solo il valore della specialità, non solo la valenza costituzionale, ma i suoi contenuti, così che si possa pervenire a varare un documento, una risoluzione, che possa essere poi la linea da seguire insieme nei rapporti con il Governo e soprattutto con il Parlamento.

FEDERICO PALOMBA, Presidente della Regione Sardegna

Porto il saluto del Governo regionale a questa iniziativa della Commissione parlamentare per le questioni regionali, che mi pare quanto mai importante in un momento nel quale si sta riprendendo il cammino interrotto con la fine della Bicamerale, riguardo alla riforma dello Stato in senso federalista. Abbiamo salutato con favore, all'interno della Conferenza dei presidenti delle regioni, il risveglio della volontà degli organi dello Stato di riprendere il cammino che era stato inopportunamente interrotto, perché tutte le regioni, ordinarie e speciali, credono fortemente che siano maturi i tempi per una profonda riforma dello Stato anche per quanto riguarda l'ordinamento delle regioni. Sono d'accordo le quindici regioni a statuto ordinario e sono d'accordo le regioni a statuto speciale, indipendentemente dai percorsi che ciascuna di esse ha fatto e indipendentemente dalle attese che ciascuna di esse proietta sulla riforma in senso federale dello Stato. Naturalmente sul progetto approvato dal Governo ci sono delle osservazioni da fare. E' importante il segnale politico forte della volontà di ripresa del cammino della riforma dello Stato. Noi ci ancoriamo a questa volontà e siamo contenti che la Commissione presieduta dal presidente Pepe, abbia deciso, di tenere viva questa aspirazione alla riforma per quanto riguarda in modo particolare gli ordinamenti regionali. Il regionalismo in Italia è stato una conquista dura da realizzare, è arrivato dopo una forte resistenza centralista. Oggi forse questa stessa resistenza centralista potrà comportare dei problemi sul piano della piena attuazione della riforma federale, ma la resistenza centralistica attuale è più negli apparati che in chi esprime la volontà politica delle istituzioni costituzionali (del Parlamento, del Governo). La vedo più come è stata, d'altra parte, in passato: una resistenza allocata nei centri di decisione burocratica, i quali hanno sempre ostacolato o reso comunque difficile il cammino verso il regionalismo e la piena attuazione delle autonomie. D'altra parte non è un mistero che anche a livello di Unione europea si parli dello stesso fenomeno e si indichi la necessità di vigilare affinchè non si riproduca anche a livello europeo il centralismo degli Stati a scapito dell'Europa delle regioni. Il problema importante per le regioni speciali è di non perdere il riconoscimento delle peculiarità, delle ragioni storiche, politiche, economiche, culturali che hanno determinato le specialità. Ciò non tanto perché siamo affezionati a qualcosa che ci ha dato qualche vantaggio in termini economici, quanto perché esse rappresentano tuttora, e sempre di più rappresenteranno, il sentimento delle identità regionali, che è perfettamente conciliabile con l'unità dello Stato ed è perfettamente conciliabile con il processo di costruzione dell'Unione europea. Valorizzazione delle specialità significa arricchimento dell'unità, non depotenziamento dell'unità. Noi siamo fermamente convinti che le nostre specialità debbano essere salvaguardate e per esse siamo disposti a fare una tenace battaglia politica con i mezzi democratici e siamo convinti che forse possiamo negoziare spazi ulteriori di specialità, ma nello stesso tempo non crediamo che il mantenimento della nostra specialità debba avvenire a scapito del raggiungimento di altre forme di specialità da parte di altre regioni. Nel momento nel quale noi siamo convinti che ci sia e ci possa essere una negoziazione da svolgere a livello di identità regionale, di identità di singoli popoli regionali con lo Stato per avere un'affermazione delle proprie specificità, saremmo contraddittori se negassimo ad altri popoli regionali uguale diritto a negoziare forme di specialità. Ecco dove vi sono gli elementi di confluenza, ecco dove il regionalismo diventa davvero federalismo. E il federalismo non può essere un federalismo parziale, ma deve essere un federalismo complessivo. Naturalmente le regioni speciali, sotto il profilo della identità, sono tutte concordi nel fatto che bisogna non solo mantenerla, ma potenziarla; sotto il profilo però delle condizioni economiche dobbiamo dire che non siamo tutte nelle stesse condizioni. Ed allora la battaglia per le specialità si salda con altre battaglie che le speciali faranno con altre alleanze, con altre regioni perché il federalismo sia contemporaneamente e contestualmente un federalismo solidale. Il percorso di conquista dell'identità non può avvenire a scapito del percorso della solidarietà, che oggi significa coesione economica e sociale. Questa grande alleanza tra regioni per conquistare forme mature ed avanzate di federalismo deve contestualmente riguardare l'alleanza tra tutte le regioni per lo sviluppo di una forte coesione economica e sociale. Questa sarà la riforma federale, se non sarà così non sarà una vera riforma. Noi confidiamo che, anche attraverso questo incontro che il presidente Pepe ha intensamente voluto e preparato, le massime istituzioni dello Stato non solo siano favorevoli a questo progetto di riforma federale, ma vigilino perché esso si indirizzi nel senso della diffusione delle identità e nel senso del rispetto della solidarietà.

 

MARIO PEPE, Presidente della Commissione parlamentare per le questioni regionali

A mio avviso, la categoria della specialità dovrebbe essere incanalata e definita secondo principi non solo giuridico-ordinamentali, ma soprattutto culturali e civili. Ritengo che da questo nostro incontro e dagli interventi che faranno i colleghi parlamentari, i presidenti e le rappresentanze delle regioni, dovranno emergere gli elementi fondamentali per intercettare e incrociare le volontà del Governo nazionale al fine di pervenire al più presto al riordino in senso federale dell'ordinamento, per farne un vero Stato delle autonomie. All'interno di questo quadro noi non possiamo banalizzare la specialità, che può essere una conquista per le altre regioni, ma non deve risultare un depotenziamento per le regioni a statuto speciale.

 

GAETANO SILVESTRI, Rettore dell'Università di Messina

La maggior parte dei commenti recenti sui progetti di riforma costituzionale, primo tra tutti quello della Commissione D'Alema, dedica poco spazio al tema dell'autonomia regionale differenziata. A parte una minoranza di politici e studiosi che apertamente dichiarano di considerare superata la distinzione tra regione di diritto comune e regione a statuto speciale, il tratto comune delle opinioni non sfavorevoli al mantenimento della differenziazione, è una sorta di ineluttabilità della stessa, ormai corroborata da una prassi di molti decenni, tale da farci trovare di fronte ad una realtà difficile da cancellare senza andare incontro a complicazioni politiche e conflitti voluti da nessuno e comunque evitabili con poco sforzo. Non è emersa una posizione fortemente avversa, ma piuttosto una posizione maggioritaria di stanca accettazione. Già in anni lontani la dottrina costituzionalistica faceva notare la difficoltà di mantenere una distinzione che, secondo alcuni, vedeva assottigliarsi talune basi storiche della sua nascita e sopravviveva con difficoltà rispetto al rullo compressore di una legislazione nazionale avallata in gran parte dalla giurisprudenza della Corte costituzionale tendente a sovrapporre il limite dei principi fondamentali stabiliti dalla legge dello Stato al limite, proprio delle regioni a statuto speciale, delle norme fondamentali delle riforme economico-sociali. E` nato lì l'appiattimento dei due tipi di regione. L'alternativa veniva vista e viene vista, nel dibattito costituzionalistico, nel superamento puro e semplice della doppia tipologia di regioni nel nostro ordinamento, nel reperimento di ragioni fondanti, nuove o quanto meno aggiornate, della vecchia specialità ormai sfocata, si dice, in molte regioni. Gli stessi titoli di molti contributi dottrinali recenti e meno recenti sono indicativi del disagio di ritenere ancora valide giustificazioni del regime differenziato ormai ritenute irrimediabilmente datate; l'espressione maggiormente usata in questi titoli è "nuova specialità". A ben riflettere, tuttavia, sembra un po' affrettato concludere per una sparizione delle ragioni fondative della specialità dall'orizzonte attuale del sistema autonomistico italiano: per tale motivo sono particolarmente lieto di partecipare a questo convegno, e sono convinto che queste liquidazioni siano superficiali ed affrettate. La difesa delle forme e condizioni particolari di autonomia di talune regioni non può affidarsi ad argomenti puramente retorici o di mero prestigio. Molti si appellano ad argomenti di questo genere. Occorre invece una riflessione seria sulle diversità oggettive che giustificano un differente regime istituzionale e giuridico in applicazione del principio di uguaglianza, che tollera differenze di trattamento solo in presenza di situazioni realmente eterogenee, dalle quali si possa dedurre la necessità di ordinamenti speciali sorretti o dall'esigenza di assicurare il pari soddisfacimento di bisogni e diritti fondamentali o dalla finalità di apprestare strumenti più adatti per funzioni specifiche non comuni alle altre regioni. Ordinariamente le ragioni giustificative della specialità sono riassunte in peculiarità di carattere storico, linguistico, etnico, culturale, socio-economico, geografico e insulare, nonché in esigenze di tutela delle minoranze, di rispetto di accordi internazionali. Mi sembra ineccepibile questa elencazione delle ragioni fondative della specialità, ma vi sono ragioni storiche contingenti e ragioni storiche permanenti. Spesso nel dibattito c'è stata una confusione tra questi due diversi livelli concettuali. Le ragioni storiche contingenti che hanno dato luogo alla specialità sono inevitabilmente dietro le nostre spalle. Vi sono poi ragioni storiche permanenti sulle quali ancora oggi la specialità può trovare valido fondamento. Le ragioni storiche contingenti della specialità, pur assumendo contorni diversi per le singole regioni, si possono riassumere nel valore fondamentale della tutela dell'unità nazionale di fronte a pulsioni disgregative di varia natura, aventi origine nella storia particolare delle diverse comunità regionali, si pensi al separatismo siciliano, in misura molto minore a quello sardo, alla richiesta di tutela forte della popolazione di lingua tedesca del Sud Tirolo. L'esistenza di movimenti politici ispirati alle ideologie etnocentriche, che agitano periodicamente obiettivi secessionistici in un contesto storico e culturale caratterizzato dalle eclissi progressive dello Stato-nazione, ci dimostra che le spinte centrifughe trovano oggi nuovo alimento ma non provengono dalle regioni in cui esse si manifestavano nel dopoguerra. Come per il separatismo siciliano di cinquanta anni addietro, le cause della disaffezione o dell'aperta ostilità verso lo Stato nazionale scaturiscono dall'insoddisfazione per il modo in cui quest'ultimo ha corrisposto alle aspettative di tutela delle popolazioni. Nell'uno e nell'altro caso viene denunciata una ingiustizia storica: nella Sardegna e nella Sicilia degli anni '40, anche se con diverse accentuazioni di intensità, questa è la motivazione della rivendicazione di condizioni particolari come riparazione dell'ingiustizia del sottosviluppo e della miseria attribuiti ad una classe dirigente e politica ed amministrativa attenta soltanto alle esigenze della grande industria del nord; nella Lombardia e nel Veneto degli anni '90 la motivazione storica contingente viene ritrovata nella depredazione di risorse del nord sviluppato e laborioso e nel malgoverno di una classe dirigente politica ed amministrativa attenta alla captazione clientelare del consenso al sud. Il pericolo per l'unità nazionale non è quindi scomparso del tutto, anzi è aumentato. Esso genera inquietudine, come dimostrano tardive ed estese conversioni al federalismo, considerato da taluni riduttivamente un antidoto al secessionismo, così come le autonomie speciali furono ritenute, riduttivamente, mezzo secolo addietro, una risposta al separatismo concretizzatasi con statuti speciali, come quello siciliano o sardo, nei quali la maggiore o minore portata autonomistica nei confronti delle istituzioni dello Stato nazionale era frutto della maggiore o minore intensità dei rispettivi movimenti separatistici. Queste considerazioni ci portano però direttamente a riconoscere che, se il rischio di frantumazione dell'unità nazionale non è definitivamente sparito dal nostro orizzonte storico-politico, esso non trova risposta soddisfacente nell'attuale dislocazione della specialità. giacché si manifesta in territori in parte diversi da quelli in cui si manifestò agli albori dell'attuale ordinamento costituzionale. Il rifiuto della primazia dello Stato nazionale o la rivendicazione di una legittimazione istituzionale originaria delle comunità locali, affondano le loro radici in una cultura autonomistica di antica ed illustre provenienza (basti fare tre nomi per tutti: Sturzo, Salvemini, Spinelli), ma certamente minoritaria nella storia d'Italia degli ultimi cento anni, che ha trovato oggi nuova linfa e sostegno per il sopravvenire di una protesta sociale contro il malgoverno e l'inefficienza dei servizi pubblici. Il prodotto politico di questo stato d'animo è certamente simile a quello del vecchio separatismo incoraggiato da forze esterne, come tutti i separatismi, ma la sua caratteristica è una sua potenziale presenza in quasi tutte le regioni.
La conseguenza istituzionale è il riadattamento della nozione di specialità, legata originariamente alla eccezionalità di situazioni specifiche, ad un normale spiegamento pluralistico delle peculiarità delle singole regioni una volta rovesciato il rapporto di legittimazione, che non corre più dall'alto verso il basso, ma parte dalle comunità territoriali per conferire allo Stato centrale quelle sole funzioni che possano garantire la coesione nazionale essenziale.
Se non è lo Stato che crea le regioni, ma sono le comunità territoriali che creano esse stesse governi locali e sostengono il loro Stato nazionale come soggetto unificatore delle diversità, la conseguenza non può non essere la teorizzazione di una specialità diffusa, naturale corollario di una negoziazione orizzontale paritaria tra le singole regioni e lo Stato. Né questo può mettere in allarme le attuali regioni speciali, perché la loro specialità non significa necessaria diversità rispetto alle altre regioni, ma riconoscimento della propria peculiare identità che può anche avvenire a favore di altre regioni in un momento successivo. Non credo che oggi le regioni a statuto speciale dicano: "Ciò che noi abbiamo non deve essere dato ad altri", ma che dicano: "Ciò che noi abbiamo non ci deve essere tolto, e se viene dato ad altri è meglio". La relazione D'Onofrio, presentata il 22 maggio 1997 al Comitato sulla forma di Stato della Commissione Bicamerale, ipotizzava un regionalismo a geometria variabile di ispirazione spagnola. Si parlò con qualche approssimazione di "modello catalano"; preferisco lasciare da parte questa modellistica perché spesso è imprecisa e di circostanza. Il progetto era fondato sulla costituzionalizzazione di tutti gli statuti regionali che con questo mezzo avrebbero potuto assicurare a tutte le regioni in esito a specifiche trattative dello Stato quelle forme e condizioni particolari di autonomia riservate dall'articolo 116 della Costituzione vigente soltanto alle regioni in esso indicate. Un precedente in questo senso era un progetto elaborato anni addietro da un gruppo di studiosi per conto della regione Lombardia. L'importanza di questa proposta consiste nel segnare il punto di arrivo di un percorso storico-concettuale che ha visto originariamente l'ingresso di elementi di federalismo nell'ordinamento accentrato dello Stato italiano per mezzo di alcuni statuti speciali destinati, allora, a disciplinare regioni marginali, con problematiche peculiari ed eccentriche rispetto alla maggioranza delle comunità territoriali italiane. Chiunque guardi lo statuto siciliano e lo confronti con il modello costituzionale prevalso poi nell'Assemblea costituente e trasfusa nella Costituzione del '48, si rende conto di una eterogeneità: lo statuto siciliano è basato sulla negoziazione paritaria, sul patto paritario tra regione e Stato, mentre il modello presente nella Costituzione italiano è di tipo diverso, è il modello autonomistico spagnolo che Ambrosini studiò negli anni '30 e che fu in parte riversato nella cultura dei costituenti. Però quegli elementi di federalismo che sono tipici degli statuti speciali, a cominciare dal proto-statuto speciale (quello appunto della Sicilia), sono rimasti dentro l'ordinamento italiano attraverso queste autonomie speciali.
La seconda tappa è segnata dalla diversa sorte della specialità regionale, che ha trovato sviluppo adeguato solo in relazione alla tutela delle minoranze linguistiche, rigoglioso sviluppo dove c'è stato questo fattore, mentre, ahimè, io parlo soprattutto per la mia Sicilia, è progressivamente deperita nelle regioni dove tale esigenza non sussiste.
La terza tappa ipotizzata nella proposta D'Onofrio è la generalizzazione della specialità insita nell'idea federalistica. Nell'idea federalista sta la generalizzazione della specialità, se si parla di federalismo con qualche senso, se non si usa questa espressione come passe-partout del fallimento del modello, ma come risultato compromissorio adottato nella Costituzione del '48, modello che già era compromissorio e che venne svuotato dalla prassi neocentralistica sostenuta da un sistema politico fortemente omologato. Si potrebbe dire che un seme sepolto per decenni dentro un terreno ghiacciato è germogliato quando si sono presentate condizioni favorevoli, in particolare quando la ferrea presa del sistema partitico si è allentata consentendo la liberazione di energie a lungo represse e la ricomparsa di idee e concezioni dello Stato, quella cultura minoritaria dell'autonomismo di cui parlavo prima, che sembravano definitivamente marginalizzate se non del tutto scomparse. Sommersa da un diluvio di critiche, la proposta D'Onofrio sparisce per un certo periodo per ricomparire nel testo licenziato dalla Bicamerale il 4 novembre 1997 in seguito all'approvazione di specifici emendamenti, con una importante differenza rispetto alla proposta originaria: le forme particolari di autonomia non sono elemento coessenziale di tutte le regioni, ma solo di quelle cui vengano successivamente riconosciute da apposita legge costituzionale in aggiunta alle regioni speciali storiche. Questa soluzione avrebbe il vantaggio di non pretendere costituito uno actu il nuovo sistema regionale di impronta federalistica, ma di limitarsi realisticamente ad aprire una strada nella consapevolezza che il federalismo, come tutta la Costituzione del resto, non è atto ma processo, che si sviluppo man mano che si determinano le condizioni storico-politiche più favorevoli. Pretendere che il nuovo sistema federalistico, o di autonomismo forte - ho già detto che non sono molto affezionato a questa diatriba di carattere terminologico - esca dalla penna dei riformatori come Minerva dalla testa di Giove potrebbe essere peccato di illuminismo istituzionale. Ahimè pochi, negli ultimi anni, sono rimasti immuni da questa tentazione nella fallace convinzione che sia sufficiente sfornare un modello costruito a tavolino per avere strumenti validi per il governo delle istituzioni. Non bisogna nascondere i risvolti negativi di questa soluzione soprattutto di natura pratica: l'implementazione progressiva delle autonomie regionali implicherebbe la permanenza degli apparati centrali fino a quando l'ultima delle regioni non fosse pronta ad acquisire il massimo delle competenze, con inevitabili duplicazioni e complicazioni. Se però si riuscisse a coniugare l'allargamento graduale della specialità con una corretta attuazione del principio di sussidiarietà (altro termine che rischia di diventare un passe-partout), la devoluzione verso gli enti più vicini alle comunità amministrate della gran massa delle attribuzioni amministrative, attuata a costituzione invariata dalle leggi Bassanini, sposterebbe la questione della specialità dal piano quantitativo a quello qualitativo, dalla disponibilità dei mezzi tecnici e burocratici alla capacità di elaborare ed attuare indirizzi autonomi non basati su velleità programmatorie estemporanee, ma sulla reale padronanza di nuovi campi di intervento. Questa processualità potrebbe anche riguardare il modo in cui viene attuato il trasferimento di queste competenze, rivedendo l'attuale sistema delle commissioni paritetiche. Ho fatto parte di una commissione paritetica: non penso che sia il sistema migliore. Bisogna trovare un sistema più efficiente perché quello attuale ha dimostrato soltanto che è capace di frenare lo sviluppo delle autonomie speciali e non di accelerarlo.
La dottrina costituzionalistica è sempre più concorde che la differenziazione delle autonomie sia che riguardi le attuali regioni speciali, sia che debba estendersi ad altre regioni che si specializzano, non può imperniarsi soltanto sul differente grado di autonomia legislativa, ciò sia per la sostanziale parificazione dei limiti alle due distinte potestà legislative verificatasi nella prassi e con il conforto della giurisprudenza della Corte costituzionale, sia per le nuove formulazioni riformatrici. Queste ultime infatti - nel prevedere il rovesciamento del criterio di riparto delle competenze legislative attualmente adottato dall'articolo 117 della Costituzione - delineano una competenza esclusiva dello Stato in una serie di materie tassativamente enumerate e la spettanza allo stesso di determinare con legge la disciplina generale in altre materie anch'esse tassativamente indicate, nelle quali si può esplicare la potestà legislativa regionale. In questo senso si possono vedere l'articolo 58 dell'ultimo progetto della Bicamerale e l'articolo 5 del disegno di legge recentemente approvato dal Consiglio dei Ministri, che differiscono tra loro quanto alle materie contenute nel primo e nel secondo elenco, ma coincidono nel criterio.
Si apre il problema, ne accenno rapidamente, della revisione degli statuti speciali. Sono state presentate varie proposte dai vari consigli regionali. Una regione è tale e ha autonomia, ha quella che veniva chiamata la potestas condendi statuti. Se viene tolta ad una regione la potestas condendi statuti viene tolta l'autonomia, cioè viene tolta l'essenza dell'autonomia; quindi si potrà vedere la modalità di approvazione di questo statuto, che tipo di legge costituzionale deve essere. La situazione attuale, che vede le ragioni speciali prive di questa potestas condenti statuti (la legge costituzionale è di intero dominio del Parlamento nazionale) va modificata. La misura in cui va modificata è legata al reperimento di criteri ragionevoli ed equivalenti, quantunque la mancanza di questa potestà primaria rende l'autonomia regionale quanto meno problematica.
E` facile prevedere che l'eventuale coesistenza tra limiti diversi contenuti negli statuti speciali (limiti delle riforme economico-sociali e limiti derivanti dalla disciplina generale dettata dalla legge dello Stato) si risolverebbe nella confusione delle due differenti figure con risultati simili a quelli che conosciamo. Del resto non si potrebbe ipotizzare l'assenza in talune materie di una disciplina generale di principio valida per tutto il territorio nazionale. Si pensi per riferirsi soltanto al progetto più recente, cioè quello del Consiglio dei ministri, ai rapporti internazionali con l'Unione europea dello Stato e delle Regioni, al commercio con l'estero, alla sicurezza e tutela del lavoro, all'istruzione, alle professioni. E` impensabile che non ci sia una normativa nazionale di principio su argomenti in materia di questo tipo.
Non mi sembra che questo campo sia divenuto irreparabilmente arido. La specialità potrebbe articolarsi nella diversa formulazione dei due elenchi con passaggio di alcune materie dalla competenza esclusiva dello Stato alla competenza concorrente, come del resto avviene tra l'ultimo progetto della Bicamerale e il progetto del Consiglio dei ministri, a dimostrazione che vi sono materie che non necessariamente debbono essere di competenza esclusiva statale, o di competenza statale quanto a principi, tanto è vero che a distanza di poco tempo ci sono due progetti, entrambi autorevolissimi, che hanno elencazioni differenti.
L'obiezione che l'inclusione di una materia tra quelle di competenza statale esclusiva implicherebbe necessariamente la sua indivisibilità normativa e pertanto non si potrebbe ipotizzare una sua contemporanea presenza in un elenco di materie suscettibili di disciplina congiunta di Stato e regione, non mi sembra decisiva. L'esigenza unitaria può essere soddisfatta sia con la riserva esclusiva di competenza allo Stato, sia con la riserva della disciplina generale. La scelta tra le due possibilità potrebbe essere il frutto del bilanciamento tra irrinunciabili interessi nazionali da salvaguardare e quantum di autonomia riconosciuta alle singole regioni ed è proprio il diverso tipo di bilanciamento che potrebbe in ipotesi fare la specialità.
La scomparsa dell'attuale potestà legislativa esclusiva - qui esprimo un mio punto di vista - connotata dalla diversità del limite, dovrebbe essere accettata senza rimpianti. Poco poteva dare in partenza, ancora meno ha dato nella prassi.
A questo punto si erge l'obiezione della difficoltà obiettiva di legiferare soltanto in generale e per principi, acuita dalla tendenza del Parlamento italiano a produrre regolamentazioni molto dettagliate delle fattispecie. Con grande lungimiranza Luigi Sturzo, già nel 1947, prevedeva l'estrema difficoltà di emanare le leggi generali che lui chiamava "scheletriche". Leggere oggi quel brano di Sturzo fa un grande effetto, perché lui si riferisce al Parlamento nel 1947 e sembra che parli del Parlamento del 1999. Alla critica di Sturzo si potrebbe replicare che l'inconveniente grave da lui additato non potrebbe verificarsi se il Parlamento nazionale si avviasse ad un vero bicameralismo di stampo federalistico, quel bicameralismo che Sturzo lamentava non fosse stato realizzato con una vera Camera delle regioni. Finchè non si avrà la chiara consapevolezza che questo è il punto archimedico della riforma, si continueranno a produrre meccanismi diversi, ma tutti destinati a infrangersi sulla irrefrenabile tendenza del legislatore nazionale ad invadere gli spazi astrattamente riservate alle regioni, né potrebbe essere sufficiente l'opera arbitrale del giudice delle leggi, della Corte costituzionale, anche se questa Corte fosse dotata di una composizione regionalizzata. Perché il problema non è tanto quello della composizione della Corte, ma è piuttosto quello che l'intervento a posteriori della Corte dovrebbe avere carattere eccezionale e riparatorio e non potrebbe mai surrogare la configurazione federalistica del processo di produzione legislativa.
La traslazione della qualità delle competenze delle regioni a statuto speciale acquisterebbe particolare significato con riferimento ai rapporti internazionali. In questo campo il riconoscimento di una piccola personalità internazionale alle regioni speciali attuali - che presentano tutte la caratteristica di collocarsi in posizioni che potrebbero essere di frontiera - potrebbe andare al di là delle attività promozionali o di rilievo internazionale esercitabili oggi da tutte le regioni e richiedenti la previa intesa con il governo nazionale o il previo assenso del medesimo. Sia il progetto della Bicamerale (articolo 61), che il recente progetto approvato dal Consiglio dei ministri (articolo 8), riconoscono a tutte le regioni la potestà di concludere accordi nelle materie di propria competenza, previo assenso del Governo. Nel progetto della Bicamerale era prevista la possibilità che tale assenso fosse tacito, mentre nel testo del Governo si rimanda a una futura legge dello Stato. Mentre l'articolo 61 del progetto della Bicamerale prevede che forme e modi degli accordi con gli altri Stati e con enti territoriali interni ad altro Stato sono disciplinati con legge regionale, il progetto del Governo riconduce alla normativa statale unitaria la disciplina dei casi e delle forme con cui tali accordi possono essere conclusi. Se tale disciplina più restrittiva dovesse apparire più accettabile, per evitare una frammentazione di modalità e di casi di possibili accordi con soggetti esterni alla Repubblica italiana, questa sarebbe la soluzione più realistica. La specialità in questo campo si potrebbe desumere dalla misura dei casi e dalla configurazione delle modalità, oltre che dalla diversa estensione della sfera materiale degli accordi, a causa di possibili transiti di singole materie dall'elenco di quelle riservate in toto allo Stato all'elenco di quelle di competenza regionale ripartite.
Se teniamo conto che anche altre regioni possono diventare speciali, vediamo come il disegno del diverso trattamento delle regioni di frontiera possa essere utilmente completato, penso al Piemonte, alla Lombardia, al Veneto, perché no, alla Puglia oggi nella nuova situazione geo-politica mondiale. In tal caso una "normazione" più ampia ed incisiva sulla cooperazione internazionale, che ha bisogno di ulteriori implementazioni, potrebbe trovare idonea copertura costituzionale, non generica, ma mirata alle diverse esigenze delle singole situazioni di confine, anche in rapporto alla necessaria consonanza con differenziati ordinamenti giuridici di altri paesi confinanti o vicini.
In questa prospettiva appare interessante l'articolo 19, comma 2 del progetto recente del Governo, che prevede una sorta di specialità decostituzionalizzata, acquisibile da parte delle regioni a statuto ordinario, con legge dello Stato, ad iniziativa riservata alla regione interessata, approvata sulla base di intesa con la medesima regione, a maggioranza assoluta dei componenti delle Camere e sottoposta a referendum limitato ai cittadini elettori della regione stessa. Penso che questa norma accentui la preferenza verso l'idea del federalismo come processo e non come atto. L'approvazione di una carta costituzionale non è che l'inizio di un cammino autonomistico, che vedrà momenti di accelerazione e momenti di stasi, in un fieri continuo caratterizzato dalla flessibilità degli strumenti. Bisognerebbe specificare meglio - nel testo attuale non è specificato a sufficienza - che anche le regioni speciali con statuto costituzionalizzato, come quelle attualmente esistenti, possono modulare le proprie condizioni particolari di autonomia, in modo diversificato rispetto al modello, avvalendosi di quest'ultimo strumento, più maneggevole della legge costituzionale e che soprattutto dà questa iniziativa riservata.
Parimenti possibile è la trasformazione di regioni di diritto comune in regioni speciali, mediante leggi costituzionali, giacché la mancata previsione nel testo della Costituzione di questa eventualità, non preclude certo ad una successiva fonte di rango costituzionale l'allungamento della lista contenuta nell'articolo 116. Si intravvede una scala di autonomie, derivante dall'applicazione del principio di sussidiarietà in una prospettiva diacronica. La sussidiarietà non è soltanto qualcosa che si afferma riguardo alla distribuzione delle sfere di competenza, ma alla distribuzione nel tempo del diverso atteggiarsi delle sfere di competenza, quindi non solo una prospettiva sincronica, ma anche una prospettiva diacronica del principio di sussidiarietà. Cooperazione e competitività troverebbero entrambe spazio per esplicarsi; la prima per il superamento di una ripartizione rigida di competenze che dovrebbe scaturire dalla riserva allo Stato di un numero minimo di materie, lasciando alla disciplina concorrente di un parlamento federalizzato e delle regioni la maggior parte dei campi di intervento legislativo; la seconda per il dispiegarsi delle iniziative delle singole regioni verso forme più avanzate di autonomia, da sperimentarsi, ad esempio, nei campi dell'amministrazione vista come struttura, ma soprattutto come funzione.
Dalla distribuzione perequativa delle risorse finanziarie non possono trarre privilegio solo le attuali regioni a statuto speciale (che non detengono il monopolio del sottosviluppo). Il federalismo fiscale, temperato dall'applicazione del principio di solidarietà, trova il suo naturale terreno di esplicazione nella specialità regionale, ma nel senso di forgiare strumenti utili a mirare gli interventi perequativi sui bisogni emergenti e dimostrati, tenuto conto anche del modo in cui le funzioni regionali sono state esercitate.
Al di fuori di un quadro di risorse proprie delle regioni non dovrebbero trovare posto rimborsi a piè di lista o elargizioni incondizionate, ma solo trasferimenti per garantire l'instaurazione di condizioni di vita equivalenti, secondo la felice formula dell'articolo 72 della Costituzione tedesca che mutuerei semplicemente in quella italiana, senza invece tutte le modificazioni che sono state fatte.
Qualunque sfera di competenza può assumere caratteri di specialità, non solo e non tanto per la differenziazione normativa, che spesso non è necessaria e talvolta risulta addirittura dannosa, quanto per un modo peculiare di esercitare le medesime funzioni.
Un momento fa dicevo che la proiezione diacronica della sussidiarietà conferisce contorni più definiti all'affermazione fatta qualche anno addietro da Livio Paladin che la specialità bisogna meritarsela; attraverso il migliore esercizio delle proprie funzioni legislative e amministrative nei singoli settori sarà possibile, di fronte ad un Parlamento non pregiudizialmente centralista, quindi configurato diversamente da quello attuale, dimostrare la propria idoneità ad avere maggiori potenzialità di governo; anche dalla capacità di avanzare sul terreno della specialità ciascuna collettività regionale potrà giudicare i propri governanti, e dare così un significato concreto alla corrispondenza tra potere e responsabilità proprie di tutti gli ordinamenti che vogliono dirsi democratici.

MARIO PEPE, Presidente della Commissione parlamentare per le questioni regionali

Ringraziamo il prof. Silvestri per l'ottima, documentata e ricca relazione; do la parola al Prof. Villone, Presidente della Commissione Affari Costituzionali del Senato, dopo di lui al Presidente Maccanico, chiuderemo la prima fase dei lavori con il Ministro Bellillo.

 

MASSIMO VILLONE, Presidente della Commissione affari costituzionali del Senato

Ringrazio per l'invito a partecipare ai lavori di stamattina, in un convegno che certamente coglie una nuova partenza del dibattito sulle riforme. Il tema delle autonomie speciali è tornato all'attenzione sotto due profili, sia perché le regioni attualmente speciali vogliono mantenere la propria specialità, sia perché le altre, quelle ordinarie, chiedono una specialità. Una parte significativa del confronto, in questo momento, ruota intorno al concetto di specialità, tanto che si arriva all'ipotesi di una specialità diffusiva, come diceva adesso anche l'amico e collega Silvestri, che è un po' un paradosso in sé, perché la specialità è tale rispetto a qualcosa e pertanto, se tutti i termini del confronto sono "speciali", la nozione stessa di specialità è improponibile. Questo è un punto sul quale riflettere, giacché dovremmo evitare di arrivare ad una conseguenza ultima per la quale rimane la parola ma non rimane la sostanza della specialità, salvo i casi abbastanza ovvi delle minoranze etniche e linguistiche e fattispecie di questo genere. Siamo arrivati nel dibattito ultimo, anche in Commissione Bicamerale, ad una configurazione in cui l'autonomia "ordinaria" era sicuramente maggiore dell'autonomia speciale, tant'è vero che ci dovemmo porre il problema di particolari e agevolate procedure che consentissero alle regioni speciali di acquisire rapidamente gli stessi livelli di autonomia che si venivano ad attribuire alle regioni ordinarie, quindi con un palese capovolgimento dello schema di partenza.
Anche ora, con la proposta che già approvata dalla Camera dell'elezione diretta del presidente delle regioni, noi abbiamo uno schema che dà alle regioni "ordinarie" di più, a mio modo di vedere, che non il modello dell'autonomia speciale, perché abbiamo una norma che prevede per il 2000 una modalità specifica, ma che per il dopo rinvia completamente all'autonomia statutaria, quindi dando assoluta pienezza a quella potestas condendi statuta che Gaetano Silvestri richiamava, a proposito dello statuto, come uno dei cardini effettivi dell'autonomia.
Quindi bisogna riflettere perché in effetti bisogna poi vedere, al di là della terminologia, dove si trova veramente uno spazio di diversità, perché l'autonomia speciale, se ha un senso, lo ha come domanda di diversità. Se è una diversità nell'esercizio delle funzioni, come adesso diceva Silvestri, non credo che ci sia alcun problema perché questa è sempre possibile, ma se questa diversità deve essere nella definizione del modello normativo, e in particolare della definizione delle competenze, allora sorgono complicazioni, perché se partiamo dalla premessa che, per esempio sulle competenze legislative, lo Stato deve fare soltanto quello che è strettamente funzionale alla coesione, al carattere nazionale del soggetto Stato, non rimane molto. Lo spostamento tra gli elenchi, cui faceva riferimento Silvestri, può anche esserci, ma sarà sicuramente marginale, non avendosi punti significativi sui quali esercitare questa diversità.
Credo che dalla relazione di Silvestri emerga fondamentalmente la sensazione che mentre la distanza tra modello speciale e modello ordinario nella Costituzione era significativa, essa ha poi avuto carattere recessivo, come certamente è stato in particolare per la Sicilia. Più si va verso uno schema autenticamente federale, in cui per definizione lo Stato svolge solo poche,
indispensabili ed essenziali funzioni, tanto meno c'è spazio per la diversità.
E' evidente. Se noi diciamo: "Lo Stato fa solo quello che necessariamente deve fare", allora tutto il resto è diversità, ma è una diversità ordinaria, non c'è radicamento vero per una definizione costituzionale e quindi rigidamente garantita. Questo concetto va compreso, perché se non lo capiamo, non cogliamo il vero rischio che sta in tutto il discorso della specialità. Torniamo un attimo indietro: la specialità come diversità. Gaetano Silvestri ha fatto uno dei richiami forse più significativi sui quali bisognerebbe riflettere, cioè la specialità sotto il profilo delle risorse. Da questo punto di vista, se è difesa della specialità, oggi per le regioni speciali ciò significa difesa dei regimi particolari per quanto riguarda le risorse, e se è domanda di specialità per le regioni ordinarie, ciò significa domanda di regimi particolari sulle risorse. Non voglio usare la parola "privilegio", ma comunque il senso è lo stesso. Siamo proiettati verso un modello che non si tiene né per il carico che pone sulla finanza pubblica, né per la tenuta politica del sistema. Più si va verso schemi federali veri, meno sarà accettato il regime differenziato sulle risorse, lo diceva Gaetano Silvestri. La domanda sarà: perché introdurre il regime differenziato sulle risorse, nel momento in cui a tutti si chiede autosufficienza, responsabilità, autonomia finanziaria?
Questo è un punto che rischia di collassare il sistema se non viene trattato con la massima attenzione sia da parte delle attuali regioni a statuto speciale, che non possono pensare che un'attenzione veramente federalistica non porti alla fine a una rivisitazione anche di questi temi, sia da parte delle regioni ordinarie che chiedono l'accesso ad una specialità.
Quindi il primo problema politicamente delicatissimo verte sulle risorse, in particolare poi sotto un profilo che ha importanza decisiva: solidarietà e perequazione.
Il nostro federalismo, se nasce e se vive, nasce in un contesto in cui solidarietà e perequazione sono garantite, perché noi abbiamo una sperequazione fortissima tra territori, come tutti sappiamo, nel livello di ricchezza, un dislivello intollerante per molti versi.
La domanda è: quale modello di solidarietà e perequazione efficace sopravvive ad una specialità diffusa? Personalmente ritengo che solidarietà e perequazione non vivano come momenti di contrattazione orizzontali e tra regioni; io non metto il destino di parti del Paese in mano a chi ha perché conceda graziosamente a chi non ha. Per me solidarietà e perequazione sono momenti di decisione a livello nazionale. Come sopravvive questo e come si contempera con una specialità diffusa, soprattutto se si tratta di specialità diffusa sulle risorse? Questo è un problema che ci dobbiamo porre.
Il federalismo come processo è un concetto che condivido, però il processo è all'inizio di un percorso diacronico a esito aperto. Esso si colloca in quella fascia che parte da un regionalismo avanzato e arriva a quello che può essere un federalismo accettabile, sapendo che vi sono paletti non superabili.
In conclusione, credo che le regioni a statuto speciale, se vogliono vedere una specialità, devono riflettere sulle giustificazioni e sugli obiettivi. Penso che oggi la specialità sia utile come uno strumento di competizione regolata fra territori, perché noi abbiamo in prospettiva, come elemento di efficienza del sistema, una competizione territoriale direi inevitabile e fisiologica. Credo che il problema della specialità sia trovare la regola stabile, a regime, di una competizione territoriale sana, che diventa elemento di efficienza del sistema delle istituzioni di questo paese nel suo complesso. Se noi ragioneremo in questo modo, credo che la specialità avrà una vita sana e fruttuosa; diversamente la possibilità più realistica è che tutto rimanga come oggi, o pressappoco come oggi, con il rischio che la specialità alla fine sia l'ultimo vagone del treno, il che sarebbe certamente un paradosso e sicuramente cosa non utile per il paese.

MARIO PEPE, Presidente della Commissione parlamentare per le questioni regionali

Grazie Presidente Villone per le valide considerazioni e articolazioni tutte all'interno di una problematica che, come si vede, è sempre più dialetticamente provocatoria e ha bisogno di essere approfondita per definire limiti, paletti, ma anche per assecondare un processo che non si può arrestare. La specialità come confronto politico è disciplinata da regole, è un concetto che indubbiamente suscita riflessioni e approfondimenti sia da parte delle regioni che del governo nazionale.
Cedo la parola ad Antonio Maccanico, Presidente della Commissione affari costituzionali della Camera.

 

ANTONIO MACCANICO, Presidente Commissione affari costituzionali della Camera dei deputati

Grazie Presidente, anch'io sono molto lieto di essere presente a questo dibattito sulle autonomie per la sua straordinaria attualità. Credo che la capacità di essere tempestivi della Presidenza della Giunta e della Presidenza del Consiglio della Sardegna sia è veramente eccezionale. Ricordo un altro dibattito che è avvenuto proprio in questa sala, dopo l'approvazione della legge n. 249, la nuova legge nel sistema delle comunicazioni, io ministro partecipai e discutemmo a lungo questa riforma della RAI che prevedeva un canale senza pubblicità.
Le cronache di politica interna in questo periodo sono tutte concentrate sugli eventi maggiori che ci aspettano, il referendum del 18 aprile, l'elezione del Capo dello Stato, le elezioni europee che avverranno il 13 giugno, però nel frattempo nella vita parlamentare avvengono anche altri episodi che sfuggono nelle cronache politiche.
La cosa importante è che nelle ultime settimane, e negli ultimi mesi, si è messo in moto il meccanismo di riforma proprio partendo da quella che è la priorità assoluta, quella della forma di Stato. Credo che sia utile darvi notizia di come la Commissione affari costituzionali della Camera e il Parlamento si muove su questo campo. Abbiamo approvato, con una maggioranza larghissima nella Commissione e poi in Assemblea, l'elezione diretta dei presidenti delle regioni ordinarie. E` importante perché non ci siamo limitati solo a questo aspetto, ma abbiamo rivisto gli articoli 121, 122, 123 e126 della Costituzione e in un certo senso abbiamo prefigurato una forma di governo per le regioni a statuto ordinario, che è completamente innovativa rispetto a quella del passato.
Questo è un modo concreto di cominciare a lavorare sul tema del federalismo e sul tema del nuovo autonomismo: da una parte abbiamo affermato l'elezione diretta del presidente delle regioni a statuto ordinario, ma dall'altro abbiamo rafforzato l'autonomia delle regioni medesime, in quanto abbiamo detto che gli statuti delle regioni ordinarie possono stabilire una diversa forma di governo, e gli statuti ordinari non passano più attraverso l'approvazione di una legge del parlamento nazionale, sono atti della regione, anche se devono essere sottoposti al referendum regionale.
Quindi il procedimento di autonomia delle regioni, perché lo statuto è l'espressione massima dell'autonomia di una regione, già per le regioni a statuto ordinario ha avuto un potenziamento, che del resto è recepito anche nel disegno di legge che è stato presentato recentemente dal ministro Amato.
Questo è un grande passo in avanti. E' un provvedimento che da una parte afferma un principio di stabilità dei governi regionali delle regioni a statuto ordinario, e quindi l'elezione diretta del presidente, dall'altra prevede questa maggiore autonomia, la possibilità per gli statuti di rivedere anche la forma di governo. Naturalmente questo ha portato con sé alcune conseguenze per le regioni a statuto speciale. La prima conseguenza è la presentazione di una serie di proposte di legge che le riguardano. Qui vi dico che solo per il Trentino-Alto Adige ci sono ben quattro proposte di legge di revisione dello statuto, sempre con l'obiettivo di avere l'elezione diretta del presidente della regione. Naturalmente, per il Trentino-Alto Adige ci sono problemi particolari, come sappiamo, perché le due province di Bolzano e di Trento hanno forme particolarissime di autonomia e nella provincia di Bolzano vi è il problema etnico. Tutte queste proposte di legge (Boato, Zeller) puntano all'elezione diretta del presidente della regione. Lo stesso per la Valle D'Aosta (due proposte di legge). Per la Sicilia ci sono cinque proposte di legge, ma soprattutto c'è una deliberazione dell'assemblea regionale della Sicilia, che ha inviato una proposta di legge costituzionale per la revisione dello statuto molto simile al disegno di legge che abbiamo approvato per le regioni a statuto ordinario. Anche per la Sardegna il Consiglio regionale sardo ha approvato una proposta di questo genere; per il Friuli-Venezia Giulia mi pare che su questo ci sia un orientamento generale. Come andremo avanti nella Commissione affari costituzionali? E` chiaro che dal punto di vista procedurale la questione delle regioni a statuto speciale si pone in modo particolare. Non possiamo seguire la stessa procedura che abbiamo seguito per le regioni a statuto ordinario, perché vi sarà una consultazione con le singole regioni a statuto speciale per ribadire una delle loro caratteristiche, cioè la natura pattizia dello statuto, che invece non esiste per le regioni a statuto ordinario.Ora qui però si porrà un problema, perché nell'ordinamento attuale gli statuti delle regioni ad autonomia speciale vanno approvati o modificati con legge costituzionale, cioè con la massima fonte giuridica prevista dal nostro ordinamento. Se noi per le regioni a statuto ordinario abbiamo potuto affidare allo statuto le scelte e le decisioni fondamentali, di fronte al fatto che viceversa lo statuto delle regioni a statuto speciale viene accordato con legge costituzionale, possiamo adottare lo stesso criterio o in questo modo non riduciamo in un certo senso l'autonomia delle regioni? Questa è una delle questioni di metodo sulle quali dovremo discutere, perché la legge costituzionale rappresenta la più alta fonte del diritto che esiste nella Costituzione, e questa secondo me è una scelta che dovranno fare le regioni speciali. Naturalmente emergeranno altri problemi: l'amico Presidente della Commissione del Senato si domandava se esista ancora un motivo per le autonomie speciali. Non c'è dubbio che se noi andiamo verso una forma di federalismo generalizzato, e rafforziamo le autonomie delle regioni a statuto ordinario, il divario che esiste fra le regioni a statuto speciale si riduce, ma sono convinto che la motivazione per mantenere le regioni ad autonomia speciale esiste, ed esiste non solo per le ragioni storiche. Secondo me è proprio nella concezione nuova del federalismo italiano che noi dobbiamo vedere preservata questa specialità. Sono assolutamente d'accordo con quello che diceva il professor Silvestri sull'applicazione del principio di sussidiarietà in modo diacronico.
Mi pare che questa sia la chiave di volta; in un paese dualistico come l'Italia, in un paese che ha problemi gravissimi di disparità fra le varie regioni, in un certo senso dobbiamo pensare ad un federalismo a geometria variabile, che può, nel corso del tempo, portare ad una sorta di uniformità, ma non c'è dubbio che a maggiore capacità di risorse economiche, risponderà una maggiore capacità di autonomia, a minore capacità di risorse economiche dovrà inevitabilmente conseguire una minore autonomia. Ecco perché noi non dobbiamo abbandonare il principio della specialità, come non l'ha abbandonato la Bicamerale e come non l'abbandona il disegno di legge presentato dal Ministro Amato, che prevede addirittura la possibilità di costituire nuove regioni a statuto speciale.
Il problema delle risorse consiste nell'allargare la gamma dei tributi propri della regione, nel disporre di una quota dei tributi erariali e di risorse da trasferire dalle regioni più ricche alle regioni più povere; questa è l'architettura del sistema di finanza regionale. Attualmente nelle regioni a statuto speciale esiste una disparità di condizioni. La Sicilia ha i dieci decimi del gettito tributario, il Trentino-Alto Adige ha i nove decimi, il Friuli-Venezia Giulia credo abbia i quattro o i cinque decimi.C'è una disparità molto grave. Se vogliamo arrivare verso un sistema compiuto di federalismo fiscale, dobbiamo vedere quali sono le risorse da trasferire, con quale criterio e come realizzare politiche di perequazione per le regioni meno favorite. Ritengo che l'ammodernamento del nostro sistema politico debba iniziare dalla forma di Stato. La logica della riforma vuole questo: forma di Stato, forma di governo, giustizia e poi la legge elettorale, che dovrebbe essere l'ultimo aspetto da affrontare. Ricordo che quando fu annunciato il referendum sulla legge elettorale (allora ero membro del Governo) espressi molte perplessità perché in quel momento la Bicamerale era ancora in funzione e "lanciare" il referendum significava alterare le priorità, quelle priorità che sono logiche per una riforma seria. Ebbi qualche perplessità e dissi: "Questo è un siluro alla Bicamerale". Poi, purtroppo, la Bicamerale finì e quindi il quadro è cambiato.
Sono anche sensibile all'idea enunciata dal professor Silvestri, che un vero federalismo deve vedere una Camera delle regioni. Questa sarà la questione più difficile, e se c'è un argomento a favore della Costituente forse questo è il più valido. Comunque ritengo che abbiamo imboccato la strada; l'importante è che la stabilità politica ci consenta di portarla avanti, in modo che alla fine di questa legislatura almeno questo capitolo possa essere chiuso.


MARIO PEPE, Presidente della Commissione parlamentare per le questioni regionali

Grazie presidente Maccanico per i validi approfondimenti, nati dall'esperienza e da una notevole conoscenza dei meccanismi istituzionali del nostro paese.
Do la parola al ministro Bellillo.

KATIA BELLILLO, Ministro per gli affari regionali

Devo subito fare lo sforzo di tradurre la fredda norma giuridica in un linguaggio non solo comprensibile, ma che parta dall'analisi della realtà, cioè osservare che la norma interviene su una situazione reale, su conflitti reali, su esigenze, su bisogni di territori, di comunità e in generale di uomini e donne in carne ed ossa che in quelle comunità vivono, operano, soffrono e gioiscono. Mentre ragioniamo delle questioni della specialità, in altre parti d'Europa, in questo momento, non si riesce a governare politicamente la specialità e la differenza.Ecco perché questa iniziativa si riempie di un valore particolare. Mi permetto di leggere un passo della lettera con cui il presidente Pepe mi ha invitato al convegno: "Sono personalmente convinto che la specialità oggi debba invece essere letta in relazione al ruolo particolarmente forte che le regioni ad autonomia differenziata e le province autonome possono attivamente svolgere, nei processi di sviluppo socio-economico e culturale delle proprie comunità, nonchè costituendo un forte punto di riferimento per ragioni e vocazioni storiche e geografiche nei processi politici internazionali di integrazione europea e di cooperazione con i paesi del Mediterraneo".
Questo è molto importante, è proprio da qui che voglio ripartire, da questa riflessione, che lancio un po' a tutti voi, perché le regioni italiane a statuto speciale possono veramente svolgere un ruolo fondamentale, come un ruolo fondamentale può svolgere il popolo italiano, il nostro Paese di fronte ai nuovi, terribili conflitti che stanno devastando una parte così importante della
nostra Europa.
L'Italia ha fortemente voluto la sua unità nazionale, ha voluto difendere le proprie specialità e oggi intende valorizzare le proprie specificità. Le specialità stanno nella storia, nelle particolari condizioni di quei territori; giustamente e intelligentemente si gestirono in modo politicamente avanzato questioni, problemi ed esigenze che avevano bisogno di vedere riconosciuta una specialità che è ancora oggi valida, perché la presenza di condizioni storiche particolari, la presenza di etnie, di culture anche diverse, richiedono una specialità, all'interno però di un paese che attraverso la riforma del proprio Stato, direi in attuazione, in alcuni casi, del titolo primo della Costituzione, finalmente cerca di dare e individuare gli strumenti perché le nostre regioni e i nostri ottomila comuni ricchi di storia, di cultura e di tradizione, abbiano gli strumenti dell'autonomia e dell'autogoverno.
Non credo che ci sia bisogno di una nuova Costituente per avviare questo processo, credo invece che ci sia bisogno di percorrere la strada che abbiamo iniziato, cioè quella di utilizzare gli strumenti che la Costituzione ci dà e che offre al Parlamento.
E` in questo quadro che si inserisce un po' la legge di riforma costituzionale dello Stato, la proposta Amato; sono molto d'accordo con tutta una serie di riflessioni che faceva nella relazione il professor Gaetano Silvestri. Questo nuovo testo muove dagli esiti della Bicamerale e tiene conto del generale dibattito che ne è seguito, ma anche delle leggi di decentramento amministrativo in qualche modo prevedendo la loro costituzionalizzazione. Al di là degli aspetti puramente nominalistici cerchiamo di cogliere la sostanza e lo strumento come strumento concreto, per realizzare gli obiettivi che ci stiamo ponendo tutti e che partono poi dalle esigenze delle nostre comunità. Per quel che oggi qui interessa, un profilo fra gli altri che merita di essere evidenziato è il riconoscimento del massimo grado di autonomia statutaria alle regioni, la previsione della partecipazione delle autonomie alla formazione degli statuti regionali.
In particolare, per quanto riguarda le specialità, rimane la specialità regionale che, anzi, è ribadita con alcune correzioni linguistiche, confermandosi la particolare autonomia attribuita alle regioni a statuto speciale, perché permane il tipo di strumento normativo che conferisce l'autonomia; gli statuti speciali vengono infatti adottati con leggi costituzionali. La scelta è stata probabilmente determinata dall'intento di mantenere il rapporto pattizio tra Stato e regioni. Si manifesta anche nel costante lavoro delle commissioni paritetiche, di cui qui vorrei sottolineare l'importanza e il ruolo che in questo momento stanno svolgendo: sono previste dagli stessi statuti e devono predisporre le norme di attuazione, che si pongono come fonte normativa intermedia fra la legge costituzionale e la legge ordinaria. Nella vigenza degli attuali statuti permangono anche altri punti unificanti degli ordinamenti delle regioni a statuto speciale, per esempio il diverso tipo di competenza esclusiva e concorrente, il sistema di finanziamento dell'autonomia, la fissazione della quota di compartecipazione ai tributi erariali riscossi nel territorio, l'attribuzione di beni demaniali e patrimoniali. Da tale impostazione potrebbero nascere sicuramente taluni problemi, alcuni sono già stati esposti, non ultimo, con riferimento al sistema di finanziamento, il fatto che la coesistenza di diversi sistemi di finanziamento fra le regioni potrebbe non armonizzarsi con un sistema di finanziamento in senso solidaristico. Spingo sempre sul tema, quando si parla di finanziamento e di federalismo fiscale, delle due questioni fra sussidiarietà e solidarietà: guai se si individuasse un meccanismo per cui le regioni ricche offrono quello che avanza della loro ricchezza alle altre. Si colloca qui il ruolo dello Stato centrale di riequilibratore non nel modo assistenziale, ma garantendo che i diritti universali siano uguali su tutto il territorio nazionale.Altri problemi nascono dal fatto che talune regioni a statuto speciale devono ancora completare, per esempio, il trasferimento delle funzioni amministrative relative sia alle competenze statutarie, che all'adeguamento della propria normativa di attuazione dei decreti legislativi previsti dalla legge n. 59 del 1997. Questo processo va portato avanti, perché rende effettivo il conferimento delle funzioni indicate in questi decreti.
E` chiaro che siamo in una difficile fase di transizione istituzionale ed è anche chiaro il compito che hanno di fronte le regioni a statuto speciale, che è un compito complesso e che richiede tempo. Però c'è un elemento che merita di essere sottolineato; le ragioni che dicevo all'inizio, e che sono le ragioni di salvaguardia dell'identità storica e culturale delle comunità regionali, anche se per certi aspetti possono apparire come offuscate, tuttavia non sono venute meno soprattutto in un momento in cui si vedono con particolare favore il rispetto e la valorizzazione delle specificità e delle differenze. Questo è un punto su cui le regioni differenziate si interrogano da tempo, ed è oggetto dell'intelligente iniziativa proposta dal Presidente Pepe di questa giornata, per stabilire quale sia oggi la loro specialità rispetto all'ordinamento delle restanti regioni.
Oggi si guarda da più parti alla revisione dell'ordinamento attuale come ad uno strumento per una migliore definizione dell'articolazione tra Stato centrale e poteri decentrati. Si afferma che le regioni a statuto speciale, grazie alla loro particolare collocazione, abbiano sviluppato una sorta di diritto comune, per cui anche se rimangono interessate ai tentativi in atto per una soddisfacente definizione delle relazioni Stato-regioni, tuttavia difficilmente possono trovare piena convenienza a condividere quei progetti. Infatti vi sono molti problemi comuni che possono giustificare un impegno solidale, ma anche sostanziali differenze che esigono un contatto diretto ed individuale con lo Stato, specie per l'importanza e la delicatezza delle materie trattate.
Alcuni affermano che i progetti allo studio condurrebbero a far sì che ogni regione in futuro dovrebbe connotarsi come speciale, in quanto dotata di pienezza di autoorganizzazione, di disciplina di tutte le materie ad essa assegnate, diverse dalle poche residuate allo Stato. Non credo che ciò sia sufficiente ad esaurire le ragioni che militano a favore della specialità, quantunque le regioni a statuto speciale debbano evitare che la specialità possa divenire un freno, anzichè uno stimolo al procedere verso una modernità istituzionale. Comunque sono convinta che oggi non esistano le ragioni storiche che hanno portato a queste specialità. Oggi abbiamo bisogno di valorizzare le differenze, non di individuare nuove specialità, non esistendone le condizioni storiche.
Comunque il pericolo che dicevo prima esiste, ad esempio, nel confronto con la velocità di azione acquisita dalle regioni ordinarie a seguito del processo di riforma in corso. Abbiamo bisogno che le regioni a statuto speciale accelerino il processo di riforma del proprio ordinamento statutario, di sburocratizzazione, di destatalizzazione, di conferimento dei poteri ai comuni e alle province. C'è bisogno di avviare immediatamente la sburocratizzazione dell'organizzazione statuale-regionale, di ricreare un rapporto più diretto delle regioni con le proprie comunità.
Occorre innanzitutto un allineamento rapido delle regioni a statuto speciale a quelle a statuto ordinario, per quel che concerne tutta la riforma amministrativa in atto; questo è urgente; poi bisogna produrre progetti concreti di valorizzazione delle diversità.
Penso in modo particolare che deve essere un'attenzione del Governo modificare anche il modo di lavorare con le regioni, rispetto a tutta la partita delle direttive e delle politiche della Comunità europea. Una prima apertura in questo senso potrebbe essere la partecipazione delle regioni alla formazione degli atti comunitari nella cosiddetta fase ascendente, e non come avviene ora, solo coinvolgendole, dopo che a livello statuale si è fatto il progetto, perché poi ci lamentiamo se la Comunità europea ci bacchetta perché diciamo che non interviene nelle leve dello sviluppo territoriale ed economico. Se a livello ascendente, in modo preventivo non coinvolgiamo le regioni e le comunità locali, è ovvio che è sempre più complicato riuscire a incidere effettivamente anche in riferimento allo sviluppo economico.
Coinvolgere le regioni nella fase ascendente consentirebbe a soggetti con problemi omogenei di stringere alleanze per individuare soluzioni che non solo siano comuni, ma soprattutto più efficaci, ponendo fine al monopolio statale nel perseguimento dell'interesse comunitario. Questo è un punto fondamentale, perché ci permette di stabilire relazioni e rapporti in un regime di partenariato, non solo fra le diverse realtà regionali italiane sia speciali che ordinarie, ma ci permette di allacciare rapporti con le regioni d'Europa. Oggi il tema è questo: come diventiamo nella difesa e nella valorizzazione dell'identità nazionale, regioni autonomamente e singolarmente presenti nello scenario politico, economico e culturale dell'Europa. Inoltre penso che una corretta applicazione del principio di sussidiarietà sia in senso verticale, sia in senso orizzontale, potrebbe contribuire a valorizzare in modo notevole quelle risorse e quelle capacità che hanno giustificato, a suo tempo, l'attribuzione di una speciale autonomia e che ancora oggi mantengono la loro attualità.Ciò che dobbiamo in assoluto evitare è che questa grande occasione di riforme si traduca nella creazione di organismi istituzionali con velocità diverse, o nella creazione di diversi totalmente omologati fra di loro, non lo consentono né i tempi, né la nostra appartenenza all'Europa, né la consapevolezza che nel nostro Paese la diversità ha fatto storia e che le nostre diversità sono le nostre ricchezze.

MARIO PEPE, Presidente della Commissione parlamentare per le questioni regionali

Ringrazio il ministro Bellillo e cedo la parola a Roberto Antonione, presidente della Regione Friuli-Venezia Giulia.

ROBERTO ANTONIONE, Presidente della Giunta regionale del Friuli-Venezia Giulia

Un ringraziamento particolare va al Presidente Pepe che ha voluto questa giornata di approfondimento su un tema che riteniamo di importanza fondamentale per quel che riguarda la nostra regione. Un ringraziamento anche agli altri presidenti delle commissioni parlamentari che hanno voluto dare un loro contributo ed anche al ministro che dimostra sensibilità a queste problematiche. Devo dire che, a fronte di questa sensibilità, la situazione attuale non è felice. E` una critica che mi sento di fare proprio perché ritengo che viviamo anche noi una discrasia tra la volontà politica e l'applicazione di questa volontà ed è utile capire anche come sia possibile superare questo intoppo, perché alla fine dobbiamo avere sempre presente qual è il nostro riferimento: le popolazioni e i cittadini. Detto questo, devo riconoscere che dal punto di vista dottrinale è stato estremamente interessante il contributo che ha portato il professor Silvestri.Le critiche sono relative alla circostanza che mantenendo lo status quo, ci troviamo ad avere "un'invasione" da parte del Governo nei confronti della nostra autonomia. Anche mantenendo le cose come sono, le norme di attuazione - è un discorso che vale per la regione Friuli-Venezia Giulia e forse anche per la Sardegna, meno per le altre regioni a statuto speciale - non hanno avuto applicazione e il meccanismo di contrattazione con il Governo attraverso la "paritetica", è solo eufemisticamente definibile deludente. La critica è forte perché sono tanti anni che combattiamo su alcuni punti, non avendo avuto la capacità di riuscire ad ottenere risultati.
Non parlo della mia regione in maniera particolare (dove potrei citare situazioni specifiche di specialità che, come voi sapete tutti possono rivendicare). Sono assolutamente d'accordo con il Ministro quando dice che le specialità non devono essere un privilegio ma devono essere una risorsa per il Paese. Riteniamo che questo sia l'obiettivo finale e siamo certi che la nostra collocazione geo-politica, se sfruttata al meglio, possa essere veramente utile al Paese, oltre che alle nostre comunità. Questa è la prospettiva! Non intendiamo a differenza di altri rivendicare privilegi; il nostro non è un problema nei confronti delle altre regioni o anche delle regioni a statuto ordinario, perché noi dobbiamo essere capaci di dare risposte alle situazioni che viviamo in maniera specifica e peculiare sul nostro territorio, legate certamente alla presenza di minoranze linguistiche, ma legate anche alla necessità di dover avere rapporti con paesi e stati diversi, con meccanismi socio-economico e politici diversi dal nostro. Cito ad esempio che la tassazione nella vicina Slovenia ha come aliquota massima il 22 per cento; voi capite che noi abbiamo problemi che certamente altre regioni non hanno e questo ci mette necessariamente nella condizione di dover trovare delle risposte, perché il problema della delocalizzazione potenziale delle nostre imprese è chiaramente evidente a tutti quelli che conoscono un po' la nostra situazione geo-politica. Sulle risorse: tutte le ragioni a statuto speciale hanno meccanismi diversi (lo evidenziava bene il ministro Maccanico); noi non chiediamo risorse all'infinito. E` chiaro ed evidente che se tutti dovessimo avere i dieci decimi lo Stato nazionale non sarebbe in grado di gestire nessun tipo di situazione economica in termini di solidarietà, però è anche necessario che il Governo, attraverso leggi, ci dia la possibilità di gestire risorse. Non chiediamo di averne di più. La possibilità di gestire le concessioni autostradali, piuttosto che la possibilità di gestire parte delle risorse che vengono drenate dai porti che abbiamo sul nostro territorio, è un meccanismo sufficiente per poter dare risposte su investimenti infrastrutturali indispensabili per progredire. Avrei avuto piacere che il Ministro, l'unico interlocutore diretto in questo momento, fornisse risposte immediate a quelle che sono le nostre esigenze.Sui controlli, ho l'evidenza materiale di quello che è diventato, non solo a detta della Regione Friuli-Venezia Giulia ma anche a detta della Conferenza dei presidenti delle giunte, nella persona del suo presidente ed anche di altri esponenti; è diventata una persecuzione. Il termine rende perfettamente ciò che sta avvenendo. Avrò modo di dirlo al Ministro, ma lo dico pubblicamente; abbiamo avuto un rinvio (per capire quelli che sono i problemi fra il Governo e le regioni a statuto speciale) su una legge sugli impianti termici (non è una cosa che invade campi straordinariamente importanti in termini normativi) e il Governo ha eccepito che la legge regionale è invasiva della competenza affidata alle province in materia di controlli.Ora, tutti sanno che la regione Friuli-Venezia Giulia ha competenza primaria per quello che riguarda gli enti locali e il Governo ci rimanda indietro una legge perché invadiamo la competenza della provincia quando la provincia è sottomessa a quella che è una legge regionale. Credo che dalle dichiarazione di intenti che il Governo fa - del quale non ho nessuna difficoltà a dare pubblicamente atto al Ministro - si passa poi ad episodi concreti che dimostrano e testimoniano che a livello nazionale e governativo evidentemente c'è qualcuno che rema contro.
Potrei ancora continuare sul discorso della sburocratizzazione citato dal Ministro Bellillo; abbiamo il "Sole-24 Ore" del 29 marzo scorso, che evidenzia un trend opposto per quello che riguarda il Governo. Le dichiarazioni ci fanno molto piacere, però avremmo grande soddisfazione di avere fatti precisi e concreti. Per quello che riguarda il rapporto con il Governo mi fermo, perché certamente non è il caso di parlarne in assenza del rappresentante del Governo stesso. E' importante, per quello che riguarda la Commissione parlamentare, continuare su questa strada; recepisco l'iniziativa del Presidente Maccanico laddove dice, giustamente, che verranno contattate singolarmente le realtà speciali perché peculiari portatrici di messaggi specifici. Riteniamo che questo sia un metodo corretto e diciamo al Presidente Pepe che continui su questa strada in modo tale che insieme si possa costruire, su principi ed episodi che diano concretezza all'agire, una riforma vera in senso federalista ritenendo, come giustamente ricordava il professor Silvestri, che disquisizioni terminologiche non servono a nessuno. Servono solo ad evidenziare il problema che noi avvertiamo (se si vuole anche in maniera inconscia) e al quale dobbiamo cercare di dare una risposta perché altrimenti tutti noi verremo messi sullo stesso piano.

MARIO PEPE, Presidente della Commissione parlamentare per le questioni regionali

Cedo la parola al senatore Andreolli, componente sia della Commissione Bicamerale sia della Commissione parlamentare per le questioni regionali.

TARCISIO ANDREOLLI, componente della Commissione parlamentare per le questioni regionali

L'obiettivo politico che ci si pone è quello della costruzione di uno Stato federale nell'unità della Repubblica, articolato in Stato, regioni, province e comuni, secondo i principi della sussidiarietà e della solidarietà. Dai vari interventi (su cui concordo) abbiamo capito che questo è un processo che richiede tempi, determinazione e soprattutto strumenti per impedire che esso sia reversibile; deve diventare un processo irreversibile e senza una modifica della Costituzione vigente, con tutti gli sforzi fatti con le leggi Bassanini, questo processo può diventare reversibile. Il dato di partenza è il disegno di legge approvato dal Governo il 9 marzo: "Modifica del titolo V° della Costituzione", che si accompagna al testo già approvato dalla Camera per la modifica della Costituzione relativamente all'elezione diretta del presidente della regione. Questo testo è frutto delle ceneri ma anche dei risultati della Bicamerale e degli interventi dei vari Consigli regionali che si sono pronunciati in materia. Però, paradossalmente, ci troviamo di fronte ad un ragionamento che abbiamo sentito stamattina: "Dov'è la specialità?". La specialità (diceva prima Maccanico) è il luogo dove vi è un confronto federativo, "il patto", ma paradossalmente questo patto viene vanificato. Se "patto" vuol dire confrontarsi fra due realtà della Repubblica (regioni e Stato centrale) nella costruzione dello statuto, ci troviamo poi di fronte all'articolo 4 del disegno di legge governativo, che rispecchia quello della Bicamerale, dove si afferma che gli statuti sono leggi costituzionali. Non è stata recuperata la norma transitoria del primo testo della Bicamerale (giugno '97), dove si tracciava una metodologia diversa, ma necessaria, perché altrimenti questo strumento pattizio sarebbe diventato una finzione, dato che è in mano allo Stato centrale il potere di determinare i futuri statuti. Mi pare sia evidente che nessuna regione voglia rinunciare ad avere uno statuto approvato con legge costituzionale, però ciò non è privo di insidie. In Bicamerale ci siamo chiesti che senso ha oggi dare a queste regioni gli statuti speciali e perché lo statuto debba essere approvato con legge costituzionale.
Se si apre alle regioni a statuto ordinario, il problema del finanziamento deve essere perequativo; se giustamente devono essere abbandonate gradualmente "i privilegi" che le regioni a statuto speciale hanno avuto, e qualcuna ha ancora, resta la procedura di approvazione dello statuto.
Ora auspico che, visto che la Camera avvia la discussione, la valutazione e l'approvazione del testo del Governo, il problema delle procedure venga reintrodotto accanto a quello dell'elezione del Presidente. Si afferma che le regioni ordinarie con il loro statuto si daranno proprie forme di governo e decideranno in merito all'elezione diretta o meno del loro presidente. Questo deve valere anche per le regioni a statuto speciale? Dai vari presidenti che sono qui mi aspetto una risposta a questo problema, che non è secondario.
Voglio soffermarmi anche su un altro problema che in questo disegno di legge non è stato affrontato: il titolo V della Costituzione. Il professor Silvestri l'ha accennato giustamente: la chiave di volta è che cosa sarà della seconda Camera, del Senato, il cosiddetto "Senato delle regioni". In qualsiasi stato federale esiste una seconda Camera. Si è discusso a lungo, si è fatta anche ironia in Bicamerale "la seconda Camera, la stanza con bagno". Com'è andata a finire lo sappiamo tutti. In realtà è il Senato, oggi esistente, che non è disposto a morire. Allora, bisogna avere il coraggio di dire che noi vogliamo un sistema monocamerale. Il Senato delle regioni dev'essere funzionale; si è dibattuto tanto su come comporlo, ma prima bisogna dire cosa deve fare e quindi si deciderà come comporlo e da chi nominarlo.
A mio avviso bisogna introdurre un sistema di fatto monocamerale per affidare a quest'organo legislativo competenze funzionali a mantenere il controllo e la verifica puntuale del rispetto delle norme costituzionali dagli aspetti ordinamentali a quelli finanziari, e quindi uno strumento di garanzia per le regioni.

MARIO PEPE, Presidente della Commissione parlamentare per le questioni regionali

Cedo la parola ad Antonio Martini, Presidente del Consiglio regionale del Friuli-Venezia Giulia.

ANTONIO MARTINI, Presidente del Consiglio regionale del Friuli-Venezia Giulia

Salto i ringraziamenti e i preamboli non senza però, da questa fenicia capitale europea di diritto, esternare a ruota libera una mia considerazione. Questo non è più tempo dello sciovinismo, ma è bene essere italiani anche in questa Europa in cui entriamo. L'altro giorno mi è arrivato (penso anche ai colleghi) un invito per un incontro a livello europeo in francese, in tedesco e in inglese. Nemmeno l'italiano c'è più, altro che le nostre piccole lingue! Ma noi dobbiamo difendere l'italianità attraverso le nostre regioni. Ecco perché invito gli amici delle regioni ordinarie che stiano attenti alle "mele avvelenate" dell'uniformità per tutti. L'altro giorno il presidente della regione Friuli-Venezia Giulia ha organizzato a Trieste gli stati generali evidenziando la difficile transizione da territorio di frontiera a spazio delle relazioni. E` questo il ruolo delle regioni del Mediterraneo e delle nostre regioni di frontiera, del Trentino e quant'altre (anch'io solidarizzo con i drammi della Val d'Aosta), in questa che non potrà mai essere l'Europa carolingia, ma nemmeno un'Europa vagamente mediterranea.

E` l'esperienza delle specialità che deve aiutare l'Europa. Anche l'accenno alla difesa del parlamentarismo che abbiamo fatto qualche mese fa a Salisburgo e che abbiamo ripreso a Firenze, va fatto. E` poi chiaro che, ad esempio, il commercio in Sicilia dovrà trovare ritmi diversi dal commercio di Milano o dai piccoli centri del Friuli; non è un tentativo di essere furbi, è il ritmo diverso delle cose italiane. Sono le nostre ricchezze! Tutti dobbiamo capire questo! Quando l'amico De Rita ci convoca, poi vengo e capisco che anche lui dice: "Ma sì! Cosa possiamo fare? Chi ci controllerà in queste riforme che facciamo? Se non lo fa il Parlamento, lo farà la Corte Costituzionale". Se comincia a serpeggiare a questi livelli la sfiducia nel Parlamento. . . Il Parlamento è il punto centrale; faccia quindi fino in fondo il suo dovere di reggere i governi, ma anche di aiutare il processo forte di riforma.Non entro in tante altre cose, ma dico che noi continuiamo ad essere insieme nel servizio del paese. Non le piccole astuzie, le furberie; ho visto sui decreti applicativi dell'accisa sul gasolio, l'uno contro l'altro. Non si può, sono piccole cose.L'invito è invece ad agire subito, perché non c'è più tempo da perdere!

 

MARIO PEPE, Presidente della Commissione parlamentare per le questioni regionali

Cedo la parola al senatore Camber e poi all'amico Dondeynaz.

GIULIO CAMBER, componente della Commissione parlamentare per le questioni regionali

L'esperienza che abbiamo avuto in Trentino-Alto Adige, che scopre e utilizza riscopre e riutilizza l'istituto delle province autonome continua a rimanere un unicum, mentre, secondo me, potrebbe trovare delle nuove applicazioni. Penso al Friuli-Venezia Giulia, ma penso anche ad altre regioni italiane dove questo istituto abbastanza singolare, o come tale inteso dal legislatore, è stato trascurato o forse non approfondito, ma certamente non viene trattato come un tema di attualità. Un'altra osservazione, soltanto per completare il discorso del Presidente Antonione. La regione autonoma Friuli-Venezia Giulia, provocatoriamente o no, ha sollevato due problemi: uno relativo alle case da gioco e l'altro relativo alle case chiuse. Sono due problemi estremi, che hanno fatto discutere; non dico niente di nuovo perché poi il problema è stato ampiamente affrontato e risolto, per il momento, in senso negativo dal Senato, particolarmente per le case da gioco.Non è una novità per nessuno che vi siano 40 case da gioco nell'arco di 60 o 70 chilometri dal territorio regionale del Friuli-Venezia Giulia; accantonando per un attimo quelle che sono le grandi tematiche morali, che sono rispettabilissime, abbiamo un giro di molte migliaia di miliardi di denaro italiano. Venezia, per esempio, è vicina ma non è in grado di drenare questo flusso enorme di denaro, che vuol dire anche posti di lavoro; quando parliamo di regioni a statuto speciale, nel senso che vi sono problemi particolari in alcune fasce del territorio, questo è uno dei temi particolari laddove implica cifre di particolarissima rilevanza che vanno, per esempio, verso Stati come la Slovenia (ricordava prima il Presidente Antonione) dove abbiamo aliquote massime del 22%.
Rimarco l'altro dato che il Presidente Antonione aveva ricordato in tema di concessioni di autostrade e di porti. Anche qui abbiamo una situazione stranissima, se pensiamo che come regione a statuto speciale stiamo attendendo, da chi ha la competenza specifica in materia, cioè l'ANAS, la sicurezza che la rete autostradale relativa alle nostre regioni a statuto speciale possano o non possano avere ancora un regime concessorio per cinque anni, piuttosto che per venti, con quello che questo comporta in tema di investimenti sul territorio.
Per quanto riguarda i porti, se parliamo per esempio del porto internazionale, del porto franco di Trieste, dove oggi a causa di questa situazione di guerra abbiamo una base NATO particolarmente qualificata, non poter disporre di risorse proprie e doverle andare a chiedere al Governo, è un fattore di danno per la comunità nazionale nel suo complesso, non soltanto per il Friuli-Venezia Giulia o per il porto di Trieste in particolare.

MARIO PEPE, Presidente della Commissione parlamentare per le questioni regionali

Cedo la parola al senatore Dondeynaz.

GUIDO DONDEYNAZ, Vicepresidente della Commissione parlamentare per le questioni regionali

Abbiamo voluto fortemente questo convegno al fine di evidenziare la pluralità di attività che abbiamo svolto come Commissione per le questioni regionali, comprese le audizioni con una molteplicità di personaggi finalizzate a capire qual era il momento che stavamo vivendo e proprio da questo deriva il titolo "transizione istituzionale".Da alcuni anni siamo impegnati in un dibattito che parte da due elementi che mai dobbiamo dimenticare: il primo è la questione del mal funzionamento dello Stato e delle sue strutture, ed è un elemento forte; il secondo è quello connotato dalla crisi economica che ha generato in tutti una grande voglia di ridistribuire le risorse, di ritoccare i poteri e di rimettere in discussione la situazione di fatto conosciuta. Nel nostro paese si è cominciato a parlare di federalismo soltanto da pochi anni, ma bisogna essere molto sinceri: questa parola è soltanto una parola vuota. Ci troviamo di fronte ad un tentativo in cui non si può parlare assolutamente di federalismo, ma al massimo si può pensare di utilizzare qualche strumento che nei sistemi federali esiste. Sarebbe un grave errore pensare che siamo in un momento di piena evoluzione su questo tema e collocare, di conseguenza, le iniziative delle regioni a statuto speciale all'interno di questo quadro.Abbiamo di fronte tre sintomi molto gravi e lo stesso disegno di legge Amato lo evidenzia ancora, non risolvendo il problema relativo alla difficoltà di rapporti fra gli enti locali e le regioni. Mi sembra che sia una delle chiavi fondamentali affinché si possa parlare di federalismo.Il secondo tema è quello relativo alla questione del Senato: non sono convinto, come il senatore Andreolli, che dipenda dai suoi 315 componenti elettivi, perché se questo fosse l'ostacolo, esso sarebbe secondo me facilmente risolvibile; il problema sta nella cultura. Noi stiamo parlando di un sistema bicamerale; molte volte, tranne pochissime forze politiche, parliamo di monocameralismo e credo che questo, in sé, già generi il fatto che se vi è una struttura di tipo bicamerale, occorra contemperare le esigenze di carattere territoriale con quelle di natura generale nazionale.
La terza questione, altrettanto importante, è questa: ho apprezzato molto lo sforzo del Ministro Bassanini. La "legge Bassanini" è aggredita tutti i giorni, come ad esempio da disegni di legge che ripropongono, pochi mesi dopo la sua definizione, elementi di accentramento che erano stati cancellati da essa. Bisogna averlo molto chiaro, come bisogna aver chiaro che nella terza fase della riforma Bassanini (mi sembra questa la cosa più rilevante da mettere in evidenza) dalle strutture burocratiche dello Stato è partita una vera e propria reazione.
Signor Ministro, ho preso atto con dispiacere, perché l'ho vissuto nella mia realtà valdostana, delle difficoltà che ogni volta hanno le regioni a statuto speciale quando propongono disegni di legge come quello che citava il presidente del Friuli-Venezia Giulia per l'ordinamento degli enti locali regionali. Lo Stato non agevola il rapporto fra le regioni e gli enti locali, ma è elemento di divisione all'interno di questo.
Dobbiamo discutere dentro questo quadro, vi sono due linee molto precise: una linea che porta ad un'omologazione tendenziale di tutti, e questo sarebbe un grande disastro; dall'altra parte, credo che vi sia un modo un po' più intelligente di vedere le cose, che è quello di pensare ad un'autonomia speciale che sia utile a tutti quanti, cioè non tanto come un luogo entro il quale si esercitano dei privilegi ma come momento di sviluppo di questioni e situazioni che difficilmente vengono risolte all'interno del paese.
Voglio essere molto chiaro: c'è una responsabilità precisa dei consigli regionali. Dobbiamo accelerare. Su tutta una serie di temi viviamo le stesse difficoltà e lo stesso disagio dello Stato. Saremo utili al resto del paese soltanto se riusciremo a fare cose significative in uno degli ambiti considerati essenziali, quello della partecipazione dei cittadini e della risoluzione dei loro problemi concreti. In questo senso condivido pienamente le conclusioni dell'intervento del Ministro. E' la vera sfida (ed allora sì che diventa utile la specialità), favoriremo un ruolo di stimolo concreto dimostrando che è possibile governare diversamente da come si governa il paese e di conseguenza, anche nei confronti delle altre regioni, possiamo essere un punto di riferimento.
Non sono d'accordo con coloro i quali dicono che vi è una richiesta da parte di tutti di essere speciali. A me non risulta; dalla mattina alla sera facciamo audizioni e molte delle realtà auspicano che vi sia un rapporto diretto con lo Stato. La stessa dimostrazione che si debba parlare di geometria variabile mi preoccupa. Vorrei far notare che in un paese in cui abbiamo problemi di risorse e in cui le riforme devono servire anche al contenimento dei costi, pensare di tenere in piedi i ministeri da una parte e dall'altra parte le regioni che decidono di volta in volta su cosa vogliono giocare mi sembra sia pura pazzia. Vorrei che su questo si facesse una riflessione perché la questione mi sembra molto delicata.L'ultima questione: l'Europa. Mi sembra che le regioni a statuto speciale debbano fare un salto di qualità. Ricordo solo una cosa: la legge La Pergola. Vorrei sapere quante volte (e qui ci sono i presidenti di consigli e di giunte) è stata utilizzata la legge per attuare direttamente le normative europee.Vorrei che su questo si facessero dei grandi passi in avanti.

MARIO PEPE, Presidente della Commissione parlamentare per le questioni regionali

Cedo la parola all'onorevole Mario Cristofolini, Presidente del Consiglio della provincia autonoma di Trento.

MARIO CRISTOFOLINI, Presidente del Consiglio della Provincia autonoma di Trento

L'intervento che avevo preparato è superato da tutta questa discussione di grandissimo interesse.Volevo fare solo qualche piccola annotazione: la prima è questo richiamo a tutto quello che sta facendo il Governo in tema di riforma della Costituzione che ci deve trovare preparati. Poi, un richiamo anche al coinvolgimento a livello locale delle nostre assemblee; il Trentino Alto Adige ha dei problemi molto particolari legati alla tripolarità delle istituzioni. Noi abbiamo tre assemblee politicamente titolate ad esprimersi, anche se solo il Consiglio regionale ha possibilità di revisione dello statuto. Oltre a recuperare il ruolo delle assemblee, è importante il discorso sui contenuti: è utile che, in parte, troviamo dei denominatori comuni per affrontare i problemi, ma dobbiamo anche prepararci perché - come diceva il presidente Maccanico - avremo la possibilità di esprimere le nostre esigenze che possono essere anche diverse, abbiamo parlato del ruolo della regione (che per noi è cruciale), e quello delle minoranze linguistiche che sono un problema di grande interesse, una ricchezza. Per ultimo vorrei fare un discorso un po' pratico: a Trento abbiamo avuto un'assemblea, di cui ho qui i documenti che vorrei consegnare perché rappresentano un passo in avanti. Vorrei che ci potessimo vedere più spesso per poter condividere questa battaglia. Per fortuna, l'onorevole Olivieri mi ha accennato la possibilità di un prossimo appuntamento, dove spero sia presente anche il ministro, per entrare più concretamente nei nostri problemi.

MARIO PEPE, Presidente della Commissione parlamentare per le questioni regionali

Cedo la parola al collega Franz.

DANIELE FRANZ, componente della Commissione parlamentare per le questioni regionali

Senza voler nulla togliere agli altri oratori, credo che il punto dolente sia stato colto nel primo intervento, quello del professor Silvestri. Credo che per le regioni a statuto speciale sia necessaria una forma di "regionalismo" decidente, mentre quello delle altre regioni dovrebbe risultare un regionalismo più amministrativo.Questa potestà, piaccia o non piaccia, verrà certamente arginata in maniera sempre più incalzante dal crescente numero di norme di riforma economico-sociale che, di fatto, vincolano completamente le regioni a statuto speciale. C'è un altro punto evidenziato tanto dal professor Silvestri quanto dalla bozza Amato: quello della riforma statutaria. Questo punto diventa di grande attualità e rischia di essere un limite per quelle regioni che erano premiate fino a qualche tempo fa dal riconoscimento di norma costituzionale dei loro statuti. Equiparando tutte le regioni attualmente a statuto ordinario sotto il profilo delle competenze con quelle a statuto speciale, paradossalmente, queste stesse regioni potranno poi modificare i loro statuti attraverso un atto legislativo del proprio Consiglio regionale, mentre le regioni attualmente dotate di specialità, per poter modificare il loro statuto, dovranno comunque seguire l'iter costituzionale. Quindi, paradossalmente, la specialità diventerebbe una palla al piede per l'autodeterminazione di quelle regioni. Opportunamente il senatore Villone ha enunciato il paradosso del "tutti speciali, nessuno speciale". Secondo me si deve avere il coraggio, oggi in questa sede, di dire che (e il ministro ha ribadito la necessità del mantenimento della specialità oggi per quelle realtà già dotate della stessa) bisognerà parlare di una specialità oltre l'attuale specialità. Non credo, come in realtà crede il ministro, che non sussistano le motivazioni storiche per ampliare i beneficiari della specialità; se mi passate il paradosso, ci sono motivazioni storiche future, in quanto il Veneto (cito una regione a statuto ordinario) sicuramente dovrà lavorare per confrontarsi con la Baviera, e non con la Basilicata o con il Molise o con la Puglia, per il tipo di sviluppo e di economia che ha. E' necessario ribadire un'ulteriore specialità per quelle regioni che i padri costituenti definirono già allora a statuto speciale. Perché si deve ribadire questa ulteriore specialità? Per i motivi evidenziati dalla proposta di risoluzione presentata dal presidente Selis e sottoposta alla nostra attenzione. Credo che l'equilibrio debba essere trovato fra la crescita della specialità delle altre regioni e di un'ulteriore specialità riconosciuta a quelle regioni che oggi già ne dispongono. Credo che, inesorabilmente, questo ulteriore sviluppo della specialità debba ricercarsi nei rapporti con l'estero perché tutte le nostre regioni hanno sicuramente un ruolo innegabile di regione ponte, ognuna con le sue peculiarità; il Trentino-Alto Adige guarda chiaramente verso un mondo, la Valle d'Aosta guarda verso un altro mondo, la Sicilia e la Sardegna hanno certamente una vocazione di tipo mediterraneo il Friuli-Venezia Giulia è sicuramente ponte nei confronti dei paesi dell'Est.
Qualora questa doppia specialità non si dovesse verificare, ritorna prepotentemente il problema dell'autodeterminazione attraverso gli statuti, perché l'attuale specialità diventerebbe una penalizzazione inaccettabile; a quel punto, alle regioni a statuto speciale converrebbe rinunciare al principio della specialità e dire: "Bene, siamo speciali come tutti gli altri quindi, di fatto, non lo siamo più".

MARIO PEPE, Presidente della Commissione parlamentare per le questioni regionali

Cedo la parola al presidente della Valle d'Aosta, Roberto Louvin e poi all'onorevole Bonesu.

ROBERTO LOUVIN, Presidente del Consiglio regionale della Valle d'Aosta

Nello scusare l'assenza del presidente della giunta regionale della Valle d'Aosta in relazione alle pesanti incombenze e alla necessità di far fronte alle gravi ripercussioni del dramma che ci ha colpiti in questi ultimi giorni, vorrei sottolinearne un aspetto, spogliato dalla drammaticità umana e dal dolore del momento. Se si occlude una valvola cardiaca il corpo non può non soffrire. Chi conosce, chi sa cosa vuol dire essere una realtà montana come la Valle d'Aosta, non può non percepire tutta la gravità di un'occlusione come quella che si è prodotta in queste ultime settimane. Proprio questo ci fa riscoprire il paradosso dell'analogia che abbiamo, quasi dell'identità, con la situazione sarda, di un'insularità montana sulla quale qualche tempo fa si scherzava, si giocava in termini pubblicitari, ma che, in realtà, ha una sostanza di verità proprio perché, lo proviamo con terribile intensità in questi giorni, quando i collegamenti vengono ad essere brutalmente interrotti, si ritrova una condizione di pesante isolamento a cui la specialità deve buona parte del suo fondamento e della sua permanente ragione d'essere proprio perché possiamo, ed anche prima che queste arterie fossero così intensamente frequentate, affermare che il nostro risveglio nel dopoguerra è dipeso proprio dall'autonomia, un'autonomia speciale in cui, in tutta tranquillità, dobbiamo riconoscere il salto profondamento positivo. Ho l'impressione che quell'indifferenza verso l'ineluttabile esistenza delle regioni speciali sia un'indifferenza che in larga misura è dovuta alla mancanza di conoscenza di quanti benefici, non in termini economici, ma in termini gestionali, di efficacia, di partecipazione attiva della gente alla vita pubblica abbia portato nel corso di questi cinquant'anni.Secondo me, andrebbe tracciato un bilancio ben diverso della valenza delle autonomie speciali. Le regioni speciali (parlo per un'esperienza vissuta nella nostra regione) hanno avuto successo malgrado lo Stato centrale, non grazie allo Stato centrale. Ancora recentemente, pur condividendo l'appello che il ministro Bellillo ha voluto fare alla necessità di dare spazio alle autonomie locali all'interno delle regioni, non posso non rimarcare che, quando una regione come la nostra sceglie la via dell'autonomia e si dà una legge forte ed innovativa in materia non soltanto perché riconosce un volume finanziario enorme ai comuni e alle comunità montane, ma perché addirittura afferma che, se entro un anno la regione stessa non definirà gli ambiti delle proprie competenze, tutto passerà direttamente agli enti locali, questa legge, è in prima battuta il Governo a fermarcela e solo a fatica, al riavvio di questa legislatura abbiamo potuto farla passare. Dobbiamo dire queste cose perché ritengo vadano tenute a mente quando si traccia un bilancio.
Una breve riflessione sul paradosso che ha enunciato il presidente Villone: "Si restringe lo Stato, quindi si restringono le autonomie speciali". E` il contrario, esattamente il contrario che deve succedere.
Si restringe l'ombrello dello Stato, si deve rafforzare quello dello autonomie speciali perché in momenti di liberalismo dilagante, quando tutti esultano al nome Europa, si "massacra" il commercio locale. Il credito locale non ha sufficienti forze ed energie e la piccola impresa locale, soprattutto nei contesti in montagna o insulari, è in ginocchio. Se restringiamo l'ombrello delle speciali, siamo veramente in gravissima difficoltà.
Richiamandomi alla riflessione dell'onorevole Franz, a proposito della connessione con l'Europa, che sottoscrivo pienamente, affermo che in questo collegamento non dovete bloccarci.
Quando in un disegno di legge si afferma la possibilità di fare accordi internazionali ed intese con gli enti locali viciniori, oltre frontiera, nei modi e nei limiti stabiliti con leggi dello Stato, avete già pesantemente penalizzato le possibilità di sviluppo in questo modo, rinviando a leggi successive! Questo è il modo migliore per farci entrare in Europa a mani e piedi legati e se le grandi regioni hanno da misurarsi con il grande contesto di altri "pesi massimi" europei, noi abbiamo un contesto più vicino oltre frontiera, che si muove con ben altra agilità, anche se non è comunitario. I cantoni elvetici hanno ben altre possibilità, ben altri mezzi dei nostri per muoversi sul piano del diritto internazionale. Un'ultima considerazione sulla questione dell'elezione del presidente della giunta regionale; credo non sia stata, per necessità di sintesi, corretta l'indicazione del presidente Maccanico, quindi mi permetto di completarla non per smentirla ma per approfondire il tema. Ci sono, è vero, due progetti di legge che riguardano la Valle d'Aosta, ma di segno completamente diverso: uno presentato da un deputato che nulla ha a che vedere con il nostro contesto regionale, per modificare dall'alto il nostro statuto. Non accettiamo, non possiamo accettare una modifica dall'alto, proprio per quella ragione che ricordava il professor Silvestri, perché se rinunciamo ad una potestas di modifica del nostro statuto siamo effettivamente e profondamente depauperati. L'altra iniziativa intende dare alla Regione questa potestà. Io credo che di questa potestà la Regione possa fare già uso perché ha già una potenzionalità di statuto interno che glielo consente. Però - questo è il nucleo del discorso - le audizioni sono atti di cortesia, sono atti di amicizia nei confronti delle regioni, ma non sono il rispetto di quella natura pattizia che si invocava, perché se vado a modificare un patto, se vado a modificare il foedus, mi siedo ad un tavolo come contraente e non come soggetto "audito". In questo credo che vada rafforzato e sostenuto il documento che ha presentato il Presidente Selis. Va sostenuto e forse va anche rafforzato perché questa partecipazione alle istanze governative e soprattutto parlamentari di modifica dei nostri statuti, non deve essere partecipazione di pura cortesia e di puro ascolto.

MARIO PEPE, Presidente della Commissione parlamentare per le questioni regionali

Cedo la parola all'onorevole Bonesu.

SALVATORE BONESU, Consigliere della regione Sardegna

Sembra che in questo incontro domini l'idea che le autonomie speciali siano gravemente ammalate. C'è chi propone l'eutanasia (rinunciamo alla specialità) e chi propone l'aspirina (elezione diretta del presidente). Mi sembra che i problemi siano ben più vasti perché lo svilimento delle autonomie speciali avvenuto per cinquant'anni ad opera degli organi centrali dello Stato, dal Governo al Parlamento, alla Corte Costituzionale, non può essere risolto se non si cambiano indirizzo e mentalità; perché se rimaniamo in attesa che la riforma in senso veramente federalista promani dagli organi centrali dello Stato, credo che stiamo aspettando la Repubblica per "decreto reale". Il centro tenterà, sotto mentite spoglie, di affermare sempre poteri centralisti, mentre l'autonomia, di cui le stesse regioni hanno oggettivamente bisogno per partecipare a quel grande processo che è l'Unione europea, ha necessità di altri strumenti e di altre prospettive.Ci siamo baloccati nel dire che i nostri statuti hanno carattere pattizio; questa sappiamo è una bugia! Perché i nostri statuti vengono modificati con legge costituzionale dal Parlamento, quello dei consigli regionali è semplicemente un parere consultivo e chiaramente il parere di questi consigli regionali, che, tra l'altro, spesso hanno le idee confuse in materia di propria autonomia ed operano magari dietro contingenze casuali, è chiaramente un parere che ha scarsi riflessi. Al limite serve ad ostacolare un processo e un rinnovamento degli statuti, ma chiaramente non dà la spinta ad una vera riforma. Occorre invece affermare il valore primariamente politico delle nostre autonomie derivante dal fatto che i soggetti politici, popoli delle regioni ad autonomia speciale, sono preesistenti all'ordinamento repubblicano, sono preesistenti all'ordinamento dello Stato italiano, e questi soggetti politici quindi hanno piena legittimazione a stipulare con la Repubblica patti che vanno osservati da entrambi i contraenti e su cui devono vigilare organi giurisdizionali che non siano espressione di una sola parte.In questo senso si è mosso il Consiglio regionale della Sardegna approvando una mozione che dichiara la sovranità del popolo sardo sulla Sardegna. Quest'atto che il Consiglio regionale ha assunto a larghissima maggioranza, non può restare senza conseguenze, perché almeno per quanto riguarda la mia parte politica a questo atto seguiranno azioni politiche.
A Roma devono rendersi conto che la nostra autonomia non è una gentile concessione ma è un nostro diritto che intendiamo sviluppare e difendere.

MARIO PEPE, Presidente della Commissione parlamentare per le questioni regionali

Cedo la parola al collega Olivieri.

LUIGI OLIVIERI, deputato al Parlamento

Nell'ambito del tentativo, poi non riuscito a Rambouillet, di mettere d'accordo le parti in conflitto, uno degli atti che i negoziatori avevano sotto i propri occhi era la traduzione dello statuto di autonomia del Trentino-Alto Adige. Poteva benissimo essere tradotto lo statuto d'autonomia della regione Sicilia, che forse è ancora più avanzato dal punto di vista dei poteri che vengono riconosciuti a quella regione. In questo richiamo simbolico trovano ragioni attuali le specialità e la necessità che le specialità rimangano nel nostro disegno costituzionale. Alcune considerazioni. Il Presidente Maccanico diceva prima che è iniziato nel comitato ristretto il ragionamento sulla modifica degli statuti". L'iniziativa è partita soprattutto dalle ragioni a statuto ordinario e l'obiettivo sarebbe quello di far transitare anche nelle specialità la nomina diretta del presidente della giunta regionale. Penso che questa debba essere invece l'occasione nella quale le autonomie speciali mettono avanti tutte le loro esigenze per modernizzare i propri statuti. Quindi, penso che l'esempio debba essere quello delle ultime tre modifiche degli statuti che sono avvenute con leggi costituzionali che riguardavano tutte le autonomie speciali; ricordo, per ultima, la legge costituzionale n. 1 del 1993. Bisogna cercare di evitare quello che è avvenuto a livello di tentativo, poi fallito, di riforma della seconda parte della Costituzione in quella famosa norma transitoria nella quale alcune regioni facevano delle scelte ed altre tre ne facevano di diverse per quanto attiene la costituzionalizzazione o meno della normativa di modifica e di recepimento delle novità che la riforma costituzionale andava ad evidenziare.
Ebbene, qui bisogna fare uno sforzo di concertazione se vogliamo essere politicamente forti ed anche pregnanti. Bisogna cercare una maggiore unità tra le autonomie speciali. Non è pensabile che qualcuno si muova per un rafforzamento continuo della costituzionalizzazione dello statuto ed altri scelgano strade diverse. Magari forse alla fine arriveremo anche a questo! Però è necessario un maggiore momento di sintesi, di confronto e di riflessione. Io direi anche di più, la provocazione che stamattina il senatore Villone faceva va raccolta. E` pericoloso non rispondere a quella parte del dibattito che vi è stato in Commissione Bicamerale per quanto riguarda il federalismo fiscale: noi sul punto abbiamo dei meriti da vantare come regione a statuto speciale, perché se è vero che abbiamo dei decimi in più rispetto alle entrate dirette e indirette sulla fiscalità dello Stato, è anche vero che la gran parte di queste realtà autonomistiche hanno anche funzioni e compiti che le altre regioni non hanno e che sono in capo allo Stato, dal punto di vista sia della funzione amministrativa sia del loro finanziamento.
Quindi è opportuno un confronto sereno; noi dobbiamo uscire dalla logica difensiva dell'intendere la specialità come un momento di difesa nei confronti dello Stato. Noi dobbiamo pensare che la specialità deve essere un punto di riferimento per la modifica veramente federale del sistema costituzionale, dobbiamo rivendicare questo ruolo e fare in modo che le nostre esperienze, che sono molto avanzate, possano essere momento di riflessione, di ragionamento e di modifica costituzionale anche per tutte le altre realtà di regioni a statuto ordinario.

MARIO PEPE, Presidente della Commissione parlamentare per le questioni regionali

Cedo la parola al professor Pietro Ciarlo.

PIETRO CIARLO, Preside della Facoltà di giurisprudenza dell'Università di Cagliari

Al momento presiedo la Commissione paritetica per la Sardegna come membro di nomina governativa: è un punto di osservazione istituzionale modesto ma credo che tuttavia sia significativo. Se l'obiettivo che noi tutti comunemente ci proponiamo è la valorizzazione delle regioni, in particolare di quelle speciali, va detto che oggi è mutato l'indirizzo statale; da centralistica la politica dello Stato italiano è diventata una politica di valorizzazione delle autonomie territoriali. C'è ancora tantissimo da fare come tutti gli interventi hanno sottolineato. L'impegno attuale non può non contemplare anche il massimo sfruttamento delle potenzionalità che oggi l'ordinamento offre. Tutto questo si è manifestato anche in una diversa composizione delle commissioni paritetiche. Diversa composizione, diversa qualità della componente governativa; Bassanini invece di nominare consiglieri di Stato e consiglieri della Corte dei conti, un personale per mentalità molto centralistico, come era prassi precedentemente, ha nominato prevalentemente professori universitari notoriamente vicini al mondo delle regioni. Nelle commissioni paritetiche non si fronteggiano una parte e una controparte, ma si riscontra un agire comune ed il ministro Bellillo ha confermato questo indirizzo: nessuno di noi è stato sostituito o revocato dal nuovo ministro. Le commissioni paritetiche non possono essere caricate di attese cui non possono rispondere, il quadro costituzionale e quello che è, il quadro della legislazione è quello che è, l'attività delle regioni è quella che è. Certo il rendimento delle commissioni paritetiche deve essere migliorato, fortemente migliorato, ma come? Innanzitutto migliorando o creando effettivi canali di coordinamento tra le regioni a statuto speciale, che non possono andare in ordine sparso, non tanto alla trattativa col Governo, ma alla trattativa defatigante con la burocrazia statale, che è il vero nemico della valorizzazione delle autonomie territoriali in questa fase. Come avviene oggi il coordinamento tra le regioni speciali nelle commissioni paritetiche? Avviene in via del tutto paradossale. Sono i funzionari ministeriali che partecipando alle riunioni di tutte le commissioni ci dicono cosa accade nelle diverse Commissioni. Esiste un altro canale di coordinamento del tutto informale: il ministro Bassanini e il ministro Bellillo hanno nominato professori universitari che sono colleghi ed amici; c'era Gaetano Silvestri prima, adesso c'è Giovanni Pitruzzella nella Sicilia, Bin in Friuli-Venezia Giulia, Balboni in Valle d'Aosta e così via, ogni tanto ci sentiamo tra di noi, è un canale del tutto informale e se volete anche casuale, ma ancora un canale di ascendenza statale, come quello dei funzionari collaborativi che partecipano alle riunioni di tutte le commissioni paritetiche. Le regioni a statuto speciale devono coordinarsi, devono costruire un momento comune di lavoro nelle commissioni paritetiche. Questo momento troverà sicuramente una sponda nella componente statale delle commissioni paritetiche e nella politica, nella responsabilità dei ministri. Un'ultima annotazione. Due velocità: regione a statuto ordinario e regione a statuto speciale. Le regioni ordinarie spesso camminano più in avanti. C'è un punto delicato che le regioni a statuto speciale devono assumere in tutte le loro valenze ordinamentali, giuridiche dunque, e politiche. Oggi la legislazione ordinaria interviene direttamente sulla legislazione delle regioni a statuto ordinario e la modernizza, altrettanto non accade per la legislazione delle regioni a statuto speciale. Vi è una giurisprudenza costante della Corte costituzionale che sostiene che, ove vengano modificate le norme fondamentali della legislazione statale, la legislazione regionale incompatibile è da considerarsi abrogata. Le regioni a statuto speciale non accedono a questa giurisprudenza costituzionale e si crea una grande distanza tra regioni speciali e regioni ordinarie. Va chiarito un punto, che la cessazione di efficacia delle leggi regionali - a seguito della modifica delle norme fondamentali - non preclude alle regioni speciali di reintervenire su quelle materie con loro leggi regionali, ovvero alle commissioni paritetiche di intervenire su quei punti con norme di attuazione. Dunque in realtà le regioni speciali conservano intatte le loro competenze, anche ove si accogliesse l'indirizzo giurisprudenziale della Corte costituzionale, che da questo punto di vista parifica la posizione deteriore di ritardo che hanno le regioni a statuto speciale, che hanno piena possibilità di reintervenire con propria disciplina legislativa, ovvero con norme di attuazione su quelle materie.
Tuttavia al di là di questo punto che è centrale, vorrei ribadire che bisogna certamente avanzare rivendicazioni da parte delle regioni, ma anche entrare nell'ottica di utilizzare a pieno le potenzionalità che il momento politico offre. Credo che le regioni a statuto speciale, il Governo nella persona del Ministro e il Parlamento con la Commissione per le questioni regionali debbano trovare dei momenti di sinergia comune per dare piena attuazione al disegno autonomistico che ci viene anche dallo Stato, non solo dalle rivendicazioni delle regioni. Credo che in questa fase i grandi nemici non stiano nella politica statale, ma stiano nelle burocrazie, in quella statale ma non solo in essa.

MARIO PEPE, Presidente della Commissione parlamentare per le questioni regionali

Cedo la parola all'onorevole Meloni.

GIOVANNI MELONI, deputato al Parlamento

Condivido il concetto indicato nella relazione del professor Silvestri, e cioè che il federalismo, o se si preferisce la trasformazione che nel nostro paese è in corso, è un processo. Credo che la storia degli Stati federali sia una storia che dimostra come non si possa acquisire un modello di Stato federale a cui ricondurre tutte le caratteristiche che si esprimono con il termine federalismo. Detto questo mi pare che si possa osservare che il concetto di processo si attaglia particolarmente alla situazione italiana. Mi pare - ed è questa la regione per la quale sono voluto intervenire - che il progetto, il disegno di legge del Governo, che largamente ricalca il lavoro fatto nella Bicamerale, proprio sotto questo profilo, cioè sotto il profilo della processualità, in qualche modo sia carente e proprio a proposito delle autonomie speciali. Osservo che intanto forse - scusate la provocazione - sarebbe bene incominciare a dire che il termine di autonomie speciali e specialità forse in qualche caso può indurci in errore. Non credo che abbia, sotto questo profilo, ragione Villone quando dice che se tutto è speciale non c'è specialità: la moltiplicazione della specialità avviene come forme differenziate di autonomia, come una parte della dottrina propone che vengano chiamate appunto le autonomie speciali. Queste forme differenziate di autonomia possono essere tantissime senza che l'una e l'altra si elidano o entrino in contrasto. Sotto questo profilo, se intendiamo la specialità come forme differenziate di autonomia, stiamo parlando di poteri perché altrimenti non riesco ad intenderne il senso. Se stiamo parlando di poteri, anche l'altra obiezione, cioè che la specialità in relazione alle risorse troverebbe poi l'opposizione di tutte le regioni o di quelle regioni che vedrebbero una specialità non direttamente centrata sull'utilizzo delle risorse da parte della comunità nazionale, anche questa dovrebbe cadere perché l'autonomia differenziata si collocherebbe appunto nell'ambito di questo processo, ogni volta che si rinnova tra la comunità nazionale e la comunità regionale il patto per affrontare i problemi che in quella particolare comunità regionale devono essere affrontati.
Allora, trovo che vi è una qualche sorta di contraddizione tra l'articolo 4 e l'articolo 19. L'articolo 4 che in qualche modo si inserisce nel processo, perché propone la specialità come legge costituzionale e quindi come rinnovamento del foedus, anche se ciò naturalmente a fronte delle altre regioni che possono invece accedere a forme di specialità attraverso la legge ordinaria potrebbe sembrare un ostacolo.
D'altro canto però osservo che l'articolo 19 fa accedere le regioni cosiddette ordinarie a forme di specialità attraverso la legge ordinaria, però entro la limitazione dettata dagli articoli 117, 118 e 119, ossia escludendo qualsiasi forma di specialità che riguarda i poteri che già quelle regioni non hanno. Dunque questa forma differenziata di autonomia descritta è poco comprensibile specie per le regioni già speciali che si troverebbero in qualche modo compresse. Da questo punto di vista mi pare che il testo vada ripensato e vada introdotta la possibilità che effettivamente l'autonomia differenziata possa affermarsi giustappunto come processo.

MARIO PEPE, Presidente della Commissione parlamentare per le questioni regionali

Cedo la parola al consigliere regionale del Trentino-Alto Adige, Carlo Willeit.

CARLO WILLEIT, Consigliere regionale del Trentino-Alto Adige

Quando si parla di istituzioni, di riforme di istituzioni, di costituzioni, ho spesso la sensazione che si parli troppo di Stato, troppo di regione e troppo poco della popolazione, della gente per la quale lo Stato, la regione, l'istituzione deve essere creata. Ho questa sensazione perché parto da una situazione che mi sta particolarmente a cuore, quella della minoranza linguistica che io rappresento, quella ladina delle Dolomiti, distribuita su due regioni e tre province. Minoranza che attende tuttora un riconoscimento completo, uniforme ed unitario da parte dello Stato ma anche da parte delle regioni a statuto speciale e a statuto ordinario. Ritengo che la riforma delle istituzioni, la riforma dello Stato, dell'assetto costituzionale ed istituzionale, costituisca un'occasione unica per rendere un po' di giustizia e per dare un po' più di certezza a questa minoranza che non è trascurabile affatto, in Italia ed anche in Europa. Noi crediamo - ritengo che la garanzia prevista dall'articolo 6 della Costituzione non sia sufficiente - che occorra una concretizzazione di questo principio anche nella parte seconda, proprio nella parte riguardante la struttura dello Stato che imponga alle autonomie regionali la tutela delle minoranze attraverso il diritto di partecipazione alla gestione delle minoranze. Uso spesso fare riferimento alla recente Costituzione belga che trovo un bell'esempio, per noi almeno, per il nord d'Italia o per la Regione Trentino-Alto Adige, ove convivono due realtà, quella politica e quella culturale, con competenze esclusive senza interferenze nell'una o nell'altra; perché non si copia anche un modello buono una volta? Ritengo che questo principio debba trovare una concretizzazione e per quanto attiene i ladini, occorre trovare una tutela unitaria; non vedo altro ente capace di fare questo se non lo Stato fin tanto che le regioni stesse non riescono a superare i propri confini, fin tanto che non vogliono superare i propri confini, perché come detto la realtà ladina scavalca i confini regionali e deve essere dunque garantita una rappresentanza unitaria dei ladini.
Finisco facendo un piccolo appello proprio ai diretti interessati che siedono qui davanti a me. In questi giorni si esamina in Parlamento un disegno di legge di revisione dello statuto di autonomia proprio per la tutela della minoranza ladina; si tratta di una proposta molto parziale che considera solo alcuni punti; auspicherei che questi aspetti fossero disciplinati in modo migliore e inviterei a non trascurare in questa proposta di legge la tutela linguistica, perché senza tutela linguistica nell'ordinamento speciale del Trentino-Alto Adige non c'è tutela giuridica e non c'è tutela politica, perché tutto si basa sulla lingua a prescindere dai valori collegati di per sé alla lingua e alla cultura. Vi chiedo ancora di considerare anche la giusta partecipazione alla regola proporzionale che è molto complessa ma anche molto delicata. O è garantita la partecipazione del terzo gruppo, del gruppo minore dunque, o questo gruppo non può avere un futuro perché viene escluso dalla competizione e dalla gestione del bene pubblico.

MARIO PEPE, Presidente della Commissione parlamentare per le questioni regionali

Cedo la parola all'onorevole Leveghi.

MAURO LEVEGHI, Presidente del Consiglio regionale del Trentino-Alto Adige

Le prospettive delle autonomie speciali nel nostro ordinamento sono in questo momento condizionate da due fatti di rilevanza particolare; il primo, anche se appare minore, è il processo di semplificazione introdotto dalla riforma Bassanini. Il secondo è il dibattito che è avvenuto nel Paese e in Parlamento sulle proposte della Bicamerale. Rispetto alla prima questione che merita un cenno, debbo dire che senza entrare nel merito delle peculiarità degli statuti speciali e prescindendo dai problemi di carattere istituzionale e procedimentale che a costituzione invariata sono propri dell'ordinamento delle autonomie speciali, pare essenziale che anche a livello di autonomie speciali si proceda a riformare il sistema amministrativo non a spezzoni, ma nella logica integrata della riforma Bassanini. Con ciò non si vuole negare la positività dei singoli interventi legislativi che sono stati già effettuati nelle regioni o nelle province autonome, ma si vuole evidenziare il rischio che a limitare in questo senso l'intervento del legislatore locale verrebbe accentuata la maggiore autonomia amministrativa che oggi è propria delle regioni ordinarie. Sul secondo aspetto, il più rilevante invece, cioè lo stato dell'arte della riforma istituzionale e statutaria delle autonomie speciali, credo che dal nostro punto di vista il punto di partenza che dovrebbe essere acquisito è il dibattito della Bicamerale, ripreso solo in parte dal progetto di legge governativo. Prima questione: è stato affermato il principio della conservazione della specialità; in altre parole la nuova specialità non è superata dal federalismo, ma riparte dalle attuali specialità così come si sono storicamente organizzate nel loro ruolo e peculiarità statutarie. Seconda questione: il requisito della specialità viene fatto risalire alla norma costituzionale dagli statuti; in buona sostanza la conferma della specialità nonché della natura di legge costituzionale degli statuti porrebbe in essere una sorta di federalismo asimmetrico.Terza questione: il progetto della Bicamerale riservava allo Stato competenze proprie delle regioni a statuto speciale, prevedendo tra l'altro la possibilità di adeguare gli statuti alla nuova Costituzione laddove questa sia più favorevole. Vanno individuati gli strumenti di adeguamento e di rilancio delle autonomie speciali storiche con nuove norme transitorie della Costituzione. Le norme transitorie sono di fatto il passaggio obbligato per il mantenimento dei principi di specialità in un federalismo simmetrico. La trasformazione federale dello Stato deve avvenire nel rispetto dei trattati internazionali sottoscritti dall'Italia a favore e a tutela delle minoranze autoctone o comunque delle minoranze nazionali e non possono essere cambiati unilateralmente.
Per quanto attiene infine la regione Trentino-Alto Adige, dopo l'esperienza maturata sul primo statuto del '48 e sul secondo statuto del '72 che ha valorizzato il ruolo delle province autonome di Trento e Bolzano, credo si debba avviare una nuova fase di riforma che preveda una revisione profonda dell'intero sistema costituzionale su cui si basa la nostra specialissima autonomia. Punto fermo di questa auspicata riforma è la rivisitazione del ruolo dell'istituzione regione, che a giudizio di molti deve essere attualmente riconsiderata. E` stato evidenziato ed ampiamente condiviso che la rivisitazione dell'istituto regione debba prendere l'avvio da ciò che è stato indicato in sede di Commissione Bicamerale ove è stato previsto che la Regione Trentino-Alto Adige si articola nelle province di Trento e di Bolzano.
In questa formulazione emerge che le province autonome diventano elemento caratterizzante del sistema del Trentino-Alto Adige, pur mantenendo la tripolarità del sistema. Pur nella giusta considerazione quindi, di una maggiore caratterizzazione del ruolo delle province sono dell'opinione che nella revisione dello statuto d'autonomia dovrà essere comunque garantita la tripolarità che caratterizza l'assetto istituzionale del Trentino-Alto Adige e dovrà essere conferito all'ente regione un forte ruolo di coordinamento tra le due province.

MARIO PEPE, Presidente della Commissione parlamentare per le questioni regionali

Cedo la parola all'onorevole Fontanini.

PIETRO FONTANINI, componente della Commissione parlamentare per le questioni regionali

Questa mattina è stato ricordato quanto è accaduto nell'aula della Camera dei deputati in occasione dell'approvazione della modifica di alcuni articoli della Costituzione per l'elezione diretta del presidente della regione.
Penso che questa non sia una pagina da ricordare positivamente per quanto attiene l'autonomia delle regioni, anzi è una brutta pagina. Perché il Parlamento centrale, per adesso solo la Camera dei deputati (si tratta di una norma costituzionale quindi avrà la doppia lettura) ha imposto alle regioni a statuto ordinario una formula di governo ben precisa. Penso che sia un errore grossolano che sia imposta dal Governo "centrale" di Roma alle regioni una determinata forma di governo pensando che questa sia la panacea per situazioni contingenti di instabilità e di ingovernabilità di alcune regioni del nostro paese. Signori, stiamo modificando la Costituzione, andiamo a toccare uno strumento fondamentale che lega un po' questo paese perché spinti da situazioni contingenti, perché siamo convinti che l'elezione diretta del presidente della regione blocchi alcuni cambiamenti (alcuni "ribaltini" come sono stati chiamati) che sono avvenuti in alcune regioni. Spero che questo non si ripeta per le regioni a statuto speciale, penso e spero che da questo convegno esca una proposta forte per dire a Roma e alle assemblee legislative romane che assolutamente non si compia l'errore fatto per quanto attiene le regioni a statuto ordinario; cioè, che si vadano a modificare gli statuti indicando una forma di governo che Roma attualmente privilegia. Le forze politiche che adesso rappresentano sia la maggioranza che l'opposizione a Roma privilegiano l'elezione diretta dei presidenti. Guai se facciamo questo, guai se lasciamo in pratica a Roma il potere di legiferare in una materia così complicata. Le assemblee regionali devono avere potestà primarie ed esclusive in questa materia, non è possibile concedere a Roma di legiferare sulla forma di governo che la regione deve adottare e con la quale poi deve governare il proprio territorio. Spero anche che l'interlocutore non sia più il sottosegretario all'interno, signor ministro, ma spero di vedere lei in Commissione affari costituzionali, perché mi sembra che dovrebbe essere suo ruolo quello di dialogare con noi parlamentari ed anche con i rappresentanti delle regioni quando verranno ad esporre le loro posizioni. Qui non stiamo esercitando funzioni di polizia o di ordine pubblico o questioni minimali, qui stiamo modificando assetti costituzionali e soprattutto andiamo a toccare l'autonomia delle varie regioni. Spero che da questo convegno esca forte l'esigenza che non si possono apportare modifiche agli statuti senza il consenso dei consigli regionali, anzi direi meglio, non dobbiamo assolutamente lasciare questa potestà primaria - per quanto attiene la forma di governo e le altre forme di amministrazione - al Governo centrale, ma mantenerlo come elemento fondante dell'autonomia statutaria.

MARIO PEPE, Presidente della Commissione parlamentare per le questioni regionali

Cedo la parola al professor Andrea Pubusa.

ANDREA PUBUSA, Professore ordinario di diritto amministrativo presso la Facoltà di giurisprudenza dell'Università di Cagliari

Vorrei dire che questo convegno è stato eccessivamente spostato sul versante tecnico-giuridico, mentre lo è stato meno sul piano strettamente politico come ci si aspetterebbe da organi che sono essenzialmente politici. Sul piano strettamente giuridico l'argomentazione che faceva l'amico Villone nella sua introduzione difficilmente è contestabile. Si va ad una estensione massima della autonomia e quindi è difficile vedere spazi per la specialità. D'altra parte se oggi ci stiamo interrogando se la specialità abbia un senso e se molti lo negano è evidente che il modo in cui si è configurata la specialità, sia in termini costituzionali che nella costituzione materiale, dimostra o comunque lascia insorgere il dubbio che una specialità così pensata probabilmente non abbia più senso. Allora, delle due l'una: o come regioni speciali o come persone che si muovono nelle regioni speciali riusciamo a ripensare la ragione della specialità, oppure questa storia della specialità si chiude in una lamentazione destinata ad essere sopraffatta anche dai diversi rapporti di forza che esistono tra le regioni. Il problema fondamentale è quello di riuscire presumibilmente, regione per regione, o esaminando anche le aree del Paese a capire quale può essere o quali possono essere le ragioni differenziate su cui fondare la specialità. Ad esempio non ha senso avere statuti speciali simili tra regioni come la Sardegna, la Valle d'Aosta o il Trentino-Alto Adige, che hanno condizioni economiche, posizioni geografiche etc. diverse. Così come non si può negare - diceva il professor Silvestri - che qualcuno si domandi perché le regioni a statuto speciale abbiano di più delle altre. Il problema vero è che presumibilmente esiste una grande questione di poteri che riguarda tutte le aree sottosviluppate, in particolare il Meridione. Quindi una specialità io la vedrei in quel senso, che riguarda non singole regioni ma riguarda aree che hanno un certo problema. Pongo a tutti gli amici che vengono in Sardegna un quesito: a voi pare che anche nell'ambito di un rinnovato regionalismo, il problema del mare per quanto riguarda la Sardegna possa essere - come dire - superato? Vi pare che questo non sia un problema che necessiti di una qualche riflessione? Quando dico mare dico tutto ciò che sta intorno, sia come fatti culturali, sia come fatti anche materiali attinenti all'economia, al trasporto eccetera. A me non interessa se l'Emilia-Romagna acquista le competenze esclusive, a me ciò che interessa sapere è se siamo d'accordo o meno sul fatto che la Sardegna ha dei problemi che sono diversi e tali rimarranno rispetto a quelli che ha l'Emilia-Romagna.
Se noi individuiamo e concordiamo su questo, allora possiamo orientarci su un regionalismo veramente speciale perché ha una base comune lasciando poi alla regolamentazione pattizia la soluzione dei problemi propri di ciascuna regione. Cosa voglio dire conclusivamente: delle due l'una! Se rimaniamo in questa gabbia lamentiamoci sulla specialità, ma la specialità è finita. Se vogliamo salvare la specialità nel senso che effettivamente un problema di specialità esiste, allora dobbiamo fare meno i giuristi perché il momento giuridico consegue alle scelte e alla valutazione politica. Dobbiamo riconoscere specificamente e globalmente quali possono essere oggi per tutti e per ciascuno le ragioni dell'autonomia e le ragioni della specialità e poi tornare al momento giuridico. Diceva l'onorevole Bonesu: "La mozione sarda dice che ci deve essere una sovranità sulla Sardegna e sul mare", ovviamente bisogna intenderci cosa significa sovranità; ma che ad esempio ci sia la necessità per la Sardegna di avere una potestà che è completamente diversa da quelle che possono avere tutti gli altri sul mare, io su questo non avrei dubbi. Conclusivamente direi che se vogliamo salvare la specialità probabilmente dovremo accantonare gli schemi che cinquant'anni fa i costituenti di allora ci hanno dato, tornare alla politica e tornare a valutare noi stessi, poi vedere, prescindendo da quegli schemi, quale tipo di costruzione possiamo fare in relazione a queste questioni.

MARIO PEPE, Presidente della Commissione parlamentare per le questioni regionali

Ringrazio tutti voi per gli interventi ricchi di approfondimento giuridico, ma anche fortemente costruttivi sul piano del dibattito politico. Li accolgo tutti e ritengo che possano diventare motivi di fondo della interlocuzione tra rappresentanti delle autonomie regionali speciali, Commissione per le questioni regionali e il ministro Bellillo, perché insieme si possa portare avanti questo processo che deve essere poi definitivamente incardinato nel disegno di legge relativo all'ordinamento federale dello Stato italiano, che è stato recentemente presentato e sul quale insieme dobbiamo lavorare. Negli incontri che faremo ancora a Trieste cercheremo di mettere a fuoco le questioni della nuova specialità, in modo da non essere impreparati e da non chiedere tutto e niente al tavolo delle trattative, il tavolo delle interlocuzioni politiche dove c'è il rispetto e il riconoscimento della dignità e della rappresentatività delle autonomie speciali.
Pertanto io vi ringrazio per il contributo, è stato un ottimo livello di approfondimento, ringrazio soprattutto il professor Silvestri che ha dato indicazioni significative al lavoro che dovremmo fare in seguito e do la parola al presidente Selis perché su uno schema di risoluzione da approfondire, da integrare e da migliorare perchè possiamo continuare questo nostro lavoro.

GIAN MARIO SELIS, Presidente del Consiglio regionale della Sardegna

Solo pochissimi secondi, non solo e non tanto per ribadire il ringraziamento a tutti voi, al ministro Bellillo, al presidente Pepe, al professor Silvestri, ai presidenti Villone e Maccanico, a tutti i presenti. Certo il dibattito è stato approfondito, negli spazi di tempo ognuno di noi ha raccolto per le competenze - lo diceva il presidente Pepe - che gli sono proprie il massimo dei suggerimenti; a noi sembra però che questa sia una assemblea naturalmente atipica. E' un convegno e pertanto non ha funzioni deliberanti, però abbiamo diffuso uno schema molto informale di documento su cui sono pervenuti anche degli emendamenti e ne abbiamo fatto una seconda bozza. Che cosa può essere questo? Non un documento, perché un convegno non approva documenti, ma una proposta, uno schema che è emerso dal convegno con i suggerimenti che già in un primo giro di proposte hanno consentito una seconda bozza del documento, che ognuno di noi assume, per la parte che gli compete; per esempio prima che i consigli e le giunte partendo da questo documento lo formalizzino, lo arricchiscano lo propongano ai colleghi delle giunte e dei consigli esistenti o lo adottino quale passo ulteriore. Nell'adottarlo noi, consigli e giunte, lo manderemo naturalmente al Governo, alla Commissione questioni regionali, alle altre commissioni e naturalmente ai gruppi parlamentari. Naturalmente gli altri soggetti presenti (Governo e Commissione) ne hanno preso visione come schema e ne faranno l'uso che credono. La mia proposta è che allora a fine del convegno, conclusivamente, adottando uno schema di proposta ogni componente per la parte che lo riguarda arrivi a dargli una formalizzazione e una dignità politica.