5. LA PRESENZA MAFIOSA IN AREE NAZIONALI NON TRADIZIONALI

 

"(…) Secondo un giudizio assolutamente unanime, tra le cause maggiori di questi fenomeni (e comunque si tratta della prima in ordine temporale) c’è l’utilizzo improvvido e incauto dell’istituto del soggiorno obbligato.

Questa misura adottata con larghezza, senza scelte oculate e senza adeguate garanzie di controllo, ha praticamente disseminato in molte zone d’Italia (già di per sé appetibili) numerosi soggetti di inequivocabile matrice mafiosa e li ha radicati in zone che altrimenti sarebbero rimaste forse immuni.

(…) La seconda causa di spostamento di soggetti mafiosi nel centro nord è stata rappresentata dalla fuga dalle zone di origine o per necessità di sottrarsi a vendette di famiglie o di cosche rivali o per necessità di evitare controlli troppo rigorosi da parte delle autorità. In questo caso, evidentemente, si tratta di un dato pressoché inevitabile, a cui si può ovviare solo con un effettivo controllo del territorio nelle zone di destinazione e con la pronta sorveglianza su ogni soggetto trapiantato da sedi fortemente inquinate da insediamenti di tipo tradizionale.

La terza causa è costituita dai forti movimenti migratori che si sono verificati in questi anni, anzi in questi decenni, prevalentemente dal sud verso il centro nord. In sé, il fenomeno non è contrastabile ed anzi in alcuni casi è stato favorito ed incoraggiato là dove era richiesta una forte presenza di mano d’opera (Torino, Milano, ecc.). Inoltre, corrisponde ad un istinto naturale il fatto che chi vive in zone povere, stanco della miseria, cerchi di trovare miglior sorte nelle zone più ricche. Va chiarito subito che questo tipo di immigrazione non è in sé un fenomeno criminogeno e neppure un fenomeno da guardare con sospetto. Altrimenti si commetterebbe una vera e propria ingiustizia nei confronti dei tantissimi lavoratori che con le loro famiglie si sono trasferiti al nord, hanno trovato lavoro, hanno vissuto onestamente, si sono insediati stabilmente, hanno chiamato parenti ed amici ed hanno finito per inserirsi perfettamente nell’ambiente, specialmente là dove esso era più ricettivo (è il caso della Lombardia, ma anche della Toscana e di altre regioni del centro nord). C’è da dire però che se il movimento migratorio è consistente, finisce per comprendere una varietà di soggetti, che vanno da quelli più onesti a quelli più permeabili alle lusinghe del denaro, del facile arricchimento, del potere illusorio. Ed allora assieme agli onesti lavoratori immigrati, si sono inseriti sul territorio anche soggetti più disponibili ad altri tipi di attività; ed essi hanno costituito un punto di riferimento e di appoggio per quelle organizzazioni che avessero bisogno di manovalanza o comunque di riferimenti e di basi sicure.

(…) Un’altra causa è rappresentata dalla appetibilità delle zone di destinazione. E’ ovvio che non c’è interesse, per un’organizzazione criminale, a trasferirsi in una zona a basso reddito in cui non c’è attività industriale o agricola fiorente. Quindi, ci si rivolge soprattutto alle zone più ricche, più movimentate, che offrono maggiori possibilità di fare affari e di impiegare il denaro "sporco". Si spiega così perché tra le zone del centro nord alcune siano apparse, per chi voleva svolgere attività criminose di tipo mafioso, addirittura come un miraggio da raggiungere ad ogni costo.

(…) Naturalmente, all’estensione e diffusione del fenomeno ha contribuito, e non poco, la scarsa attenzione che ad esso è stata prestata, la complessiva sottovalutazione e la mancanza di misure adeguate per contrastarlo… Quasi dovunque l’intervento degli organi dello Stato è avvenuto con notevole ritardo, l’attenzione delle forze dell’ordine e degli stessi organi inquirenti della magistratura non ha – spesso – oltrepassato la soglia di quella dedicata a fenomeni di criminalità comune, i sistemi di controllo (non solo giurisdizionale, ma anche amministrativo) hanno assai raramente funzionato. uasi dovunque QQ

(…) Gli studi recenti in materia hanno delineato tre modelli tipici di manifestazione di fenomeni di criminalità organizzata di tipo mafioso, in una data situazione sociale.

La genesi può essere originaria, oppure imitativa, oppure ancora per colonizzazione.

Nel primo caso si tratta di un fenomeno endogeno: soggetti di origine mafiosa, insediati in una data zona, si organizzano nelle tipiche forme associative di stampo mafioso.

Nel secondo, si tratta di un fenomeno ad insorgenza successiva: gruppi di soggetti dediti ad attività criminali, non importa se originari di aree tradizionali oppure da esse indipendenti per origine, tendono ad ispirarsi ad un modello che appare ricco di prospettive e degno di imitazione; le cause possono essere molteplici, nel senso che una delle fonti sta proprio nell’informazione, un’altra nella latitanza e nella necessità di riorganizzarsi, un’altra ancora nel soggiorno obbligato o nella detenzione in aree non tradizionali.

Nel terzo caso, invece, i fattori che determinano l’esportazione del fenomeno possono essere molteplici e nascere dall’esigenza di decongestionare il territorio tipico o comunque di decentrare le attività criminali tradizionali. Oppure da quella di utilizzare, ai propri fini, le possibilità offerte da aree più ricche e comunque dalla stessa espansione dei fenomeni. In quest’ultima ipotesi, la decisione originaria può essere quella di trasferire uomini, risorse e apparati organizzativi in zone diverse, oppure quella di operare da zone tradizionali, ma appoggiandosi ad organizzazioni o soggetti che svolgono la loro attività localmente.

(…) Vale la pena di sintetizzare almeno alcuni degli elementi sui quali è indispensabile appuntare maggiormente l’attenzione, come indici di una possibile presenza mafiosa in aree non tradizionali:

  1. l’eccessivo turn-over di licenze commerciali;
  2. la frequente acquisizione di immobili e licenze con pagamento in contanti;
  3. l’acquisizione di beni immobili e/o attività produttive ed esercizi commerciali cui non segue alcuna concreta utilizzazione;
  4. il diffondersi di società finanziarie e di sportelli bancari al di là del normale sviluppo delle zone e al di là degli effetti della liberalizzazione del settore bancario e dei conseguenti interventi di banche straniere;
  5. lo squilibrio, in società registrate, fra oggetto sociale e capitale dichiarato;
  6. la diffusione dell’usura;
  7. l’accentuato interessamento da parte di personaggi e gruppi quanto meno sospetti verso società in stato di decozione; verso le aste giudiziarie; verso i fallimenti e la destinazione definitiva dei beni fallimentari;
  8. tutti i fenomeni ricollegabili a fatti estortivi (incendi dolosi, danneggiamenti, attentati);
  9. la partecipazione a gare di appalto, con offerte molto lontane dai valori medi da parte di aziende poco strutturate e poco dotate di mano d’opera;
  10. gli improvvisi arricchimenti;
  11. tutte le possibili forme di riciclaggio.

Questi indici che ovviamente possono e debbono servire da guida per gli organi investigativi, sono altresì utili sensori per l’attenzione e la possibile collaborazione attiva da parte dei cittadini, delle forze economiche e sociali, degli enti locali, dell’intera società civile" .

 

6. LE ALTRE MAFIE

 

6.1 Triadi cinesi

Le Triadi sono nate nella Cina imperiale del secolo XVII, quali sette segrete xenofobe, con lo scopo di rovesciare la dinastia straniera dei Chi’ng, originaria della Manciuria e restaurare quella autoctona dei Ming.

La denominazione "Triadi" è stata coniata dagli inglesi secondo l’interpretazione occidentale del loro simbolo rappresentante un triangolo formato dalle tre forze fondamentali (Cielo, Terra e Uomo), considerate gli elementi portanti dell’Universo. Lo sfondo ideologico nel quale va collocata la comparsa di tali società segrete è caratterizzato dall’incompatibilità, sfociata in veri e propri atti di intolleranza, tra la religione praticata dalla classe dominante, il Confucianesimo, e quelle seguite dalle popolazioni del luogo, il Buddismo e il Taoismo.

La costituzione attuale delle Triadi ha conservato solo alcuni dei gradi della scala gerarchica in vigore due secoli fa. Al vertice troviamo il "presidente" e il suo "vicario", nei livelli intermedi sono collocati il "Maestro d’incenso", che può anche identificarsi con il vicario, con il compito di assoldare i nuovi accoliti, l’ufficiale di collegamento, chiamato "Sandalo di paglia", l’incaricato della sezione combattente e della disciplina, il cosiddetto Polo rosso ed il perito di amministrazione e finanza, detto "Ventaglio di carta bianca". La mobilità verticale è rarissima per cui i singoli associati possono passare al massimo nel ruolo dei combattenti mentre la carica di vice capo o capo dragone è loro preclusa.

La struttura è, quindi, tipicamente verticistica ma i livelli più alti delle associazioni malavitose, pur avvalendosi dei profitti delle loro attività, non sono coinvolti direttamente nella gestione delle stesse. La loro funzione è quella di assicurare, per il carisma dovuto, maggiore credibilità ai membri della setta che, in tal modo, sono legittimati a stringere accordi con gruppi Triadici o organizzazioni analoghe in altri Paesi. I vertici, inoltre, assicurano una "rete" di protezione e, all’occorrenza, di manipolazione di polizia e magistratura.

Nonostante l’esistenza di vincoli di fedeltà assoluta tra gli appartenenti alle Triadi, i dirigenti dei livelli intermedi trattano gli affari illeciti secondo moderne e vivaci attitudini imprenditoriali che consentono loro, non solo un totale arbitrio nella gestione degli stessi ma anche un ampio margine di trasgressione del proprio codice etico, in vista di vantaggiosi affari.

Il ricorso alla corruzione di funzionari pubblici e appartenenti al sistema bancario, è uno degli espedienti utilizzati dalle Triadi per espletare le attività illecite, come ad esempio: la falsificazione di atti, il gioco d’azzardo, il traffico di stupefacenti, la prostituzione (principale fonte di guadagno), le estorsioni, l’usura e il riciclaggio.

I gruppi Triadici si sono stanziati massicciamente a Hong Kongdove, secondo una stima della Royal Hong Kong Police Force, se ne contano da 30 a 60, con un esercito di 70.000 - 120.000 affiliati ai quali, secondo un rapporto dell’F.B.I., è riconducibile il 3% della popolazione locale. Il ritorno di questa colonia britannica alla Cina popolare, secondo gli investigatori, sta portando ad una migrazione delle Triadi verso altre destinazioni, non esclusa la Cina stessa che vede, nell’immissione massiccia nel proprio mercato finanziario degli ingenti capitali di natura illecita, fino a questo momento "amministrati" dagli istituti di credito di Hong Kong, il motore propulsore del nuovo corso economico di modernizzazione e liberalizzazione intrapreso dal governo cinese già dal 1978 con la "Seconda rivoluzione" di Deng Xiaoping.

Segnali della presenza di associazioni illegali cinesi sul nostro territorio sono desumibili da numerosi episodi di intimidazione registrati a danno dei loro compatrioti. Le tipologie di reato commesse dagli aderenti ai gruppi triadici sono ricorrenti in tutti i Paesi nei quali le Triadi sono presenti e riguardano essenzialmente: i sequestri di persona a scopo di estorsione e gli investimenti sospetti quali l’acquisto di ristoranti a prezzi di gran lunga superiori a quelli di mercato. Le attività più redditizie vanno dall’immigrazione clandestina, gestita direttamente dalle organizzazioni presenti in Cina e ad Hong Kong, in collaborazione con quelle italiane, alla falsificazione di carte di credito, passaporti, permessi di soggiorno ecc., al gioco d’azzardo illegale, mentre l’esistenza di consolidate mafie indigene in Italia ha limitato, allo stato attuale, le infiltrazioni nel settore degli stupefacenti.

 

6.2 Mafia russa

La cosiddetta mafia russa, chiamata anche Organizatsya o Mafiya, nasce come piccola criminalità, con un basso grado di organizzazione, per perseguire l’obiettivo primario di soddisfare una domanda sia interna che estera, di beni resi irreperibili dall’economia pianificata ed ottenuti con la complicità di pubblici funzionari (c.d. mercato nero) e si evolve in criminalità organizzata con il passaggio all’economia di mercato.

La struttura della mafia russa, in senso verticale, insiste su tre livelli principali: uno composto da bande criminali di 10/15 persone, che però non possono definirsi vere e proprie cosche mafiose; un secondo, circa 500 cosche o brigade, di cui fanno parte 200/300 membri ognuna, sparse sul territorio, che controllano, anche mediante l’affiliazione, le bande più piccole; un terzo che i russi chiamano dei "ladri nella legge" - vor V zakone - in cui la mafia si fonde con la legalità e in alcuni casi con lo Stato. Le organizzazioni che fanno parte di questo livello sono circa 150 e sono in grado di condizionare pesantemente l’economia russa, trattando indifferentemente affari legali e illegali. I capi di queste organizzazioni sono spesso funzionari dello Stato o rispettabili uomini d’affari.

Dal punto di vista meramente operativo, le grandi cosche russe sono strutturate come una piramide: alla base i soldati, che comprendono spacciatori di droga, sfruttatori di prostitute, bari, picchiatori e killer; sopra il cosiddetto gruppo logistico, normalmente pregiudicati esperti; al vertice, il gruppo di sicurezza, i veri capi: avvocati, dottori, economisti, politici e alti funzionari dello Stato, che hanno il compito di gestire i grandi affari, fare ricerche di mercato, manipolare i media e persino curare l’immagine della cosca.

I gruppi sono divisi geograficamente per attività criminale ed operano prevalentemente nei centri industriali e ricreativi. Prendono il nome dalle regioni geografiche di provenienza, dai gruppi etnici di appartenenza (es. la mafia cecena) o dal nome del loro capo.

Non esiste nessuna gerarchia suprema o gruppo dominante della Comunità degli Stati Indipendenti (C.S.I.) che dirige tutte le attività della malavita organizzata in termini di struttura organizzativa, estensione geografica o dominio nazionale. I dati di intelligence più recenti parlano di un organo consultivo costituito dai c.d. "ladri nella legge" , il quale gestisce le situazioni di emergenza (es. l’arresto di un "ladro nella legge").

La debolezza dei vertici politici, la gravità della crisi economica e l’inesistenza di efficaci normative di contrasto hanno reso particolarmente favorevole l’estensione ai Paesi della C.S.I. di organizzazioni criminali straniere, l’interazione di queste ultime con quelle esistenti in loco e la possibilità di utilizzare quei Paesi per il riciclaggio del denaro sporco, lo spaccio di banconote false, nonché per acquisire il controllo sulla prostituzione e sui traffici di droga, armi, opere d’arte e materiali radioattivi. La principale attività della mafia russa rimane, comunque, l’estorsione (numerose sono le banche e le imprese che pagano le tangenti).

A livello internazionale la presenza della mafia russa è segnalata negli Stati Uniti, Israele, a Londra, in Svizzera, Austria, Germania, Irlanda del Nord, Finlandia, Francia e Italia.

Nel nostro Paese il fenomeno della mafia russa ha particolarmente investito l’Emilia Romagna (Rimini, Forlì, Modena e Bologna) dove sono stati arrestati trafficanti e spacciatori di droghe sintetiche. Arresti sono stati effettuati anche a Roma, Milano e in Versilia.

 

6.3 Mafia nigeriana

La nascita e lo sviluppo della mafia nigeriana sono legati al collasso del prezzo del petrolio avvenuto agli inizi degli anni ‘80, nonché alla instabile situazione politica. La Nigeria reggeva la sua economia per il 95% proprio su questa risorsa. Molti esponenti della classe dirigente nigeriana si sono alleati con il crimine per evitare di perdere i loro ingenti guadagni.

La mafia nigeriana, composta di persone con un elevato grado di scolarità e dotata di una forte adattabilità e capacità di individuare nuovi traffici, ha assunto un ruolo di riguardo nel mondo del crimine organizzato. Il raggio d’azione delle organizzazioni nigeriane, costituite principalmente da soggetti di etnia Ibo o Yoruba, presenti sia nel traffico di eroina che di cocaina, attualmente investe numerosi Paesi, quali: Germania, Spagna, Portogallo, Belgio, Romania, Inghilterra, Austria, Stati Uniti, Croazia, Slovenia, Repubblica Ceca, Ungheria, Ucraina, Polonia e Russia.

In Italia le zone più investite e di maggior aggregazione sono Napoli, il litorale Domitio e l’hinterland romano.

La mafia nigeriana è coinvolta anche nello sfruttamento della prostituzione di proprie connazionali, per lo più clandestinamente immigrate, nelle città di Torino, Milano, Trieste, Udine, Padova, Treviso, Vicenza, Rovigo, Ravenna, Rimini, Ancona, L’Aquila, Perugia. Le uniche regioni in cui il fenomeno non pare essere capillarmente diffuso sono la Puglia, la Calabria e la Sicilia, forse proprio a causa dello stretto controllo del territorio che le criminalità organizzate locali ivi esercitano.

 

6.4 Yakuza giapponese

Il termine Yakuza deriva da un gioco di carte chiamato "Hanafuda" in cui la combinazione numerica 8(YA) - 9(CU) - 3(ZA) costituiva il punteggio più basso, perdente. Da qui è emersa, secondo la tradizione, la denominazione della mafia nipponica alla quale, in origine, avrebbero aderito diseredati, emarginati e venditori ambulanti ai fini di assistenza reciproca.

In ogni caso, le organizzazioni attualmente attive in Giappone si richiamano a codici cavallereschi, cerimoniali di carattere religioso (Shintoista) e simbologie che rispecchiano la continuità con il passato di tradizione feudale.

Tipico esempio è rappresentato dal rito di affiliazione di un nuovo adepto che si sostanzia in una cerimonia di iniziazione in cui lo oyabun (padre) porge una tazza di sake (bevanda alcolica) al kobun (figlio) che viene poi presentato ai partecipanti da un torimochinin (mediatore).

Tale sistema pone in risalto l’importanza attribuita alla ikka o gumi (famiglia), sia pure intesa in senso figurato.

Colui che ricopre la carica paterna assicura protezione al figlio ricevendone in cambio assoluta obbedienza; il figlio, d’altra parte, riconosce nello "oyabun" l’autorità suprema e usufruisce del prestigio della "ikka" di appartenenza nella gestione dei propri affari. L’eventuale inosservanza al voto di fedeltà o le infrazioni del codice etico della "ikka" sono punite con pene che vanno dalla sospensione temporanea all’espulsione dalla famiglia per arrivare anche, in casi estremi, alla morte dell’affiliato.

La mancanza della falange e i tatuaggi sul corpo raffiguranti samurai, serpenti e draghi, sono un segno inconfondibile di appartenenza alla Yakuza, anche se oggi sono sempre meno comuni, mentre rimane in voga il citato rito di iniziazione.

Fino al 1992, le organizzazioni Yakuza erano considerate libere associazioni di tipo solidaristico, godevano dell’appoggio politico, avevano propri uffici ed un proprio emblema. Si pensava addirittura che assolvessero ad una funzione positiva quella, cioè, di organizzare le bande criminali disciplinandone l’attività in modo da evitare la formazione della microcriminalità da strada.

La Yakuza è suddivisa in circa 3.500 gruppi, ognuno dei quali, composto in media da trenta, quaranta membri, è indipendente dagli altri; non esiste, infatti, una "cupola" nel senso occidentale del termine, ma ogni clan ha un suo leader che controlla un territorio specifico la cui estensione rispecchia l’egemonia della famiglia e il potere del boss. Il gruppo è strutturato verticisticamente secondo il già citato legame padre e figlio. Nella scala gerarchica i ranghi inferiori, legati tra loro da vincoli di tipo orizzontale, gestiscono materialmente le attività illecite, mentre i capi, vere e proprie autorità con funzioni di supremo arbitraggio, si astengono da ogni ingerenza nei traffici delittuosi. Il loro elevato standard di vita viene assicurato dai versamenti in denaro da parte dei singoli membri del gruppo. Questi, infatti, cedono regolarmente gli introiti, derivanti dai delitti, alla "ikka" di appartenenza e, per converso, ricevono dallo "oyabun", in caso di cattura e detenzione, sostegno per le spese legali e per il sostentamento dei propri famigliari.

Attualmente è stata sperimentata un’altra forma aggregativa di tipo federativo che prevede l’alleanza tra diversi gruppi e famiglie. Il capo di ciascuna famiglia inserita nella struttura federativa si pone sullo stesso livello degli altri capi famiglia con cui concorre nel prendere le decisioni più importanti, conservando in questo modo notevole autonomia e prestigio personale.

In ogni caso, peculiarità comune ai vari gruppi della mafia nipponica è rappresentata dallo stretto legame con la cultura e la società giapponese per cui possono entrare a far parte dell’organizzazione solo elementi criminali della medesima etnia del gruppo, fatta eccezione per i livelli più bassi dove è possibile trovare "soldati" appartenenti alle minoranze coreane oppure agli emarginati per motivi religiosi o culturali.

Le principali attività nelle quali è coinvolta la Yakuza sono: il traffico di stupefacenti, il gioco d’azzardo, le scommesse clandestine, lo sfruttamento della prostituzione (ai quali si collegano la pornografia e i c.d. "sex tour") e le estorsioni su tutto il territorio giapponese.

Oltre alle attività sin qui elencate, la criminalità nipponica si è distinta per il graduale inserimento nell’economia legale con una massiccia penetrazione di elementi criminali nei mercati finanziari e nelle grandi multinazionali giapponesi.

In Italia non si avvertono attualmente sintomi significativi di questo fenomeno.

 

6.5 Cartelli colombiani

Le organizzazioni criminali che operano in Colombia, note con la denominazione di "cartelli della droga", sono nate e si sono sviluppate tra il 1972 e il 1975, quando la coltivazione della marijuana, fino ad allora particolarmente fiorente, ha subito una battuta d’arresto in seguito alla vigorosa offensiva delle autorità colombiane con la conseguenza di un incremento vertiginoso della cocaina.

Nel linguaggio comune il termine "cartello" indica un accordo tra produttori per il controllo dei prezzi sul mercato al fine di evitare la concorrenza. Applicato ai gruppi di "narcos" colombiani, il "cartello" designa un sistema organizzativo molto simile ad un sistema imprenditoriale che lega tra loro, con accordi e patti di vario genere, singoli soggetti o gruppi, senza peraltro sottometterli ad una struttura gerarchica e piramidale come quella di Cosa Nostra; l’unica analogia tra i capi delle organizzazioni mafiose ed i vertici dei cartelli, si riscontra nella capacità di controllo del territorio.

Il "cartello" è diretto da un capo che prende le decisioni con l’assistenza dei suoi uomini di fiducia, i quali si interessano delle operazioni commerciali, finanziarie e militari, coinvolgendo spesso le proprie famiglie in attività particolarmente delicate. Ogni singolo componente espleta la sua funzione con un discreto margine di iniziativa e di responsabilità, anche se con carattere di complementarietà nei confronti delle altre parti.

I cartelli sono strutturati per settori: un settore tratta il commercio della droga, un altro l’aspetto finanziario, un altro l’aspetto della sicurezza, nel senso della difesa del prodotto, dei vertici dell’organizzazione e, inoltre, esegue le sentenze emesse all’interno dell’organizzazione; un ultimo settore riguarda le telecomunicazioni.

L’organizzazione, compartimentata, fluida e mobile per la variabilità dei suoi ruoli e delle alleanze, ne rende particolarmente difficile il contrasto e produce collusioni e connessioni col sistema politico ed imprenditoriale della società colombiana.

I due "cartelli" più importanti sono quello di Calì e quello di Medellin.

Il cartello di Calì, formato da esponenti della borghesia medio-alta, infiltrati nel tessuto economico e sociale, possiede una struttura dirigenziale decentrata e maggiormente ispirata a criteri imprenditoriali. I suoi componenti, che si contraddistinguono per una spiccata professionalità, prendono congiuntamente le decisioni di maggiore importanza. Ciascun dirigente, che è paragonabile più ad un manager che ad un "signore della droga", si occupa di un determinato settore di attività (produzione, trasporto, distribuzione, riciclaggio del denaro).

Il cartello di Medellin, nato da un’ansia di affermazione legata agli umilissimi natali di molti dei suoi leader, è invece un cartello di tipo piramidale e verticistico, in cui tutte le decisioni vengono prese direttamente dal capo.

Gestendo la mafia colombiana il commercio clandestino della maggior parte della cocaina prodotta nel mondo, tutte le organizzazioni che si occupano del traffico di stupefacenti sono in contatto con questa. Esistono accordi di cooperazione con Cosa Nostra americana, con la Camorra, la ‘Ndrangheta, la Nuova Sacra Corona Unita, la Yakuza giapponese e le Triadi cinesi.

Tra le rotte internazionali del narcotraffico, i Paesi dell’Europa dell’Est, per la presenza di vari aeroporti situati in posizioni geografiche molto favorevoli e di una articolata rete stradale e ferroviaria, vengono attraversati dai corrieri colombiani per portare l’eroina e la cocaina nell’Europa occidentale. In Europa, i cartelli hanno investito ingenti quantità di "denaro sporco" in proprietà immobiliari, catene di alberghi, centri di turismo, agenzie viaggi, locali notturni, casinò, grazie anche alla rete di contatti intessuti con le organizzazioni locali.

La Spagna rappresenta un punto di transito per la cocaina diretta verso la Germania, l’Italia, i Paesi Bassi e la Russia. Secondo gli investigatori, i cartelli colombiani utilizzano il nostro Paese non soltanto per il traffico di stupefacenti, ma anche per le attività di riciclaggio.

 

6.6 Criminalità albanese

La principale delle attività illegali gestita dalla criminalità organizzata è, dopo lo sfruttamento della prostituzione, quella del contrabbando dei tabacchi lavorati esteri, che riguarda in primo luogo la delinquenza pugliese e campana, attualmente attestate anche in Montenegro. Non meno preoccupante è il ruolo che sta assumendo l’Albania nel panorama internazionale del traffico di stupefacenti. Vi si produce in quantità notevoli marijuana di ottima qualità; simili risultati sta ottenendo la coltivazione della canapa indiana. Questi prodotti vengono esportati dall’Albania quasi interamente in Italia, in parte destinati al mercato interno e in parte diretti verso il centro e nord Europa.

L’Albania con i suoi porti sull’Adriatico, per i suoi confini terrestri che, attraverso la Macedonia e la Bulgaria, la collegano alla Turchia, viene sempre più spesso interessata al traffico dell’eroina che prima seguiva la cosiddetta "rotta balcanica". Non va neanche escluso che in territorio albanese possano essere stati impiantati laboratori per la trasformazione della morfina base ed addirittura viene segnalato che sulle alture dell’interno venga sperimentata la coltivazione delle piante di coca.

Per quanto riguarda lo sfruttamento della prostituzione va rilevato che si tratta della prima attività delittuosa realizzata in maniera sistematica ed organizzata in Italia dagli albanesi, che ha loro permesso di attestarsi in determinate aree ed addirittura di affermare, attraverso l’uso della violenza, una loro supremazia territoriale in diverse località del centro e del nord Italia non controllate dalla criminalità organizzata italiana.

Gli enormi profitti derivanti dallo sfruttamento della prostituzione sono in gran parte destinati agli affiliati e alle loro famiglie in Albania, ove il denaro contante, incassato dalle ragazze, è inviato, utilizzando, all’inverso, gli stessi canali dell’immigrazione clandestina. In parte, i proventi vengono reinvestiti nelle attività illecite: traffico di droga ed armi, acquisto di motoscafi e gommoni.

 

7. GLI ORGANISMI INVESTIGATIVI

 

7.1 La Direzione Investigativa Antimafia

Nell’ambito del Dipartimento della Pubblica Sicurezza con legge 30 dicembre 1991, n. 410 è stata istituita la Direzione Investigativa Antimafia (D.I.A.), alla quale spetta il compito di assicurare, in forma coordinata, lo svolgimento delle attività di investigazione preventiva attinenti alla criminalità organizzata nonché di effettuare indagini di polizia giudiziaria relative a delitti di associazione di tipo mafioso o, comunque, a fattispecie di reato ricollegabili all’associazione medesima.

La definizione e l’adeguamento degli indirizzi strategici dell’organismo competono al Consiglio Generale per la lotta alla criminalità organizzata, che determina anche la ripartizione degli obiettivi tra le varie strutture investigative, con particolare riferimento a quelle a carattere interforze, operanti a livello centrale e interprovinciale.

La D.I.A. è un ufficio interforze, composto di investigatori provenienti, in pari misura, dalle tre principali Forze di Polizia: Polizia di Stato, Arma dei Carabinieri e Corpo della Guardia di Finanza.

Nella struttura è presente anche personale dell’Amministrazione Civile dell’Interno e dei ruoli tecnico-scientifici della Polizia di Stato, che svolge attività di supporto tecnico, logistico ed amministrativo. L’attuale dotazione organica è pari a 1.462 unità

Al vertice della struttura è posto un Direttore scelto tra i funzionari della Polizia di Stato o tra gli ufficiali dell’Arma dei Carabinieri e del Corpo della Guardia di Finanza, con qualifica non inferiore a dirigente superiore o grado equiparato, che abbiano maturato una specifica esperienza nel settore della lotta alla criminalità organizzata.

Attualmente la D.I.A. si articola in una struttura centrale composta di tre Reparti ("Investigazioni Preventive", "Investigazioni Giudiziarie" e "Relazioni Internazionali ai fini investigativi"), una Divisione Gabinetto e sette Uffici (Ufficio Ispettivo, Informatica, Addestramento, Supporti Tecnico Investigativi, Amministrazione e Ragioneria); a livello periferico vi sono dodici uffici, denominati Centri Operativi.

Il Ministro dell’Interno riferisce ogni sei mesi al Parlamento sull’attività svolta e sui risultati conseguiti dalla D.I.A.

 

7.2 Il Servizio Centrale Operativo

Il D.M. 22 novembre 1989 ha istituito nell’ambito della Direzione Centrale della Polizia Criminale il Servizio Centrale Operativo della Polizia di Stato (S.C.O.).

Lo S.C.O., articolato in tre divisioni, costituisce l’unità organizzativa centrale in cui realizzare la lettura coordinata e globale delle attività sviluppate dagli organismi investigativi della Polizia di Stato.

Lo S.C.O. assicura l’uniformità dell’azione investigativa ed operativa, nonchè il razionale impiego delle risorse disponibili nella lotta alla criminalità; svolge direttamente le attività a carattere specialistico, a supporto delle attività investigative svolte dalle Squadre Mobili e dagli altri organismi di polizia giudiziaria della Polizia di Stato; intrattiene rapporti con la Direzione Nazionale Antimafia, la Direzione Investigativa Antimafia ed i servizi specializzati degli altri corpi di polizia. Il Servizio cura, inoltre, il flusso informativo verso la Direzione Centrale della Polizia Criminale proveniente dagli organismi investigativi territoriali della Polizia di Stato (Squadre Mobili, squadre di polizia giudiziaria dei Commissariati di P.S., ecc.).

Al Servizio Centrale Operativo sono funzionalmente collegati 26 Sezioni "Criminalità Organizzata" istituite presso le città sedi di Corte d’appello.

Tali sezioni costituiscono organismi interprovinciali specializzati nelle indagini concernenti la criminalità organizzata; sono incardinate nelle Squadre Mobili che mantengono una organizzazione unitaria, articolata in due comparti di cui uno destinato esclusivamente alle indagini sulla criminalità organizzata; hanno un ambito di competenza territoriale pari a quello delle Procure Distrettuali Antimafia.

 

7.3 Il Raggruppamento Operativo Speciale Carabinieri

Il Raggruppamento Operativo Speciale dei Carabinieri (R.O.S.) è stato costituito il 3 dicembre 1990 in attuazione del decreto legge 13 novembre 1990, n. 324, che ha previsto l’istituzione di Servizi Centrali ed Interprovinciali di Polizia Giudiziaria della Guardia di Finanza, della Polizia di Stato e dell’Arma dei Carabinieri, per assicurare il collegamento delle attività investigative relative ai delitti di criminalità organizzata.

Esso raccoglie l’eredità delle unità speciali di polizia giudiziaria costituite sin dal 1974 per contrastare il fenomeno terroristico-eversivo e rappresenta il risultato dell’evoluzione ininterrotta delle esperienze operative maturate nella lotta al crimine organizzato.

Il R.O.S. è inserito ordinativamente nella Divisione Unità Mobili e Speciali "Palidoro" e dipende funzionalmente dal Comando Generale sotto il profilo tecnico-operativo. A livello "centrale" è composto dal Reparto Anti Eversione, deputato al contrasto dell’attività terroristica ed eversiva interna ed internazionale, e dal "Servizio Centrale di Polizia Giudiziaria", articolato su tre Reparti: il primo si occupa di criminalità organizzata di tipo mafioso e della ricerca di grandi latitanti; il secondo tratta problematiche concernenti il traffico di armi e di sostanze stupefacenti ed i sequestri di persona; il terzo svolge l’analisi operativa.

A livello "periferico" operano le Sezioni Anticrimine, quali Servizi interprovinciali di Polizia Giudiziaria, inserite nei Comandi Provinciali Carabinieri aventi sede nei capoluoghi di distretto di Corte d’Appello e con forza organica variabile in funzione del territorio. Esse si avvalgono del supporto tecnico-logistico dei Reparti centrali, che assicurano anche il loro raccordo informativo, mentre il coordinamento e lo scambio delle informazioni con i reparti territoriali avviene per il tramite dei Comandi Provinciali. Inoltre, il I Reparto del Raggruppamento concorre, su richiesta dei Procuratori della Repubblica Distrettuali e con le procedure fissate dal Ministero dell’Interno, alle attività d’indagine svolte dai servizi interprovinciali relative ai delitti indicati dall’art. 51, comma 3 bis del c.p.p., qualora queste riguardino organizzazioni criminali che operano nell’ambito di più distretti di Corte d’appello o con collegamenti internazionali.

Il R.O.S. svolge la sua azione operativa con interventi in materia di criminalità mafiosa, eversiva e terroristica, sequestri di persona a scopo estortivo e narcotraffico, applicando anche gli speciali strumenti tecnico-investigativi creati per un più efficace contrasto delle anzidette forme di criminalità (ad esempio l’acquisto simulato di droga o armi, ovvero le indagini concernenti il riciclaggio e il reimpiego simulato di denaro, beni od altre utilità proventi di delitto, intercettazioni preventive, colloqui investigativi).

Al R.O.S. è anche affidato il compito di supportare informativamente gli altri Reparti Speciali dell’Arma (Nucleo Operativo Ecologico, Comando Antisofisticazioni e Sanità, Comando Tutela Patrimonio Artistico e Nucleo Antifalsificazione Monetaria) nel concorso alla lotta contro la grande criminalità.

 

7.4 Il Servizio Centrale di Investigazione sulla Criminalità Organizzata

Il Servizio Centrale di Investigazione sulla Criminalità Organizzata (S.C.I.C.O.) è stato istituito in attuazione della circolare n. 216093/310, del 10 luglio 1993, emanata a seguito della legge n. 203 del 12 luglio 1991, recante "Provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata e di trasparenza e buon andamento dell’attività amministrativa".

Prima dell’entrata in vigore della predetta legge, l’attività di contrasto alla criminalità organizzata da parte del Corpo della Guardia di Finanza veniva svolta da sezioni nell’ambito dei Gruppi dei Nuclei Regionali di Polizia Tributaria; successivamente il Comando Generale istituì, nell’ambito dei predetti Nuclei, i Gruppi Investigativi sulla Criminalità Organizzata (G.I.C.O.). Tali articolazioni, tuttavia, rispondevano prevalentemente ad esigenze di carattere locale; la mancanza di collegamenti con altri Reparti del Corpo o con paritetici organismi di Polizia produceva, infatti, limitazioni allo sviluppo delle indagini nel delicato settore. Al fine di ovviare a tali inconvenienti fu istituito l’Ufficio di Collegamento delle Attività Investigative sulla Criminalità Organizzata (U.C.A.I.C.O.) con il compito di coordinare le attività info-investigative svolte dai G.I.C.O. e di organizzare l’attività operativa in concerto, quando necessario, con altre Forze di Polizia. In seguito alla circolare del luglio 1993, dall’U.C.A.I.C.O. si è passati allo S.C.I.C.O.

Lo S.C.I.C.O. svolge una serie di compiti, tra i quali:

 

 

8. LA DIREZIONE NAZIONALE ANTIMAFIA

 

La Direzione Nazionale Antimafia (D.N.A.), dal punto di vista ordinamentale e strutturale, è una articolazione della Suprema Corte di Cassazione. Essa è stata istituita con D.L. 15 novembre 1991, n. 367, convertito in legge 20 gennaio 1992, n. 8. Nella nuova strategia dell’azione di contrasto alla criminalità organizzata, la D.N.A. svolge, sul versante giudiziario, il ruolo di centrale del coordinamento investigativo, in modo da fronteggiare adeguatamente l’organizzazione del crimine attraverso un’efficace organizzazione delle indagini. Questo ruolo viene esercitato, su tutto il territorio nazionale, dal Procuratore Nazionale Antimafia o, per sua delega, dai venti magistrati addetti alla Direzione Nazionale Antimafia.

Il Procuratore Nazionale Antimafia è un magistrato con qualifica non inferiore a quella di magistrato di Cassazione e viene scelto dal Ministro di Grazia e Giustizia, di concerto con il Consiglio Superiore della Magistratura, tra i magistrati che hanno svolto per almeno dieci anni le funzioni di pubblico ministero o di giudice istruttore. Egli svolge una incisiva attività di coordinamento nella specifica materia dei reati di competenza della D.N.A., vale a dire dei delitti commessi avvalendosi della forza di intimidazione e della condizione di assoggettamento e di omertà che derivano dal vincolo associativo di tipo mafioso (art. 416-bis c.p.), nonché dei delitti commessi al fine di agevolare l’attività delle associazioni mafiose (art. 630 c.p., sequestro di persona a scopo di rapina o estorsione e art. 74 Dpr 9 ottobre 1990, n. 309, associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope), e si avvale specificamente della Direzione Investigativa Antimafia (D.I.A.), nonché degli altri servizi centrali e interprovinciali di tutte le forze di polizia impegnati nel contrasto alla criminalità organizzata (il R.O.S. dei Carabinieri, lo S.C.O. della Polizia di Stato, lo S.C.I.C.O. e i G.I.C.O. della Guardia di Finanza).

Il nuovo assetto organizzativo degli uffici del pubblico ministero, disegnato dalla riforma del 1991, ha previsto la costituzione, nell’ambito delle 164 Procure ordinarie presso i Tribunali, di 26 Procure distrettuali antimafia, ove operano magistrati in possesso di specifiche attitudini da almeno due anni, con competenza di indagare sui reati sopra citati in un territorio coincidente con il distretto di Corte d’Appello nel quale ciascun ufficio ha sede.

Al fine di realizzare il coordinamento investigativo tra le forze di polizia e tra le diverse procure distrettuali antimafia impegnate in indagini collegate, il Procuratore Nazionale Antimafia può impartire specifiche direttive, indire riunioni tra i procuratori distrettuali interessati e, in casi eccezionali, può disporre l’avocazione del procedimento, assegnandolo a un magistrato della D.N.A. Il Procuratore Nazionale ha inoltre il potere-dovere di disporre l’applicazione temporanea di magistrati del suo ufficio o di altri uffici della Procura per la trattazione di procedimenti particolarmente complessi, aventi ad oggetto i "reati di mafia", al fine di assicurare l’efficacia, la continuità e la tempestività necessarie all’azione giudiziaria.

L’esercizio delle funzioni elencate richiede una approfondita conoscenza del fenomeno mafioso in tutte le sue manifestazioni nonché la capacità di promuovere, ai fini del coordinamento investigativo e della repressione dei reati, l’acquisizione e l’elaborazione di notizie, informazioni e dati attinenti alla criminalità organizzata. Tale conoscenza è assicurata, oltre che dall’esperienza e professionalità dei magistrati assegnati alla D.N.A., anche da una banca dati costituita sulla base di documenti informativi provenienti da fonte giudiziaria (sentenze, informative di reato dirette alla autorità giudiziaria, provvedimenti di cattura, dichiarazioni di collaboratori di giustizia, ecc.) opportunamente analizzati e organizzati su base informatica.

Presso la D.N.A. sono stati istituiti, inoltre, i seguenti dipartimenti: Dipartimento affari internazionali; tre Dipartimenti, rispettivamente su: Mafia, Camorra, ‘Ndrangheta e Sacra Corona Unita; Dipartimento relativo alle "Nuove mafie" (come quelle albanese, cinese e russa); Dipartimento Studio e Documentazione; Dipartimento Tecnico-Informativo.

 

9. I COLLABORATORI E I TESTIMONI DI GIUSTIZIA

 

9.1 I collaboratori di giustizia

Come abbiamo visto nei capitoli precedenti, le mafie sono organizzazioni criminali segrete che fondano il loro potere sull’esercizio della intimidazione e della violenza. In questo modo esse controllano il territorio, imponendo un atteggiamento omertoso sia ai loro affiliati, sia a coloro che su quel territorio vivono. Un elemento fondamentale, dunque, per la loro sconfitta è conoscere direttamente da chi ne fa parte, come tali organizzazioni criminali sono strutturate, quali obiettivi perseguono, quali strategie adottano, quali delitti hanno compiuto o intendono compiere.

L’importanza dei collaboratori di giustizia, come ha dimostrato anche la lotta contro il terrorismo, sta proprio nel fornire queste informazioni che, dopo una scrupolosa e attenta verifica, permettono alle forze dell’ordine e alla magistratura di arrestare altri mafiosi, di prevenire delitti e di rompere i rapporti tra mafia e alcune aree della politica, tra mafia e alcuni elementi del mondo degli affari e della finanza. Lo Stato, in cambio di queste informazioni, garantisce ai collaboratori di giustizia e ai loro famigliari un "sistema di protezione", il cui programma consiste in una serie di misure di tutela, di assistenza e di recupero sociale che, in deroga alla normativa vigente, assicurano a chi collabora condizioni di massima sicurezza e la ricostruzione di un vero e proprio "progetto di vita".

In base a quanto appena detto, appare comprensibile e ragionevole sostenere che il termine "pentiti", di derivazione giornalistica, non definisce correttamente questo fenomeno che si sostanzia nella stipulazione di un "contratto" tra lo Stato e una persona che ha fatto parte di una organizzazione criminale. Infatti, pentito, nell’accezione etica, è colui che prova dolore o rimorso per ciò che ha o non ha fatto ed è pronto a redimersi. Il collaboratore, come documenta un recente e interessante saggio, è una persona che decide di collaborare con lo Stato, per altri motivi, spesso interrelati tra loro, quali:

  1. la voglia di vendetta;
  2. la perdita del consenso: il rifiuto dei valori dell’organizzazione criminale da parte di un settore significativo della società civile, il quale in precedenza aveva esplicitamente o implicitamente tollerato o appoggiato le sue attività eversive;
  3. un alto livello di conflitto all’interno dell’organizzazione criminale, al punto che il senso di identità e di solidarietà vengono meno;
  4. il verificarsi di un cambiamento "non autorizzato" delle regole dell’organizzazione, e/o la percezione di un tradimento dei valori in nome dei quali l’individuo si era affiliato;
  5. una mutata percezione della vittoria e della sconfitta, tale che l’organizzazione perde credibilità o legittimità agli occhi dei propri affiliati, mentre cresce l’autorevolezza dello Stato (essendo l’atto della dissociazione un implicito riconoscimento della superiorità dello Stato);
  6. la paura di una lunga detenzione;
  7. la paura del singolo per la sicurezza fisica, dentro o fuori del carcere, di se stesso, o dei propri familiari.

Un mafioso che inizia la sua collaborazione con lo Stato viola una regola fondamentale delle organizzazioni mafiose: la consegna del silenzio, che è garanzia del mantenimento della segretezza e di assicurazione dell’impunità. Non va dimenticato che le dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia e la dimostrata professionalità di alcuni magistrati, hanno reso possibile, negli anni ’80 a Palermo, la celebrazione del maxiprocesso a Cosa Nostra, al termine del quale sono stati inflitti ergastoli ai boss della "cupola".

E’ logico, dunque, che il collaboratore venga considerato dai suoi compagni e, dai famigliari che non condividono questa scelta, uno che ha tradito, un "infame"; per questo egli deve essere screditato, delegittimato e, infine, punito con la morte, sua, o di qualche suo parente o congiunto. La pena di morte, per le organizzazioni mafiose, rappresenta una sanzione il cui effetto è contemporaneamente quello di punire chi viola le regole (effetto punitivo) e di dissuadere chi intende farlo (effetto preventivo).

 

9.2 I testimoni di giustizia

L’attuale normativa definisce persone che collaborano con la giustizia "coloro che, anche dopo la condanna, si sono adoperati per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori ovvero hanno aiutato concretamente l’autorità di polizia o l’autorità giudiziaria nella raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti e per l’individuazione o la cattura degli autori dei reati" (Art. 58-ter, legge 354 del 26 luglio 1975, introdotto dall’art. 1 del D.L. 13 maggio 1991, n. 352).

La legislazione, inoltre, parla genericamente di misure di protezione e di assistenza "nei confronti delle persone esposte a grave e attuale pericolo per effetto della loro collaborazione o delle dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari e del giudizio" (art. 9 d.l. 15.1.1991 n. 8). Vi è cioè una considerazione unitaria della condizione dei testimoni e di quella dei collaboratori di giustizia, mentre, invece, esiste una profonda differenza fra gli uni e gli altri.

I testimoni di giustizia, a differenza dei collaboratori di giustizia, dei quali si è detto nel paragrafo precedente, sono persone non provenienti da ambienti malavitosi, perfettamente inseriti nella normale vita economica e sociale, spesso con avviate attività imprenditoriali. Costoro sono diventati testimoni per aver assistito a gravi eventi criminosi e per aver reso testimonianza, sempre decisiva, che ha consentito l’individuazione dei colpevoli e la loro condanna penale, oppure per essere parti offese di reati - di norma operatori economici vittime del racket dell’estorsione o di attività usuraie - che hanno deciso di opporsi e di collaborare con l’autorità giudiziaria, fornendo un rilevantissimo apporto alla disarticolazione di gravi forme di attività criminali. Come per i collaboratori di giustizia, anche i testimoni sono sottoposti ad un programma di protezione volto a garantire la loro sicurezza personale e familiare, nonché la possibilità concreta di potersi ricostruire una vita sociale e professionale.

 

9.3 Il sistema di protezione

Il sistema di protezione dei collaboratori di giustizia è disciplinato dalla L. 15 marzo 1991, N. 82, dal D.L. 24.11.94, n. 687 (Regolamento "pubblico"), dal D.M. 24.11.1994 (Regolamento "riservato") e dal D.M. 26.05.1995 (Riorganizzazione del Servizio Centrale di Protezione)e mira al raggiungimento delle seguenti finalità:

- garantire il massimo grado di protezione e di sicurezza ai collaboratori di giustizia ed alle loro famiglie;

- incentivare il fenomeno delle collaborazioni di "qualità".

La procedura per la definizione dello speciale programma di protezione viene inoltrata dal Procuratore della Repubblica, ovvero, previo parere favorevole di questi, dal Capo della Polizia o dal Prefetto alla Commissione Centrale (art. 10 L. 82/91), composta da un Sottosegretario di Stato, che la presiede, da due magistrati con particolare esperienza nella trattazione di processi per fatti di criminalità organizzata e da cinque funzionari e ufficiali esperti nel settore.

Presupposti fondamentali su cui deve fondarsi la proposta di applicazione del programma speciale di protezione sono:

1. manifestazione della volontà collaborativa

2. collaborazione prestata su uno dei reati di cui all’art. 380 c.p.p.

3. inadeguatezza delle misure ordinarie direttamente adottabili dall’Autorità di P.S. o dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria a fronteggiare il pericolo;

4. importanza della collaborazione offerta;

5. gravità e attualità del pericolo scaturente da tale collaborazione.

In attesa della delibera della Commissione Centrale, il Capo della Polizia può adottare, in via d’urgenza, le misure di tutela e di assistenza ritenute necessarie (le c.d. misure urgenti, che solitamente consistono nel trasferimento in località "protetta" e nella corresponsione dell’assegno di mantenimento annualmente stabilito dalla Commissione).

Sia nell’istruttoria per l’adozione delle misure urgenti, sia in quella relativa alla definizione del programma, è previsto il parere, a volte obbligatorio, altre facoltativo, del Procuratore Nazionale Antimafia; detto parere, però, non è mai vincolante.

La normativa prevede che il programma speciale di protezione sia definito dalla Commissione Centrale, senza però attribuire alla validità di detto programma un termine prestabilito. In effetti, si disciplina solo la cadenza delle verifiche che, periodicamente, devono essere esperite al fine di valutare l’adeguatezza del programma a fronteggiare la situazione di pericolo esistente; il termine per le verifiche viene stabilito dalla Commissione nello stesso programma e non può essere inferiore a sei mesi e superiore a cinque anni. Ove non venga indicato nel programma, il termine per le verifiche si intende fissato in un anno.

La verifica può essere chiesta ai fini della revoca del programma sia dall’Organo che ha effettuato la proposta di programma che dal Capo della Polizia. La revoca del programma può essere disposta dalla Commissione quando è cessata l’esposizione ad un grave e attuale pericolo, quando le misure ordinarie adottabili dall’Autorità di P.S. o dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria sono adeguate, quando le persone protette possono essere reinserite nel tessuto produttivo senza particolari timori per la loro incolumità, quando le stesse pongono in essere comportamenti consistenti in violazioni di leggi penali o, comunque del codice comportamentale. Nell’istruttoria per la revoca del programma, la Commissione deve comunque sentire il Procuratore proponente e, in alcuni casi, anche il Procuratore Nazionale Antimafia.

Il programma speciale di protezione prevede una serie di misure per la ricostruzione di un vero e proprio "progetto di vita". Tra le più importanti devono essere ricordate:

a) i documenti di copertura (carta di identità, patente di guida, codice fiscale, ecc.) che hanno valenza estremamente limitata e rigidi limiti di temporaneità;

b) il cambiamento di generalità (Art. 15 L. 82/91), da concedersi solo in casi eccezionali, quando ogni altra misura tutoria e di reinserimento sociale si sia rivelata inadeguata;

c) la possibilità di partecipare alle udienze processuali mediante il sistema delle videoconferenze;

d) l’assistenza economica (assegno mensile di mantenimento e canone di locazione dell’abitazione presa in affitto dal Servizio Centrale di Protezione), assistenza sanitaria, sociale e legale;

e) la possibilità di essere ammesso alle misure alternative alla detenzione (detenzione domiciliare, affidamento in prova al servizio sociale, ecc.) anche in deroga ai limiti vigenti, ivi compresi quelli di pena.

 

9.4 Il Servizio Centrale di Protezione

Il Servizio Centrale di Protezione è un Ufficio interforze istituito, ai sensi dell’art. 14 della legge 82/91, per l’attuazione degli speciali programmi di protezione ed assistenza per chi collabora con la giustizia e per i suoi famigliari, ed inserito nel Dipartimento della Pubblica Sicurezza, presso la Direzione Centrale della Polizia Criminale. A detto Ufficio il Capo della Polizia delega l’applicazione operativa delle misure urgenti di tutela antecedenti l’approvazione del programma speciale di protezione. In base al D.M. del 26 maggio 1995 il Servizio Centrale di Protezione si articola in 4 Divisioni "centrali" (1^ Divisione Affari Generali, 2^ Divisione Misure Urgenti, 3^ Divisione Programmi Speciali e 4^ Divisione, che si occupa degli aspetti economico-finanziari inerenti la gestione delle persone sottoposte a misure di protezione) e in 14 Nuclei "periferici", ossia, strutture dislocate territorialmente nelle aree "di protezione" cui la normativa assegna il compito di assicurare l’attuazione delle misure prettamente assistenziali e di quelle tutorie volte alla mimetizzazione delle persone protette (documentazione di copertura, alloggio segreto, ecc.); sono quindi tassativamente esclusi i compiti tutori di "sicurezza" (vigilanza in loco, accompagnamenti e scorte, ecc.) attribuiti, invece, agli Organi di Polizia territoriale.

 

 

9.5 Proposte di modifica della legislazione sui collaboratori di giustizia

Il 28 febbraio 1997 il Consiglio dei Ministri ha approvato un disegno di legge presentato dai Ministri dell’Interno e di Grazia e Giustizia intitolato: "Modifiche alla disciplina sulla protezione e sul trattamento sanzionatorio di coloro che collaborano con la giustizia" (A.S. 2207) che, attualmente, è in fase di discussione alle Camere.

Sul piano dei principi il disegno di legge conferma l’indispensabilità e l’importanza dell’istituto dei collaboratori di giustizia per il contrasto alla criminalità organizzata, la necessità di modificarne il trend, poiché il fenomeno ha assunto dimensioni quantitative non immaginabili dal legislatore nel 1991 e tali da renderlo in prospettiva ingestibile e, infine, prevede un uso più selettivo e rigoroso dei collaboratori stessi. Si propone, perciò, di limitare la normativa alle collaborazioni di eccezionale rilievo in tema di criminalità organizzata di tipo mafioso o finalizzata al traffico di stupefacenti, di terrorismo e eversione, di sequestri di persona a scopo di estorsione. Vengono, inoltre, proposti: una distinzione tra misure premiali (attinenti la condizione carceraria) e misure di protezione; l’ammissione ai benefici e ai programmi di protezione solo dei collaboratori che offrono un contributo indispensabile alle indagini e alla prevenzione di ulteriori crimini; una maggiore trasparenza nella gestione processuale e nel sostegno economico; una maggiore attenzione per le vittime dei reati e le persone offese, sotto il profilo risarcitorio.

Nello specifico il disegno di legge prevede che:

a) entro sei mesi il collaboratore, che durante tale periodo non è ammesso alla detenzione extracarceraria, deve riferire sui fatti più importanti da lui conosciuti (i "fatti indimenticabili");

b) il collaboratore deve indicare i beni derivanti da attività illecite o dal reimpiego dei proventi anch’essi illecitamente accumulati;

c) il patrimonio del collaboratore, o comunque nella sua disponibilità, dovrà essere spontaneamente ceduto all’Erario, senza attendere le procedure di sequestro e di confisca;

d) in fase di esecuzione della pena il collaboratore per ottenere la detenzione domiciliare o la liberazione condizionale deve aver espiato almeno un quarto della pena o, in caso di condanna all’ergastolo, almeno dieci anni;

e) il collaboratore ha l’obbligo di sottoporsi all’esame in dibattimento.

 

9.6 Proposte della Commissione parlamentare antimafia sul trattamento dei testimoni di giustizia

Nell'ambito della Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminali similari della XIII legislatura, il "Comitato di lavoro sul riciclaggio, il racket e l’usura" ha svolto una approfondita ricognizione dei problemi relativi ai testimoni di giustizia, ritenendo tale indagine del tutto pertinente alle proprie competenze, dal momento che la maggior parte dei testimoni di giustizia hanno reso le loro deposizioni nell'ambito di processi per estorsione e per usura.

Il Comitato ha avanzato, e la Commissione ha votato, le seguenti proposte in merito alla tematica dei testimoni di giustizia:

  1. distinguere la condizione dei "testimoni" da quella dei "collaboratori di giustizia", già sul piano delle enunciazioni di principio, oggi contenute nell’art. 9 del d.l. 15.1.1991 n. 8 (un emendamento in tal senso è stato approvato di recente dalla Commissione Giustizia del Senato);
  2. estendere anche alle vittime di estorsione l’escussione a distanza nei procedimenti penali;
  3. prevedere una norma risarcitoria e non premiale. Il testimone ha in comune con il collaboratore di giustizia l'esigenza di sicurezza, mentre invece non è interessato al profilo premiale, non avendo commesso alcun reato; il risarcimento da garantire attiene ai costi derivanti dalla collaborazione (l’abbandono della precedente attività, dei beni familiari, la sistemazione in una nuova casa di abitazione, ecc.), al ristoro per le perdite subite e per i mancati guadagni, al mantenimento di un livello di reddito e di una prospettiva di vita analoga a quella esistente al momento dell'inizio della collaborazione, e in particolare al finanziamento di una nuova attività lavorativa o della ripresa di quella antecedente;
  4. istituire all’interno del Servizio Centrale di Protezione un’autonoma divisione per i testimoni. Si avrebbe così, concretamente, una diversità di trattamento nell’assistenza da prestare, volta al reinserimento sociale dei testimoni e dei familiari, tenendo presente che si tratta di soggetti che nella loro generalità hanno una professionalità e una provata attitudine al lavoro.

e) commisurare, sul piano amministrativo, protezione e assistenza al rischio e ai bisogni della/e persona/e interessata/e, e non anche al grado e alla durata del giudizio nel quale si è collocata la testimonianza. In tal senso sono necessarie norme che colleghino i provvedimenti di revoca a elementi esclusivamente tecnici, e non a valutazioni ampiamente discrezionali. L’entità delle misure di assistenza deve essere proporzionata al tenore di vita che il testimone e i familiari tenevano prima dell’inizio delle dichiarazioni.

 

10. CONSIGLI COMUNALI SCIOLTI PER SOSPETTO DI INFILTRAZIONE MAFIOSA

 

Dal 1991 è possibile sciogliere gli organi politici, e cioè i sindaci, le giunte ed i consigli, degli enti locali per il sospetto di infiltrazioni o condizionamenti mafiosi. Tale possibilità è stata introdotta dalla legge n. 55 del 1990 che prevede la loro sostituzione con una commissione straordinaria nominata con un Decreto del Presidente della Repubblica su proposta del Ministro dell’Interno; in via d’urgenza il Prefetto può disporre la sospensione in via cautelare. E’ questa una sanzione avente carattere eccezionale e che si aggiunge alle ordinarie ragioni in base alle quali possono essere sciolti gli organi elettivi degli enti locali.

Ricordiamo che le principali ragioni ordinarie di scioglimento sono costituite dalle dimissioni del sindaco o del presidente della provincia, dalle dimissioni della maggioranza dei consiglieri, dalla approvazione da parte del consiglio di una mozione di sfiducia o dalla mancata approvazione del bilancio preventivo.

In tali casi viene nominato, sempre con Decreto del Presidente della Repubblica su proposta del Ministro dell’Interno, un commissario.

Un’altra forma di sanzione ordinaria è costituita dalla nomina da parte delle regioni di commissari ad acta, incaricati di sostituirsi agli organi elettivi degli enti locali che non hanno dato corso ad importanti adempimenti obbligatori, ad esempio la approvazione dei Piani Regolatori.

La durata degli scioglimenti ordinari è notevolmente più breve degli scioglimenti per sospetta mafiosità; nel primo caso tre mesi al massimo e comunque fino al primo turno di elezioni amministrative previste; nel secondo diciotto mesi prorogabili fino a ventiquattro mesi per specifiche e motivate ragioni.

Dal 1991 alla scorsa estate sono stati sciolti per condizionamenti o infiltrazioni mafiose centoquattro consigli comunali, di cui otto per più volte. Il fenomeno è negli ultimi tre anni in netto calo rispetto ai primi tre anni di applicazione. La gran parte dei comuni colpiti da tale provvedimento si trova nelle regioni "a rischio", cioè Calabria, Campania, Puglia e Sicilia.

Questa forma di scioglimento ha una carattere eccezionale; esso è infatti particolarmente lungo, sono previsti poteri rafforzati in capo alla commissione straordinaria ed essa non è un organo monocratico, cioè singolo, ma collegiale. Il provvedimento può essere assunto per ragioni collegate direttamente al funzionamento degli organi elettivi, anche a seguito di eventuali presenze condizionanti di singoli componenti; ma anche per la aggiudicazione di appalti ad imprese in odore di mafia o per la presenza di dipendenti sospettati di essere collegati con organizzazioni mafiose.

Non sono la città o tanto più la cittadinanza ad essere "marchiati" dal provvedimento, ma siamo dinanzi ad un provvedimento eccezionale voluto dal legislatore per rimuovere condizioni di patologia nel funzionamento delle istituzioni locali. Tale carattere di eccezionalità è confermato dai poteri aggiuntivi di cui dispongono i commissari. Infatti, la commissione straordinaria può, tra l’altro, annullare i contratti con le imprese sospette ed avvalersi di funzionari di altri enti pubblici o di professionisti di fiducia. La commissione è tenuta a ricercare forme di collegamento con la cittadinanza, a stimolare la partecipazione democratica ed a stimolare l’associazionismo.

I comuni sciolti per il sospetto di condizionamenti o infiltrazioni mafiose hanno forme di priorità nel sostegno finanziario agli investimenti per la realizzazione delle principali infrastrutture, anche negli anni immediatamente successivi all’insediamento dei nuovi organi eletti democraticamente.

Le relazioni che il Ministero dell’Interno presenta con cadenza trimestrale al Parlamento, sulla base di quanto prescritto dalla legge n. 55/90, indicano un bilancio sostanzialmente positivo dell’applicazione della norma.