Venerdì, 19 marzo 1999

        I lavori hanno inizio alle ore 10,15.

Presidenza del senatore Ottaviano DEL TURCO,
Presidente della Commissione parlamentare antimafia
L’informazione e i fenomeni di mafia internazionale

Tavola rotonda

Moderatore: dottor Sergio Zavoli

        Partecipano: il dottor Giulio Borrelli, direttore del TG1; il dottor Enrico Mentana, direttore del TG5; il dottor Paolo Garimberti, vice direttore de "la Repubblica"; il dottor Marcello Sorgi, direttore de "La Stampa"; il dottor Ferruccio De Bortoli, direttore del "Corriere della Sera".

        PRESIDENTE. Ringrazio molto i nostri ospiti che hanno accettato l’invito rivolto loro dalla Commissione antimafia, innanzitutto il moderatore Sergio Zavoli e via via i direttori delle più importanti testate giornalistiche e televisive del nostro paese.         Questa è una vera novità per i nostri lavori; abbiamo sempre cercato interlocutori che ci parlassero il linguaggio che conosciamo meglio, quello dell’indagine e della ricerca sulle organizzazioni criminali. Oggi ci misuriamo con coloro che ci spiegano, più o meno bene, in molte circostanze, i risultati dell’azione delle forze dell’ordine, dei magistrati, delle istituzioni preposte al contrasto dell’attività criminale.
        Lascio ora la parola a Sergio Zavoli, però vorrei cominciare, come si conviene quando si parla con dei giornalisti, con una notizia; naturalmente spetterà a loro decidere quanto sia grande o piccolo il valore di questa notizia.
        La notizia riguarda un evento che avrà luogo domenica mattina, alle ore 12, in un paese che si chiama Corleone, e che, per chi ricorda la storia del dopoguerra, è, nel 47, il paese del dottor Navarra e dei suoi picciotti, uno dei quali si chiamava Luciano Liggio, che uccise nella piazza del paese un sindacalista socialista che si chiamava Placido Rizzotto. Di Placido Rizzotto non venne ritrovato praticamente nulla, solo le scarpe e le stringhe delle scarpe.
        Conoscete poi la storia. Una delle più belle copertine del giornalismo italiano è probabilmente quella de "L’Espresso" che propone l’immagine di una vecchia "1100-103" crivellata di colpi. Era la macchina del dottor Navarra. È una copertina del 58: siamo alla fine degli anni Cinquanta, gli anni in cui si svolge una piccola guerra di mafia fra i corleonesi; muore la vecchia mafia dei feudi e dei giardini e comincia a vincere la mafia che interpreta il nuovo, quella di Luciano Liggio. Vengono poi i corleonesi guidati da Totò Riina.
        Bene, la storia di questi anni la conoscete tutti perfettamente e non voglio ripercorrerla. Domenica mattina succede qualcosa di eccezionale: un gruppo di parlamentari della Commissione antimafia, della maggioranza e dell’opposizione, con il Presidente e i vice presidenti della Commissione stessa si ritroveranno a mezzogiorno nell’aula dell’Istituto agrario di Corleone. Questa non sarebbe di per sé una notizia, capisco che per tutti i giornalisti presenti non lo è; la notizia sta nel fatto che l’aula dell’Istituto agrario di Corleone è una parte di una villa che era di proprietà di Totò Riina, anzi era il segno del comando, del potere, della ricchezza, del dominio di quella famiglia su tutti i clan corleonesi e sulla vita di Corleone. Se posso usare questa formula, domenica mattina il Parlamento riprende possesso di una parte del territorio dello Stato che era stato sottratto al suo dominio. Questa è la notizia.
        Siccome non abbiamo l’abitudine di ringraziare i giornalisti con dei gadget della Commissione che, per il lavoro che facciamo, sarebbero terribili perché riferiti sempre a cose non simpatiche, l’unica forma di gratitudine che possiamo esprimere è quella di darvi una buona notizia come quella che ho appena dato.
        Do quindi la parola al dottor Sergio Zavoli.

        ZAVOLI Sergio. Siamo chiamati ad inserirci in questo Convegno con una responsabilità particolare, quella di dar conto di come il mondo dell’informazione segue, interpreta e diffonde le problematiche gravi, inquietanti che ci circondano. Non per mettere le mani avanti, perché oltretutto non ne avrei titolo, perché non sono qui per interpretare le prerogative e men che meno interessi corporativi, vorrei dire che il mondo della informazione in questo tempo che stiamo vivendo è condizionato da fattori obbliganti e a loro volta anche gravi. Per esempio la velocizzazione che si va producendo in tutte le manifestazioni della realtà del mondo investe l’informazione in un modo che non può lasciarci indenni. Va da sé che la rivoluzione non è più il cambiamento, ma la velocità del cambiamento; che la velocizzazione degli eventi ha introdotto nella informazione il bisogno sempre più affannoso di starvi dietro, con la difficoltà spesso di riuscirvi. Secondo Naisbitt, futurologo di grande fama – molto usato ed abusato – per la verità, staremmo vivendo addirittura nella civiltà della parentesi. Che cosa vuol dire Naisbitt? Che tutto quanto accade non ha più stretto riferimento con ciò che sappiamo, men che meno con l’opinione che ci facciamo dei fatti. È venuto meno il rapporto fra il prima e il dopo, fra la causa e l’effetto; questa "coriandolizzazione" della realtà prodotta dalla velocità dell’informazione non ci consente più di indugiare su nulla, sicché tutto parrebbe diventare accessorio, marginale, fungibile, ritrattabile. Siamo alle prese con una informazione che irrompe ogni giorno nelle nostre case a una velocità crescente. Di qui la responsabilità di continuare a fare il nostro mestiere secondo le modalità che si richiedono professionalmente e i principi, i criteri, i valori che sarebbero auspicabili dal punto di vista della partecipazione civile e etica.
        Abbiamo affrontato e stiamo affrontando, nel nostro paese, tre emergenze. La prima, debellata, quella del terrorismo. La seconda, Tangentopoli, si trascina con i suoi colpi di coda, ma vi sono segni emblematici, come la nomina del dottor Borrelli a procuratore generale, a indicarci che forse siamo alle soglie di uno scenario nuovo e che qualcosa, al centro di questo straordinario e grave fenomeno, va in qualche modo ridimensionandosi.
        La terza, invece, è l’emergenza nella quale ci troviamo immersi, e non a caso è l’argomento di cui si occupa questo Convegno: la mafia, con le sue complicazioni gravi. Fenomeno transnazionale, lo ha definito Borrelli, e il presidente Del Turco si è dichiarato d’accordo. Pare vada producendosi qualcosa di sinergico, nella sua perversione, che sta mettendo insieme pezzi di mafia all’interno di un interesse comune. Se cambiano le strategie e i metodi non vengono meno, anzi aumentano l’aggressività e l’inquinamento prodotti da questo fenomeno. La perspicuità criminale, cioè la sua fantasia, il suo acume, e lo sforzo da parte della stampa per tenervi dietro, sono due realtà sotto i nostri occhi. Bisogna studiare, indagare, prevedere e, al tempo stesso – ciò riguarda le forze dell’ordine, le istituzioni e lo Stato – prevenire, dividendo e scompaginando i sistemi che vanno organizzandosi intorno a noi. Le tre mafie, quella propriamente detta, la camorra, la ’ndrangheta, alle quali si potrebbe aggiungere, sebbene abbia subito colpi durissimi – e il maxiprocesso sta a testimoniarlo – anche la sacra corona unita, sono la forma di una criminalità cresciuta all’interno di culture proprie, con identità sociali precise, con caratteristiche criminali ben definite. Ciò implica che il fenomeno si costituisca come una vera e propria categoria eversiva cui lo Stato, le istituzioni, la cittadinanza devono dare risposte appropriate.
        Anche qui, per la natura stessa del suo operare, è assolutamente strategico il ruolo dell’informazione. Che non deve essere di segno virtuoso, né pedagogico – non è questo il nostro mestiere – ma strumentale, legato cioè alla capacità di esercitare la dissuasione civile e la ripulsa morale, come raccomandava un laico dalla severità scomoda, non di rado radicale, e a un certo punto della sua vita persino ingiusta nei confronti delle istituzioni, soprattutto della magistratura: sto parlando di Leonardo Sciascia, che dopo avere studiato i grandi teoremi, avere scoperto le piste per introdurci in essi, se ne era uscito con quel giudizio di "un professionismo dell’antimafia", che ha creato nel paese molta inquietudine.
        Qual è oggi, di fronte all’affacciarsi delle cosiddette nuove mafie interne ed esterne, l’atteggiamento professionale dei mass media? Siamo qui per saperlo dai direttori, in un caso da un vice direttore, di alcune fra le più autorevoli testate giornalistiche del nostro paese.
        Chiederò di dare risposte brevi, per consentire eventualmente delle repliche; si tratta di dare il tempo per sviluppare un minimo di ragionamento.
        Vorrei cominciare con un dato: negli ultimi due vertici fra gli otto grandi, la maggior parte dei documenti finali è dedicata al crimine organizzato e all’incidenza che esso ha nella vita, anche economica, internazionale. Si calcola che oltre la metà dei colloqui degli otto statisti abbia avuto per tema lo stesso argomento, precisamente questo: l’irrompere della criminalità nella vita economica del pianeta. Ci si chiede quale sia in proporzione l’impegno dei nostri giornali nel rappresentare un fenomeno e un pericolo di queste proporzioni. Non si tratta, credo, di contare le righe – o i minuti, per quello che riguarda i miei colleghi Borrelli e Mentana – se ci viene sotto sotto rivolto un rimprovero. Responsabilmente, anche se molto civilmente, il presidente Del Turco ha invitato il vertice del servizio pubblico radiotelevisivo a rendersi conto che in qualche caso, in modo magari ingenuo, certamente non meditato, si possono dare messaggi, attraverso i mass media, che vanno a coincidere con l’interesse di chi invece dovremmo colpire, e duramente, offrendo pretesti alla gente per immaginare, persino credere che il collaborare con la giustizia possa tradursi in un grave danno per il cittadino italiano. Si tratta di questioni sottili e gravi.
        Il giornalismo, in sostanza, non di rado viene accusato di dare uno spazio sproporzionato, a volte addirittura smodato, ad eventi come i festival, gli arbitraggi, i matrimoni in crisi e a tutto quel vocio della politica che finisce per avere più ascolto di tante voci anche della società civile ben più importanti che dovremmo ben altrimenti registrare sui giornali.
        Resta da chiedersi se il giornalismo italiano sia pronto a dare una rappresentazione non soltanto episodica, cioè indotta dall’attualità, ma organica ed esauriente, al fenomeno mafioso che va configurandosi in termini così complessi. Quali spazi, quali mezzi, quali linguaggi dare a questi nuovi scenari?
        Parlando questa mattina con Enrico Mentana ci dicevamo, con un briciolo di ribalderia professionale: queste cose non tirano. La gente non è molto interessata a queste cose, ecco perché sui giornali si insediano e bivaccano argomenti più adescanti. Dobbiamo farci carico di questo problema, perché siamo il punto di mediazione tra i fatti e l’opinione pubblica, ci spetta il dovere di essere puntuali e corretti rispetto a questi appuntamenti. Come, con quali mezzi, con quali linguaggi farlo? Vorrei cominciare da Mentana.

        MENTANA Enrico. In estrema sintesi e cercando di rispettare i tempi e l’interesse di un così autorevole auditorio a qualcosa che non sia evidentemente retorico o inutile, cercherò di svolgere un intervento di lavoro.  È evidente che noi, che trattiamo informazione più che quotidianamente, che abbiamo un flusso di rapporto per cui siamo tramite tra la notizia e i suoi fruitori, i cittadini, gli ascoltatori, i telespettatori, i lettori, noi che siamo in qualche modo i titolari del rubinetto, del flusso di queste notizie, è evidente che non possiamo mitridatizzare al rango dei minuti di cronaca fenomeni che sono evidentemente di più vasta, di più lunga portata, di più difficile metabolizzazione e interpretazione. Da questo punto di vista la stampa quotidiana, e molto di più per questioni di spazio e di frequenza di appuntamenti l’informazione radiotelevisiva, per quanto mi riguarda l’informazione televisiva, non può essere un’arma di riflessione o in qualche modo di rappresentazione comprensibile e utile dei grandi fenomeni di mutamento nel crimine organizzato e nella lotta al crimine organizzato. Dico questo non per pararmi le spalle in qualche modo all’inizio del mio intervento da quella che può essere un’accusa di basso livello raggiunto nell’informazione riguardo a questi grandi temi; dico questo perché è un dato obiettivo, che però non può essere il paravento per un’analisi più spietata, e quindi più utile. Come informazione ci siamo trovati in quello che qualcuno un po’ pomposamente può chiamare il volgere del millennio, comunque in questi ultimi anni, alle prese con tanti riflussi, e lo sappiamo: riflussi politici, riflussi per spossatezza rispetto a lotte civili, morali e di vario tipo, quelle che noi abbiamo sempre chiamato le emergenze. Accennava anche Zavoli alle tante emergenze, alle tante lotte forti che sono state compiute chiamando il paese all’adesione. La tenuta del paese e dell’opinione pubblica rispetto alle emergenze è quella che è, perché un’emergenza è un’emergenza, non può essere l’emergenza continua. E la rappresentazione giornalistica non può essere portata sempre ad alzare i toni e a chiamare a raccolta, quasi che l’informazione dovesse formare o reclutare, e non informare. Per questo l’iterazione di alcuni temi è addirittura controproducente, porta alla loro mitridatizzazione. Tanto più che stiamo parlando di fenomeni, quali ad esempio quello dei nuovi elementi di criminalità organizzata, che approdano in Italia addirittura da altri punti dello scacchiere geografico e politico. Si tratta di fenomeni che si intrecciano con altri momenti di riflessione e di paura profonde, anche se sorde, nell’opinione pubblica.
        Ieri il procuratore generale Borrelli nel suo intervento ha insistito sulla mafia albanese, e in qualche modo questa è stata la maggiore risonanza data dagli organi di stampa. Quando si parla di mafia albanese, nell’opinione pubblica si parla di albanesi. Quando si parla di albanesi – ho davanti a me il Ministro dell’interno – non si pensa al crimine organizzato, si pensa a quell’altro fenomeno che abbiamo tutti ben presente, quello dell’afflusso, si pensa alla microcriminalità, si mettono cioè insieme tre-quattro ordini di problemi diversi: il problema dell’accoglienza e solidarietà, il problema della capacità di selezionare gli ingressi, il problema della microcriminalità, e poi si arriva alla mafia albanese. Tutto questo entra nello stesso frullatore quale che sia la qualità informativa di chi informa. È un problema con cui abbiamo a che fare, che è poi quello di cui si vedono spesso i contraccolpi, soprattutto in questa città. Dobbiamo quindi avere un’altra attenzione, e abbiamo tentato di avere un’altra attenzione, nell’enucleare, nel ritagliare quello che è l’ambito di queste notizie. Se noi parliamo delle nuove mafie internazionali, mettiamo insieme anche un elemento di dissolvimento di quelli che erano i punti di riferimento consolidati per 50 anni nell’opinione pubblica, e non solo nell’opinione pubblica, rispetto allo scenario internazionale. Ciò a cui ci troviamo di fronte di diverso dal nostro tradizionale rapporto Stato-antistato è proprio anche frutto del dissolvimento dell’equilibrio strategico del pianeta.
        Ricordo le polemiche, ma anche i sorrisi di sufficienza, che accompagnarono le prime denunce da parte del procuratore nazionale antimafia Vigna riguardo alle mafie dell’Est, riguardo al fatto che, nel momento in cui il crimine organizzato può fruire del crollo di uno Stato, fruisce di tutti i mezzi forti, fortissimi, che aveva quello Stato. E quello era un grande Stato dal punto di vista strategico e militare. Ricordo gli sguardi di sufficienza e le polemiche forti quando si parlò addirittura del possesso di bombe nucleari, della possibilità di commercio internazionale di qualcosa che neppure grandi governi sono in grado ancora oggi di possedere. Ci troviamo di fronte, quindi, ad un flusso anche di notizie che va interpretato, che va cautamente portato all’opinione pubblica, che va inquadrato e che va messo insieme a tutta quell’altra serie di paure. Spesso il nostro lavoro è fatto di tutte queste cose messe insieme, con l’incapacità nostra di farlo, l’incapacità nostra, a volte, di spiegarlo e la scottatura che sta nell’opinione pubblica rispetto a lunghi periodi in cui nella consueta presa di posizione a favore dello Stato e contro l’antistato i mezzi di informazione hanno abituato. L’opinione pubblica che guarda la televisione sa tutto della "piovra" più per trasposizione romanzesca televisiva che per informazione pura. È stato ovvio negli anni all’inizio di questo decennio schierarsi fortemente e senza infingimenti da parte dello Stato di fronte alla più cruda e dura offensiva mafiosa. Ma non abbiamo saputo reggere sul lungo periodo come mezzi di informazione nel nostro complesso nella capacità di continuare a fare informazione senza fare quelli che io chiamo "volantini", senza fare sempre quelle petizioni di principio che servono a dire: noi siamo dalla parte giusta, quella è una battaglia, siamo noi e loro. Era doveroso farlo, ma non siamo riusciti a costruire un patrimonio comune che andasse a capire i fenomeni, come cambiavano, come ci fossero delle terre (stiamo parlando quasi di un quarto del territorio italiano) che sono state schiacciate dall’informazione sui fenomeni mafiosi, che reclamavano la loro parte anche di quelle che considerano un po’ utopisticamente le notizie in positivo. Non abbiamo saputo far crescere, al di là delle affermazioni di principio ("con lo Stato contro l’antistato", che evidentemente mutuavano quelle di un decennio precedente "con lo Stato contro il terrorismo", "con lo Stato contro le BR"), una consapevolezza che fosse fatta di informazione, non di arruolamento culturale. Questo è stato il nostro problema, che ha spossato l’opinione pubblica rispetto ai fatti mafiosi e fa trovare adesso poco attenta, poco intenzionata ad essere attenta l’opinione pubblica rispetto alla spiegazione di nuovi fenomeni, che noi possiamo raccontare soltanto de relato, che non sono spettacolari. Sapete meglio di me quanto è improponibile dal punto di vista informativo televisivo, soprattutto senza immagini, spiegare il fatto che ci sono nuovi tipi di criminalità mafiosa che tendono a permeare i circuiti finanziari, che tendono ad usare i circuiti finanziari. Lo dici, cosa fai? Lo vedi, non lo vedi, lo fai vedere? Non hai casi specifici, hai una quasi certezza che si fonda su fenomeni impalpabili però; hai documenti – ricordava Zavoli – i grandi documenti dei grandi governi della terra alla fine dei vertici. Io non ho memoria rispetto alla lotta contro la criminalità organizzata, non ho memoria dei grandi documenti di questi vertici. I grandi documenti di questi vertici, per colpa forse dell’informazione, ma per colpa forse dei governanti del pianeta, sono momenti rituali. L’unica svolta che si ricorda seguita ad un vertice fu quella di Rambouillet 24 anni fa, praticamente; se no i vertici vengono considerati momenti rituali e i documenti dei vertici ritualità spinte di momenti rituali.
        Noi non possiamo e non dobbiamo, non è il nostro compito e non è il nostro ruolo, educare rispetto ai fenomeni. Però abbiamo un grande bisogno, laddove il nemico è comune e accertato (e in determinate circostanze di vera emergenza l’opinione pubblica ci sta ad arruolarsi), di avere degli strumenti, che non sono gli strumenti che chiedono le forze di polizia giustamente nei momenti di emergenza, ma degli strumenti di interpretazione e di rappresentazione che spesso non ci sono , per raccontare non che il fatto è grave, non che la mafia è cattiva (che a furia di dirlo, l’iterazione non genera consapevolezza, genera dubbio semmai), di capacità di rappresentazione, che i giornalisti quasi sempre da soli non possono avere, di questi fenomeni nuovi.
        Vorrei concludere con una piccola nota, che vuole essere anche polemica, invitando a non far uscire queste cose dai convegni. Non è il caso di questo Convegno, ma spesso cose importanti, cose clamorose, cifre rotonde magari escono dai convegni quasi che fossero merce da convegno, che servissero a lanciare i convegni e che non fossero veri allarmi. Se ci fosse un flusso di informazione tra autorità di governo, forze di polizia, forze della magistratura impegnate a livello centrale e sul territorio, e quindi un flusso di informazione rispetto all’opinione pubblica, fondato appunto su certezze di momenti e di appuntamenti importanti (e non su convegnistica che di volta in volta fornisce lo spunto o la notizia), aumenterebbe di certo la nostra consapevolezza e capacità di informare sui grandi fatti, sui grandi fenomeni, sulle grandi notizie.
        
        ZAVOLI Sergio. Poco fa ho salutato il Ministro dell’interno, onorevole Jervolino Russo, al suo ingresso in sala, e non ho fatto altrettanto con il Ministro di grazia e giustizia. Saluto dunque l’onorevole Diliberto, chiedendogli scusa.
        Mentana ha detto, nel suo intervento, una cosa inquietante: ha detto che, tutto sommato, più nell’ambito dei palinsesti gestiti dall’intrattenimento, come "La Piovra", che in quelli gestiti dall’informazione si sono avuti gli strumenti efficaci per intervenire nel grande discorso della mafia da parte della televisione.
        Il presidente Del Turco mi ha raccontato, a questo proposito, un aneddoto significativo: Gorbaciov, invitato a Giffoni al Festival del cinema dei giovani, incontrando Michele Placido lo ha chiamato spontaneamente commissario Cattani, chiedendogli come stava e dicendogli che in Russia tutti vedevano i suoi bei film, con la sensazione, però, di vedere dei cartoni animati rispetto alla loro mafia. Questo episodio la dice lunga su come il problema cosiddetto "transnazionale" oggi ci riguardi.
        Tuttavia, rispetto ai volantini dei quali Mentana ha parlato con un’autocritica – credo – anche un pò dolorosa, ritengo che ci dovremmo riproporre proprio oggi, in questo Convegno, il problema di come dare conto dell’irrompere delle nuove mafie, per esempio, nel sistema del denaro: da quello bancario a quello finanziario, degli appalti e delle intraprese con sfondo addirittura sociale, e questo per prevenire la vulnerabilità di interessi che, a questo punto, sono generali e diffusi.
        Il procuratore nazionale antimafia Vigna, che parla di silenziosa occupazione del terreno economico e chiede la riforma del diritto societario e la trasparenza dei capitali, pone questioni gravi che investono principi e interessi non da poco. D’altronde, proprio da questo Convegno sono venute anticipazioni – per così dire – istituzionali, che offrono un insieme di notizie inedite per lo stesso mondo dell’informazione (gli stranieri arrestati nel primo semestre del 1998 sono 103, mentre nel secondo sono già 164); il pericolo albanese e kosovaro supera di poco quello rappresentato dai nigeriani, cinesi e russi (questi ultimi controllano, nientemeno, il traffico del materiale nucleare). Urge, l’ha detto il Presidente del Senato, una legislazione unitaria europea, che non c’è. Ci sono avvisaglie di iniziative mafiose in materia di Euro e recentemente abbiamo saputo che è stata scoperta addirittura una stamperia della nuova moneta.
        Di fronte alla proposta di nazionalizzare le forze dell’ordine per quanto riguarda il crimine organizzato, alla denuncia del prefetto Masone delle aree di instabilità – come lui le ha chiamate – e al rischio del radicamento di vere e proprie mafie etniche, vorrei avere il parere dei direttori dei due giornali che, esprimendosi largamente con le immagini, sono quelli che lasciano più tracce nell’immaginazione della gente. Vorrei avere il parere di Borrelli su come intervenire in questa materia, con quali spazi, con quali linguaggi e con quale impegno, in definitiva, nell’informazione quotidiana; e non soltanto in quella di cui finisce per occuparsi l’intrattenimento, trasformando grandi questioni della politica, della società e via dicendo, in sceneggiati, telefilm, eccetera.
        
        BORRELLI Giulio. Non c’è dubbio che l’informazione, soprattutto quella televisiva, possa avere un ruolo importante nello smascheramento di una criminalità che ha implicazioni, connessioni e ramificazioni internazionali, oltretutto in forma capillare e diffusa. Tuttavia, prima ancora di parlare di linguaggi, penso che occorra fare una riflessione preliminare, suggerita dalla sede in cui ci troviamo. Vorrei riferirmi all’effetto che l’informazione produce sul cittadino qualunque, quando si parla di lotta alla mafia e, in generale, alla criminalità.
        Il punto è il seguente: se non c’è un sistema di valori e di comportamenti condiviso e accettato, rischiamo di rappresentare anche la lotta alla criminalità come il teatrino del "chiacchiericcio" quotidiano italiano, che riguarda la politica, alcune volte la cultura, l’arte e altre manifestazioni. Anche quando in politica la dialettica è normale, pur con gli inevitabili eccessi, nel caso della lotta alla mafia si arriva ad aspetti patologici. Mi spiego. Non possiamo prescindere dallo sconcerto che producono alcune notizie (magari amplificate dall’informazione, ma questa discussione potrebbe far parte di un altro Convegno). Per esempio lo sconcerto del cittadino di fronte al caso Dell’Utri – non entro nel merito, perché non è mio compito – non potete non rilevarlo. Lo sconcerto del cittadino di fronte al processo Andreotti – – e neanche qui entro nel merito – che si protrae così a lungo nel tempo, al di là delle singole responsabilità e della giustezza delle accuse, riguarda soprattutto il fatto che non si arriva ad una definizione, ad un accertamento giuridico, umano e materiale di quella realtà. C’è un prolungarsi, un esasperarsi delle situazioni e delle accuse. Ma dirò di più: questo non riguarda solamente la lotta al grande crimine. Come spettatore, ieri ed anche oggi, leggendo i giornali, sono rimasto colpito dalle reazioni nei riguardi del provvedimento dei ministri Jervolino e Diliberto sulla lotta alla criminalità.
        Perché? Avevo capito che c’era un problema che nasceva da Milano. Gli episodi dell’inizio dell’anno – lasciamo stare se la televisione li ha amplificati – erano un dato di fatto. Cioè era stato preso atto della esistenza di un problema. Anche in questo caso non è necessario entrare nel merito per stabilire se si trattava di criminalità diffusa: i dati statistici dicono che la criminalità sta diminuendo e che, quindi, gli allarmi lanciati dal sindaco Albertini e da altri sarebbero esagerati di fronte alle nude statistiche. Il sociologo ci spiega, però, che l’insicurezza del cittadino è forte e prescinde dalle statistiche riguardanti il numero dei reati. Spesso è un’insicurezza determinata da quello che il sociologo chiama "disordine sociale", cioè – ad esempio – dall’andare in giro la sera e vedere le prostitute, un ambiente degradato, una situazione nella quale non si può passeggiare con moglie e figli. Questo determina un allarme sociale ed una preoccupazione.
        Di fronte a tutto questo pensavo che le forze politiche ed il Governo avessero discusso come migliorare gli strumenti legislativi e quelli operativi. Nella mia ingenuità di cronista pensavo che almeno fosse stato trovato un punto sul quale essere d’accordo e dal quale in ogni caso ricominciare. Ho capito, invece, che abbiamo ritrovato un punto da dove ricominciare a polemizzare e a discutere, cioè a dare modo a noi giornalisti e "pressappochisti" di rappresentare il teatrino quotidiano della politica e del "chiacchiericcio" sulla criminalità. Due, infatti, sono le cose: o il provvedimento è stato adottato da persone poco responsabili, ed allora dobbiamo chiedere le dimissioni del Governo, oppure, se questo provvedimento ha un senso, deve essere sostenuto ed appoggiato, perché tanti distinguo non hanno senso.
        Non vorrei ora suscitare le ire e le rimostranze del Presidente di questo dibattito, che pure ha avuto dei distinguo e dei dissensi. Sicuramente le sue ragioni sono legittime. Vedo l’amico senatore Calvi. Ho letto con molto interesse la sua intervista e vorrei capire: fermo restando che non sono arruolabile, ma se lo fossi, con chi dovrei stare? Me lo dite? Se riuscissimo a fare chiarezza su alcuni punti, su alcune direttive di fondo e su alcuni principi, probabilmente anche la lotta alla criminalità (organizzata o meno, microcriminalità o criminalità diffusa) se ne avvantaggerebbe. Non vorrei essere nei panni di quel poliziotto che la sera accende la televisione e la mattina legge i giornali, perché non capisce se questa legge va applicata perché serve (cioè perché l’aumento delle pene nei confronti degli scippi può rendere più sicuri i cittadini) oppure se bisogna essere ancora più preoccupati perché vengono proposte soluzioni illusorie.
        Lo stesso vale per la mafia albanese. Anche a questo riguardo abbiamo ricevuto valanghe di critiche. Si sa per definizione che il giornalismo ha una caratteristica che un nostro maestro definisce "coriandolizzazione", mentre io alcune volte la chiamo "pressappochismo", perché è tipico della natura di questo mestiere: si fa "a tambur battente" e talvolta si sbaglia. La fortuna del telegiornale è che, essendoci più edizioni, si può sempre correggere un’ora dopo o il giorno seguente. D’altra parte non c’è sempre questa possibilità e, quindi, chi guarda il TG in quel momento può rimanere sconcertato e giustamente criticare alcune lacune.
        Oggi viene detto che nella immigrazione, ad esempio in quella albanese ma non solo, si inserisce la criminalità organizzata (l’aveva anticipato il procuratore Vigna e l’avevano detto anche altri). Questo oggi non fa scandalo, perché magari viene detto da personaggi autorevoli. L’informazione ha tanti difetti, ma alcune volte anticipa. E non piace sentir dire certe cose con qualche anno d’anticipo perché dà fastidio, perché disturba il "manovratore", perché inquina il processo di risanamento che ogni Governo giustamente tenta faticosamente di portare avanti.
        Quando quotidianamente sulle coste pugliesi sbarcano 250 persone, come si fa a distinguere il mafioso, l’emissario delle cosche albanesi dal poveraccio che cerca solamente di sopravvivere a tragedie di questo secolo come la fame, la carestia e la guerra? Non è questo un compito facile: non è facile naturalmente per chi fa la vigilanza e la sorveglianza delle coste né per chi sovrintende all’ordine pubblico, ed è ancora più difficile per chi fa informazione.
        Quindi, spesso in alcuni fenomeni sono intrecciate realtà tra loro contraddittorie che è difficile distinguere, e di fronte alle quali certamente potrebbe aiutarci maggiore precisione, puntualità, rigore professionale da parte dei giornalisti – su questo siamo d’accordo – ma potrebbe agevolare anche una migliore comprensione storica e politica di questa realtà. Spesso, infatti, alcune contraddizioni vengono scaricate così come sono nel sistema e nel circo dei mass media, con l’effetto devastante che ci ritornano in faccia con forza aumentata e duplicata.
        Anch’io ricordo le illuminanti affermazioni del procuratore Vigna su questi fenomeni e sull’internazionalizzazione. Ricordo alcuni servizi speciali sui giornali e in televisione a proposito di questi fenomeni, che suscitarono reazioni negative perché si inventava un po’, si facevano servizi fantasiosi che esageravano. Probabilmente lo sceneggiato "La Piovra" è stato l’antesignano di questo Convegno (parlo delle prime serie; ci si è fermati alla "Piovra 8"), perché in qualche modo anch’essa in epoche molto lontane ha dato fastidio, perché sembrava dilatare, ingigantire una realtà che non era dimostrata e non era dimostrabile e, quindi, non poteva essere oggetto di narrazione cronachistica e giornalistica. Non solo non c’erano le immagini per documentare quei movimenti finanziari, ma mancavano i protagonisti, i nomi ed anche le conclusioni di alcune inchieste che erano appena nella fase iniziale.
        Tano Cariddi è stato il precursore di tutta questa realtà. Poi, se Tano esportasse la mafia siciliana in Russia oppure se fosse un emissario dei russi, potrebbe essere oggetto di dibattito e di convegni, ma quei fenomeni erano tutti anticipati. Si diede, all’epoca, la rappresentazione scenografica, la fiction su quei fenomeni e ciò dette molto fastidio. Ogni volta si fece molta fatica a girare, dopo "La Piovra 4", "La Piovra 5" e "La Piovra 6", tanto è vero che ad un certo punto lo sceneggiato si fermò, e quando ricominciò lo fece dall’inizio, cioè dalla mafia degli appalti, la mafia rurale e agricola. La trasmissione dava fastidio perché sembrava che qualcuno facesse un’operazione politica dissacrante delle istituzioni, si adombrava che lì si potesse rispecchiare qualche elemento di attualità istituzionale o politica.
        Ma il fatto stesso che in una fiction qualcuno potesse ritrovare elementi di attualità è estremamente grave e preoccupante, e ciò indica come probabilmente, accanto a tutte le correzioni e agli ulteriori affinamenti di linguaggio che sicuramente l’informazione deve realizzare, bisogna che vi sia questa condivisione di valori e di comportamenti.
        Altrimenti potremo moltiplicare i convegni e gli interventi legislativi, ma non faremo concreti passi in avanti rispetto a quelli che abbiamo già fatto e che ci permettono di vivere, se non altro, una domenica diversa dalle altre a Corleone, domenica prossima. E naturalmente non è poco.

        ZAVOLI Sergio. Rispetto alle ammissioni coraggiose di Borrelli mi viene da ricordare –passatemi l’autocitazione – che ai tempi del terrorismo io stesso dedicai a quel fenomeno 50 ore di televisione.  Perché non si fa altrettanto per un fenomeno che da certi punti di vista non è meno pericoloso? Di fatto si dovette interrompere "La Piovra" per le ragioni che ha appena ricordato Borrelli. Si tratta di un interrogativo inquietante.
        Vorrei ora ascoltare le parole di un altro grande giornalista, Marcello Sorgi, che è stato a cavallo tra le due esperienze: ha diretto il TG1 e attualmente dirige il quotidiano "La Stampa".

        SORGI Marcello. Ritengo di poter dare a questo Convegno un contributo originale non solo per le diverse esperienze che ho avuto nel mio lavoro, ma anche perché faccio questo mestiere da ventisei anni e devo dire che la mafia mi ha accompagnato sempre, un po’ perché sono siciliano, un po’ perché ho iniziato a lavorare in un piccolo giornale che si chiamava "L’Ora" e che faceva della lotta alla mafia una delle ragioni fondanti della sua storia (fu anche oggetto di un attentato), un po’ anche per ragioni familiari.  Ho sentito il presidente Del Turco parlare dell’assassinio di Placido Rizzotto e dell’assassinio di Salvatore Carnevale, e avendo un padre avvocato che assisteva le parti civili in questi processi, cioè difendeva ed esercitava l’accusa per conto delle famiglie delle vittime, a me capitò da bambino di conoscere Pertini, ad esempio, perché veniva a guidare i collegi di difesa in questi processi che erano assai difficili.
        Quindi, se guardo l’arco della mia vita, anche se ho 44 anni, in circa 35 anni il paese è cambiato tantissimo. Se ripercorro la mia esperienza professionale, mi fa impressione notare quanto sono cambiate le cose. All’inizio degli anni Settanta, quando ho iniziato a fare questo lavoro, erano pochissimi ad occuparsi di mafia. La mafia era un argomento a cui i giornalisti si dedicavano di tanto in tanto, trattandone sempre gli aspetti più folcloristici; finiva spesso in terza pagina, o meglio nelle terze pagine di allora che erano molto letterarie, e anche grandi giornalisti che ho conosciuto e che mi hanno fatto venire la voglia di fare questo mestiere (penso a Gianpaolo Pansa, a Giorgio Bocca, ma anche a giornalisti come Nando Pensa del "Giorno", che venivano spesso in Sicilia per occuparsi di mafia), all’inizio degli anni Settanta non avevano idea che il fenomeno fosse di queste dimensioni. Noi stessi, che facevamo i cronisti e seguivamo i fatti giorno per giorno, non riuscivamo a renderci conto dello stato delle cose. Ricordo alcune pagine il cui titolo forte era il seguente: "Che succede a Palermo?", perché non riuscivamo mai a spiegarci la connessione tra un evento e l’altro, eppure ci passavano sotto gli occhi fatti di una ferocia incredibile.
        Ad esempio, ricordo quando venne sequestrato il suocero dei Salvo, il vecchio esattore Forleo, molti anni prima che i Salvo fossero processati ed uno dei due condannato per associazione di stampo mafioso. Quando fu rapito il suocero dei Salvo, dopo una quindicina di giorni furono ritrovati in un fiume i corpi di tre giovani crocifissi, tra i quali quello di una ragazza. Tutti noi, che eravamo giovanissimi, andammo a vedere e capimmo che c’era un qualche rapporto con quel rapimento, ma non capivamo quale. Quelli erano tre sequestratori di Forleo, ma anni dopo si venne a sapere che la famiglia dovette pagare anche solo per avere il corpo o i resti di Forleo, che probabilmente era morto durante la prigionia.
        Quindi, non ho alcuna difficoltà a dire che l’informazione sulla mafia ha fatto dei grandi progressi, in un tempo brevissimo e parallelamente ai passi da gigante che l’intero apparato antimafia ha compiuto. Negli anni Cinquanta, quando io sono nato, la conoscenza del fenomeno mafioso era patrimonio di una piccolissima enclave politica e professionale, per cui vi erano pochi avvocati che facevano i processi di mafia dalla parte dell’accusa, vi erano pochi poliziotti e pochi carabinieri impegnati nella lotta antimafia; vi era, soprattutto, un sistema politico che non pronunciava la parola "mafia", accompagnato da una magistratura che non voleva che essa si scrivesse nelle sentenze.
        Negli anni Settanta la mafia è diventata non solo un nemico visibile e da combattere, ma anche un pezzo del patrimonio culturale e un esempio, sia pure negativo, della modernità. Di tutte le esperienze che ho avuto nel mio lavoro la più interessante in questo campo è stata senza dubbio il rapporto con Falcone. Voi sapete che Giovanni Falcone diventò, sia pure per breve tempo, collaboratore de "La Stampa", perché furono pubblicati sulla prima pagina di tale quotidiano sette suoi editoriali, l’ultimo dei quali proprio pochi giorni prima che venisse assassinato nella strage di Capaci.
        Ma prima di quei sette editoriali, che furono pubblicati nell’arco di un paio di mesi, vi fu una lunga trattativa, perché Falcone era abbastanza avaro di parole e aveva poco tempo, e non gli interessava molto fare il commentatore per un giornale. Mi ricordo che la trattativa fu portata avanti da Mieli, allora direttore de "La Stampa", da Mauro, che era il condirettore, da me e da La Licata, che ancora oggi lavoriamo presso questo quotidiano. Diventammo molto amici di Falcone cercando di convincerlo a collaborare per "La Stampa". Ricordo che quando venne a Torino per darci una risposta definitiva, decisivo fu il suo incontro con Norberto Bobbio. Io partii da Roma con lui, che mi diceva di non sapere ancora se avrebbe risposto sì o no; poi arrivammo a Torino, dove incontrò il professor Bobbio e durante quella conversazione si convinse a iniziare la collaborazione.
        Gli articoli nascevano da conversazioni, e la nostra raccomandazione era quella di scriverli in modo semplice, evitando tecnicismi. Poiché questa raccomandazione gliela facevamo continuamente, il più della volte le conversazioni finivano con una lite e il centro della lite era che Falcone sosteneva che la lotta alla mafia è fatta soprattutto di professionalità, di tecnicismi, di strumenti molto appropriati e di un continuo affinamento delle specializzazioni, per cui chiedere ad una persona che lotta contro la mafia di spiegare in modo semplice una cosa che semplice non è era sbagliato. E poiché lui aveva anche un certo carattere, ogni tanto si stufava e diceva che non avrebbe più collaborato al giornale. Poi però, pazientemente, accettava le correzioni.
        Credo che vi saranno altre occasioni per ricordare sia Falcone sia Borsellino, e ritengo che il loro contributo alla consapevolezza del fenomeno mafioso sia stato molto forte. Dalle stragi di Capaci e di via D’Amelio parte un’epoca. Davanti a quelle immagini così terribili, davanti alla forza di quegli avvenimenti è molto difficile per la gente non capire cosa stava succedendo.
        Ma quando si parla di professionalità, di specializzazione e di tecnicismi si tocca un argomento delicato, un argomento in cui – lo dico con grande sincerità – l’informazione può fare veramente poco.
        Ho letto ieri e anche questa mattina gli articoli che sono stati pubblicati su tutti i giornali in merito alla mafia degli albanesi, alla mafia cinese, eccetera. Si tratta di un punto interessante e a mio avviso anche reale, ma siccome per un certo periodo di tempo sono stato al telegiornale, e quindi maneggiavo qualcosa che ha un impatto emotivo sulla gente molto più forte di una pagina di giornale, ricordo benissimo le polemiche sugli albanesi. Penso che non vi sia nulla da eccepire sul fatto che un paese come l’Italia, che ha un vicino come l’Albania, si faccia carico di compiti di assistenza e di solidarietà, ma anche di intervento duro di polizia, come è accaduto nel 1997 e come di tanto in tanto capita quando si opera nel canale di Otranto. Credo però che la discussione che si è sviluppata sugli albanesi sia stata in una prima fase molto più attenta a temi come la solidarietà e i diritti all’immigrazione. Intendiamoci, si tratta di argomenti seri, che un paese moderno come il nostro, con la prospettiva di avere una fortissima presenza di immigrati, deve affrontare. Ma la discussione su questi problemi è sempre stata venata di ideologismi.
        Un altro aspetto che mi colpisce come giornalista è il cambiamento del nostro atteggiamento rispetto a questo fenomeno. Dobbiamo essere sinceri: spesso su materie come la mafia i giornalisti fanno i furbi, non c’è niente da fare; spesso si dividono, ma non a causa di princìpi, di opinioni o di prese di posizione che, per quanto interessate, possono essere legittime, bensì sulla base di interessi particolari. Ad esempio, scoprono che l’apparato della sicurezza non è sempre concorde ma registra al suo interno degli scontri, che in queste lotte si adoperano anche strumenti non proprio legittimi (scambi di verbali, distribuzione di intercettazioni, eccetera). Ecco, è abbastanza comodo scaricare questo sul fatto che siamo giornalisti e quindi non possiamo che interessarci, pubblicare o mandare in onda queste cose. La verità è che da un po’ di tempo l’informazione partecipa a questo genere di tensioni interne all’apparato di sicurezza.
        Non voglio dilungarmi ancora, anche perché abbiamo detto che saremmo stati brevi. Sono convinto che l’informazione sulla mafia nell’arco degli ultimi 20-25 anni, per quella che è la mia esperienza, ha fatto passi da gigante, che, a loro volta, hanno seguito i passi da gigante fatti dalla lotta alla mafia.
        Appartengo a una generazione che ha conosciuto tutte le vittime illustri della mafia a Palermo. Non c’è nessuna delle persone che operavano nelle istituzioni dello Stato, nella politica, nella polizia, nei carabinieri, e che sono state ammazzate dalla mafia, che io non abbia conosciuto. Credo quindi di avere qualche titolo di esperienza.
        Però sono preoccupato per quanto sta avvenendo nel mondo dell’informazione. Penso sia giusto dire che bisogna smetterla di fare i furbi, che è molto meglio essere sinceri, altrimenti – scusate se la dico un po’ grossa – invece di fare informazione sulla mafia si finisce col fare mafia nell’informazione.
        
        ZAVOLI Sergio. Mi pare che sul piano dell’autocritica non ci possiamo davvero lagnare, a giudicare dall’affermazione finale di Sorgi.  Do ora la parola a Paolo Garimberti, vice direttore de "la Repubblica".

        GARIMBERTI Paolo. Se mi permetti, Zavoli, partirei da una tua affermazione iniziale, quando hai fatto riferimento alla velocizzazione dell’informazione, per dire che non si può trascurare anche la velocizzazione dei cambiamenti.
        

        ZAVOLI Sergio. Scusami se ti interrompo, avevo premesso che la rivoluzione non è più il cambiamento, ma la velocità del cambiamento...
        

        GARIMBERTI Paolo. Mi riferivo per la verità ad un altro tipo di cambiamento, e adesso mi spiego.  Dicevo che quando si parla di mafia o di criminalità transnazionale non si può ignorare il dato politico che è alla base, probabilmente, di un certo fenomeno che viviamo adesso. Sintetizzando, quando nel 1975 seguii la Conferenza per la sicurezza e per la cooperazione internazionale a Helsinki, gli Stati europei erano 33 – mancava l’Albania che non partecipava mai a questo tipo di incontri perché riteneva che fossero diavolerie capitaliste – e c’erano poi Stati Uniti e Canada, quindi si arrivava a 35 paesi.
        Nel 1991, al momento del secondo Trattato di Helsinki, gli Stati europei erano 51. Questo dato dovrebbe già farci riflettere. Siamo passati da 33 (34 con l’Albania ) a 51 Stati, e fra l’altro mancava la Serbia che era stata, come sanzione, esclusa. La seconda Conferenza per la sicurezza e la cooperazione di Helsinki fu quella che si trasformò poi in Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione, l’OSCE. Dei 33 Stati che parteciparono alla prima conferenza di Helsinki, sette, come membri del patto di Varsavia, avevano un apparato di sicurezza e di repressione interna che certamente non consentiva non solo alcuna forma di dissenso organizzato, ma soprattutto nessuna forma di criminalità organizzata. Io allora abitavo a Mosca e si favoleggiava della mafia georgiana, ma erano, per l’appunto, favole, la cui realtà era sconosciuta.
         Nella situazione attuale, l’intreccio in alcuni Stati post-comunisti tra politica e affari è difficilmente districabile. Avete letto, credo, in questi giorni sui quotidiani la strana vicenda del procuratore generale russo Skuratov. Oggi, su "Herald Tribune", in prima pagina c’è la storia di un filmino a luci rosse di cui Skuratov sarebbe protagonista. Chi è Skuratov? È un signore che ha cercato di mettere il naso in alcune società delle quali una conduce direttamente al Cremlino, a un certo Pavel Borodin che è uno degli uomini di Eltsin, attraverso una società svizzera sulla quale vi è stato anche un tentativo di inchiesta da parte del procuratore Carla Del Ponte, e un’altra conduce direttamente al sindaco di Mosca, Jurij Luzhkov.
        Naturalmente non vi sono prove. Ma cosa è successo a Skuratov? Egli è stato misteriosamente dimissionato nel momento in cui ha cercato di mettere il naso in questi affari e adesso viene fuori un filmino a luci rosse: sarà pure una Russia post-comunista ma i sistemi sono quelli del KGB comunista, non c’è molta differenza.
        L’intreccio, dicevo, arriva molto in alto. Quando si tratta di intreccio fra politica e affari, è difficile non vedere che in questo intreccio si inserisce facilmente la criminalità organizzata. Prima Zavoli diceva che negli ultimi anni al G8 si parla la metà del tempo di lotta alla criminalità internazionale e al traffico di stupefacenti; io credo che se ne parli da sempre. Nel primo G7 che ho seguito a Bonn nel 1977 ci fu già un documento dedicato a tali questioni. Il problema però non è che se ne parli o che si preparino dei documenti. Il problema è la capacità che ha la comunità internazionale – questa definizione un po’ vaga ma che in realtà tanto vaga non dovrebbe essere – di intervenire al di fuori degli otto Stati che si riuniscono ogni anno al G8.
        Prendiamo il caso del Kosovo: non è solo importante intervenire sul piano della morale internazionale per porre fine a quanto sta accadendo, cioè all’ennesima pulizia etnica. Il problema è che finché vi è un’instabilità di quel tipo in Kosovo o in Albania, noi non saremo mai garantiti nella possibilità di controllare il flusso degli immigrati. Quando ci si allarma per la criminalità a Milano, statistica a parte, perché la gente si sente insicura, si tende – e questo è un problema che riguarda direttamente anche noi giornalisti – a dimenticare che la criminalità preoccupante non è quella che arriva sui gommoni, ma quella che arriva in Mercedes o in aereo, quella che ha già i contatti qui.
        Come si controlla tutto questo? Non facendo dichiarazioni declamatorie al G8, ma arrivando a stabilire una sorta di ordine, con leggi internazionali che garantiscano in qualche modo rispetto a certe nazioni, dove non esiste un apparato statale; molte delle persone che sono qui mi insegnano, perché lo conoscono meglio di me, qual è il problema dell’Albania, che noi cerchiamo di aiutare a mettere su un apparato statale e di polizia. Ma ora addirittura un paese del livello e della forza, anche militare – con tutte le implicazioni che ne conseguono – della Russia si trova in una situazione come quella che ho cercato sommariamente di descrivere. È una situazione straordinaria anche dal punto di vista dell’interesse giornalistico, e mi dispiace che queste informazioni le ho lette su "Le Monde" che vi ha dedicato due pagine qualche tempo fa, mentre non le ho mai lette sulla stampa italiana. Si è parlato ora di Skuratov perché c’è un filmino a luci rosse, e quindi la notizia diventa "sfiziosa".
        C’è un problema politico di fondo che andrebbe affrontato insieme, o forse prima del problema criminale. Il mio amico Attilio Bolzoni, che sta facendo in questi giorni una inchiesta per "la Repubblica" molto interessante sulle mafie etniche, mi diceva che secondo lui la vera data di inizio della mafia transnazionale si può situare in un vertice del 92 a Praga tra mafia russa e quella italiana per dividersi il controllo del territorio in materia di riciclaggio. Quando me lo ha detto mi è venuto in mente che proprio in quell’anno mi capitò di andare a Mosca e di incontrare Gorbaciov. È un incontro che purtroppo non diventò mai un’intervista, perché Gorbaciov rifiutò l’intervista, ma chiacchierammo a lungo, parlando di quello che era successo un anno prima, della fine dell’Unione sovietica, eccetera. A un certo punto Gorbaciov mi disse: lei sta facendo un ragionamento da vecchio sovietologo, che non vale più in questo momento; lei parla del PCUS, di cambiamenti al vertice, ma guardi che oggi sta cambiando tutto. Dovremmo parlare di mafia cecena, di mafia russa, di mafia georgiana; dovremmo parlare dell’impossibilità di controllare un territorio che prima, bene o male, quella cosa che a voi occidentali non piaceva tanto, e che si chiamava KGB, controllava molto bene.
        Mi è venuto in mente questo perché Gorbaciov guarderà pure i film di Michele Placido però in questa materia qualcosa ci capiva e in quella circostanza fu profetico. Allora, per venire alla domanda che ci ha rivolto Zavoli a proposito del rapporto fra lo spazio che il G8 dà a questi fenomeni e lo spazio che gli danno i giornali, penso che noi abbiamo commesso l’errore che si fa spesso sulla stampa, cioè di porre attenzione, di dare risalto, anche molto grande, a questi fenomeni quando c’è l’emergenza, quando c’è il fatto grosso, quando c’è, come dice un mio amico, vecchio cuciniere di giornali, "il bagno di sangue". Ma quando c’è il bagno di sangue, è facile fare i titoli e riempire più pagine. È quando il bagno di sangue non c’è che diventa più difficile.
        E qui veniamo a una carenza, che non riguarda solo il problema della mafia, ma che è strutturale, che fa parte del dna del giornalismo italiano: vi è non dico la totale mancanza, ma la scarsa penetrazione nel nostro tessuto giornalistico di quello che è un fenomeno caratteristico soprattutto del giornalismo anglosassone, cioè il giornalismo investigativo. In parole povere, si fanno poche inchieste; in parole meno povere, il giornalismo investigativo è qualcosa di più della semplice inchiesta. Pur avendo abbastanza anni per ricordare com’erano i giornali degli anni Sessanta, non sono però tra quelli che fanno discorsi laudatori del tempo passato, in cui ci sarebbero stati grandi giornali e grandi inchieste di terza pagina: ne ho viste tante di inchieste di terza pagina e non c’era questo grande approfondimento. In quelle inchieste c’era poco approfondimento vero e molte ambasciate. Quindi quando parlo di giornalismo investigativo, mi riferisco a qualcosa che supera la cultura dell’emergenza e cerca di individuare i trend che cambiano nella società nazionale e transnazionale. I trend della società europea erano quelli di cui ora vediamo i risultati, cioè il fatto che non vi sono più possibilità di controllare i flussi migratori. Ralf Dahrendorf, che è collaboratore de "la Repubblica", nel 90 mi disse: non dobbiamo essere miopi perché se non aiutiamo questi paesi a integrarsi, se non accettiamo le loro merci, dovremo accettare i loro uomini: ce li troveremo tutti in casa nostra perché da qualche parte devono andare a lavorare. Tra quelli che arrivano ci sono tanti che vogliono lavorare, ma tanti altri che il lavoro ce l’hanno già, però di altro tipo.
        Il problema è disporre di maggiore attenzione. Certo, oggi è difficile, perché la velocità dell’informazione, tanto per tornare al punto di partenza, è enorme, e quindi spesso nel fare il giornale c’è il conflitto tra dare le notizie e fare le inchieste. E chi vince sono sempre le notizie, fatalmente, e le inchieste perdono. E allora le inchieste, come si dice, giacciono e a forza di giacere a volte non escono più, i giornalisti si scoraggiano a fare le inchieste in questo modo e quindi questo tipo di fenomeni, che richiedono lavoro paziente di ricerca di fonti, di contatti, risultano penalizzati. Ci sono due agenzie da mettere insieme, poi arrivano i titoli dei telegiornali, che tutti religiosamente guardiamo (sono state scritte e dette ormai troppe cose, e si è ironizzato troppo su queste cose, ma c’è una parte di verità), dopodiché sull’onda emotiva di tutto questo, dell’Ansa, della Reuter, della France Press, del TG1, del TG2, del TG3, del TG5, eccetera, le cose prendono la piega che sappiamo. Anch’io ho diretto un telegiornale e mi rendo conto di quanto in un telegiornale sia estremamente difficile in un minuto e mezzo, cioè più o meno una pagina di giornale, 400 righe, trattare la notizia. Ed è difficile anche per i giornali e questo è un fatto culturale, badate bene, che noi che dirigiamo i giornali abbiamo un po’ il dovere di cercare di cambiare. Dobbiamo far capire alle nuove generazioni, che sono un po’ sballottate, perché non hanno più i modelli di riferimento che avevamo noi (noi avevamo i grandi miti del giornalismo, Montanelli, Bocca) qual è la via da percorrere. Il discorso sarebbe lungo, non soltanto sui temi della scrittura, fare bene l’informazione, sono tutti problemi complicati. Secondo me il giornalismo italiano vive una fase di importante transizione, con dei direttori giovani, come Ferruccio De Bortoli, come Marcello Sorgi, come il mio amico Ezio Mauro che qui rappresento, che hanno una visione diversa dei giornali e che dovrebbero, secondo me, cominciare a capire che il giornalismo dell’emergenza, del grande effetto, del bagno di sangue, tanto per capirci, non funziona più e non è tanto adatto alla società che viviamo.

        ZAVOLI Sergio. C’è questa questione degli approfondimenti che stanno decadendo, perché viene meno lo spazio per indugiare su analisi e giudizi. Mi tocca molto da vicino: ho praticato per tutta la vita l’inchiesta, e mi dolgo che il sistema comunicativo, in questo caso nel suo complesso, quindi non solo la televisione tenda a privarsi di questo genere giornalistico.         Concludiamo il primo giro. Dico subito che il secondo sarà fatto di una domanda semplice, che esigerà una risposta quasi epigrammatica, e questo perché bisogna chiudere e perché abbiamo già molto abusato della vostra attenzione. Chiude il primo giro quello che io chiamo confidenzialmente, lui me lo perdona, il megadirettore, cioè Ferruccio De Bortoli.

        DE BORTOLI Ferruccio. Riprendo un po’ quello che hanno detto i miei colleghi negli interventi precedenti, proponendomi di fare soltanto una serie di brevissime annotazioni. Noi in questa mattinata abbiamo discusso dell’informazione e dei fenomeni di mafia internazionale; abbiamo parlato, come giustamente diceva Paolo Garimberti, che mi ha preceduto, della necessità che il giornalismo si dedichi di più alle linee sommerse e un po’ di meno, forse, alle linee di superficie della realtà. Del resto anche voi, che svolgete un compito estremamente importante per l’ordine, il benessere, e la civile convivenza di questo paese, siete in lotta con le emergenze quotidiane e poi dovete dedicare molto spazio, tempo, uomini e risorse anche allo studio di fenomeni che non vorremmo che ci apparissero nella loro virulenza quando non abbiamo avuto il tempo di studiarli in origine. Questo è accaduto per altri fenomeni che hanno turbato e insanguinato il nostro paese. Ne cito uno che abbiamo vissuto un po’ tutti anche dal punto di vista professionale, che è stato quello del terrorismo. Se lo avessimo studiato di più e prima, e forse se qualcuno di noi non lo avesse accarezzato, blandito, giustificato, probabilmente saremmo riusciti a risparmiare qualche vita. Riprendendo il discorso sulle mafie internazionali, consentitemi di fare un accenno ad un aspetto che abbiamo forse un po’ trascurato tutti, noi giornalisti e voi operatori, in questa fase, e che è legato direttamente all’evoluzione dei mercati finanziari e all’apertura e globalizzazione dell’economia. Io vorrei parlarvi brevemente di due paradossi. Il primo è il paradosso della trasparenza. Noi viviamo finalmente in un’economia aperta, globalizzata; nessuno di noi, ovviamente, ha nostalgia dei regimi che mantenevano al proprio interno alcuni fenomeni criminosi. Certamente dovremmo essere grati ex post a Tito per tutto quello che ha fatto per molti anni; forse è una figura storica un po’ da rivalutare alla luce dei discorsi che abbiamo fatto stamattina. Ma certamente nessuno vuol tornare indietro, siamo tutti felici che la democrazia si affacci in una parte consistente del globo. La globalizzazione dei mercati finanziari però pone una serie di problemi, nel senso che c’è stato nei mesi scorsi un interessante studio fatto dall’università di Harvard, in cui si diceva sostanzialmente alcune aperture troppo affrettate alla trasparenza, per esempio di società e di gruppi in situazioni di sviluppo caotico dell’economia, siano stati un formidabile aiuto alla criminalità organizzata. Nel senso che laddove non ci sono regole, il fatto di adottare regole di trasparenza pone gruppi, società e quella parte di economia che cerca di affrancarsi dal passato e di entrare in una serie di regole internazionali, in una situazione di straordinaria debolezza; la trasparenza dovrebbe quasi essere bandita in quelle situazioni, perché rischia di essere in qualche modo un aiuto formidabile alla criminalità.
        Così, per esempio, l’innovazione finanziaria. Ho letto alcune relazioni svolte ieri, molto interessanti, come quella del generale Macchia, dove si dimostra che alcuni spezzoni di criminalità classica anche nostra hanno una grande intraprendenza e modernità nell’uso di strumenti dell’innovazione finanziaria, e mi riferisco principalmente ai prodotti derivati. Credo che il generale Macchia si riferisse ad un’inchiesta su un clan, credo Cannizzo ed altri, per il quale il "Corriere della Sera" ha subito una serie di querele miliardarie. Però evidentemente c’è nell’innovazione finanziaria anche il fatto che si affacciano gruppi nuovi di criminalità, magari anche provenienti dall’estero, che vorremmo invece molto concentrati su quella che è la criminalità classica, su quelle che sono le fonti di approvvigionamento classiche; e invece hanno fatto un salto enorme, così come avviene nei paesi in via di sviluppo, dove si salta subito all’ultima generazione tecnologica, si evitano i passaggi intermedi che hanno fatto le altre economie più mature. E così lo stesso avviene per le nuove mafie e per le nuove organizzazioni criminali. Forse questo è un aspetto che dovrebbe essere in qualche modo approfondito, rispetto al quale credo che una buona informazione potrebbe dare il suo contributo. In sintesi, il mercato che funziona è una grande deterrenza per l’ingresso di forze criminali, ma un mercato che funziona poco è un grandissimo aiuto, diventa assolutamente vulnerabile e permeabile all’ingresso di operatori che hanno origine nella criminalità, e non nella legalità. Questo forse è un tipo di riflessione che dovremmo fare, tenendo conto che noi siamo un paese che, pur essendo uno fra i più sviluppati del mondo, è dal punto di vista delle regole di mercato in una fase di fragile transizione, forse più esposto di altri alla penetrazione e all’inquinamento di queste forze. Quindi questo è un tipo di attenzione che l’informazione dovrebbe avere, nel senso di capire anche la vastità, l’arretratezza delle strutture di controllo di questi nuovi fenomeni criminali mafiosi, ma anche il loro straordinario e inaspettato tasso di modernità, che si vede dal fatto che possono approfittare del grado di trasparenza delle società, specialmente nel riciclaggio del denaro sporco, e possono approfittare di questo per scalare delle società, e quindi per diventare essi stessi – come è avvenuto in alcuni paesi di democrazia giovanissima, se non incerta e forse, in alcuni casi, poco duratura – nello stesso tempo controllori dei principali gruppi e quindi condizionatori della scelta dei governi di quei paesi. Quest’ultimo è l’aspetto più importante, e mi riferisco non solo al caso russo, ma al caso, ad esempio, di molte repubbliche caucasiche.
        E allora questo fenomeno va indagato di più, con un’apertura diversa anche dei nostri mezzi di informazione a quello che avviene all’estero, tenendo conto che nell’era della globalità non ci sono più le distanze, e quindi quello che può accadere in una sperduta regione asiatica probabilmente ha una straordinaria e immediata ripercussione su qualche aspetto anche dell’attività produttiva, e quindi anche del grado di convivenza civile, di un paese come il nostro.
        Termino con una brevissima annotazione che riguarda il ruolo dell’informazione e una cultura delle regole nel nostro paese. In più di un’occasione, anche durante questo Convegno, si è parlato della necessità di nuove regole, si è parlato della necessità di un diverso rapporto, specialmente fra l’economia e la politica. Quello che vorrei dire, e che credo possa rappresentare un utile impegno da parte degli organi di informazione, è che è necessario promuovere – sempre nell’ottica di una maturazione e di un affrancamento dai nostri difetti verso un’economia e una società più moderna – anche un’etica non legale, e cioè il fatto che esistano delle comunità dove il giudizio morale su una persona non sia soltanto legato al fatto che questa persona può aver infranto delle regole del codice penale o in qualche modo può essersi messa in una situazione di illegalità, ma anche al proprio comportamento. A differenza di altre business communities, ad esempio, quella italiana – qui faccio una critica ad una parte che non credo sia estremamente rappresentata in questa sala – sa, ad esempio, espellere coloro che fanno un gioco sporco.
        Non viene a patti con coloro che fanno un gioco sporco, che magari non hanno infranto delle regole ma sono semplicemente più furbi. Allora, i furbi non vanno considerati nella loro grande scaltrezza economica, per il fatto che generalmente, anche in questo paese, ammiriamo coloro che riescono ad essere molto border line a livello legale ed economico. Forse sarebbe anche giusto, in una diversa maturazione, che questa business community - come avviene in altri paesi – sappia trovare al proprio interno, autoregolamentandosi, la capacità di espellere coloro che, con il loro comportamento, potrebbero in qualche modo essere complici diretti o indiretti della penetrazione delle nuove mafie internazionali.
        
        ZAVOLI Sergio. Prima di avviarci alla fase delle domande e delle risposte conclusive, vorrei soffermarmi molto brevemente sulla questione della globalizzazione.
        Anche se non sono un economista, un esperto del settore, quando sento la parola globalizzazione mi viene sempre in mente il villaggio globale, che invece riguarda il mio mestiere. Credo che questa espressione dell’abusato McLuhan sia una delle più grandi menzogne dette dalla sociologia e dalla comunicazione in questi ultimi 30 anni. Nell’epoca proveniente dai lumi un miliardo di persone non conosce la luce elettrica, eppure nel suo teorema McLuhan sostiene che si può essere al tempo stesso protagonisti e testimoni del medesimo evento e che questo ci rende in un certo senso più uguali. Ritengo, invece, che ci siamo trovati nella condizione di capire quanto siamo ancora disuguali solo da quando – per fortuna – la televisione ci ha messo sotto gli occhi la realtà del mondo.
        La storia della globalizzazione implica anche un grande alibi, persino nostro, che è quello di far credere alla gente che non c’è più motivo di farsi carico dei distanti, degli attardati e dei deboli, perché il mondo tende a mettere tutti nelle stesse condizioni e ad offrire a tutti le stesse opportunità. Quei famosi 50.000 bambini che ogni giorno muoiono di fame nel Sud della terra – mi esprimerò con il linguaggio del mio mestiere, ossia attraverso un immagine – equivalgono a circa 500 jumbo che ogni giorno precipitano sulla terra carichi di bambini. Eppure, nell’informazione di questo non si parla, perché nella civiltà dell’immagine e nell’epoca della trasparenza immagini del genere non vengono distribuite. Soltanto un paio di settimane fa Rai 3 ha trasmesso un documentario sulla fame nel Sudan che – non a caso – ha gettato lo sconcerto nel paese; tuttavia, si tratta di fatti vecchi di 50 anni, che appartengono al momento nel quale le ideologie si sono fatte carico di rappresentare gli interessi del mondo – chi da una parte, chi dall’altra – e, in particolare, al tempo in cui si diceva che il comunismo era la parte di dovere non compiuta dai cristiani e che il capitalismo era il sistema delegato a raccogliere il massimo di benessere a condizione, però, che fosse distribuito nel modo più equo. Queste ideologie inadempienti hanno lasciato, in realtà, il mondo com’era. Altro che globalizzazione da questo punto di vista! Quindi, l’informazione deve essere molto cauta nell’usare questo termine e nell’affrontare questo tipo di problema.
        Per quanto riguarda l’ultima domanda devo dire che di frequente viene sollevato – per questo motivo siamo un pò allarmati – il sospetto che lo Stato italiano abbia abbassato la guardia nei confronti della mafia. Non so se questa sia l’opinione anche dei direttori qui presenti. Perché, mi domando, per trovare qualche esplicito apprezzamento del lavoro dell’Italia in questo ambito bisogna leggere i giornali stranieri? Non a caso, dal punto di vista degli uomini, degli strumenti e delle normative, l’Italia è il paese più avanzato dopo gli Stati Uniti. Reputo questa una buona notizia, ma credo che gli italiani non la conoscano. Questo stesso giudizio, badate bene, è condiviso dal poliziotto più accreditato del mondo, che è il capo del FBI, il quale si è espresso nel modo seguente (devo dire: "si è espresso quasi nel modo seguente", perché nella traduzione può essere andata perduta qualcosa): "In una sorta di piano Marshall per affrontare il tema della criminalità organizzata in ogni parte del mondo, e ovunque con la medesima energia, gli Stati Uniti non potrebbero assumersi il ruolo che ebbero nel dopoguerra. Noi, in questo nuovo, diverso ed ipotetico piano Marshall, potremmo occuparci soltanto dell’area del Pacifico e all’Europa dovrebbe pensare l’Italia. Al resto il resto del mondo."
        Perché a giudizi così lusinghieri corrisponde in Italia un clima di disincanto, di sfiducia, di sospetto? Quale ruolo, allora, può avere l’informazione in un fenomeno del genere? L’informazione che a sua volta ha disincanto ed è persino sospettosa?
        Ricordo che Marcello Sorgi ha usato una espressione forte: ha parlato di mafia dell’informazione. Se, allora, siamo alle prese con la nostra incapacità di interpretare il nostro stesso ruolo – probabilmente ha la sua incidenza anche il fenomeno denunciato da Garimberti a proposito della nostra scarsa inclinazione un giornalismo investigativo, che invece ha grande spaccio in altre parti del mondo – e se ciò indebolisce il sistema informativo sulla mafia, e se tutto questo è vero, come possiamo affrontare il nostro compito di analisi e di critica nei confronti dei comportamenti istituzionali? Rivolgo questa domanda, intanto, a Garimberti.

        GARIMBERTI Paolo. Sinceramente non sono in grado di rispondere a questa domanda. In effetti, devo dire che a volte si ha questa impressione – la ricavo leggendo i giornali che scrivono i miei colleghi – ma ancora una volta ci troviamo di fronte alla stessa situazione: questa impressione nasce dal fatto che scriviamo di certi fenomeni quando c’è l’emergenza ed essa è quasi sempre negativa. Quindi, reputo fatale il fatto che si dica che lo Stato ha abbassato la guardia. In realtà, se cercassimo di approfondire maggiormente, sulla lunga distanza, tutto quello che accade, probabilmente daremmo un giudizio diverso.
        Tornando al discorso che ho fatto prima, che credo sia condiviso in grande misura dai partecipanti a questo tavola rotonda, non posso non affermare che noi giornalisti corrispondiamo alla emotività tradizionale latino-mediterranea della società italiana. Questo forse è un errore.

        MENTANA Enrico. Non penso che si tratti del problema di alzare e di abbassare la guardia. Anzi, in alcuni casi la guardia forse è stata troppo alta e c’è stato troppo allarme – qualcuno dirà che non c’è mai troppo allarme – troppa iterazione nelle grida d’allarme e che non si regge un livello così iperbolico rispetto all’informazione. Nei confronti della lotta alla mafia lo Stato, nella percezione giornalistica – di questo solo posso parlare – continua ad avere e a tenere forte il suo ruolo. L’informazione si è laicizzata rispetto alla trattazione della lotta contro la mafia, perché è passata da una lunga fase mitica – in alcuni casi doverosamente enfatica, soprattutto per ricordare i caduti in tale lotta – ad una fase laica, nella quale si guardano anche i problemi e gli aspetti in controluce e in chiaroscuro. Questo non vuol dire abbassare la guardia, ma consolidare ed articolare il nostro intervento critico, responsabile e consapevole nei confronti della battaglia verso e contro il fenomeno della criminalità organizzata, soprattutto in quelle determinate regioni. A chi mi dice – è una frase ricorrente – che lo Stato ha abbassato la guardia o che si assiste ad una caduta di tensione nel settore dell’informazione, rispondo che bisogna fare attenzione, perché non c’è una caduta di tensione, ma solo un aggiustamento – o quello che vorrebbe essere un aggiustamento – perché non siamo infallibili o depositari della verità e della rappresentazione della realtà. Abbiamo cercato di mettere a fuoco come debba essere l’informazione su questo argomento. Alcune critiche o la pubblicazione e la rappresentazione di divergenze, di storture e di alcuni eccessi sono a favore della lotta alla mafia, ma ciò non vuol dire abbassare la guardia o favorire il nemico, ma vuol dire favorire la democrazia che lotta democraticamente contro la mafia e lo Stato che lotta democraticamente contro l’antistato.
        Si tratta, quindi, di una critica – se posso esprimermi in maniera più enfatica – che respingo completamente.

        DE BORTOLI Ferruccio. Il nostro paese è apprezzato a livello internazionale, al di là della troppo cortese affermazione attribuite al Capo del FBI, per due grandi risultati che ha ottenuto, che sono "palpabili" in tutti gli osservatori internazionali. È apprezzato per il risanamento finanziario che ha attuato e per la lotta che ha condotto contro la mafia e la criminalità organizzata, nella quale ha ottenuto successi significativi. Dopo di che – come dice Mentana – il fatto che ci siano discussioni e polemiche e che possano essere anche rivolte delle critiche alla stessa magistratura vuol dire che abbiamo recuperato una normalità democratica e di questo dovremmo essere in qualche modo contenti.
        Certamente dispiace pubblicare, qualche volta, notizie non perfettamente gradite agli inquirenti e questo fatto può essere, in qualche modo, scambiato come una sorta di scarsa considerazione nei riguardi del lavoro compiuto, di abbassamento della guardia e di tensione dal punto di vista dell’informazione. Tuttavia, se ciò accade in questa fase, vuol dire che abbiamo recuperato una normalità, che ci sono stati successi e che i meriti sono di molte delle persone presenti in questa sala.
        
        BORRELLI Giulio. A mio giudizio, c’è stata probabilmente una ripetitività nel raccontare e nel descrivere alcuni fenomeni, come sempre succede e come tutti sappiamo. Nella dinamica dell’informazione questo induce alla stanchezza, per cui più che di un abbassamento della guardia si tratta di un logoramento non della lotta alla mafia, ma del racconto della lotta alla mafia. L’informazione ha dovuto, infatti, prendere atto di alcuni fenomeni accaduti, come – ad esempio – il fenomeno dei pentiti.
        Non c’è dubbio che, agli inizi della lotta alla mafia, Buscetta rappresentava una figura emblematica, mitica, sulla quale c’era da raccontare parecchio. Nel momento in cui si è avuta la "serializzazione" dei pentiti – abbiamo anche visto che alcuni di questi erano delle "patacche" – a quel punto non è diminuita la lotta alla mafia, ma è aumentata la necessità di rigore e di verifica da parte degli inquirenti. È aumentata anche la necessità, da parte dell’informazione, di non seguire tutte le dichiarazioni dei pentiti, perché altrimenti avremmo portato tutti fuoristrada ed avremmo anche contribuito ad inquinare alcune fasi delle indagini.
        Quando nacque, il fenomeno dei pentiti sembrò molto importante. Si intravedeva l’apertura di una breccia ed oggi si può affermare che ne sono state aperte tante di brecce, a dimostrazione che la lotta alla mafia è andata avanti. Tuttavia, sappiamo anche che sono stati introdotti elementi di torbidezza e di inquinamento.
        A questo punto devo fare una considerazione finale in merito ad una domanda rivolta da Zavoli in uno dei suoi precedenti interventi. Zavoli ha realizzato 50 puntate sul terrorismo, peraltro pregevoli, e quasi a mo’ di sfida mi è stato chiesto di farne oggi altrettante sulla mafia. La ragione per cui non sono state fatte è molto semplice: è stato possibile raccontare il terrorismo perché esso è un fenomeno storicamente concluso, riguardante una fase della nostra vicenda passata: ne conosciamo protagonisti e comparse, anche se non sono state del tutto chiarite alcune zone d’ombra. In ogni caso, lo si può considerare un fenomeno storico concluso. La mafia, invece, è realtà ancora attuale, palpitante, viva e molto intrecciata con le vicende politiche ed istituzionali di questo paese. Ho ricordato, nel precedente intervento, le difficoltà che ha incontrato, non a caso, uno sceneggiato come "La Piovra". Nessuno ci vieta o ci impedisce di fare oggi 50 puntate sulla mafia, ma sicuramente esse non avrebbero il rigore e la serietà che hanno avuto quelle sul terrorismo, perché ne mancano gli elementi essenziali e perché non le potremmo guardare con un sufficiente distacco storico, dal momento che sono in corso non solo processi ma anche varie inchieste. Come facciamo a raccontare al passato qualcosa che stiamo coniugando ancora al presente?

        SORGI Marcello. Anch’io non credo che lo Stato abbia abbassato la guardia contro la mafia, tutt’altro; ritengo invece che abbia un problema di ridefinizione e di affinamento del suo impegno. Come è stato già detto in questo Convegno, la mafia è diventata un’organizzazione moderna con una consistente forza economica in grado di condizionare i mercati e con un’aspirazione a crescere proprio in tale settore. Probabilmente è questo il campo in cui lo Stato dovrebbe impegnare la maggior parte delle sue forze. Scoprire la mafia albanese che controlla il traffico degli immigrati è molto importante, ma ritengo che il dottor Masone e il ministro Jervolino Russo troveranno i loro nuovi investigatori più facilmente tra i funzionari di banca e tra i consulenti di borsa. È quello il genere di indagini che va affinato.  Invece, mi sembra di cogliere che tutto il fenomeno del pentitismo conosca una certa autocritica e delle limitazioni, perché ha dei costi che forse lo Stato non può più permettersi e quindi se in questo campo lo Stato rivedesse il suo impegno probabilmente nessuno potrebbe dire che ha abbassato la guardia.
        Del resto, ciò è accaduto anche negli Stati Uniti, dove la stagione più forte della lotta alla mafia è iniziata quando ci si rese conto che alcune organizzazioni mafiose erano in grado di condizionare Wall Street, che i figli dei mafiosi frequentavano i maggiori college e le più importanti accademie militari, quando si è capito che uno Stato è minacciato non solo dalla potenza criminale, dalla ferocia e dal bagno di sangue di cui parlava Garimberti, ma da organizzazioni che possono influire sul suo equilibrio economico.

        ZAVOLI Sergio. Siamo arrivati alla conclusione di questa tavola rotonda.  Mi pare che le risposte a quest’ultima domanda non siano inclini a un ottimismo generico, consolatorio, virtuoso ma che possano tuttavia giustificare la fiducia: è di questo che abbiamo bisogno ed è di questo che, a conclusione della partecipazione a questo importante Convegno, possiamo compiacerci.
        
        PRESIDENTE. Non posso che esprimere una grande gioia da parte della Commissione parlamentare antimafia per il livello degli interventi e per la serietà e l’attenzione con cui è stata ascoltata questa parte del Convegno.
        A conclusione della tavola rotonda sospendiamo i nostri lavori per una breve pausa.

        I lavori, sospesi alle ore 12,05, sono ripresi alle ore 12,25.
        PRESIDENTE. Riprendiamo i nostri lavori.

        Prima degli interventi dell’onorevole Oliviero Diliberto, ministro di grazia e giustizia, e dell’onorevole Rosa Jervolino Russo, ministro dell’interno, abbiamo pensato di dare la parola all’onorevole Mario Borghezio, il quale svolgerà una breve relazione sul tema "Modernizzazione e sburocratizzazione della risposta delle forze di polizia alla criminalità organizzata".

        BORGHEZIO Mario, deputato, componente della Commissione parlamentare antimafia. Ringrazio il Presidente e l’intera Commissione parlamentare antimafia per avermi dato modo di svolgere qualche brevissima puntualizzazione su un aspetto che ritengo fondamentale: quello delle strategie da adottare nella lotta contro la criminalità organizzata, che questo Convegno – non attraverso le polemiche ma attraverso una serie di interventi e di contributi molto importanti, anche a carattere scientifico – ha indicato con precisione. L’analisi a mio avviso rischierebbe però di restare monca se non ci ponessimo il problema dell’adeguamento delle strutture dello Stato nel senso della sburocratizzazione e dell’avviamento di un processo di introduzione di quei meccanismi di efficienza, di modernità e di rapidità (per impiegare gli stessi termini con cui questa mattina alcuni esponenti del mondo dell’informazione hanno dipinto l’azione delle mafie) che sono necessari a fronte della velocizzazione – cito testualmente il termine che è stato usato – dell’espansione della macchina infernale delle organizzazioni criminali e della loro infiltrazione nel nostro tessuto anche e soprattutto economico. A mio avviso, dobbiamo domandarci – e questa mattina lo chiediamo direttamente ai Ministri dell’interno e di grazia e giustizia, cioè al Governo qui presente – cosa fa lo Stato per superare questa distanza che in molti settori appare talora incolmabile.
        Io vorrei limitarmi ad avanzare alcune modeste proposte che mi vengono da osservazioni personali e anche da uno stretto colloquio e collegamento con le forze dell’ordine che sono impegnate in prima fila nell’attività di contrasto.
        Intanto, ritengo che sia necessario un intervento urgente: creare un collegamento diretto tra le banche dati del Ministero dell’interno e del Ministero di grazia e giustizia. Oggi la Polizia di Stato, le forze dell’ordine non hanno accesso diretto alla banca dati del Ministero di grazia e giustizia e quando devono richiedere informazioni debbono impegnarsi in una procedura burocratica lunghissima. Non vi è ancora un collegamento della banca dati del Ministero dell’interno con le banche dati, assai importanti, della Consob e dell’Ufficio italiano dei cambi. In questa sede abbiamo ascoltato relazioni, interventi e suggerimenti, provenienti anche dalla stampa, sui problemi relativi alla difficoltà di svolgere determinate indagini, e questo lo notiamo anche nel mondo dell’informazione.
        Vorrei ricordare che un’indagine in corso della procura della Repubblica di Lecce parla, se non sbaglio, di circa 300 miliardi di dollari trasferiti materialmente in Italia attraverso il mare Adriatico e finiti in alcuni istituti bancari italiani. Si tratta di un serpentone finanziario a cui vanno ad aggiungersi i proventi dei vari racket della mafia albanese, che si vorrebbe sapere dove investe, dove va a collocarsi e dove finisce. Da tale punto di vista, il fatto che non vi siano questi collegamenti tra le varie banche dati mi pare grave e ritengo indichi una linea di intervento su cui si possa, anzi si debba immediatamente operare.
        Si è inoltre parlato delle indagini sui reinvestimenti delle mafie straniere, non solo quella albanese, ma anche quella cinese. Chi indaga su questi reinvestimenti? Mi si risponderà: la Guardia di finanza e la DIA. Ma all’interno delle nostre forze dell’ordine quanti sono e di quali mezzi, anche tecnologici, dispongono? Mi risultano organici ridotti, se non ridottissimi, specialmente sul piano territoriale e mezzi assolutamente inadeguati ed obsoleti.
        Si è parlato dei proventi del lavoro nero, della contraffazione di prodotti, di un’economia sporca che utilizza anche e soprattutto manodopera illegale e sfruttata; propongo un’innovazione legislativa, e cioè dare ai questori il potere di confisca in sede amministrativa dei proventi e dei mezzi usati da queste aziende mafiose (quindi licenze, attrezzature, conti correnti, e così via).
        Si è parlato giustamente della pericolosità e dell’infiltrazione nel tessuto economico e sociale del paese delle mafie etniche – cinesi, russe, eccetera –, ma mi risulta che a livello centrale non vi siano in realtà dei nuclei di intelligence con adeguato supporto di conoscenze, di tecnologie e di mezzi logistici per effettuare indagini mirate che corrispondano al livello di velocità, di pericolosità e di sofisticatezza delle tecniche di infiltrazione, di azione e di penetrazione nel nostro tessuto criminale ed economico da parte di queste attività che sono commerciali ma che possono essere, anzi sicuramente lo sono, anche finanziarie. Come possiamo pensare che i fruitori degli enormi utili derivanti da tali attività non colgano, ad esempio, l’occasione di investire nelle azioni di risparmio che oggi il mercato finanziario e borsistico italiano offrono?
        Un’altra considerazione sulle banche dati. Mi domando: è vero o non è vero che attualmente in molti casi le banche dati dei nostri organi di intelligence non sono in grado di translitterare correttamente le generalità dei soggetti da controllare, e che quindi questa attività di trasmissione dati avviene con estrema difficoltà? Siamo in grado oggi di trasmettere correttamente attraverso queste banche dati il nome di un esponente della mafia cinese? Al riguardo, credo vi sia qualche grosso problema.
        E qui si pone anche la sfida della formazione permanente e del reclutamento del personale. Temo che si stia andando in una direzione esattamente opposta, quando sento parlare di funzionari e di dirigenti che possono, anche per il domani, non essere laureati. Altro che non laureati! Io dico che funzionari e dirigenti debbono essere addirittura messi nelle condizioni di effettuare stage di formazione professionale, di specializzazione. Come possiamo pensare di sfidare l’infiltrazione nel mondo finanziario ed economico se non mandiamo i nostri funzionari ed i nostri dirigenti a fare degli stage nelle piazze borsistiche, nelle banche d’affari? Questo dobbiamo fare; dobbiamo avere un personale delle forze dell’ordine adeguato anche a livello culturale visto che ce ne sono i presupposti, perché le persone che lavorano nelle nostre forze dell’ordine hanno e possono avere sempre di più – con un adeguato reclutamento – queste propensioni e queste capacità: bisogna naturalmente potenziarle e migliorarle.
        Non posso non sottoporre all’attenzione del gentile Ministro dell’interno il problema della motivazione delle forze dell’ordine, anche alla luce dei provvedimenti che sono stati annunciati e rispetto ai quali attendiamo notizie più particolareggiate. Gli attuali provvedimenti, nonché quelli che in futuro si renderanno necessari ed indilazionabili, devono mirare anche a questo. Le forze dell’ordine sono impegnate a contrastare questo tipo di criminalità, però sono profondamente demotivate. Allora, pensiamo anche a provvedimenti che incidano sulla certezza delle pene, non solo ai ritocchi edittali.
        Avviandomi alla conclusione, vorrei svolgere qualche osservazione sul problema dei controlli alle frontiere. Si tratta di un problema di dimensioni enormi, di una voragine per gli organici e per i mezzi, ma mi risulta che non vi sia nemmeno un collegamento funzionale tra la polizia di frontiera e gli Uffici stranieri. Inoltre, a fronte di un’emergenza qual è quella di 350.000 domande di regolarizzazione, quanti sono gli addetti agli Uffici stranieri? 1.500-1.800 unità: risibile!
        E poi, qual è il livello tecnologico di funzionamento di questa struttura, a cui lo Stato dovrebbe fornire mezzi sofisticati ed adeguati? Mi pare che stiamo ancora al livello del cartaceo. Occorrono investimenti per la sicurezza perché i nostri poliziotti, i nostri carabinieri lavorano duramente; hanno fatto migliaia di controlli in questi anni, ma c’è un patrimonio immenso che, a quanto mi risulta, giace polveroso negli archivi.
        E per concludere vengo alla questione degli "alias": questa è un’altra vicenda di cui ci parlano sempre il personale impegnato e gli stessi magistrati. È un problema eterno. Risulta addirittura non esservi omogeneità fra il sistema di rilevazione dei dati dattiloscopici da parte delle forze dell’ordine e quello moderno del Ministero dell’interno, e quello ancora diverso e non compatibile in uso nelle nostre carceri, per cui non comunicano. I dati dattiloscopici ricavati dagli uffici matricole intanto non sono omogenei neppure fra carcere e carcere e non risultano intelligibili da parte delle strumentazioni moderne in uso al Ministero dell’interno. Mi si risponderà che c’è una commissione che sta lavorando per risolvere questo problema. È vero, lo so, ma non vorrei che mentre le commissioni lavorano continuasse ancora per anni il dramma, che credo rappresenti un caso forse unico fra gli Stati occidentali avanzati, delle decine e decine di "alias", con difficoltà di carattere burocratico, che sono state affrontate con grave ritardo e che impediscono alle istituzioni, allo Stato italiano di raggiungere spesso pericolosi delinquenti.
        Forse, se ci si fosse impegnati tutti anche a livello legislativo meglio su questo tema non avremmo avuto casi anche gravi, episodi che hanno toccato la sensibilità di tutti: mi riferisco in particolare alla violenza subita da una povera ragazza che credeva nell’amicizia, nella simpatia, nel rapporto umano con le persone di altro colore; questa vicenda, per questo motivo, pesa sulla nostra coscienza come nessun altro fatto.

        PRESIDENTE. Ringrazio l’onorevole Borghezio. Anche il suo intervento, che peraltro non era previsto dal programma iniziale dà il segno di una serenità del dibattito e dei rapporti nella Commissione antimafia che fa onore a tutti i componenti di questo organismo parlamentare.  Entriamo ora nella fase conclusiva dei nostri lavori, gli ultimi trenta minuti in cui si tireranno le somme di questo Convegno. Comincio dando la parola al Ministro di grazia e giustizia, onorevole Diliberto.

        DILIBERTO Oliviero, ministro di grazia e giustizia. Signor Presidente, autorità, signore e signori, sono particolarmente lieto, al di là delle frasi di circostanza, comuni in queste occasioni, di intervenire nel corso di questo Convegno, la cui importanza credo sia, alla fine dei lavori, sotto gli occhi di tutti, e desidero ringraziare il Presidente della Commissione parlamentare antimafia e il Capo della Polizia di Stato che all’organizzazione ha così efficacemente contribuito.

        Mi occuperò nel mio intervento dei profili di cooperazione internazionale relativi al contrasto alla criminalità organizzata, mentre il Ministro dell’interno, in accordo fra noi, si occuperà dei profili di contrasto interno.
        Tutti sappiamo che il crimine organizzato è fenomeno complesso e i fattori di tale complessità, che sembrano oggi prevalere, non solo suggeriscono, ma, a mio modo di vedere, impongono l’adozione di politiche anticrimine basate sulla concertazione internazionale e sulla collaborazione fra gli Stati. Questi fattori possono essere individuati collegandosi alle caratteristiche della internazionalità e della transnazionalità del crimine organizzato, distinte fra loro.
        Il crimine organizzato è transnazionale nel senso che gli scopi dei gruppi criminali comportano che l’organizzazione e l’esercizio delle loro attività illecite interessino contemporaneamente più Stati. Ne consegue, dunque, che l’efficacia della prevenzione e della repressione in buona misura dipende dalla cooperazione fra più Stati.
        Non sarebbe difficile dimostrare, soprattutto in relazione alle indagini e ai processi, che non vi è praticamente settore dell’illecito coltivato dalle organizzazioni criminali nel quale non si richieda sempre più frequentemente la collaborazione di enti stranieri. Sulla base della esperienza, non solo italiana, degli ultimi anni, sono infatti convinto che questa esigenza non possa essere completamente soddisfatta soltanto attraverso i rapporti bilaterali, né da regimi di cooperazione instaurati in ambiti regionali, ma che invece occorra costruire nei tempi che saranno necessari un sistema normativo internazionale che consenta lo sviluppo della cooperazione nel quadro più vasto possibile di paesi.
        L’integrazione fra i diversi livelli di cooperazione internazionale costituisce dunque un primo e importante obiettivo che impegna l’azione del Dicastero della giustizia nelle varie sedi negoziali.
        Una concreta traduzione di tale approccio credo debba essere rinvenuta nello sforzo dispiegato nei confronti delle competenti autorità albanesi al fine, da un lato, di accelerare il già avviato procedimento interno di ratifica della Convenzione europea sulla mutua assistenza penale del 1959 e, dall’altro, di pervenire rapidamente alla sottoscrizione di protocolli aggiuntivi che recepiscano nei rapporti fra i due paesi le più avanzate ed utili forme di cooperazione giudiziaria previste negli accordi bilaterali sottoscritti dall’Italia.
        Si vuole con ciò offrire alle competenti autorità giudiziarie gli strumenti operativi necessari per condurre in maniera efficace indagini particolarmente delicate e complesse sui gruppi criminali così pericolosi che trovano al di là dell’Adriatico appoggi logistici ed organizzativi.
        In questo quadro si inserisce la partecipazione del Ministero della giustizia alla definizione di iniziative di assistenza tecnica volte, nel contesto della cosiddetta "Iniziativa Adriatica", alla formazione specialistica di magistrati albanesi e montenegrini nel campo della lotta al crimine organizzato, ovvero alla creazione in quei paesi di banche dati, suscettibili di offrire ulteriori possibilità investigative alla cooperazione internazionale tra autorità giudiziarie e di polizia.
        Mi permetto di insistere sulla fondamentale importanza dell’assistenza tecnica al fine di innalzare il livello operativo della cooperazione in materia penale: credo che noi siamo tutti ben avvertiti che il rafforzamento del complessivo sistema internazionale di contrasto al crimine organizzato non deriverà, come d’incanto, dalla semplice adozione di disposizioni pattizie. Al contrario, queste, per trasformarsi in realtà nei rapporti fra le autorità giudiziarie e di polizia dei diversi paesi, dovranno essere riflesse in complesse attività di attuazione. E il processo di attuazione, laddove sono limitate le risorse umane, finanziarie e tecniche, o manca una specifica esperienza di settore, rischia di prolungarsi troppo o addirittura di non essere portato a compimento.
        Tutte le risorse disponibili dovranno essere mobilitate per impedire che ciò avvenga. A questo scopo il Ministero della giustizia è impegnato nella realizzazione di specifici progetti di assistenza in favore di diversi paesi dell’Europa centrale ed orientale candidati all’adesione all’Unione (Romania, Ungheria, Slovenia, Repubblica Ceca).
        L’Unione europea finanzia tali progetti. Ma ulteriori risorse potrebbero a tal fine essere assicurate da norme pattizie che obblighino gli Stati ad introdurre nei loro ordinamenti interni efficaci misure di aggressione dei patrimoni criminali, prevedendo al contempo la destinazione di parte dei valori recuperati al finanziamento di programmi di assistenza tecnica in favore dei paesi meno attrezzati.
        In questo senso mi adopererò, e ci stiamo adoperando, perché norme di questo tipo siano inserite nella Convenzione ONU, in corso di elaborazione, sul crimine organizzato.
        Ma, accanto alla caratteristica transnazionale di cui ho parlato sinora, la natura internazionale del crimine organizzato, e dunque dell’azione di contrasto, emerge anche per altri e diversi aspetti.
        Nonostante il rilievo delle connotazioni locali, infatti, il fenomeno del crimine organizzato si presenta sempre più in forme tra loro simili in un gran numero di paesi. Accanto alla cosiddetta pervasività della criminalità organizzata, si constata in molti paesi che le attività criminali organizzate vanno modellandosi secondo tipologie internazionalmente riconoscibili e sufficientemente standardizzate.
        Ciò, dunque, rende legittimo e fruttuoso un altro indirizzo della normazione internazionale pattizia che intendiamo favorire e rafforzare, quello cioè secondo cui, accanto alla cooperazione interstatuale, è opportuno mirare anche al ravvicinamento degli ordinamenti nazionali, potenziando quelli che appaiono più deboli e utilizzando, per quanto possibile, i modelli offerti da quelle leggi e da quelle prassi nazionali che si possa dimostrare abbiano dato concretamente buoni risultati.
        Si tratta di una prospettiva certo più facile se inserita nel quadro di rapporti regionali (in questo senso è significativa l’adozione di strumenti attuativi del Piano di azione comune contro la criminalità organizzata adottato dal Consiglio dei Ministri dell’Unione europea nel giugno 1997), ma comunque praticabile, fatte le debite proporzioni, anche a livello mondiale. Penso a questo proposito al negoziato in corso per il completamento del progetto di Convenzione ONU contro il crimine organizzato, progetto che prevede obblighi di uniforme criminalizzazione della partecipazione ad associazioni criminali e del riciclaggio, e disposizioni, che noi giudichiamo con estremo favore, volte a conferire maggiore efficienza all’operato delle strutture nazionali di prevenzione, investigazione e repressione del crimine organizzato, utilizzando, per quanto appropriato, proprio modelli organizzativi sperimentati con fortuna qui in Italia.
        Questa impostazione si basa su due osservazioni che ritengo fondamentali.
        La prima: la stessa collaborazione fra le polizie o le autorità giudiziarie di due paesi incontra obiettivi limiti intrinseci nelle eventuali diversità dei due ordinamenti nazionali (sia che attengano al diritto sostanziale che a quello processuale) e pertanto il ravvicinamento ordinamentale viene a costituire un prerequisito essenziale per la creazione di efficaci schemi di cooperazione.
        La seconda è che vi è un evidente interesse ad evitare che i gruppi criminali possano approfittare delle discrasie dei sistemi nazionali o delle lacune o delle debolezze di alcuni di questi. Ed è ovvio che si tratta di un interesse contemporaneamente comune a tutti gli Stati, perché gli effetti negativi dell’espansione o della riallocazione delle attività di una organizzazione criminale in un paese a sistema di contrasto debole toccheranno non solo quel paese, ma anche molti altri che pure abbiano ordinamenti più sviluppati.
        La complessità dei fenomeni da affrontare rende dunque opportuna la previsione negli strumenti internazionali di moderni regimi di prevenzione comuni. Prevenzione che da un lato tenga bene in conto la naturale permeabilità dei mercati finanziari e dei sistemi economici ai proventi del crimine organizzato e che, dall’altro, utilizzi tutti gli strumenti disponibili, e non solo quello penale, per far fronte ad organizzazioni il più delle volte radicate in situazioni di particolare degrado sociale.
        È a partire da tale consapevolezza, ad esempio, che durante il negoziato per l’adozione della Convenzione ONU sul crimine organizzato, la delegazione italiana ha sostenuto e continuerà a sostenere l’inserimento di norme volte a prevenire il riciclaggio, ovvero a favorire un ampio raggio di interventi, dalla trasparenza degli assetti societari alla prevenzione nel settore degli appalti pubblici, alla prevenzione sociale.
        A questo proposito non si deve dimenticare che sia gli strumenti adottati in sede europea che il progetto di Convenzione ONU in corso di elaborazione sono il risultato di prolungati processi negoziali che, lungi dal concentrarsi sugli aspetti della normazione, hanno concepito questa come una componente essenziale, ma non esclusiva, da inserire in un più vasto contesto operativo in cui essa possa favorire un approccio multidisciplinare ai fenomeni criminali integrandosi con altre modalità di collaborazione internazionale.
        Vorrei concludere affrontando alcune ulteriori prospettive.
        La prima di esse prende spunto non solo dalla positiva consapevolezza dell’importanza di questi temi da parte degli uffici giudiziari, dai quali sono giunti spunti essenziali per la conclusione di rilevanti accordi bilaterali, ma anche dal rilievo dell’attività che la Procura nazionale antimafia sta sviluppando attraverso la costituzione di un apposito Dipartimento affari internazionali. I contatti stabiliti attraverso tale canale potranno consentire alle autorità di Governo la stipulazione di accordi generali di particolare utilità, perché originati da una rilevazione sul campo dei fenomeni criminali e delle necessità operative.
        Proprio in ragione della specifica esperienza accumulata negli anni dalla Procura nazionale antimafia, quale organismo di raccordo e di coordinamento tra singole indagini, desidero nei prossimi giorni approfondire la possibilità che tale organismo sia direttamente coinvolto, nel rispetto della sua peculiare natura ordinamentale e delle prerogative degli uffici giudiziari territoriali, nell’attività della rete giudiziaria europea, istituita sulla base dell’azione comune adottata dal Consiglio europeo nel giugno del 1998.
        Una seconda prospettiva, che spetta ai Ministri della giustizia e dell’interno dell’Unione delineare ancora compiutamente, attiene invece alle potenzialità offerte dal Trattato di Amsterdam per il miglioramento dei meccanismi della cooperazione giudiziaria penale. Non va dimenticato al riguardo che la cooperazione giudiziaria penale, così come quella di polizia, rimangono, anche dopo Amsterdam, di natura intergovernativa. Tutti noi verifichiamo al proposito quanto difficile sia pervenire a risultati concreti anche in settori di importanza fondamentale quale quello del crimine organizzato.
        I passi che si stanno compiendo sono di estremo rilievo e vedono fortemente impegnato il mio Dicastero. Stiamo lavorando attivamente per favorire la rapida adozione della nuova Convenzione sulla mutua assistenza penale, che prevede sistemi rapidi ed innovativi che superano i tradizionali, e credo ormai obsoleti, strumenti rogatoriali. Abbiamo ottenuto – con la proposizione di un apposito emendamento – che il piano d’azione per la realizzazione di uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia, vero e proprio documento programmatico dell’Unione per il quinquennio post-Amsterdam adottato nel dicembre scorso, preveda la possibilità di attività collegate delle autorità giudiziarie degli Stati membri nell’ambito territoriale dell’Unione, ciò che consente in prospettiva, nei tempi che saranno necessari e sicuramente senza forzature, ma anche senza incertezze, di ipotizzare l’utilizzabilità diretta degli atti compiuti all’estero.
        Intendiamo promuovere il passaggio dal sistema dell’estradizione ad altro, analogo alla semplice consegna, fondato in larga misura su meccanismi automatici, sulla riduzione dei motivi di rifiuto e su possibilità di controllo giudiziario a livello europeo. Ma il miglioramento della cooperazione intergovernativa mi sembra comunque insufficiente a rispondere adeguatamente alla sfida postaci dal Trattato di Amsterdam. Un’Europa che non voglia ridursi ad essere solo un centro di regolazione economica non può esimersi, a mio avviso, dopo Amsterdam, dal porre dinanzi a sé la prospettiva della costruzione di una vera e propria giustizia europea, fatta al contempo di un corpus di norme armonizzate in settori specifici e ben determinati non solo del diritto civile, ma anche di quello penale, e di strutture giudiziarie competenti ad applicare quel diritto comune come prosecuzione e completamento delle autorità giudiziarie nazionali laddove l’effetto delle decisioni abbia carattere transfrontaliero. Penso al riguardo ad una corretta applicazione del principio di sussidiarietà stabilito dall’articolo 2 del Trattato, nel senso che, ove sia chiaro che i singoli Stati possono meglio realizzare gli obiettivi posti dal Trattato, dovrà essere loro riconosciuta una competenza esclusiva. Viceversa, laddove la dimensione europea è la sola a garantire un utile approccio ai problemi, la difesa delle sovranità nazionali non dovrà rendere sterile la concreta risposta alle esigenze di tutela dei diritti, di sicurezza e di miglioramento della vita quotidiana dei cittadini europei: credo che in quel caso non si debba esitare, anche in campo penale, a definire una sorta di diritto comune attorno a nuclei essenziali di interessi fondamentali e a mettere in opera organi giudiziari europei in grado di applicare quello ius commune. È di tutta evidenza che il prioritario ambito di tale diritto comune dovrà essere proprio quello della criminalità organizzata.Occorrono volontà politica e fantasia riformatrice; entrambe sono necessarie, se si vuole che i progressi siano reali anche nel campo della cooperazione giudiziaria penale. Al riguardo ho proposto ai miei colleghi europei, ministri della giustizia, che per alcune specifiche materie oggetto della cooperazione giudiziaria penale sia applicato l’articolo 42 del Trattato di Amsterdam; il Consiglio, deliberando all’unanimità e previa consultazione del Parlamento europeo, potrebbe decidere che un’azione nel settore della cooperazione giudiziaria penale rientri nel titolo IV del Trattato istitutivo della Comunità europea, stabilendo al contempo le relative condizioni di voto. Stiamo lavorando perché queste prospettive prendano corpo nel Consiglio europeo straordinario di Tampere del prossimo ottobre, allorché i Capi di Stato e di Governo saranno chiamati a definire gli orientamenti per le azioni dell’Unione nel settore della giustizia e degli affari interni. (Applausi).

        PRESIDENTE. Grazie, Ministro. Ha ora la parola l’onorevole Rosa Jervolino Russo, ministro dell’interno.


        JERVOLINO RUSSO Rosa, ministro dell’interno. Innanzitutto desidero anch’io unirmi al collega ed amico ministro Diliberto nel ringraziare il Presidente della Commissione antimafia e tutta la Commissione, il capo della polizia, prefetto Masone, ed i suoi collaboratori per questo Convegno. Io l’ho potuto seguire fino a ieri sera soltanto attraverso le agenzie e la stampa, ma non mi è affatto sfuggita non soltanto la serenità e la costruttività del dibattito, ma anche la ricchezza delle proposte che fa di questo Convegno un momento non di arrivo, ma di partenza non soltanto per ulteriori provvedimenti sul piano legislativo, ma anche per portare avanti un cammino che radichi sempre più nella coscienza dei cittadini la cultura della legalità e la volontà di contrasto alla criminalità organizzata.  Non ero ancora Ministro, comandante Mosca Moschini, quando la Commissione antimafia ha organizzato il Convegno con la Guardia di finanza, quindi non ho avuto modo di seguirlo, ho seguito invece a Napoli quello organizzato con l’Arma dei carabinieri e anche lì, nella mia città, ho potuto constatare le stesse caratteristiche. Il Ministro della giustizia ha già detto che in certo qual senso ci siamo un po’ divisi la materia tra di noi e credo che non vi dispiaccia se il Ministro dell’interno approfitta di questa occasione anche per dare alcune notizie, per ripensare un momento insieme sulle decisioni che sono state prese ieri dal Consiglio dei Ministri. Sindaco Albertini, mi sembrava anche bello e in un certo qual senso doveroso che un cammino del Governo, che è partito anche per suo input qui da Milano all’inizio di gennaio, portasse il Governo a dover riferire il lavoro compiuto proprio nella stessa città. Ed è anche evidente che quando io parlo di lavoro compiuto mi riferisco a disegni di legge già varati dal Governo, a leggi che anche con il contributo attivo del Governo sono state varate dal Parlamento, o sono in via di avanzata approvazione, ma il mio approccio non è affatto trionfalistico, avendo sempre presente con grande chiarezza, come credo sia istituzionalmente doveroso per chiunque ha responsabilità di Governo, ciò che ancora si deve fare più che ciò che è stato già fatto.
        Premesso questo, credo che non si possa non dare atto al Governo D’Alema di aver compiuto in pochi mesi di lavoro un’azione molto forte sul contrasto alla criminalità. Io oggi parlerò soprattutto (proprio in riferimento ai provvedimenti adottati) di criminalità diffusa, il che non significa però non avere attenzione viva per i temi della macrocriminalità, non soltanto per quella connessione che c’è tra micro e macrocriminalità, ma perché secondo me una lotta alla criminalità diffusa, oltre a garantire i diritti dei cittadini e la libertà, la sicurezza dei cittadini, li motiva in modo più profondo e fa scattare con maggior vigore la fiducia nelle istituzioni e quindi la volontà di contrasto, assieme con le istituzioni, anche alla macrocriminalità.
        Noi avevamo preso qui a Milano una serie di impegni, che abbiamo appunto mantenuto. C’eravamo impegnati ad aumentare il numero delle forze dell’ordine e questo è avvenuto, nei limiti del possibile, con le assunzioni programmate per il 1999; c’eravamo impegnati a dare finalmente attuazione all’articolo 36 della legge n. 121, rendendo possibile il massimo impiego di addetti alla Polizia di Stato attualmente impegnati in azioni amministrative non di mero supporto, ma in vere azioni amministrative improprie rispetto ai compiti di istituto, all’azione della Polizia che agisce sul territorio, ed anche questo con una decisione che vede l’assunzione di 5.000 nuove unità nell’amministrazione civile del Ministero dell’interno è stato portato avanti; c’eravamo impegnati, ed è elemento essenziale, ed è leitmotiv anche del provvedimento di ieri, non solo a disancorare da un momento di forte stasi che si era verificato in Senato il disegno di legge n. 2793 con la delega per la riforma della Polizia di Stato, dell’Arma dei carabinieri, della Guardia di finanza, ma ad adottare un disegno di legge che rafforza il momento del coordinamento, e anche questo disegno di legge sta andando avanti. È stata varata, come voi sapete, la norma che prevede la presenza dei sindaci nei Comitati provinciali per l’ordine e la sicurezza pubblica. Il Governo lo ha sostenuto, ma dà atto al Parlamento di aver deciso di varare immediatamente la legge antiracket, e noi ci siamo impegnati non nei sei mesi che la legge ci concede, ma molto prima, a varare il regolamentare attuativo perché questo strumento, che è uno strumento prezioso di lotta alla criminalità, possa partire al più presto.
        Va avanti, e anche qui lo dico con piacere, e con un concorso molto forte da parte dell’opposizione, non solo nel momento propositivo, ma anche nel momento della vera e propria costruzione delle norme, la legge sulle polizie locali e contiamo che si riesca a terminarne l’esame almeno in Commissione affari costituzionali prima della pausa per le festività di Pasqua; io conterei anche di poter avere l’assenso di tutte le forze politiche per la sede legislativa. Sindaco Albertini, di nuovo ne abbiamo parlato: una forte sinergia fra forze dell’ordine e polizie locali è un argomento che ha delle ricadute immediatamente sulla sicurezza dei cittadini. C’eravamo impegnati ad approvare norme per combattere lo sfruttamento di esseri umani attraverso la prostituzione, il grande, doloroso tema della prostituzione, che va affrontato e risolto in radice tutelando la dignità degli esseri umani sfruttati e contemporaneamente andando avanti con azioni molto severe nei confronti della malavita che li sfrutta. E anche questo è un provvedimento varato.
        Ieri è stato varato il pacchetto sicurezza e vi devo dire che – dal mio punto di vista – si tratta di una linea di alto profilo, che passa attraverso significative modifiche del codice penale e di quello di procedura penale; è il contributo della cultura di libertà e di quella di tutela dei diritti e il ministro Diliberto è stato un elemento determinante nella predisposizione delle varie norme, attraverso le quali siamo convinti di avere la possibilità di dare risposte incisive nel senso di prevenire, di reprimere i danni alla sicurezza e alla libertà dei cittadini, prodotti dalla cosiddetta criminalità diffusa.
        Anche a tal riguardo occorre fare una riflessione che – vi assicuro – non è assolutamente polemica, perché questo non è il primo e non sarà neanche l’ultimo grande disegno di legge che vedrò nascere. Ogni volta che viene posto in essere un disegno di legge è abbastanza normale che in un paese vivace come l’Italia si scatenino delle reazioni che, in qualche modo, fotografano le varie sensibilità culturali e le varie posizioni politiche presenti nel territorio. Non è tutto questo che spaventa; personalmente non mi spaventa per nulla, anche perché credo nella centralità del Parlamento e nel suo lavoro di mediazione nel senso più alto del termine: non lavoro di ricerca di un compromesso, ma lavoro di ricerca di una sintesi alta, che possa prendere il meglio delle varie posizioni.
        Il procuratore Borrelli ha parlato di sconcerto e forse un po’ di sconcerto l’ho avuto anch’io, ma vi assicuro non più di tanto. È necessario, infatti, che il Parlamento affronti la discussione con vivacità e – me lo auguro – anche con una certa celerità e serenità, senza cioè pregiudiziali posizioni irrinunciabili e senza strumentali scontri fra maggioranza ed opposizione. Sarà il banco di prova per vedere chi veramente crede nella necessità di tutelare la sicurezza dei cittadini e chi invece, magari inconsapevolmente, fa della sicurezza dei cittadini un tema soltanto polemico.
        Anche in questa sede voglio dire con convinzione, perché nasce da un processo di riflessione interiore non di un solo Ministro ma di molti (soprattutto di quelli direttamente interessati, come il Ministro di grazia e giustizia e lo stesso Ministro della difesa), che non abbiamo agito sulla base di spinte emozionali; è l’ora di mettere un punto e di fare chiarezza anche a tal proposito. Devo dire che siamo stati certamente attenti alla richiesta di sicurezza avanzata in modo forte dai cittadini e non abbiamo dato delle risposte tanto per darle. Abbiamo cercato, infatti, di riflettere a lungo sui problemi, abbiamo valutato le risposte e abbiamo dato quelle che a noi sembravano le più adatte e più in armonia, innanzitutto, con i valori costituzionali e poi con il sistema dei codici. Abbiamo poi offerto – è stato detto anche ieri in Consiglio dei Ministri – una piattaforma di discussione che – ne sono sicura – sarà arricchita e articolata dal Parlamento stesso.
        Certamente questo disegno di legge, come tutti gli altri e soprattutto quelli non semplici, è perfettibile; tuttavia, non credo che si possa parlare né di provvedimento liberticida, né meno che meno di mera operazione propagandistica portata avanti dal Governo. Infatti, l’aver individuato una nuova fattispecie di reato, ossia il furto in abitazione come reato che vìola la persona umana nel rapporto con un ambiente che in pratica è quello nel quale essa realizza le sue potenzialità e le sue relazioni interpersonali e che pertanto deve essere particolarmente protetto, è – dal mio punto di vista – una operazione culturale prima che giuridica e politica. Anche l’aver alzato la soglia della reazione penale di fronte ai furti con strappo rappresenta la risposta ad una domanda che per mesi c’è stata rivolta e sulla quale – come ho detto prima – per mesi abbiamo riflettuto. Ritengo anche che non sia priva di significato la nuova aggravante di carattere generale, la quale consiste nell’aver approfittato di circostanze tali da ostacolare la difesa o nell’aver commesso il fatto in danno di persone che, per particolari condizioni anche dipendenti dall’età, hanno minori capacità di difesa. Nel momento in cui scrivevamo tale norma, mi è venuto immediatamente in mente l’articolo 3 della Costituzione. Il sistema previsto per l’arresto in flagranza, per la custodia cautelare, per il processo per direttissima, per la sospensione condizionale della pena e la stessa esclusione dai benefici della legge Simeone del nuovo reato di violazione di domicilio a scopo di furto, nonché di quello di rapina e di estorsione vanno proprio nel senso di garantire l’effettività della pena. Chi ha già detto che questo tema centrale dell’effettività della pena non è stato neanche sfiorato dovrebbe riflettere per un momento.
        Per quanto riguarda i poteri di indagine della polizia giudiziaria, devo dire che essi sono stati aumentati significativamente, ferma restando – come è logico e come è nel nostro sistema giuridico – la responsabilità del magistrato. Credo che anche questa norma (un altro dei problemi che avevamo davanti al nostro tavolo era quello dei reati che rimangono impuniti), cioè l’amplificazione dei poteri della polizia giudiziaria, potrà dare, se ben usata – non ho dubbi che le forze dell’ordine la usino bene – un contributo ad ampliare il numero dei reati dei quali si scopre il colpevole e a diminuire il numero di quelli che rimangono impuniti.
        Vorrei anche sottolineare che offre un ulteriore strumento a disposizione dello Stato il fatto di aver portato a regime, sottraendola alla logica della casualità e dell’emergenza, la possibilità di impegno del personale militare di fronte a specifiche ed eccezionali esigenze di contrasto alla criminalità organizzata. Si tratta di uno strumento che opererà nella logica di un programma complessivo di sicurezza adottato dal Ministro dell’interno, previa consultazione del Comitato nazionale dell’ordine e della sicurezza pubblica, integrato in questo caso dalla presenza del Capo di Stato maggiore della forza armata interessata.
        Quindi, il discorso della programmazione degli interventi e della sinergia tra le forze dell’ordine e le polizie locali e, nei casi eccezionali, tra le forze dell’ordine e i rappresentanti delle forze armate, che opereranno con compiti di contrasto alla criminalità organizzata, rappresenta un quadro armonico, nel quale non c’è nulla di episodico. La logica dell’analisi dei bisogni, della programmazione delle risposte e della sinergia coordinata è il leitmotiv che tiene insieme il disegno di legge; non si tratta, quindi, di una militarizzazione del territorio.
        Vi devo dire, anche a tal proposito, come ho vissuto dentro di me la redazione di questa norma che abbiamo approvato ieri. A mio giudizio, essa costituisce una moderna interpretazione dell’obbligo costituzionale di difesa della patria. In un momento nel quale la guerra – così, come del resto, vuole l’articolo 11 della Costituzione e lo vogliamo tutti noi – è ripudiata completamente come strumento di relazione con gli altri popoli, tale norma si estrinseca nella difesa del diritto dei cittadini alla sicurezza; difendere, cioè, il diritto dei cittadini alla sicurezza significa nella mia logica, nella logica del Governo difendere la patria.
        Inoltre, fanno parte del pacchetto di sicurezza il potenziamento delle possibilità per le forze dell’ordine di compiere operazioni sotto copertura (pensiamo alla ricaduta pratica che una norma di tal genere, senza dubbio, potrà avere anche nel contrasto alla criminalità organizzata, per quanto riguarda l’immigrazione clandestina sulle nostre coste) ed una serie di azioni amministrative – è una parte logica, in quanto non occorrono norme – come è stato di recente richiesto anche dalla Commissione agricoltura del Senato, allo scopo di prestare un’attenzione particolare alla sicurezza dei cittadini nelle campagne.
        Ricordo che lunedì scorso qui a Milano abbiamo inaugurato con il Presidente del Consiglio l’interconnessione delle sale operative. Ci è stato detto, e non soltanto dai rappresentanti delle forze dell’ordine, che questo esperimento, anche se è stato attivato da poco tempo, ha avuto una qualche ricaduta sensibile e positiva, che la gente sente già in termini di maggiore sicurezza, e questo ha incoraggiato il Governo ad andare avanti più celermente attraverso degli interventi che, del resto, aveva già programmato. Quindi, l’obiettivo è quello di estendere, certamente gradualmente ma il più rapidamente possibile, l’interconnessione a tutto il territorio nazionale con alcune priorità, come quelle della città di Roma, rese possibili dall’esistenza di un finanziamento e rese necessarie dal Giubileo. Ci sono poi tutte quelle interconnessioni rese possibili dal progetto sicurezza per lo sviluppo, che opera soprattutto nelle città del Sud e che è già cofinanziato da risorse comunitarie. Il Governo poi, in ragione di particolari emergenze, ha compiuto una scelta prioritaria, peraltro ancora da finanziare – in base ai programmi, sarà a breve finanziata – per due città, che sono Torino e Bologna.
        Qualcuno ieri, commentando i provvedimenti adottati dal Governo (anche oggi lo ha fatto l’onorevole Borghezio, ma con la solita cortesia e per questo lo ringrazio), ha parlato della necessità di motivare le forze dell’ordine. Devo dire che, quando ho letto la norma, l’ho immediatamente collegata ad una esperienza che ho vissuto giorni addietro, quando cioè ho firmato gli attestati, alcuni dei quali alla memoria dei giovani di Udine, che consegneremo ai ragazzi o alle loro famiglie alla festa della Polizia che si terrà la prossima settimana. Mi è parso con molta freddezza, senza nessuna demagogia e senza nessun tentativo di commuovere qualcuno, che anche questi elementi dimostrano che c’è già una motivazione nelle forze dell’ordine; lo dimostra poi il fatto – questa mattina mi ha detto il Capo della Polizia che si è conclusa una operazione positiva – che quotidianamente viene portato avanti con coraggio, con senso civile e con senso dello Stato un faticoso lavoro. Questo non significa che non si possa e non si debba fare di più; infatti, è evidente che gli strumenti rimangono inefficienti se non sono messi a disposizione di persone che li usano con convinzione e con profonda motivazione.
        Nello scrivere tutte queste norme abbiamo anche pensato di offrire un ulteriore strumento alle forze dell’ordine, al fine di operare sempre in modo migliore. Certamente non mi soffermo su questo tema, perché lo ha già fatto in modo molto egregio il Ministro della giustizia. L’azione di contrasto al crimine non può più avere limiti definiti dai territori nazionali sia per l’internazionalizzazione e la sovranazionalizzazione delle comunità, sia per l’organizzazione ormai sovranazionale del crimine. Quindi, tutto quel lavoro al quale il ministro Diliberto ha fatto riferimento in sede di Unione europea, che è stato compiuto anche nel Consiglio dei Ministri di venerdì scorso, ha un rilievo, un collegamento e deve avere una ricaduta; ci auguriamo poi che abbia una grande ricaduta anche la Convenzione ONU contro la criminalità organizzata. Durante il recente Convegno svolto a Roma nella Sala Zuccari del Senato si è potuto insieme approfondire la positività delle proposte dell’ONU e la volontà del Governo italiano di inserirsi come motore traente, o come uno dei motori traenti, all’interno della logica che Arlacchi sta portando avanti.
        Mi auguro che in tale contesto, che naturalmente vede nel Parlamento – istituzionalmente non può non essere così – un momento centrale e strategico e nella Commissione antimafia – lo ha detto il presidente Del Turco – l’organo parlamentare più autorevole nella strategia di contrasto alla criminalità organizzata, ci sia questa continua sinergia tra Governo e Parlamento. Mi auguro altresì che anche all’interno del Parlamento – come è possibile, come spesso riesce e lo dico con passione e convinzione, avendo per anni ricoperto l’incarico di Presidente di varie Commissioni parlamentari – si svolga un dibattito magari acceso, appassionato, ma libero da strumentalizzazioni e con l’obiettivo comune di un vero servizio per la sicurezza e la libertà dei cittadini.
        Vi ringrazio per l’attenzione. (Applausi).

        PRESIDENTE. Ho chiesto al prefetto Masone di rivolgere un saluto agli ospiti alla conclusione di questo Convegno, come è capitato a me di dover fare ieri mattina all’inizio dei nostri lavori. Spero che sulla faccia sempre seria del prefetto Masone si stampi un bel sorriso, perché siamo arrivati alla conclusione di un Convegno che è andato bene e quindi possiamo anche tirare un sospiro di sollievo rispetto alle preoccupazioni che abbiamo più volte manifestato nell’organizzarlo.  Personalmente, per dimostrare il livello della mia soddisfazione, cerco di imitare il sindaco Albertini che ha cominciato il suo discorso ieri mattina dicendo: benvenuti a Milano, la migliore città d’Italia.
        Io vi dico: grazie per aver partecipato ad un buon Convegno della Commissione parlamentare antimafia, un Convegno molto efficace, molto serio, molto partecipato e con un livello di attenzione e di tensione molto grande, anche con un livello, per coloro che hanno avuto la possibilità di intervenire, di contributi assolutamente rilevanti.
        Naturalmente non è stato organizzato a caso questo Convegno, a Milano e con questi temi, perché di nuove mafie si può parlare in qualunque parte del nostro paese. Ciò che ci interessava (e da tale punto di vista questo è l’aspetto che sottolineerei di più come parte riuscita del Convegno), il nostro tentativo era quello di spostare l’attenzione degli osservatori, dei giornalisti, degli studiosi e anche dell’opinione pubblica dall’immagine congelata dell’universo criminale del nostro paese e anche della sua dislocazione territoriale, in una sorta di maledizione biblica. Dove si va per parlare di criminalità organizzata? Si va a Napoli, a Reggio Calabria e a Palermo.
        Noi continuiamo spesso a discutere di cose che non ci sono più o di cose che hanno un’altra dimensione e nel frattempo rischiamo di farci sfuggire il dinamismo di alcuni fenomeni che invece hanno questa dimensione mondiale, o meglio transnazionale, per usare il cortese invito che ci è stato rivolto dal nuovo procuratore generale di Milano. Attenzione, però: spostando l’asse dell’attenzione da Palermo e da Napoli a Milano succede quello che è accaduto a coloro che hanno partecipato a tutti e tre i convegni, e cioè che parlando di riciclaggio a Palermo o di territori a rischio a Napoli non abbiamo incontrato il tema che invece è stato quasi il centro di questa discussione: il rapporto tra il fenomeno dell’immigrazione e la dimensione dei fenomeni criminali che tale fenomeno porta con sé.
        Il fatto che questo Convegno lo abbia tenuto dentro limiti accettabili per tutti, quale che sia la nostra collocazione politica, culturale e ideale, a me pare, anche questo, un buon risultato del nostro comune sforzo; ormai bisogna prendere atto che abbiamo cancellato in due anni un secolo di patrimonio della cultura dell’immigrazione che ha costituito il tratto fondamentale del nostro paese. Quando ragioniamo di immigrati in Italia, mi chiedo spesso come si trovano i nostri emigrati nel mondo; essi chiedono un trattamento, nei paesi dove risiedono, che, se venisse richiesto dagli immigrati nel nostro paese, scatenerebbe un putiferio insopportabile e ingovernabile per l’attuale maggioranza o per qualunque maggioranza di qualunque Parlamento nel nostro paese.
        Dunque, non impiegherò più di dieci minuti – sarebbe un guaio disturbare l’andamento di questo Convegno con una lunga conclusione – per dire quali sono i fatti sui quali la Commissione parlamentare antimafia può lavorare, perché questa è poi la dannazione di una Commissione parlamentare che organizza convegni: non si può limitare a redigere atti parlamentari, ma li deve tramutare in iniziative politiche.
        Una riguarda il Ministero degli affari esteri. Mi dispiace che la somma dei guai interni ed internazionali non abbia consentito all’onorevole Dini di essere qui con noi; sarebbe stata la prima volta che un Ministro degli affari esteri avrebbe partecipato ad un Convegno su questi temi, ma il suo punto di vista, il suo approccio sarebbe stato di grandissimo valore per tutti quanti noi, perché probabilmente uno dei dati emersi da questo Convegno è che bisogna introdurre molte novità nell’attività diplomatica del nostro paese, ad esempio nel ruolo delle ambasciate.
        Infatti, vi sono profili professionali, nelle ambasciate italiane nel mondo, che non hanno più alcun senso, mentre non ci sono quelle figure che possono garantire il livello necessario di collaborazione tra paesi alle prese con un rapporto quotidiano drammatico, derivante dal fatto che non siamo in condizione di affrontare il tema dell’origine nazionale dei fenomeni criminali se non siamo capaci di stabilire dei buoni rapporti con questi Governi.
        Il prefetto Masone sa che durante questo periodo sono migliorati gradualmente, ma sempre di più, i rapporti con la Nigeria e questo ci ha consentito, nei giorni passati, di ottenere i primi risultati importanti. In precedenza era praticamente impossibile restituire le nigeriane che occupano i territori che conosciamo, perché sapevamo che era impossibile rimandarle in patria. Non è che improvvisamente abbiamo scoperto gli aerei o i mezzi di comunicazione: abbiamo finalmente stabilito un rapporto con il Governo, con la polizia e con le autorità nigeriane, che ci ha consentito di fare delle cose che solo fino a un anno fa erano impossibili.
        E vengo ad una seconda questione. Stamattina il dottor Zavoli ha ricordato il documento del G8 e mi pare che il dottor Mentana abbia detto che questi documenti sono importanti ma rimangono carte segrete, che difficilmente diventano strumenti con i quali i giornalisti, attraverso la stampa e i telegiornali, possano lavorare. A me piacerebbe, per esempio, visto che le riunioni del G8 dedicano al tema della criminalità organizzata sempre una quota fondamentale del loro tempo – è un tema che discuteremo con i presidenti Mancino e Violante – che i partecipanti a tali grandi consessi potessero lavorare in più stretto rapporto con gli otto Parlamenti dai quali traggono la legittimità per un’azione di governo. Certo, scrivere per 70 pagine, come è successo ai Capi degli otto paesi più grandi del mondo, che questo è il tema fondamentale e poi non trovare una sede nella quale il tema stesso possa diventare terreno di riflessione per un’attività legislativa, a me pare una contraddizione che prima o poi dovrà essere sanata.
        Un terzo segnale. Non so quanti di voi hanno avuto la possibilità di ascoltare ieri il presidente della Consob, professor Spaventa. Con il piglio che lo distingue egli ci ha detto delle cose molto importanti e mi riservo di inviare il testo del suo intervento, come quello di tutti gli altri che si sono susseguiti – perché i contributi sono stati molti – in questo Convegno, alle varie Commissioni parlamentari competenti in tali materie. Voi sapete che la Commissione parlamentare antimafia non ha responsabilità di merito nell’iter parlamentare dei disegni di legge, ma il professor Spaventa ha fatto un ragionamento attorno al fatto che non tutto in questo paese si può risolvere con l’esercizio della sola azione penale; che anzi i ritardi che si accumulano con l’affidarsi solo ad esse rischiano di vanificare quello che è l’elemento fondamentale per chi deve intervenire sui processi di mobilitazione di migliaia di miliardi che avvengono attraverso le operazioni poste in essere in Borsa o attraverso il mercato finanziario che non passa direttamente in Borsa. Il professor Spaventa ha detto che sbaglia chi pensa che si possano risolvere le questioni imbucando ogni tanto una lettera in cui si denuncia un fatto e inviandola alla procura della Repubblica, perché i fenomeni illeciti di mobilità dei capitali nel mondo oggi non si possono più fermare in questo modo.
        E allora, un rafforzamento del dispositivo penale, ma anche la capacità di individuare i provvedimenti amministrativi più urgenti – quelli che si possono adottare senza bisogno di aspettare non so quanti giorni per l’azione della polizia giudiziaria, l’intervento del magistrato, del GIP, eccetera – sono elementi fondamentali che devono agire in combinazione. A mio avviso, il ragionamento del professor Spaventa, che non vive nella Consob da moltissimi anni, ma solo da qualche mese (tanto che non ha potuto partecipare al Convegno di Palermo perché la sua nomina non era stata ancora ratificata dal Senato, per cui non sono passati neanche sei mesi dal momento in cui ha preso possesso dell’incarico), è un ragionamento ineccepibile.
        Un quarto segnale vorrei rendere evidente in particolare ai Ministri dell’interno e di grazia e giustizia. Per una serie di circostanze fortuite, che però hanno un senso, in questa settimana si sono susseguiti i seguenti avvenimenti. Lunedì lei, onorevole Russo Jervolino, è venuta qui a Milano con il Presidente del Consiglio per inaugurare la nuova sala operativa comune tra le varie forze dell’ordine; martedì è iniziato a Roma, promosso dalla Confcommercio in collaborazione con alcune autorità degli Stati Uniti che hanno una grandissima esperienza sul campo, un importantissimo Convegno sul tema del riciclaggio; mercoledì Legambiente e Commissione parlamentare sul ciclo dei rifiuti e sulle attività illecite ad esso connesse (quella che per brevità chiamiamo ecomafia) hanno prodotto del materiale utilissimo per comprendere cosa sta succedendo nel mondo a proposito di difesa dell’ambiente e di intervento dei fenomeni criminali in tale settore; giovedì e venerdì la Commissione parlamentare antimafia si è riunita a Milano per un Convegno; sempre nella giornata di giovedì il Consiglio dei ministri si è convocato per varare delle misure in tema di sicurezza; domenica, 21 marzo 1999, a Corleone, il Presidente della Repubblica, il Vice presidente del Consiglio, il Presidente della Camera dei deputati, altre autorità e molti parlamentari, nonché le associazioni del volontariato, ricorderanno non solo le vittime della mafia ma anche l’impegno della società civile nella lotta contro la mafia. Il 24 marzo prossimo, l’Università Bocconi, la Direzione nazionale antimafia e la Commissione parlamentare antimafia proporranno una riflessione su una ricerca che ha riguardato una regione italiana, non tradizionalmente individuata come regione ad alta densità mafiosa: hanno individuato un meccanismo, starei per dire scientifico, comunque un modello di intervento sulle regioni che consente di misurare il tasso di criminalità presente su un determinato territorio. Si è iniziato con la Basilicata, ma si può prendere quel modello e proporlo in varie realtà italiane.
        Ciò consente anche di evitare un fenomeno un po’ singolare che si registra in questo paese. C’è stato un periodo nel quale tutti i grossi centri italiani ambivano ad avere, nella strada di ingresso alla città, il cartello con la scritta: "comune denuclearizzato". Io non ho mai capito cosa volesse dire, però era bello ed era anche rassicurante entrarci. Ebbene, girando in questo periodo ho scoperto che adesso invece c’è una tendenza che io considero autolesionista, perché vi sono città che non vedono l’ora di farsi scrivere sul cartello d’ingresso: "città mafiosa", solo perché hanno fenomeni di criminalità urbana. Sono bastati sette sassi contro sette vetrine in un centro della ricca ed opulenta Emilia per far dire che in quella città c’è la mafia.
        Dunque, c’è bisogno di progetti speciali e anche di un nuovo livello di professionalità. La mia opinione è che dobbiamo cercare di mettere insieme gente che lavora costantemente su questi argomenti, magari avvalendoci anche del contributo di esperti che non lo fanno regolarmente. Si potrebbero stipulare, eventualmente, contratti di diritto privato per ottenere collaborazioni scientifiche di alto profilo, perché non è più possibile andare "a spanne" quando si affrontano fenomeni di questa natura.
        Vorrei ora fare un’osservazione di carattere generale e concludere il mio intervento. Perché in un paese come il nostro, alle prese con tanti problemi, in dieci giorni è possibile quest’alta concentrazione di avvenimenti? Anche per rispondere alla domanda del dottor Zavoli, debbo dire che la guardia non è bassa, ma è sbagliato fermarci a questa polemica, che per la verità è un po’ vecchia, che non sollevano più nemmeno quelli che l’hanno agitata nel corso dell’ultimo anno. La verità è che sta cambiando la centralità dei fenomeni in questo e in altri paesi.
        Si dice che bisogna avere il passo di Blair, che bisogna fare come lui, seguire il modello Blair e adottarlo per gli italiani. Io non so esattamente quale sia il passo di Blair, ma mi sento di fare alcune osservazioni in proposito per essere andato due volte al congresso del Labour party quando si stava formando la candidatura di Blair. Davanti a lui c’era una platea composta per il 50 per cento di gente che aveva la mia esperienza; erano sindacalisti, perché voi sapete che per statuto la metà della platea del Partito laburista inglese è fatta da uomini provenienti dalle Unions. Sentii Blair dire che bisognava scordarsi che il centro dell’attenzione del Partito laburista sarebbe stato sempre e comunque il welfare State, cioè l’intervento dello Stato nell’economia, nel sistema pensionistico, nel sistema sanitario, nei settori della scuola e dei trasporti. Ricordo che dedicò venti minuti del suo intervento al costo dell’acqua – e non del whisky – in Inghilterra.
        Da quel partito, che ha insegnato a tutta l’Europa la cultura dello Stato sociale, veniva un messaggio che aveva al centro il tema della sicurezza personale, da riprendere per la prima volta da un altro settore del mondo politico, giacché legge e ordine sembrava che fossero temi appartenenti esclusivamente alla cultura della Destra, in Italia e nel mondo. Chi voglia capire come ha fatto Blair ad ottenere la più alta percentuale di consensi nella storia del Partito laburista in Inghilterra e la più alta presenza di parlamentari laburisti nel Parlamento inglese deve certo mettere nel conto un esaurimento della spinta del "thatcherismo", tutto quello che volete, ma la mia opinione è che aver spiegato agli inglesi che loro potevano mettere la chiave nella serratura di casa sapendo quello che avrebbero trovato dentro e quello che lasciavano fuori, è stato probabilmente il segreto del successo di Tony Blair in quel paese. Penso che questo sia il segreto che deve animare la riflessione delle forze politiche.
        Vedete, ho assistito a quel pezzo di Convegno nel Convegno che è stato il battibecco tra il sindaco Albertini e Sergio Cofferati. È stato fatto con grande civiltà, ma si sono dette cose così rilevanti che nonostante la mia esperienza di sindacalista e la voglia di trovare sempre il modo di mettere insieme le cose, francamente questa volta è proprio impossibile farlo.
        Posso dire questo: non avrei mai chiesto ad Albertini di ospitare un Convegno se avessi avuto la sensazione che eravamo ospiti di un razzista. Sono abbastanza consapevole del fatto che ci sono dei limiti, e quindi non mi sentirei di concludere queste due giornate milanesi con un sospetto che potrebbe continuare ad agitarsi tra noi.
        Ma esattamente con la stessa franchezza, con la stessa lealtà, con la stessa affettuosa simpatia con cui faccio questa affermazione, ricordo – siccome lo ha fatto anche il sindaco nella prima parte del suo intervento, ricordando un negoziato sindacale di cui siamo stati protagonisti, lui da una parte e io dall’altra del tavolo – che noi abbiamo già, con la furbizia che abbiamo sempre avuto nelle relazioni industriali, affrontato il tema della differenziazione dei salari. Ma lo abbiamo fatto per i wasp milanesi, per i bianchi, anglosassoni e protestanti, anzi cattolici, in questa cattolicissima Milano; mai abbiamo pensato di dividere la gente che rappresentavamo, lei da una parte del tavolo e io dall’altra, sulla base del fatto che fossero milanesi, "terruncelli" o altro, perché il massimo della libertà che ci prendevamo era quella di aumentare i profili professionali da sette a dieci attraverso la creazione di categorie intermedie. Ma nelle categorie intermedie non comprendevamo mai qualcosa che facesse identificare una figura e che potesse produrre un effetto. La prego di riflettere, sindaco; se si proponesse la sua idea, l’Italia correrebbe il rischio di riempirsi di lavoratori immigrati che sono disposti a lavorare a quei livelli salariali, perché non c’è dubbio che la popolazione wasp italiana preferisce lavori meno faticosi, professionalmente più evoluti e magari meglio pagati.
        Una situazione del genere non dura a lungo; poi si creano conflitti ed è molto più difficile, come dimostra la storia, governare quei conflitti rispetto a quelli che stiamo cercando di governare qui a Milano.
        Concludo con una osservazione sulle questioni del Governo. Ho citato questa serie di fatti, ministro Diliberto, perché penso che il Governo si sia messo su una scia non solo di riflessione, come negli ultimi mesi, ma anche di fatti, e considero quello prodotto ieri un fatto estremamente positivo. Sbaglia, secondo me, l’opposizione a incalzare il Governo su quello che ha fatto e che sta facendo, e non, invece, ad incalzarlo a fare qualcosa di più.
        Considero estremamente importante il fatto che voi abbiate avviato ieri un iter legislativo, su iniziativa del Governo, molto significativo, che impegna fin da oggi il Parlamento a misurare il passo che avete compiuto per vedere se è possibile farne degli altri.
        Cito in particolare due questioni. Considero la norma introdotta con riferimento alle figure più deboli rivoluzionaria, non perché i Parlamenti italiani non si siano occupati già in altre occasioni delle figure deboli, dei giovani, dei bambini, ad esempio, ma perché quella norma fa prendere atto alla società italiana che questo paese ha un problema che si chiama anziani, che un reato commesso nei loro confronti ha un’aggravante, e che probabilmente bisognerà finirla di chiamare alcuni reati "microcriminalità". Se qualcuno assalta con un mitra un camionista a un distributore, quella è criminalità di primo livello; se invece qualcuno strappa la borsetta a una vecchia signora o deruba un anziano del portafoglio, non appena hanno ritirato la pensione, questa si chiama microcriminalità, quasi a voler dire che non si tratta di un reato grave. Invece l’aver affermato che oggi, per come è composta la società italiana, per la sensibilità che ha questa stessa società, questo è un reato grave, e il Governo intende sottolinearlo, penso sia molto importante.
        Su altri temi avremo occasione di discutere anche nelle Commissioni parlamentari di merito, e in ogni caso penso che la Commissione antimafia debba fare un esame, se non altro per esprimere un orientamento. Vi è un’altra questione che vorrei richiamare e che riguarda il rapporto fra polizia giudiziaria e magistratura. Voi avete fatto un passo avanti che considero importante. A me è capitato di leggere, lo ripeto per l’ennesima volta, due piccoli documenti prodotti da due fra i migliori investigatori del nostro paese (non sono i soli per fortuna, ma sono riconosciuti tra i migliori da tutti): sto parlando del questore di Palermo Manganelli – e non credo che qualcuno in questa sala possa dire che egli non ha una grande esperienza professionale – e del generale Mori , che ha appena lasciato il ROS per dirigere la Scuola centrale dell’Arma e che è un uomo che ha accumulato una tale esperienza di attività giudiziaria che può fare appunto il direttore di una scuola impegnativa come quella.
        Ebbene, questi dirigenti di due importanti strutture dell’attività di contrasto del crimine, senza consultarsi, uno in una relazione svolta al congresso del SIULP, e l’altro con un rapporto non riservato, ma predisposto per il Comando generale dell’Arma dei Carabinieri, dicono su questo argomento le stesse cose, e denunciano – se posso dirlo con una parola terribile – una sorta di genocidio di un livello di esperienza professionale diffusa nella Polizia, nei Carabinieri e nella Guardia di finanza, a cui occorre porre rimedio. Senza farlo, si rischia tra qualche anno la distruzione di uno dei patrimoni più straordinari di conoscenze di merito nel settore dell’attività di contrasto contro il crimine organizzato.
        Vedremo. So bene che il Governo sarà attaccato su questo piano da molte parti. Ci saranno alcuni che vi diranno che si tratta di un nuovo attacco alla magistratura, altri diranno che questo è il segnale che si vuole abbassare la guardia. Ministro Diliberto, toccherà a lei fare la sua parte, ma penso che questa innovazione debba vedere molti protagonisti impegnati a difenderne il senso. Vogliamo essere fra quelli che difendono e vogliamo essere persuasi che la strada intrapresa è quella che va nella giusta direzione.
        Anche questo è un segno dei tempi: il fatto che una Commissione parlamentare d’inchiesta possa promuovere un Convegno a Milano in collaborazione con la Polizia di Stato e dialogare così direttamente e civilmente con le autorità locali, con il sindaco di Milano, con i Ministri che hanno le responsabilità più importanti nella vita del paese, è il segno che questo Stato, questo Parlamento, questo mondo politico, le forze dell’ordine, i magistrati stanno facendo fino in fondo il loro dovere. (Applausi)
        
        MASONE Fernando, capo della polizia e direttore generale della pubblica sicurezza. Poche parole per esprimere la mia gratitudine davvero grande a tutti coloro che hanno consentito la realizzazione di questo Convegno: mi riferisco alla Commissione antimafia, al suo Presidente, al sindaco Albertini, per la sua squisita ospitalità, al prefetto di Milano, a voi signori Ministri, per aver dato il tocco finale a questa serie di interventi tutti di alto profilo e di alto livello.
        Un ringraziamento naturalmente va ai Comandanti generali dell’Arma dei carabinieri e della Guardia di finanza, al Direttore della DIA, ai Vice Capi della Polizia, a tutti coloro che sono intervenuti.
        Non aggiungo altro a quello che è stato detto; le cose che sono state dette in questo Convegno hanno dimostrato una conoscenza precisa dei fenomeni transnazionali, il che significa che non stiamo all’anno zero. D’altra parte i 42 accordi bilaterali sottoscritti con altri Stati, signor ministro Diliberto, e i due multilaterali sono la dimostrazione che siamo già un pezzo avanti in questa cooperazione sempre più intensa e sempre più efficace.
        Anche per quanto riguarda l’immigrazione, problema al quale siamo tutti sensibili e principalmente il nostro Ministro, si stanno avendo delle risposte positive. Con i paesi del Mediterraneo, gli accordi raggiunti, quelli che ho ricordato, danno già risultati positivi. Per l’Albania c’è una grandissima attenzione voluta dal Ministro dell’interno, che ogni mese convoca noi, come forza di Polizia, il nostro ambasciatore di Tirana e l’ambasciatore albanese a Roma, per fare il punto della situazione, per studiare e portare sempre più avanti la lotta che dobbiamo condurre anche per distinguere il criminale dall’immigrato che viene in Italia per motivi di necessità. (Applausi)

        I lavori terminano alle ore 13,10.