Il contrasto alla criminalità internazionale
Presidenza del senatore Roberto CENTARO,
componente della Commissione parlamentare antimafia

        PRESIDENTE Do avvio ai lavori dell’ultima sessione di questa giornata dedicata al contrasto alla criminalità internazionale. Continuo a utilizzare questo aggettivo, malgrado il rilievo formulato dal dottor Borrelli, perché ritengo che sia criminalità transnazionale quella che da uno Stato si espande in altri Stati mentre si parla di criminalità internazionale nel confronto e nel rapporto fra più organizzazioni criminali differenti che hanno sede – mi si passi il termine improprio – in Stati diversi e che si rapportano e si correlano fra loro in analogia a quanto avviene fra gli Stati.   La sessione a cui do inizio ritengo abbia particolare importanza perché se è vero che dobbiamo muovere dalle analisi per delineare lo scenario, è altrettanto indispensabile, per evitare che il confronto rimanga a livello teorico, di mera enunciazione, pervenire a risposte concrete sul versante legislativo e su quello operativo.
        Gli scenari sono certamente tanti, perché le grandi organizzazioni criminali utilizzano l’Italia come punto di partenza, come mercato primario e secondario, come punto di transito. Da ciò consegue una difficoltà dell’azione di contrasto derivante dal confronto con ordinamenti giuridici diversi; è allora importantissimo perseguire una uniformazione almeno su linee generali, così come il coordinamento fra polizie di Stati diversi, con tutto ciò che comporta, superando una competizione non sempre virtuosa, e il confronto con alcuni Stati in cui vi è minore sensibilità ed interesse, come diceva il Presidente del Senato, ad affrontare questo fenomeno. Alcuni Stati, infatti, hanno consentito enormi flussi di investimenti di denaro sporco girandosi dall’altra parte, perché in quel momento della loro storia quel denaro serviva a risollevare le sorti della loro economia collassata, che si sarebbe risollevata, per le vie ordinarie, nell’arco di decenni e non di anni.
        Ma ci rendiamo conto poi che questo flusso di denaro arriva anche in Italia, nelle regioni più tranquille, o ritenute tali, dalla Toscana all’Emilia Romagna; ci rendiamo altresì conto di come le grandi organizzazioni criminali appaltano ai nuovi arrivati, alle nuove mafie le attività "minori" – la prostituzione ne è un esempio – considerandole meno lucrose nella comparazione fra il maggior dispendio di uomini, energie e rischi rispetto al profitto ricavabile con riferimento ad altre attività ben più lucrose. Questo però comporta, alla fine, un insediamento di nuova criminalità sul territorio, che tende a radicarsi e poi a crescere inevitabilmente.
        Allora, se il nostro compito è quello di sradicare la criminalità esistente, deve esservi anche il compito di prevenire il sopravveniente, ed è un compito importante perché bisogna eliminare un terreno di coltura in cui la criminalità, che noi paragoniamo ad un virus, cresce. Molto possono fare gli enti locali ripristinando un clima di trasparenza, di legalità, di attenzione ai bisogni dei cittadini evitando quell’humus fertile quale l’emarginazione, la disoccupazione, l’illegalità diffusa, la sfiducia nelle istituzioni. Forse Milano non sarà la città migliore d’Italia – anche se mi auguro che lo sia per i milanesi – però è una città ancora permeata da quel calvinismo che porta ad individuare i problemi e a tentare coraggiosamente alcune soluzioni su cui è utile dialogare piuttosto che demonizzarle, anche perché esse portano in sé la sostanza di soluzioni esistenti già nella legislazione nazionale e regionale, come i lavori socialmente utili e i corsi di formazione. La verità è che tutti insieme dobbiamo collaborare per arrivare al risultato.
        Fatta questa non breve introduzione, per la quale mi scuso, cedo la parola alla senatrice Tana de Zulueta che è coordinatrice del Comitato di lavoro della Commissione antimafia sulla criminalità organizzata internazionale e che svolgerà una relazione su "Il traffico della droga e degli esseri umani".

        DE ZULUETA Tana, senatrice, componente della Commissione parlamentare antimafia. Il tema che illustrerò questo pomeriggio riguarda il traffico di droga e quello degli esseri umani. In questa legislatura per la prima volta la Commissione parlamentare antimafia si è dotata di un Comitato con il compito specifico di valutare la nuova minaccia posta all’Italia dalle organizzazioni criminali straniere che operano sul nostro territorio. La scelta, come ampiamente dimostrato da questo Convegno, si è rivelata quanto mai tempestiva.

        L’internazionalizzazione del crimine è legata alla natura stessa dei traffici di droga e armi nonché al riciclaggio di proventi, ma il terzo Comitato della Commissione antimafia che ho avuto l’onore di coordinare si è trovato ben presto di fronte ad un altro traffico: quello degli esseri umani. Un traffico che sta assumendo una vera e propria centralità per molte organizzazioni criminali straniere. Si tratta di un fenomeno criminale mondiale, relativamente nuovo nelle sue dimensioni attuali, che sfrutta spregiudicatamente le grandi diseguaglianze che esistono a livello planetario e la pressione di milioni di persone spinte o dalla guerra o dal disagio economico a tentare di trovare migliore fortuna o semplicemente rifugio nei paesi più ricchi o più tranquilli.
        L’Italia, che fino a poco tempo fa si considerava paese di emigrazione, si è trovata ad essere paese di frontiera davanti a questa fortissima pressione migratoria e in prima linea contro i nuovi trafficanti di persone. Credo che si possa affermare che oggi il Rio Grande dell’Europa è il Canale di Otranto. (Ricordo che il Rio Grande è il fiume che separa gli Stati Uniti dal Messico, ed è una frontiera sotto fortissima pressione migratoria).
        Si tratta, come si è detto, di un fenomeno nuovo che solleva problemi sia di contrasto alla criminalità transnazionale sia di tutela dei diritti umani. Di qui l’urgenza di un vero e proprio salto di qualità nella risposta nazionale e internazionale.
        Per tornare allo specifico italiano e al lavoro del nostro Comitato, già dall’estate dello scorso anno il Comitato, con decisione unanime, ha avviato un’indagine sul fenomeno apparentemente in rapida espansione della criminalità albanese in Italia, un’indagine che ci ha ben presto portati all’intreccio che esiste fra traffico di droga e traffico di persone, un intreccio che affonda le sue radici nella particolare situazione in cui si è venuta a trovare l’Albania, in particolare dopo il crollo istituzionale che è seguito al collasso delle cosiddette finanziarie piramidali, in cui era stata convogliata buona parte del risparmio del paese.
        Senza entrare nei dettagli della soffertissima transizione albanese, basti dire che le perduranti debolezze istituzionali hanno fatto dell’Albania degli anni Novanta una terra di conquista per trafficanti internazionali. In primo luogo per il riciclaggio di capitali esteri, compresi quelli di origine delittuosa anche di altri paesi, compresa forse l’Italia, nelle spericolate operazioni piramidali; poi per il traffico di stupefacenti di provenienza straniera, spostando le rotte tradizionali del traffico di eroina, in particolare in seguito alla guerra nella ex Iugoslavia. E infine con le prime forme di sfruttamento della immigrazione clandestina.
        Il favoreggiamento della immigrazione clandestina si sviluppò inizialmente con modalità spontanee e apparentemente poco organizzate. Sembra infatti che la prima ondata di profughi dall’Albania fu gestita dai primi arrivati con mezzi propri o reperiti occasionalmente. Numerosi contrabbandieri brindisini e leccesi o anche semplici proprietari di motoscafi veloci si buttarono nell’affare, offrendo passaggi in cambio di somme oscillanti fra mezzo milione e un milione per passeggero. Non vi è traccia, in quella fase, del coinvolgimento della criminalità organizzata italiana, in particolare della sacra corona unita.
        Poco a poco, però, furono gli stessi albanesi ad impadronirsi del traffico. Dal 1994 fu assolutamente inibito ai motoscafi italiani di approdare sulle coste albanesi per caricare i clandestini. L’esclusiva del traffico passò allora agli scafisti albanesi che lo gestiscono tuttora con le modalità che sono sotto gli occhi di tutti, e con un aumento esponenziale del numero di passeggeri. Si è infatti sviluppato un vero e proprio sistema dello sfruttamento dell’immigrazione clandestina, probabilmente con un forte nucleo associativo in territorio albanese. Di qui certe caratteristiche del traffico come il prezzo unitario attestatosi su un milione circa.
        La frequenza e la relativa sicurezza di questi viaggi ha creato le premesse per lo sviluppo del contrabbando di cannabis che ora viene coltivata in Albania, in modo apparentemente piuttosto esteso. Anche qui ci sono indicazioni della presenza di un’unica organizzazione: la cannabis e la marijuana vengono trasportate sugli stessi gommoni su cui viaggiano i clandestini; lo stupefacente è sempre confezionato nella stessa carta e le perizie chimiche sulla cannabis sequestrata mostrano come questa contenga sempre lo stesso principio attivo e risulti trattata con lo stesso reagente chimico per ridurre i tempi di essiccazione.
        Mostrerò dei grafici per illustrare quello che trovo un accostamento significativo fra una quantità impressionante di cannabis sequestrata, che l’anno scorso fu di 18 tonnellate a fronte di 300 nel 1994 (Grafico n. 1, pag. 147).
         Lo stesso aumento esponenziale dei sequestri riguarda la canapa, come vedete dal grafico, seguito dai dati sui sequestri di eroina che confermano il consolidamento di questa rotta. (Grafico n. 2, pag. 148).
        Non ho una sequenza storica per i clandestini fermati, perché il servizio di immigrazione fornisce questo dato solo dall’anno scorso. Mi sono allora rivolta alla Guardia costiera per conoscere il numero degli immigrati fermati in alto mare: quello che vedete sul grafico è solo un campione, però vi mostra l’aumento esponenziale del numero di persone fermate (Grafico n. 3, pag. 149).
        Qui siamo di fronte a delle vere e proprie economie di scala criminali che hanno consentito ingenti guadagni per la criminalità albanese, rafforzando senza dubbio il controllo del territorio e la capacità delle bande locali di mobilitare il consenso nel proprio paese, anche per via delle gravi difficoltà economiche in cui si trova. Gli effetti negativi sia a danno dell’Albania che dell’Italia sono evidenti. Si pensi soltanto alle crescenti difficoltà che incontrano imprese legittime, desiderose di investire in Albania, ad operare in un contesto economico dove spadroneggiano gruppi criminali. Per non parlare dell’Italia, costretta ad affrontare un problema delicato di immigrazione clandestina.
        Questo problema è delicato non solo dal punto di vista pratico, in quanto genera i noti problemi di accoglienza e poi di selezione tra profughi veri e semplici aspiranti immigrati, per non parlare dei rischi costituiti da una forte presenza di immigrati clandestini. Il traffico tuttora in corso nel canale di Otranto, però, ha creato anche una emergenza umanitaria. Si pensi ai rischi che corrono i passeggeri che si affidano ai trafficanti. Al momento della partenza e del pagamento, questi, infatti, si ritengono clienti, per ritrovarsi, appena iniziato il viaggio, ridotti allo stato di merci: minacciati, usati come scudi dagli scafisti per tenere lontana la polizia italiana, o anche buttati a mare come se fossero stecche di sigarette. Il viaggio è in sé estremamente pericoloso. A parte le numerose occasioni in cui unità italiane sono dovute intervenire per salvare la vita ai passeggeri di imbarcazioni in difficoltà, le capitanerie di porto italiane segnalano il recupero di numerosi cadaveri nel tratto di mare che separa la Puglia dalle coste albanesi. Data l’altissima velocità a cui viaggiano i gommoni, per lo più di notte, il rischio di una collisione con un oggetto galleggiante qualsiasi è altissimo. Molti poi sono i feriti durante il tragitto per traumi e lesioni interne.
        Per porre fine a questo stato di cose la prima priorità dell’Italia non può che essere quella di moltiplicare gli sforzi per consentire un ritorno alla legalità su tutto il territorio albanese. Questo sforzo è in corso grazie ad importanti iniziative di cooperazione sia di polizia, sia giudiziaria. Il terzo Comitato della Commissione antimafia però intende tentare una propria valutazione dell’azione repressiva e giudiziaria in Albania con un sopralluogo. E questo non potrà non comprendere il porto di Valona, attualmente il vero centro della gestione criminale del traffico di clandestini, come dimostra l’increscioso recente episodio del sequestro del capo della polizia del luogo. C’è però il rischio di fermarci a Valona anche nell’azione di cooperazione di polizia. Occorre invece ricordare che Valona non è che l’ultimo anello di una catena che convoglia, senza distinzioni, profughi ed immigrati clandestini non solo dai Balcani, ma anche dall’Asia e dall’Africa verso l’Europa. Per fermare questo traffico bisognerà mettere a fuoco e colpire, con azioni di coordinamento internazionale maggiori di quelle attualmente in essere, le reti che organizzano il traffico. A questo proposito va sottolineato che numerose indagini giudiziarie hanno evidenziato la centralità di organizzazioni turche nella gestione del traffico di clandestini verso le coste italiane. Il pagamento per molti viaggi verso l’Italia è avvenuto in Turchia, con lo scafista albanese compreso nel prezzo; questo da testimonianze che ho potuto raccogliere di persona nei campi di Brindisi.
        Vorrei adesso portare alla vostra attenzione un drammatico episodio che è stato esaminato dal Comitato e che, per molti versi, illustra le perduranti difficoltà sia a livello nazionale che a livello internazionale a colpire il traffico di immigrazione clandestina. Si tratta di un naufragio avvenuto a sud delle coste siciliane nella notte di Natale del 1996. Di fatto, più che un naufragio fu una collisione tra una nave ed un peschereccio sul quale erano stati scaricati circa 300 aspiranti immigrati che dovevano essere portati sulle spiagge siciliane. Ci fu una collisione perché quella notte il mare era in tempesta ed i morti sono stimati in 283, secondo le segnalazioni dei paesi di origine, che sono l’India, il Pakistan e lo Sri Lanka. Una cifra che ne fa uno dei più gravi disastri marittimi avvenuti nel Mediterraneo in anni recenti. In un primo momento si è addirittura dubitato che fosse accaduto in quanto le capitanerie di porto, avvertite con circa una settimana di ritardo, non ne hanno trovato traccia. Quattro indagini giudiziarie, due in Italia, una in Grecia, ed una in India, hanno poi dimostrato che il disastro è purtroppo effettivamente avvenuto. L’ultima, della procura di Siracusa, è stata chiusa in questo mese con una richiesta di rinvio a giudizio per il comandante della nave, l’armatore e l’equipaggio, con l’accusa anche di associazione a delinquere di stampo mafioso. Tutti quanti, però, sono latitanti. Paradossalmente il comandante, un tale Tallal Yousouf, è stato arrestato due volte in Italia, riconosciuto grazie alle impronte digitali, sempre per immigrazione clandestina, per poi venire rilasciato per decadenza dei termini o conflitti di competenza.
        Permettetemi di riassumere quello che si sa sul naufragio causato dalla nave "Yohan". Questa nave parte da Alessandria d’Egitto e nel Mediterraneo, in acque internazionali, viene raggiunta da una nave chiamata "Friendship", che parte dalle coste della Turchia. A quel punto ci sono circa 500 clandestini nelle stive della nave che, dopo un giro di un mese nel Mediterraneo, approda a Malta, dove non viene disturbata, e dove viene fatto un accordo con un peschereccio, che dovrà essere il mezzo per portare i clandestini in Sicilia. C’è la collisione, come vi ho raccontato. Il comandante si spaventa, fa rotta verso la Sicilia e scarica lì i clandestini che sono a bordo della nave. Premetto che per questo viaggio i passeggeri hanno pagato circa 7.000 dollari a testa. In un primo momento, da quello che si sa, la nave appare in Grecia; le autorità maltesi un giorno dopo segnalano che è possibile una collisione perché il peschereccio non è mai tornato a Malta e il comandante è morto. I sopravvissuti si presentano alla polizia greca e, interrogati da un magistrato, raccontano, anche in lingue diverse, la stessa storia. La notizia naturalmente è troppo grossa per venire tenuta nascosta ed esplode nei paesi di origine. In Europa l’eco è molto più attutita fino al marzo dello stesso anno, quando un giornalista inglese scopre la "Yohan" nel porto di Reggio Calabria. Il nome della nave, cambiato più volte, era nascosto da una mano di vernice e al suo interno si trovano i drammatici messaggi delle persone che erano state chiuse nelle stive al buio per circa quattro settimane, temendo naturalmente di essere condannate a morte.
        Un altro dato significativo riguarda una società, la Claremont Shipping, che si occupa proprio del traffico di immigrati clandestini. È una società internazionale con uffici nel Pireo, in India e in Pakistan. Il suo presidente è stato identificato, ha una rete di complici nelle dogane e prende la cifra di 7.000 dollari per viaggio dai suoi clienti. L’esistenza di numerose società di questo genere è stata più volte assodata, ma i paesi che ne vengono colpiti non hanno ancora trovato gli strumenti più appropriati per rispondere. Io credo che questo disastro, anche per la forte mobilitazione che ha creato nei paesi di origine delle vittime, sia da considerare emblematico. Dimostra l’urgenza del lavoro in corso per trovare nuovi strumenti internazionali adatti per colpire sia le reti di trafficanti, sia il fenomeno di nuove navi negriere, come la "Yohan", che vagano indisturbate nel Mediterraneo, e non solo nel Mediterraneo, con il loro carico di disperazione.
        La nuova Convenzione delle Nazioni Unite contro il crimine organizzato, e in particolare il protocollo aggiuntivo alla stessa Convenzione, dedicato al traffico di immigrati clandestini, dovrebbe offrire uno strumento, prevedendo la possibilità di azioni repressive anche in acque internazionali contro l’equipaggio di navi come la "Yohan" ed il sequestro delle stesse navi. La Convenzione è tuttora in fase di negoziato, ma l’Italia, insieme all’Austria, è impegnata nella stesura di un documento atto a colpire i trafficanti. Si punta ad una ratifica entro l’anno 2000. Questa relazione si è volutamente soffermata su un aspetto del traffico di esseri umani, che potremmo definire come un vero e proprio contrabbando delle persone o come traffico di immigranti.
        Tuttavia, esiste un’altra forma di traffico, gestita in buona parte in Italia dalla criminalità albanese, che è quella della tratta delle donne o dei minori, la quale ha contribuito a cambiare la fisionomia stessa del mercato della prostituzione. Mentre fino alla fine degli anni Ottanta questo mercato era caratterizzato, per lo più, dalla presenza di singoli lenoni, si giunge negli anni recenti alla gestione sempre più diffusa del traffico delle donne a fine di prostituzione da parte di organizzazioni criminali. Questo sfruttamento, posto in essere in particolare dalle bande albanesi operanti in Italia, si caratterizza per il ricorso ad una violenza estrema nei confronti delle donne.
        Dati statistici, elaborati dall’Organizzazione per l’emigrazione di Vienna, fanno rilevare che tale fenomeno ha investito l’Italia in modo particolarmente rilevante e che risulta preponderante, sempre nel contesto italiano, la presenza albanese. La centralità di questo traffico, posto in essere in Italia dalle bande albanesi, è emersa anche dalle nostre audizioni. Sono emersi altresì – in primo luogo – i problemi particolari di tutela delle vittime e – in secondo luogo – quelli di contrasto al fenomeno che tale traffico comporta. Il Governo ha già dato, al riguardo, una prima ed opportuna risposta con un disegno di legge sul traffico delle donne, approvato due settimane fa.
        In conclusione, sono partita dall’intreccio che esiste tra traffico di droga e traffico di esseri umani e, in particolare, dal ruolo che svolge la criminalità albanese in Italia. Vorrei concludere, quindi, il mio intervento con una raccomandazione: si deve tentare di colpire il traffico delle persone e le reti internazionali che lo sostengono con la stessa severità e la stessa intensità di cooperazione internazionale che vengono esercitati contro il traffico della droga, soprattutto a livello di polizia.
        Faccio un esempio: tutti i profughi sbarcati sulle coste italiane vengono sottoposti ad un interrogatorio abbastanza dettagliato da parte della polizia di Stato, per consentire una corretta valutazione di una loro eventuale richiesta di asilo. Tali interrogatori dovrebbero, dunque, contenere notizie sulla rete che ha portato il profugo in Italia, fin dalla partenza da casa, comprendendo i nomi di eventuali società e di persone, i prezzi pagati e le modalità di trasporto. Se queste notizie non vengono già sistematicamente raccolte a fini investigativi, si potrebbe cominciare a farlo con veri e propri debriefing di ciascun profugo. Per quanto individualmente parziali, la massa stessa delle singole testimonianze costituisce un potenziale capitale investigativo dal quale risalire lungo le rotte che portano migliaia di clandestini in Europa – vi ricordo che nel 1998 sono stati intercettati 18.000 immigrati nella sola regione Puglia – attivando tutte le strutture di cooperazione esistenti (al riguardo mi rifaccio alle testimonianze sul coinvolgimento della Turchia).
        Concludo il mio intervento con una constatazione. Grazie alle indagini di ben quattro procure, dopo tre anni sappiamo quasi tutto sul naufragio della "Yohan" e sulle reti di trafficanti che hanno portato 500 e più clandestini a bordo della nave nel dicembre 1996. Tuttavia le notizie, anche quelle dettagliate, raccolte – per esempio – in India, non sono conosciute dalla procura di Siracusa. Lo stesso procuratore indiano non ha potuto assicurare alla giustizia gli organizzatori indiani del viaggio, in quanto le conseguenze dei loro atti sono avvenute fuori dalla giurisdizione indiana. I trafficanti, intanto, sono tuttora liberi. (Applausi).

        PRESIDENTE. Ringrazio la senatrice de Zulueta per la sua relazione e prego l’onorevole Michele Saponara, coordinatore del Comitato della Commissione parlamentare antimafia sui fenomeni di criminalità organizzata nelle zone non tradizionalmente interessate dall’attività mafiosa, di svolgere il suo intervento sul tema: "L’incidenza della criminalità internazionale nelle zone non tradizionalmente mafiose".

        
        SAPONARA Michele, deputato, componente della Commissione parlamentare antimafia. La Commissione parlamentare antimafia, se ha dedicato e dedica – come è ovvio – il massimo dell’attenzione ai problemi della lotta alle varie forme di criminalità organizzata nelle quattro regioni di insediamento tradizionale (la Sicilia per la mafia, la Calabria per la ’ndrangheta, la Campania per la camorra e la Puglia per la sacra corona unita), non ha trascurato né trascura tutte le altre zone dell’Italia che in qualche modo possono essere oggetto di infiltrazione di quelle organizzazioni criminali o, comunque, possono essere interessate da altre forme di criminalità. Per questo motivo la Commissione ha istituito nel proprio seno il Comitato di lavoro sui fenomeni di criminalità organizzata nelle zone non tradizionalmente interessate dall’attività mafiosa, che ho l’onore di coordinare. In questa veste sono chiamato, quindi, a riferire sull’incidenza della criminalità internazionale in dette zone.
        È chiaro che sarò costretto a ripetere – cercherò di farlo il meno possibile – quanto è stato già detto dal procuratore nazionale antimafia Vigna, dal procuratore generale Borrelli e da tutte le altre illustri personalità che mi hanno preceduto e che hanno trattato l’argomento della criminalità organizzata internazionale. Vorrei, infatti, delineare un quadro della situazione per rilevare quale evoluzione ha avuto la criminalità internazionale nelle zone non tradizionalmente mafiose ed anche per illustrare la sensibilità della Commissione nei confronti del problema.
        Devo dire che tale sensibilità non è stata dimostrata solo recentemente, dal momento che di questo fenomeno trattava già la relazione approvata dalla Commissione della XI legislatura, in data 13 gennaio 1994, e redatta dal senatore Smuraglia, il quale aveva presieduto un gruppo di lavoro con compiti analoghi a quelli del Comitato da me coordinato. In quella relazione, premessa la presenza in Italia di tutte le mafie e soprattutto l’insediamento sempre più ramificato e minaccioso della mafia calabrese in Lombardia, si accennava al pullulare di altre organizzazioni, quali le associazioni di turchi, molto attive nel traffico di eroina; gruppi di slavi, che si occupavano del traffico di armi e, infine, gruppi di slavi e sudamericani, che controllavano la prostituzione. Vi si segnalavano, poi, altre situazioni a rischio connesse alla forte immigrazione clandestina ed al pericolo che si formassero vere e proprie bande, che potessero agire autonomamente sul territorio o essere strumentalizzate da altre organizzazioni di stampo mafioso bisognose di manovalanza. Si accennava anche a fatti, quali estorsioni o sequestri di persone, commessi solo all’interno della comunità cinese di Milano e, in particolare, in danno di imprenditori ed operatori commerciali cinesi. La stessa situazione veniva segnalata in Toscana, dove si erano insediate alcune comunità cinesi (solo a Prato si contavano quasi 3.000 membri). Si segnalavano un traffico di armi, nella zona di Bergamo, con la Iugoslavia e la Polonia ed uno analogo nel Veneto, dove la vicinanza dei paesi in conflitto con la ex Iugoslavia aveva consentito alla criminalità straniera di entrare in contatto con la criminalità veneta.
        La Commissione parlamentare antimafia, intendendo effettuare un attento monitoraggio, ad epoca più recente, dell’evoluzione dei fenomeni di criminalità, ha delegato il Comitato da me coordinato a svolgere questo compito. A tal fine sono stati effettuati dei sopralluoghi, il giorno 10 e 11 di questo mese a Milano e nel giugno del 1998 ad Ancona.
        Nell’importante audizione di Milano il dottor Minale – procuratore aggiunto DDA della procura della Repubblica – altri sostituti procuratori, il procuratore aggiunto presso la pretura di Milano, dottor Cerrato, del quale parlerò successivamente, e tutti gli altri responsabili dell’ordine e della sicurezza hanno descritto una situazione veramente allarmante: purtroppo, anche la criminalità straniera si è insediata stabilmente sul territorio e si comporta in modo sempre più aggressivo.
        Prima fra tutte vi è la criminalità albanese, la quale si dedica a varie attività come l’accattonaggio; lo sfruttamento della prostituzione maschile connessa all’accattonaggio; lo sfruttamento della prostituzione femminile da parte di gruppi albanesi che si dedicano al reclutamento, al trasporto, all’iniziazione e alla gestione delle ragazze che vengono anche affittate ad altri gruppi stranieri; il traffico di stupefacenti; il traffico di armi, ove viene reimpiegato, specie dai kosovari, parte del ricavato del narcotraffico.
        La criminalità albanese, attesi gli ingenti profitti ricavati dalla prostituzione e dal traffico di stupefacenti ed attesa anche una tipica subcultura violenta di cui è portatrice, ha acquisito in Italia grande autorità, che le consente di operare in modo autonomo e senza vincoli di soggezione alle criminalità locali o addirittura in rapporti di collaborazione. Gli albanesi si pongono in posizione di preminenza sui calabresi come gestori nella fase più importante (cioè l’importazione della droga) e come destinatari della sostanza in pieno collegamento, con accettazione dei ruoli da entrambe le parti.
        Gli albanesi sono presenti anche nel campo del riciclaggio. Secondo alcune segnalazioni, nove soggetti albanesi, in 2-3 settimane, hanno effettuato depositi per un importo totale di 2 miliardi di lire presso la banca cittadina Cesare Ponti. In ogni caso, gli albanesi – secondo il giudizio del dottor Minale – diverranno la nuova ’ndrangheta, perché hanno molti aspetti simili, con un connotato di ferocia assai superiore che indurrà lo stato di soggezione. In sostanza, gli albanesi, essendosi formati sulla strada con lo sfruttamento della prostituzione, con l’occupazione dei marciapiedi, con i piccoli alberghi che pullulano a Milano, con le agenzie e con tanti piccoli personaggi, in parte hanno già conquistato il territorio e potrebbero passare anche ad altri settori, come le estorsioni o i sequestri di persona volanti, che è un tipo di delitto che si può riferire al costume degli albanesi criminali.
        Per quanto riguarda la mafia cinese, abbiamo parlato di episodi isolati di estorsione e di sequestri di persona commessi in danno di imprenditori cinesi, di fatti che comunque non sono stati più di tanto pubblicizzati, atteso il carattere omertoso degli stessi cinesi. Devo dire che in questi ultimi tempi la criminalità cinese è esplosa. Si sono, infatti, scoperte attività criminali ben più consistenti ed organizzate, quali l’immigrazione clandestina e la pratica dei sequestri di persona (23 nel solo distretto di Milano), diretti ad ottenere il pagamento del prezzo dell’ingresso clandestino. Di recente si è assistito anche a casi di sfruttamento della prostituzione di donne cinesi nella zona di via Paolo Sarti, nel quartiere cinese.
        L’autorità giudiziaria di Milano ha avviato un’indagine, che si sta per concludere, a carico di 40 cinesi imputati di associazione di stampo mafioso. Il tribunale ha escluso il connotato della mafiosità, mentre la Corte d’appello ha accolto l’impugnazione della procura. Come accennava stamani il procuratore Vigna, anche in Toscana è in corso un processo nel quale sono imputate comunità cinesi; l’indagine, denominata "Gladioli rossi", gestita da Firenze, ha evidenziato la presenza di vari gruppi operativi in diverse zone dell’Italia centro-settentrionale, tutti collegati alla triade "Testa del dragone". A Firenze è in corso un processo a carico di 22 cinesi accusati di far parte di questa triade. Primo caso nella criminalità cinese, l’accusa si fonda anche sulle dichiarazioni di un collaboratore di giustizia cinese, Zhen Zhang, che è in attesa di essere ammesso al programma di protezione (si deve ancora verificare la sua serietà ed attendibilità).
        Questa mattina si parlava della criminalità nigeriana, meno pericolosa delle altre criminalità straniere sia dal punto di vista numerico sia dal punto di vista delle attività svolte (immigrazione clandestina e prostituzione). È un’organizzazione che fa arrivare le ragazze dalla Nigeria; queste risiedono normalmente a Torino e a Genova e raggiungono Milano di sera, per poi ritornare la mattina nella città da dove sono partite. Per indurre le donne a prostituirsi si ricorre a pressioni di vario genere, quali il ritiro del passaporto e la violenza fisica, nonché ai riti magici tipici della cultura di provenienza. Questo sfruttamento viene effettuato non solo da nigeriani ma anche da italiani.
        C’è comunque un dato nuovo. Risulterebbe che i nigeriani hanno aperto a Milano una vera e propria agenzia: si tratta di un gruppo presente in Campania, in Veneto e a Roma. Questa organizzazione utilizza vere e proprie agenzie di viaggio o di affari per svolgere un’attività di importazione di cocaina dalla Colombia, dove operano soggetti nigeriani, mentre il cervello del gruppo si trova in Grecia ed organizza i viaggi. Questa attività dei nigeriani rappresenta una realtà nuova ma già saldamente presente nel territorio.
        Quindi, come potete notare, rispetto alla relazione Smuraglia del 1994 c’è un’evoluzione in termini sempre più pericolosi ed allarmanti.
        Anche la criminalità russa, in aumento ancorché in misura inferiore alle altre criminalità provenienti dall’Est, può essere sempre più interessata ad un ricco territorio come la Lombardia. I russi trattano la prostituzione femminile (che viene esercitata sulla strada, gestita spesso da persone di diversa etnia, quale quella albanese, o nei locali pubblici, tramite ragazze hostess che si accompagnano ad influenti e ricchi uomini russi), il traffico di autovetture e quello di sostanze stupefacenti.
        E veniamo al fenomeno del riciclaggio del denaro sporco. Da tempo è stata accertata in Italia la presenza di imprenditori in contatto con aziende italiane di diversi settori, quali sponsorizzazioni, media e grande distribuzione. Una caratteristica della mafia russa è il possesso di enormi risorse finanziarie che, ovviamente, si prestano al riciclaggio. Dall’inchiesta Cheque to cheque diretta dalla procura della Repubblica di Torre Annunziata sarebbe emerso che nell’estate del 1995 sarebbero giunti in Italia 50 milioni di dollari provenienti da Mosca dopo essere transitati da un piccolo istituto di credito tedesco che li avrebbe "ripuliti". Le stesse risorse finanziarie vengono impiegate nell’acquisto di immobili di ingente valore da parte di cittadini che non svolgono, in apparenza, alcuna attività.
        Desta preoccupazione anche la criminalità iugoslava, nella quale sono inseriti cittadini della ex Iugoslavia. Impegnati in precedenza in attività contro il patrimonio, i serbi si dedicano ora al traffico internazionale di armi e i kosovari al traffico di stupefacenti, come è stato confermato da un’operazione giudiziaria denominata "Savana", nella quale sono coinvolte le famiglie della ’ndrangheta Morabito-Bruzzaniti a cui i kosovari avevano fornito stupefacenti.
        Ho parlato di un sopralluogo del Comitato nelle Marche, perché la criminalità straniera è presente pure in questa regione, che era ritenuta un’isola felice, anche se dobbiamo concludere che in Italia non vi sono più isole felici. Ad Ancona vi sono due snodi: il porto, dove sbarcano centinaia di TIR provenienti dalla Grecia, controllati solo a campione e certamente usati anche per il trasporto della droga, specialmente dalla Turchia, e l’aeroporto.
        Qui vi è il fenomeno abbastanza diffuso di un massiccio traffico di import-export; molti ucraini e russi arrivano settimanalmente ad Ancona e a Pescara con voli di linea per rifornirsi di merce di vario tipo: pelletteria, argenteria, scarpe per grossi importi, pagati naturalmente e sempre in contanti. Il che, naturalmente, fa sospettare operazioni di riciclaggio. Ad analogo sospetto induce l’acquisto da parte di russi di alcuni centri alberghieri specialmente nel sud delle Marche: a S. Benedetto del Tronto, a Grottammare e in altre località della provincia di Ascoli. A S. Benedetto del Tronto uno di questi alberghi è stato pagato 10 miliardi di lire in contanti. Comunque, la Guardia di finanza non ha saputo dire se i sospetti di riciclaggio abbiano trovato qualche supporto probatorio e se quegli acquisti fossero rivolti a realizzare un profitto o vi fosse nascosta solo un’attività di riciclaggio.
        Che si tratti di una zona non più definibile isola felice è confermato dal procuratore della Repubblica di Ascoli Piceno il quale, parlando del massiccio ingresso di prostitute in quella zona, ha detto che, dalle dichiarazioni delle interessate, risulta che esse sarebbero reclutate, finanziate e costrette a versare tangenti ad organizzazioni criminali ucraine, cecene e di altre Repubbliche dell’ex Unione Sovietica, che si teme possano creare strutture in loco e prendere contatti con organizzazioni criminali italiane.
        Anche nel territorio dell’ascolano è presente la prostituzione albanese, che è connessa all’immigrazione di albanesi, ed ha caratteristiche completamente diverse. Particolarmente in certe zone interne, esistono clan tribali soprattutto di origine musulmana presso i quali il matrimonio avviene attraverso la vendita della bambina, la quale ha il dovere di portare denaro in qualunque forma. Infatti, sono stati celebrati processi per il reato di riduzione in schiavitù.
        Concludendo, anche la criminalità straniera ha operato un salto di qualità e di quantità che non può non destare allarme ed allertare gli organi dello Stato preposti alla sicurezza.
        A mio avviso, una seria azione di contrasto deve partire – e questo è un argomento di grande attualità – da un controllo più rigoroso dell’immigrazione diretto a stroncare l’immigrazione clandestina che, come abbiamo visto, è la causa principale, o una delle più importanti, del prosperare della criminalità straniera.
        Il cardinale Ruini e il sindaco Albertini hanno accennato alla necessità di regolare l’ingresso degli stranieri onde evitare che con la gente desiderosa di lavorare entrino anche persone che non ne hanno alcuna voglia e intendono soltanto delinquere.
        È chiaro che il contrasto c’è stato; da parte del dottor Minale e del procuratore Borrelli abbiamo sentito parlare di processi che sono stati celebrati a Milano a carico della criminalità organizzata italiana nei confronti di soggetti affiliati alla ’ndrangheta. A Milano sono state arrestate centinaia di persone, imputate in maxi processi, e pare che la ’ndrangheta calabrese sia in diminuzione. Però, sappiamo – ce lo ha riferito lo stesso dottor Minale – che diventa sempre più virulenta la criminalità albanese, tanto è vero che, per la sua ferocia, cerca addirittura di prevalere su quella calabrese.
        Il ROS ha avuto grandi meriti nella scoperta di un traffico di nigeriani e albanesi; comunque, tutti parlano del diritto alla sicurezza (lo hanno fatto il presidente Mancino e il sindaco Albertini) e qui si innesta il problema della microcriminalità e della sua incidenza sulla criminalità organizzata. Ai cittadini forse sfugge e non interessa tanto il problema della grande criminalità: ai cittadini interessa rimanere tranquilli, non essere derubati e scippati, non essere violati nei loro appartamenti e nella loro intimità. Questa microcriminalità diffusa crea allarme.
        Ecco perché il Comitato da me coordinato ha deliberato di procedere all’audizione del procuratore della Repubblica presso la pretura dottor Cerrato, il quale ci ha delineato un quadro allarmante e ci ha dimostrato la connessione esistente tra la microcriminalità e la grande criminalità. Egli ci ha parlato del pullulare di piccoli delinquenti che rendono insicura la vita dei cittadini e addirittura inducono tanti esercenti ad accettare la protezione di chi è dedito al racket e alle estorsioni. È un argomento importante, che fa pensare come lo Stato non può disinteressarsi della piccola criminalità che poi diventa grande criminalità. Si dice che si aumenteranno le pene; ma questo non basta: è necessario un maggiore controllo del territorio, una presenza sempre più costante da parte dello Stato.
        Il presidente Mancino ha parlato di collaborazione internazionale e di omogeneizzazione della legislazione. Il presidente Mancuso mi ha fatto presente la difficoltà di omogeneizzare la legislazione, attese le diverse costituzioni dei vari paesi.
        In Parlamento è in corso l’esame di un provvedimento legislativo tendente a combattere la frode in danno della Comunità Europea e – anche questo è un argomento attuale – i reati di corruzione e di concussione. Si pensava addirittura di far rispondere penalmente le società, là dove noi diciamo che la responsabilità penale è personale e che quindi non si può ritenere responsabili dei reati le persone giuridiche. In questa occasione abbiamo presentato un emendamento soppressivo di tale norma. Ho detto questo perché è difficile omogeneizzare le varie legislazioni, ma è necessario che vi sia una collaborazione internazionale più stretta, un coordinamento tra le varie polizie e un’assistenza giudiziaria assai più intensa.
        Ritengo che la situazione sia delicata e ciò è dimostrato dall’evoluzione di cui parlavo all’inizio, cioè dalla relazione Smuraglia alla relazione che la procura distrettuale antimafia di Milano ha redatto in questi giorni e dalla situazione di Ancona, isola felice che felice non lo è più (Applausi).

        PRESIDENTE. Ringrazio l’onorevole Saponara per il suo intervento e do la parola al generale Carlo Alfiero, direttore della Direzione investigativa antimafia, il quale svolgerà una relazione su: "I meccanismi della criminalità organizzata a livello internazionale".  Con questa relazione diamo l’avvio a una serie di interventi dei protagonisti sul campo del contrasto alla criminalità internazionale da cui ci attendiamo oltre che una radiografia anche proposte operative, ove ciò sia possibile.

        ALFIERO Carlo, direttore della DIA. Signor Presidente, signor Presidente della Commissione antimafia, signor Capo della polizia, vi ringrazio innanzitutto per l’invito che mi avete rivolto. Queste sono occasioni irripetibili, anche per noi operatori, di confronto, di arricchimento e di aggiornamento.  Svolgerò la mia relazione, riprendendo qualche concetto che già è stato esposto sui meccanismi della criminalità organizzata a livello internazionale. Mi soffermerò sui momenti della nascita, dello sviluppo e del radicamento della criminalità sul territorio.
        Per quanto riguarda la nascita, il primo riferimento attiene al contesto sociale, cioè a un complesso sistema legislativo, economico e politico. Per l’aspetto legislativo, mi richiamo ad argomenti di sostanziale importanza, come il delicato rapporto fra garantismo e prevenzione: nell’assicurare forme di tutela sempre maggiore ai singoli, si consentono spazi di manovra alla criminalità organizzata. Quindi fra rispetto dei diritti dei singoli e tutela della collettività in quanto tale occorre un equilibrio, all’interno del quale vi è il margine di operatività delle forze di sicurezza. Ovviamente il riferimento, in questo caso, è all’area culturale occidentale.
        Per quanto riguarda gli aspetti economici, la presenza, ad esempio, di disponibilità rilevanti di capitali consente margini speculativi che favoriscono notevolmente la nascita di gruppi criminali (si pensi all’area dell’Estremo Oriente).
        Infine, per quanto attiene alle condizioni politiche, è sufficiente dare uno sguardo all’area dell’Europa dell’est: le condizioni di incertezza politica o i repentini stravolgimenti di assetti strutturali dello Stato agevolano la nascita di realtà criminali organizzate. In questi contesti il perseguimento della varie attività illecite può portare fino al condizionamento delle scelte politico- economiche di un intero paese.
        Altre condizioni favorevoli allo spuntare della criminalità organizzata sono legate a nuove imprevedibili sopravvenienze, sia di carattere naturale (si pensi, ad esempio, ai disastri ambientali) sia di carattere evolutivo tecnologico (si pensi a tutto il mondo della comunicazione, della telematica) che determinano un’attivazione in capo a quei soggetti che riescono ad assommare velocità decisionale, disponibilità economica e spregiudicatezza.
        Il secondo aspetto è quello legato allo sviluppo della criminalità organizzata, uno sviluppo che parte dalla cosiddetta fase predatoria, cioè della delinquenza pura, e che passa poi alla penetrazione nel tessuto legale, sia politico (si pensi alla corruzione, alla collusione, alla pressione elettorale o addirittura alla partecipazione attiva alla vita politica), sia economico (e a questo proposito il professor Masciandaro e il professor Spaventa hanno tracciato un quadro molto preciso degli stravolgimenti che i mercati possono subire), e alla penetrazione nel tessuto sociale (con offerte di servizi sottocosto al fine di condizionare la mentalità sociale fino ad indurla a considerare conveniente e quindi accettabile un progressivo coinvolgimento in attività illegali di forte redditività).
        Anche lo sviluppo della criminalità è condizionato dallo sviluppo tecnologico. Sotto questo profilo la disponibilità di ingenti risorse economiche in capo a gruppi mafiosi può loro consentire una disponibilità di mezzi, quindi un vantaggio notevole rispetto all’apparato di contrasto.
        Il cerchio si chiude con il radicamento della criminalità. Attraverso una serie di passaggi la criminalità organizzata mira a rigenerare se stessa, riconfermando una "signoria sul territorio", che a questo punto non è più solo quella di origine, ma si è estesa a contesti internazionali sempre più vasti.
        Il radicamento sul territorio avviene prima nelle aree criminali lasciate scoperte dalla criminalità endogena (pensiamo alla prostituzione, alla collocazione di manodopera immigrata sotto costo, allo spaccio minuto di sostanze stupefacenti, cioè ad attività molto elementari); successivamente si stabiliscono dei reciproci contatti dai quali poi possono nascere alleanze (con trasmissione di know how), scontri oppure posizioni di subalternità. Stamattina il procuratore nazionale antimafia, dottor Vigna, e ora l’onorevole Saponara, ci hanno delineato il quadro di alcune situazioni.
        È quindi necessario rivoluzionare il concetto di "mappatura del territorio" corredandolo a dinamiche più fluide rispetto al passato: la valenza dell’azione di risposta starà in buona parte nella capacità di individuare e di anticipare la geografia criminale, non più limitata al solo territorio nazionale ma estesa al campo europeo, addirittura con proiezioni mondiali.
        Delineati in questo modo i meccanismi principali della criminalità organizzata a livello internazionale, vediamo come si modula l’azione di risposta, con particolare riferimento alla DIA.
        Una prima fase è quella conoscitiva. Ogni tipo di organizzazione criminale ha un suo modus operandi diverso, che si pone come la risultante del retroterra storico-culturale che la caratterizza. Valore fondamentale, pertanto, assume il conoscere quali meccanismi caratterizzino un gruppo rispetto ad un altro.
        La DIA raccoglie, a livello nazionale e internazionale, tutto il materiale di interesse e sviluppa in modo sistematico proprio questo tipo di studio conferendogli altresì il valore aggiunto dell’esperienza maturata in questi anni di lotta al fenomeno mafioso.
        Vi è poi la fase dinamica. L’organizzazione criminale modifica le strategie evolutive adattandole alla realtà del contesto nel quale opera. Si tratta di una capacità di adattamento che risulta vincente ogniqualvolta si realizza in tempi inferiori rispetto a quelli necessari per la risposta dello Stato.
        La DIA mira ad abbassare i tempi di risposta attraverso una connotazione tipicamente preventiva di tutto l’impianto di contrasto. Individuati i caratteri strutturali tipici di ogni sodalizio (fase conoscitiva), si costituiscono degli ambiti informativi estesi (parliamo di banche dati) che, attraverso l’implementazione di tutti i dati provenienti dall’osservazione e dall’azione di contrasto sul territorio, consentano di percepire le linee strategiche del gruppo criminale anticipandone i tempi di risposta.
        Sia la fase conoscitiva che quella dinamica sono alla base di importanti recenti lavori che la DIA ha messo a disposizione di tutte le altre forze non solo perché ne utilizzino i contenuti, ma anche perché concorrano nella ulteriore attività di implementazione: mi riferisco in particolare ai progetti "criminalità organizzata sovietica" e "criminalità organizzata albanese".
        Ritengo importante sottolineare questo aspetto dinamico dei due progetti, ovvero il fatto che essi non si pongono come fotografie di una realtà che è in evoluzione nel momento stesso in cui viene documentata, ma comportano un costante aggiornamento che vede coinvolti tutti i soggetti a qualunque titolo deputati all’azione di contrasto.
        Vi è poi la fase operativa. All’interno di ogni sodalizio è fondamentale individuare la "cellula dominante", ovvero i soggetti che, collegati fra loro, gestiscono nel concreto l’attività del gruppo e delle sue articolazioni periferiche.
        La DIA sviluppa principalmente l’attività di disarticolazione delle cellule dominanti. Si tratta in effetti di un’attività di alto profilo che si attaglia perfettamente alle caratteristiche di una struttura istituzionalmente votata ad obiettivi selezionati. La parallela attività di contrasto sul territorio punto su punto, effettuata dalle forze territoriali, costituisce l’altra leva della tenaglia, la leva fondamentale ed irrinunciabile, che consentirà di raggiungere risultati definitivi. Anche a questo proposito cito qualche caso. È in corso, ad esempio, una complessa ed articolata attività investigativa in Nord Italia in cui sono stati individuati i capisaldi di una organizzazione criminale russa di altissimo profilo dedita in particolare all’investimento di capitali illeciti.
        Parallelamente, attraverso lo spunto fornito dall’analisi di alcune operazioni sospette, è stato individuato un gruppo albanese che ha movimentato somme ingentissime in tempi ristretti e che, sempre nel Nord Italia, sta cercando nuovi spazi di manovra. Anche in questo caso l’indagine è ancora in corso.
        Tra breve verrà portata a compimento una indagine sul traffico di tabacchi lavorati esteri che vede coinvolti soggetti imprenditoriali di assoluto spessore (latitanti italiani riparati sull’altra sponda dell’Adriatico) nonché rapporti di cogestione fra gruppi mafiosi italiani ed esteri. È così intenzione della DIA colpire, in queste cellule dominanti, la testa e non solo le innumerevoli code di sodalizi che, attraverso il contrabbando, arrivano ad avere il monopolio su rotte di traffici illeciti sulle quali vengono poi veicolati armi, droga, clandestini o quant’altro.
        Infine, vi è la fase internazionale. Le attività di contrasto svolte solo sul territorio nazionale non sono sufficienti. È sul piano transnazionale – a prescindere ora da ogni definizione terminologica – cioè è nel mondo senza confini che avviene il travaso delle metodologie criminali, con il conseguente reciproco aggiornamento delle strategie tese all’illecito arricchimento e anche con le maggiori opportunità di arricchimento che offre un mondo senza frontiere. Siamo in pieno nel cosiddetto processo di globalizzazione, e in questo caso di globalizzazione criminale.
        Occorre allora interagire con gli altri organismi di polizia estera e a nostra volta trasmettere e ricevere know how.
        In questo settore la DIA è molto attiva. Noi abbiamo ottimi rapporti con i nostri organismi corrispondenti, dai quali apprendiamo esperienza specifica sul singolo sodalizio criminale estero e a nostra volta offriamo tecnologia, metodologie ed esperienze che abbiamo maturato in Italia. (Applausi).
        
        PRESIDENTE. Ringrazio il generale Alfiero e prego il dottor Alessandro Pansa, direttore del Servizio centrale operativo della polizia di Stato, di svolgere la sua relazione su: "I principali insediamenti criminali di matrice straniera in Italia".

        PANSA Alessandro, direttore dello SCO. Ringrazio il Presidente della Commissione antimafia, la Commissione antimafia e tutte le autorità.

        Signore e signori, presento, a seguito di quanto ha già fatto il professor Masciandaro nella precedente parte di questo Convegno, il lavoro di analisi che abbiamo svolto all’Università Bocconi con la Polizia di Stato su due fenomeni criminali, la criminalità russa e quella cinese in due determinate aree del nostro territorio.
        In primo luogo occorre chiedersi quale sia l’esigenza degli investigatori di disporre di una analisi così articolata, complessa, economica e soprattutto multidisciplinare.
        La domanda ha una risposta molto semplice: è per capire. Questa mattina il direttore del Dipartimento della Pubblica sicurezza, il capo della Polizia, prefetto Masone, ha chiaramente detto che vi è bisogno di conoscere, vi è necessità di intelligence. E l’intelligence su fenomeni nuovi così articolati come le nuove mafie richiede una forma di conoscenza ed un approccio molto più complessi.
        Vi era poi un altro obiettivo. Le indagini che sono state condotte negli ultimi anni dalla Polizia di Stato in alcune aree del paese su presenze criminali straniere, ad esempio a Rimini o in altre aree dell’Emilia Romagna, sono state percepite in modo non sempre favorevole soprattutto a livello locale. Alcune volte ci è stato detto che queste indagini producevano danno all’economia. A noi è sorto anche il legittimo dubbio che forse avevamo sbagliato, pur avendo utilizzato sempre, come strumenti del nostro agire, solo il codice penale e le leggi che il Parlamento ha varato. Lo studio eseguito con un’analisi economica da parte della Bocconi ha fatto chiaramente rilevare che il danno all’economia c’è, ma non è dovuto assolutamente alle indagini, bensì è dovuto al fenomeno criminale contro cui le indagini sono state sviluppate.
        L’analisi che è stata condotta ci ha portato ad individuare alcune caratteristiche del lavoro e della realtà con la quale ci andiamo a confrontare. Uno dei primi risultati emersi è che gli insediamenti criminali di matrice straniera presenti in Italia tendono ad assumere connotati strutturali e funzionali diversi rispetto a quelli delle rispettive case madri: ad esempio, la mafia russa in Italia ha caratteristiche diverse da quella che opera in Russia, così come la mafia cinese nel nostro paese è diversa da quella in Cina. Le diverse collocazioni e formazioni sul nostro territorio fanno acquisire a queste organizzazioni forme e strutture diverse. I motivi sono molteplici. Quello fondamentale va individuato nelle ragioni per cui questi gruppi criminali si sono spinti fuori dal loro paese. Se noi consideriamo la realtà criminale dei sudamericani, ad esempio dei colombiani presenti nel nostro paese, rileviamo che la loro esigenza è quella di collocare il loro prodotto. Se invece esaminiamo la realtà criminale di altri tipi di organizzazioni, ad esempio i cinesi, notiamo che la loro esigenza è quella di insediarsi in Italia per produrre un reddito spesso illegale.
        Influenza la caratterizzazione degli insediamenti delle criminalità straniere in Italia la realtà con la quale essi vanno ad impattare, ed è, in varia misura, quella delle peculiari caratteristiche del nostro paese. Influenzano ancora questa struttura la normativa anticrimine, la presenza di organizzazioni criminali autoctone, forme ed assetti di circuiti economici di produzione e scambio di beni e servizi. Occorre quindi individuare gli specifici connotati strutturali e funzionali delle presenze criminali straniere nel nostro paese.
        Lo studio che è stato condotto dalla Polizia di Stato e dall’Università Bocconi offre, quindi, nuovi strumenti di comprensione. Tale metodo di analisi, sebbene sia stato applicato a due realtà circoscritte, è suscettibile di essere impiegato in prospettive assai più ampie sia in termini spaziali, sia con riguardo alle altre espressioni criminali. Il modello di analisi economica proposto individua tre diverse fasi o stadi. Questa mattina sia il Capo della Polizia che il professor Masciandaro ci hanno indicato queste tre fasi: l’accumulazione di risorse illegali, il riciclaggio dei profitti illeciti, l’impiego delle risorse ripulite. Noi nell’analisi abbiamo verificato la fase del riciclaggio nel nostro paese e, partendo dalle indagini che sono state condotte dalla Polizia di Stato, abbiamo verificato che si giunge ad individuare tre distinte fasi del riciclaggio, che sono spesso univoche, contemporanee, addirittura sono ricondotte ad un unico comportamento. Le tre fasi tipiche del riciclaggio sono il placement, il layering e l’integration. La prima fase consiste nel collocamento dei proventi del reato, la seconda fase comporta il compimento di una serie di operazioni finanziarie o commerciali volte a separare il capitale dalla sua origine illecita, la terza implica lo sforzo di integrazione nei circuiti dell’economia lecita dei capitali di origine illegale. Le indagini che sono state condotte, soprattutto le indagini sulla criminalità russa, ci consentono di capire come queste fasi siano in effetti le tre facce di un’unica condotta, di un unico comportamento; e l’azione stessa è spesso unica.
        Venendo ad esaminare i risultati specifici dell’analisi condotta sulla mafia russa, vediamo che i dati di cui abbiamo potuto disporre e che abbiamo preso in esame vanno dal 1987 al 1998 ed indicano un trend di crescita dei reati commessi dai soggetti provenienti dall’ex Unione Sovietica. In particolare, dal 1992 al 1998 si è passati da 354 a 1953 denunce. Ma la crescita numerica, se ponderata, dà un ulteriore dato di valutazione. La maggior parte dei reati che sono aumentati spostano l’asse da reati di cosiddetta criminalità diffusa a reati di macrocriminalità. (Mi sarebbe venuto meglio dire da microcriminalità a macrocriminalità, ma questa differenza sembra che non sia più di moda, quasi offendessimo, parlando di microcriminalità, il bene giuridico che la norma penale tutela). Questi dati hanno evidenziato poi che esiste un trend particolarmente elevato a partire dal 1997 in poi.
        Per quanto concerne nello specifico la riviera adriatica, poi, lo studio ha evidenziato due particolari caratteristiche. La prima: il ridotto numero di soggetti direttamente riconducibili ad organizzazioni di matrice straniera. In Italia i mafiosi russi, cioè coloro che hanno caratteristiche da farli assomigliare ai nostri mafiosi, sono molto pochi ed essenzialmente sono soggetti che non delinquono. In una indagine che la Polizia di Stato ha condotto a Roma nel 1997 e che si è conclusa con l’arresto, avvenuto a Madonna di Campiglio, di 13 esponenti della criminalità organizzata russa, noi abbiamo individuato alcuni soggetti che erano integrati in una struttura criminale che aveva gerarchie, rituali e forme di comportamento tipiche delle associazioni mafiose italiane, addirittura con dei rituali quasi arcaici e superati ormai dalla criminalità italiana più evoluta. Ma il numero di questi soggetti è estremamente ridotto. La caratteristica essenziale della realtà russa in Italia è che si rileva un cospicuo e costante flusso di capitali e di beni, indicativo unicamente di un crescente interesse dei gruppi criminali russi a spingere verso il nostro paese essenzialmente le loro ricchezze e non le loro persone.
        L’analisi condotta e la lettura dei dati, sia investigativi che economici, evidenzia quindi che la criminalità organizzata russa predilige in questa fase un comportamento che è esclusivamente legato all’attività di riciclaggio. In particolare, i danni, come sono stati rilevati nella ricerca illustrata stamattina dal professor Masciandaro, che questo tipo di attività infligge al nostro paese hanno conseguenze notevolmente negative sui flussi bancari e finanziari, mentre gli interventi di reimpiego comporteranno impatti negativi anche sui mercati dei beni e dei prodotti, sul mercato del capitale, sulla struttura proprietaria, sul controllo delle imprese, sul mercato del lavoro. Quindi, pur essendo una realtà che per grandezza non preoccupa, pur essendo una realtà che non presenta i vertici della propria organizzazione nel nostro paese, ha effetti economici devastanti. L’analisi, poi, ha riguardato anche la criminalità cinese ed al riguardo abbiamo potuto verificare un periodo, che va dal 1987 al 1998, in cui si è visto che la crescita della presenza di cinesi in Italia è aumentata di circa dieci volte. Le maggiori presenze si registrano in Lombardia ed in Toscana. Non spaventi Milano e i lombardi per la maggiore presenza d’Italia di cittadini cinesi, perché a Milano c’è la maggiore presenza anche di cittadini svizzeri, di lussemburghesi, perché la Lombardia è particolarmente grande e ricca e assorbe una maggiore quantità di soggetti, ma non in termini di pericolosità, bensì in termini di occupazione. Il dato caratterizzante poi della realtà cinese che è emerso dall’analisi che è stata condotta, ma soprattutto dalle indagini che sono state svolte dalla Polizia di Stato e che sono state riesaminate in questo laboratorio, dimostra che la struttura organizzativa propria delle "Triadi", di origini assai antica, è stata adottata in tempi relativamente recenti da gruppi criminali che si sono andati formando sia nell’isola di Taiwan che ad Hong Kong e che si sono dedicati poi al traffico internazionale degli stupefacenti. Per questo motivo, quando si parla oggi di mafia cinese, si tende a definirla con l’espressione "Triadi", anche se solo una ristretta élite delle organizzazioni criminali di matrice cinese è riconducibile alle "Triadi" vere e proprie.
        In Italia, invece, sono scarse le presenze di criminali provenienti sia da Taiwan che da Hong Kong, e pertanto le attività criminali poste in essere dai gruppi cinesi non sono direttamente riferibili alle "Triadi" e consistono essenzialmente nell’immigrazione clandestina e nello sfruttamento della manodopera. Occorre però tener presente che le "Triadi", come è emerso da alcune indagini, e precisamente da quattro attività investigative che sono state svolte a Milano, a Firenze, a Roma e a Torino, tendono essenzialmente ad infiltrarsi nelle altre associazioni criminali piuttosto che a garantirsi un diretto controllo di tutte le attività criminali. Le stesse modulano il grado della propria partecipazione ai vari settori di intervento per trarne vantaggi ed opportunità. Questo potere, che potremmo definire di coordinamento criminale, contribuisce spesso a formare il tessuto connettivo dell’organizzazione delle comunità cinesi in quanto gran parte delle comunità cinesi nel nostro paese, ancorché regolarizzate sotto l’aspetto della presenza in Italia, sviluppano una serie di attività, generando reddito illegale. Questo perché non rispettano la normativa sul lavoro, non rispettano la normativa sui marchi, svolgono quindi una attività che produce un reddito non trasparente. Ciò crea l’esigenza che a gestire questo sistema sia una struttura criminale e la struttura criminale cinese – è stato evidenziato da attività investigative tuttora in corso svolte dalla questura di Roma – anche per la rappresentatività esterna di fronte alle istituzioni della comunità cinese, riceve un contributo. Sia a livello nazionale che a livello europeo, l’associazionismo cinese è contaminato dalla presenza di soggetti attualmente indagati in Italia o da soggetti che sono stati in passato indagati in Italia per associazione mafiosa o che sono stati arrestati nel nostro paese. È questo un elemento di particolare pericolosità e gravità.
        Tali fenomenologie, secondo il lavoro svolto e l’analisi svolta, hanno un elevato rischio prospettico, cioè dimostrano un pericolo in relazione alla loro possibilità di crescita. Attualmente la loro dimensione è agevolmente contrastabile; le nostre risorse attualmente sono sufficienti a contrastare questo tipo di fenomeno, ma non si può indulgere in facili ottimismi in quanto il trend di crescita è particolarmente elevato.
        Il senatore Centaro ha chiesto all’esperienza degli investigatori dei suggerimenti e delle idee. Devo dire che i suggerimenti fondamentali per il contrasto di questo tipo di criminalità sono già stati forniti questa mattina sia dal Capo della Polizia sia dal vice capo della Polizia, direttore centrale della Polizia criminale. Due sono gli elementi fondamentali: il primo è l’intelligence, cioè la conoscenza di questa realtà; il secondo è la cooperazione internazionale. Noi in termini di conoscenza abbiamo fatto tanto ed il lavoro con l’Università Bocconi lo dimostra. Quindi noi ci stiamo sempre più attrezzando per combattere questi fenomeni. Ma tutto ciò basterà? Il professor Masciandaro questa mattina ha concluso il suo intervento tracciando un circolo virtuoso: ordine pubblico, ordine economico, ordine pubblico.
        Sono realtà che devono camminare all’unisono. Noi, investigatori che concorriamo al mantenimento dell’ordine pubblico, la nostra parte la stiamo facendo e la continueremo a fare sempre meglio, ma negli altri settori andrà fatto molto di più. Ci vorranno regole, ma non basterà, secondo me, soltanto l’intervento pubblico; saranno necessari sicuramente degli interventi all’interno delle stesse strutture che regolano le economie. Si parla oggi molto di autoregolamentazione e forse questa è la chiave di volta. L’autoregolamentazione dovrà essere basata su concetti come quello della collaborazione, come quello degli incentivi, ma il meccanismo dovrà rispondere, perché noi sicuramente faremo la nostra parte, ma non possiamo restare da soli. (Applausi)

        PRESIDENTE. Ringrazio il dottor Pansa per le indicazioni anche concrete e mi auguro veramente che non si parli più di danno all’economia per l’attività degli organi inquirenti, perché così si continuerebbe a confermare quell’assunto assurdo che la mafia dà lavoro: è tutto il contrario in realtà. Invito ora ad intervenire il generale Sabato Palazzo, comandante del Raggruppamento operativo speciale dell’Arma dei carabinieri, che svolgerà un intervento dal titolo: "Rapporti tra criminalità organizzata italiana e straniera".
        
        PALAZZO Sabato, comandante del ROS. Sono grato alla Commissione parlamentare antimafia, al suo Presidente e alla Polizia di Stato, che hanno organizzato il Convegno, per aver voluto, invitando il comandante del ROS, affrontare il tema attraverso la voce di coloro che misurano il fenomeno della criminalità organizzata nella prassi. Per tale motivo il mio intervento sarà essenzialmente caratterizzato da note di esperienza investigativa e sarà sviluppato analizzando, prima, l’infiltrazione della criminalità serbo-albanese in Italia e, di seguito, alcune proiezioni mafiose italiane all’estero, con particolare riguardo al narcotraffico, al riciclaggio e al reimpiego dei proventi, proprio in relazione all’incidenza di questi fenomeni sul territorio e sull’economia, che è il tema dell’incontro.
        Il primo aspetto, l’infiltrazione della criminalità serbo-albanese in Italia, ha avuto recentemente particolare risonanza, talvolta erroneamente collegato alla momentanea recrudescenza di episodi omicidiari nel Nord Italia, soprattutto nella provincia milanese ove l’immigrazione clandestina è ritenuta causa principale di una crescente insicurezza della popolazione. La situazione richiede, però, un esame più approfondito, che metta in luce l’effettiva portata della minaccia e, conseguentemente, renda possibile l’adozione di efficaci misure di contrasto.
        È innanzitutto necessario sgombrare il campo dalle suggestioni emotive, che potrebbero indurre a generalizzare o a confondere il dato visibile della sempre maggiore presenza di immigrati sul territorio nazionale con quello certamente più pericoloso e sommerso della cosiddetta criminalità multietnica, la quale conta – soprattutto nell’Italia settentrionale – significativi ed ormai stabili insediamenti operativi.
        L’Italia ha da tempo assunto una rilevante posizione nel generale fenomeno migratorio internazionale, diventando meta privilegiata dei flussi immigratori soprattutto di matrice africana ed est-europea. Ciò è frutto di diversi fattori quali la peculiare collocazione geografica del nostro paese, che favorisce un più agevole accesso all’area occidentale del continente europeo; la difficoltà di controllare efficacemente i circa 8.000 chilometri di costa; una normativa di settore, forse meno restrittiva e punitiva rispetto a quella vigente in altri paesi; l’esistenza di collegamenti funzionali tra i sodalizi che organizzano la raccolta dei clandestini nelle aree di origine e le strutture criminali italiane, che garantiscono un buon livello di efficienza nel sistema di inclusione sociale degli immigrati e facilitano il loro successivo ingaggio in attività delinquenziali interne.
        Soprattutto gli immigrati di etnia albanese e quelli provenienti dall’Est europeo sono, infatti, riusciti a diventare gestori in proprio di attività e di traffici illeciti di varia natura, tra cui rilevano principalmente la tratta di donne dai paesi di origine, l’induzione, il favoreggiamento e lo sfruttamento della prostituzione e, in particolar modo, il traffico di droga e di armi. La partecipazione a tali attività ha progressivamente emancipato i gruppi criminali slavi ed ha messo in evidenza una crescente leadership albanese tra i sodalizi stranieri presenti in Italia. In tal senso è stata determinante anche la collocazione dell’Albania sulla rotta del narcotraffico, che ha offerto alle locali organizzazioni criminali valide opportunità di sviluppo a livello internazionale. Infatti, l’impraticabilità momentanea della cosiddetta rotta balcanica, connessa all’evoluzione del conflitto nella ex Iugoslavia, ha trasformato il territorio dell’Albania in un importante snodo del traffico della droga che, dal Medio Oriente e dal Sud-Est asiatico, viene trasportata – attraverso la Turchia, la Grecia e la Macedonia – in Italia.
        Inoltre, si è a lungo ritenuto che la devianza straniera potesse occupare in Italia solo spazi marginali, per l’impossibilità di competere con la totalizzante capacità di controllo del territorio delle associazioni mafiose italiane. Tale presunzione ha sicuramente ritardato la sensibilizzazione al problema dell’infiltrazione di gruppi delinquenziali esteri in Italia che invece, forse anche grazie all’intensa repressione che ha interessato in special modo cosa nostra e la camorra, si sono progressivamente affrancati dalle originarie posizioni di subalternità, per guadagnare inediti spazi d’azione illecita. Ciò ha fatto sì che nel Nord Italia – soprattutto in Lombardia, centro nevralgico per lo sviluppo delle attività illegali di rilievo nazionale ed internazionale, eminentemente connesse al traffico degli stupefacenti e delle armi e al riciclaggio dei relativi proventi – il controllo criminale, esercitato dalle organizzazioni autoctone, si affievolisse a tal punto da consentire una supremazia criminogena extranazionale. Sono, pertanto, emerse aggregazioni delinquenziali di differenti etnie (serbo-macedoni, nord-africane ed albanesi) che, oltre allo sfruttamento della prostituzione ed ai reati contro il patrimonio, si sono dedicate ad attività strutturalmente più complesse, che necessitano di un elevato profilo organizzativo e di un buon radicamento sul territorio. I serbi e gli albanesi, in particolare, sono divenuti incontrastati gestori del mercato milanese dell’eroina proveniente dalla Turchia e dall’Est asiatico, in ciò favoriti dall’ampia disponibilità di manovalanza fornita dai connazionali immigrati clandestinamente.
        Estremamente significative al riguardo sono le risultanze dell’operazione "Africa", realizzata dal ROS nel 1998, che hanno consentito di definire in maniera inedita la situazione della criminalità nel capoluogo lombardo, oggettivandone la sempre più marcata caratterizzazione extracomunitaria. L’attività investigativa in parola ha infatti accertato che a Milano le tradizionali espressioni di matrice mafiosa nazionale sono state progressivamente soppiantate o affiancate dalle emergenti aggregazioni albanesi e serbo-macedoni, che hanno evidenziato elevate potenzialità criminogene e propensione ad interagire con la mafia italiana (specie con i sodalizi calabresi). Queste componenti, in particolare quella di etnia albanese che ha ricordato questa mattina il dottor Vigna, oltre a gestire il mercato della prostituzione e ad operare capillarmente nel settore dei delitti patrimoniali, si sono progressivamente imposte nel commercio delle droghe pesanti, distribuendole in proprio o cedendole a gruppi italiani e stranieri, realizzando altresì meccanismi di controllo territoriale sempre più simili a quelli tipicamente mafiosi.
        Gli elementi innovativi sono rappresentati dalla piena partecipazione dei trafficanti albanesi e del Kosovo a tutti i segmenti del traffico, cioè all’importazione e alla commercializzazione, e non solo alla fase di trasporto, assicurata con autocarri ed autovetture di grossa cilindrata appositamente predisposte e condotte da cittadini europei. La contestuale commercializzazione di notevoli quantitativi di cocaina, sinora egemonizzata dai gruppi di matrice colombiana, ha poi fatto comprendere come anche questa sostanza venisse raffinata nei Balcani e, quindi, distribuita insieme all’eroina.
        Gli albanesi e gli slavi del Kosovo si sono, quindi, confermati i reali controllori della cosiddetta rotta balcanica, in diretto rapporto con le famiglie turche per il solo approvvigionamento, e gestori della fitta rete logistica localizzata in Bulgaria, Slovacchia, Ungheria, Grecia, ex Iugoslavia e, naturalmente, Albania. I frequenti arresti dei corrieri, operati nel corso delle indagini, hanno riscontrato la diversificazione delle località prescelte per lo stoccaggio dello stupefacente nonché il ricorso, per il trasporto, a mezzi diversi e a corrieri di nazionalità europea, senza mai interrompere un flusso di intensità crescente. In particolare, l’utilizzo di cittadini tedeschi per il trasporto dell’eroina, a bordo di autovetture di grossa cilindrata opportunamente preparate, ne aveva permesso l’introduzione di enormi quantitativi in quasi tutti i paesi dell’Europa occidentale e non solo in Italia.
        L’indagine ha fatto emergere anche la spiccata operatività degli stessi albanesi sul versante del traffico di armi, effettuato su vasta scala in funzione della rivolta del Kosovo (peraltro in gran parte finanziata con i proventi illeciti rastrellati sui mercati criminali italiani), nonché la progressiva acquisizione dei caratteri strutturali e del modello organizzativo tipici della mafia italiana, specie con riferimento al controllo del territorio, assicurato attraverso il sistematico ricorso alla violenza nei confronti dei gruppi antagonisti e degli stessi affiliati, sia per ottenere i pagamenti delle forniture agli acquirenti, sia per impedire invasioni dei mercati acquisiti.
        In tale quadro è pertanto evidente che il fenomeno dell’immigrazione clandestina, pur avendo originariamente costituito uno dei principali canali di penetrazione della criminalità estera nel territorio nazionale ed assolvendo ancora oggi una funzione di alimentazione, rappresenta soltanto un dato esteriore della minaccia, che è invece concretamente individuabile nel processo di costante "mafizzazione" della criminalità di matrice serbo-albanese che, sebbene non abbia ancora raggiunto l’autonomia necessaria ad egemonizzare stabilmente le attività illegali sul territorio, in prospettiva potrebbe incidere in maniera significativa sugli assetti criminali nazionali.
        In questo senso, l’allarme scaturito dalle più qualificate attività operative, soprattutto relative al narcotraffico e al traffico di armi, trova ampio ascolto in seno agli apparati di sicurezza, in funzione di un’azione informativa e repressiva espressa con continuità ed organicità, sia in ambito nazionale che sul fronte internazionale.
        Relativamente alle proiezioni internazionali della criminalità organizzata italiana nel campo del riciclaggio e del reimpiego dei proventi illeciti – è il secondo aspetto del mio intervento – la consolidata esperienza operativa del ROS consente alcune utili valutazioni, frutto peraltro di indagini recentemente concluse o ancora in atto, che hanno confermato come la dimensione transnazionale assunta dal traffico della droga abbia immediate applicazioni economico-finanziarie.
        Infatti, gli enormi proventi derivanti dal commercio degli stupefacenti, cui va aggiunto quanto indirettamente prodotto dalle economie esterne collegate al traffico, immessi nel circuito finanziario, sono oggi in grado di condizionare le scelte economiche di interi Stati e non sono certo irrilevanti anche per quelli europei, interessati soprattutto al consumo.
        La consapevolezza della fondamentale importanza, per un efficace contrasto al narcotraffico, di attività di indagine che permettessero di aggredire anche l’area del reimpiego del denaro ha quindi orientato le scelte investigative del ROS sin dagli inizi degli anni Novanta. Con le operazioni denominate "Cartagine", "Pilota", "Casablanca" e "Zama", fasi di un unico e coordinato progetto investigativo, si è cercato di portare l’azione di contrasto al narcotraffico ad un momento più avanzato: vale a dire il tentativo di incidere non solo sul fronte degli acquirenti italiani della cocaina ma, contestualmente, su quello dei fornitori dello stupefacente, per comprendere meglio i rapporti intercorrenti tra le varie componenti, i meccanismi di trasporto e distribuzione, i sistemi di pagamento e reimpiego di proventi illeciti.
        Grazie allo sfruttamento delle tecniche investigative previste dalla normativa antidroga e dalle speciali norme in materia di riciclaggio, sono stati inseriti nelle organizzazioni criminali ufficiali di polizia giudiziaria operanti sotto copertura e ciò ha consentito di osservarne dall’interno le dinamiche criminali e, soprattutto, di analizzarne le modalità attualmente ricorrenti per il riciclaggio ed il reimpiego dei proventi. I risultati conseguiti, oltre che riferiti all’aspetto repressivo, in termini di qualità ed ampiezza del patrimonio informativo acquisito sono stati di assoluto rilievo. La verificata compartecipazione ai vari filoni della distribuzione e smercio del narcotico di esponenti della criminalità mafiosa nazionale e straniera, cointeressati a commercializzare la sostanza, costituisce riprova del grado di moderna integrazione imprenditoriale raggiunto da queste articolazioni criminali.
        Ulteriore conferma del loro carattere imprenditoriale si ricava dell’analisi dei sistemi utilizzati per il pagamento dello stupefacente che, a fattor comune, sono strutturati in modo tale che il flusso di denaro, originato dalla vendita della cocaina, segua percorsi assolutamente distinti da quello legato al traffico, con sofisticati meccanismi di dissimulazione e di mimetizzazione. Questo aspetto ha consentito la nascita di figure professionali particolari che, completamente avulse da tutti gli aspetti legati al narcotraffico, si occupano esclusivamente di riciclarne i proventi.
        Le indagini, realizzate spesso congiuntamente alle forze di polizia di numerosi paesi esteri, hanno confermato il ruolo centrale della criminalità mafiosa italiana che, grazie anche alle sue propaggini radicate nel continente americano, ha nel tempo allacciato e progressivamente consolidato i rapporti con i cartelli dei produttori colombiani e messicani.
        Risale alla metà degli anni Settanta la nascita della cosiddetta "famiglia venezuelana" di cosa nostra, capeggiata dai noti Pasquale Cuntrera ed Alfonso Caruana ed operante al di fuori del contesto territoriale di origine – la provincia di Agrigento – nei settori del traffico degli stupefacenti e del riciclaggio del denaro, ma nello stesso tempo interfaccia delle più importanti famiglie della ’ndrangheta consorziate quali acquirenti.
        Sulle tracce dell’attuale capo clan, Alfonso Caruana, indagato per l’importazione in Italia di 12.000 chilogrammi di cocaina, dei quali circa la metà sequestrati nel 1994 a Borgaro Torinese (è tuttora il più importante sequestro operato in Europa), il ROS ha condotto l’operazione "Cartagine", ricostruendo il flusso di denaro originato dal traffico e facendo emergere l’impressionante spaccato legato ai relativi intrecci politico-affaristici. Mentre una parte del denaro, accantonata inizialmente in banche svizzere ed olandesi, si è dispersa in una miriade di conti correnti di banche del Nord e del Sud America, una parte consistente è stata reinvestita in Europa per l’acquisto di sofisticati aviogetti, ad opera di società panamensi risultate controllate dai cartelli della droga colombiani, che sono stati impiegati successivamente nel trasporto della cocaina tra la Colombia ed il Nord America.
        Ancor più sorprendenti sono state le risultanze dell’esame di alcuni conti correnti americani alimentati dal denaro originato dal pagamento della cocaina proveniente dalle banche europee. Infatti, diversi miliardi di lire sono confluiti nei conti di un discusso imprenditore brasiliano, Paulo Caesar Farias (ucciso nel 1996 in Brasile e legato all’ex presidente della Repubblica del paese sudamericano, Fernando Collor De Mello), accusato dai giudici del proprio paese di essere il promotore di un vasto e ramificato sistema di tangenti.
        Con l’operazione "Pilota" è stato invece vanificato l’intendimento dei produttori del narcotico riferibili alle famiglie colombiane di Calì, Medellin, Barranquilla e Perreira, di utilizzare i mezzi aerei della loro struttura logistica per introdurre grossi quantitativi di cocaina anche in Europa.
        La scelta dei colombiani, già presenti nel territorio europeo con propri esponenti collegati alla criminalità organizzata nazionale, era dettata dalla necessità di diversificare i metodi di invio del narcotico in conseguenza dei rovesci subiti nel trasporto marittimo.
        In questa circostanza il ROS, oltre al sequestro di oltre 1.000 chilogrammi di cocaina, ha seguito anche la fase del reimpiego dei proventi del traffico, individuando tutta la rete dei conti bancari utilizzati a Panama, negli USA e in Italia.
        Gli ufficiali di polizia giudiziaria infiltrati hanno così verificato che buona parte del denaro veniva utilizzata per l’acquisto di oro e preziosi in Italia, da parte di ditte colombiane operanti nel settore.
        Quest’ultima risultanza, in termini assolutamente convergenti, è stata ricavata anche dagli esiti dell’operazione "Casablanca" condotta congiuntamente ai Customs degli USA, e fonte di ripercussioni notevoli in alcuni paesi del Centro e del Sud America.
        In Venezuela, ad esempio, a seguito del sequestro di documentazione effettuato a Milano, il provato coinvolgimento dei vertici di alcune banche di rilievo nazionale nel riciclaggio ha determinato mutamenti politico-istituzionali.
        Il grimaldello utilizzato per pervenire a quella che il Segretario del Tesoro USA Robert E. Rubin ha definito il più grande ed esteso caso di riciclaggio di denaro nella storia della giustizia americana, è stato l’inserimento di ufficiali di polizia giudiziaria, operanti sotto copertura, nei più alti livelli del traffico internazionale di droga.
        In Italia, il ROS ha costituito veri e propri uffici finanziari che, su incarico della componente a ciò preposta per conto del cartello colombiano di Calì, nonché di quello messicano di Juarez, degli stessi Caruana-Cuntrera, hanno raccolto per due anni il denaro originato dal traffico della cocaina in Italia ed in Europa, convogliandolo, su indicazione dei trafficanti, su conti correnti italiani ed esteri.
        Una consistente parte del denaro, come già constatato nelle operazioni "Cartagine" e "Pilota", è rimasta in Europa ed è stata indirizzata all’acquisto, da parte di società colombiane operanti nello specifico settore, di consistenti partite di oro lavorato e di gioielli. La parte rimanente, convogliata nei paradisi fiscali caraibici, è stata invece sequestrata dalle autorità statunitensi.
        La centralità nel traffico mondiale degli stupefacenti e nel riciclaggio dell’aggregato criminale rappresentato dalle famiglie originarie di Siculiana (Agrigento) ha trovato definitiva consacrazione con gli esiti dell’operazione "Zama", condotta unitamente alle polizie canadese, svizzera, messicana, inglese, statunitense e venezuelana.
        La citazione della nazionalità e del numero delle forze di polizia giudiziaria coinvolte nell’indagine non è pleonastica, ma è significativa della dimensione mondiale raggiunta dal fenomeno legato al riciclaggio dei profitti derivanti dal traffico delle droghe.
        Nel caso dell’operazione "Zama" si è riusciti a superare le inevitabili difficoltà, derivanti dalle diverse procedure investigative e processuali vigenti nei vari paesi, solo grazie al rapporto di reciproca fiducia instaurato tra gli investigatori.
        È chiaro che per il futuro le speranze di successo di simili attività investigative nei confronti di organizzazioni criminali dalla spiccata vocazione internazionale dipendono dalla capacità di armonizzare le tecniche di indagine e le normative repressive.
        Contrariamente a quanto verificato negli anni Ottanta con l’inchiesta "Pizza connection", quando i Caruana-Cuntrera si erano direttamente impegnati nel reimpiego del denaro provento del traffico di droga, in questa circostanza l’organizzazione si è strutturata in modo da separare nettamente i due momenti del commercio del narcotico e del reimpiego dei proventi.
        Per quest’ultimo aspetto, la scelta è stata quella di affidare la raccolta del denaro in Europa ad insospettabili imprenditori che, oltre a curarne il trasferimento su conti correnti di banche statunitensi e messicane, per permettere la reiterazione dell’illecito commercio, hanno proceduto ad investire i rilevanti profitti nel settore immobiliare.
        Solo l’esame complessivo dei risultati in tutti i paesi interessati ha consentito di individuare in Venezuela gli immobili oggetto del riciclaggio e di fornire le prove del reato a quelle autorità che hanno recentemente proceduto ad uno dei più rilevanti sequestri di beni mai eseguiti al mondo nei confronti di un’organizzazione criminale di narcotrafficanti.
        Il 13 dicembre 1994, infatti, tra le altre cose, la struttura finanziaria dei Caruana-Cuntrera aveva acquistato, in una procedura di vendita all’asta presso la Corte di Prima Istanza Civile dello Stato del Bolivar (Venezuela), un terreno minerario dell’estensione di 400.000 ettari, del valore commerciale di 2.572.000.000 dollari USA (circa 4.000 miliardi di lire). L’appezzamento, grande quanto una regione italiana, è attraversato dal fiume Paraguay e contiene impressionati riserve di ferro, tungsteno, titanio, cesio, oltre che diamanti e oro.
        Questo sequestro, intervenuto poco prima dell’inizio dello sfruttamento minerario del terreno, apre ulteriori scenari con riferimento al fenomeno del riciclaggio ed impone nuovi interrogativi sulle capacità delle organizzazioni criminali nazionali che, duramente colpite in patria, hanno dimostrato la capacità di rigenerarsi altrove.
        Il millennio alle porte porterà quindi inevitabilmente alla necessità di confrontarsi con le sempre più estese connessioni tra chi, come le organizzazioni criminali, detiene ingenti risorse finanziarie, e chi, nel mondo economico, possiede le capacità per massimizzare i profitti.
        Un breve cenno mi sia infine consentito sulla necessità di aggiornare ed adeguare gli strumenti legislativi che pure hanno consentito, con grave rischio personale dei militari, queste attività di infiltrazione nelle organizzazioni criminali, per colpirle nei loro gangli più vitali e cioè in quelli economici.
        Gli istituti oggi applicabili, come sottolineato dai magistrati che su queste attività sono stati già chiamati a giudicare, non sono assolutamente idonei a consentire una profonda e prolungata penetrazione della polizia giudiziaria nelle organizzazioni criminali, in operazioni di ampio respiro, se non a rischio di esorbitare dalle scriminanti offerte dalla legislazione antidroga e da quella antiriciclaggio.
        A ciò si aggiunga che, malgrado una recente e innovativa sentenza della Corte suprema di Cassazione, intervenuta in relazione all’indagine "Pilota", abbia ampiamente legittimato l’operato dell’Arma dei carabinieri, non sempre la stessa sensibilità viene manifestata da tutti gli organismi preposti alla cooperazione internazionale nella materia, a fronte di fenomeni che, per dimensioni e interconnessioni internazionali, richiedono interventi non solo organici ed estesi, ma anche univocamente disciplinati e tutelati.
        L’auspicio è quindi che le iniziative di modifica, già da tempo intraprese, siano quanto prima recepite in un corpo legislativo moderno ed omogeneo, idoneo ad affrontare con efficacia la sfida di una criminalità organizzata transnazionale che, nelle nostre carenze, può trovare i suoi punti di forza. (Applausi).

        PRESIDENTE. Ringrazio il generale Palazzo per l’interessante panoramica e per le proposte operative suggerite. Prego ora il generale Lucio Macchia, comandante del Servizio centrale di investigazione sulla criminalità organizzata della Guardia di finanza, di svolgere il suo intervento sul tema: "Il riciclaggio del denaro sporco nella sua dimensione internazionale".

        MACCHIA Lucio, comandante dello SCICO. Autorità, signore e signori, a tutti i presenti vada il mio più cordiale saluto; alla Commissione parlamentare antimafia, al suo presidente, senatore Ottaviano Del Turco, e al capo della Polizia prefetto Fernando Masone un sincero ringraziamento per avermi invitato a partecipare a questo Convegno e soprattutto per avermi dato la possibilità di esporre alcuni punti di vista della Guardia di finanza in tema di lotta alla criminalità economica.

        I temi oggi in discussione sono di una straordinaria attualità e continuano a reclamare l’attenzione delle massime autorità nazionali ed internazionali. Indubbiamente, tra questi, il reato di riciclaggio costituisce la fattispecie criminale delittuosa più preoccupante, sia per le dimensioni e per le proiezioni internazionali del fenomeno, sia per le sue interconnessioni a livello interno che si verificano spessissimo con altri reati, quali ad esempio l’usura, sia anche per le difficoltà che quotidianamente si registrano nell’attività di contrasto. Quest’ultimo richiede l’intervento di diverse autorità che operano in settori diversi, ma soprattutto, oggi più che mai, richiede l’intervento degli intermediari bancari.
        Non sto qui a ripetere le cifre del fenomeno, però vorrei richiamare l’attenzione su una sola di esse, citata anche dal professor Spaventa: circa 300 miliardi di dollari vengono riciclati ogni anno su scala mondiale. Questo fa sì che le organizzazioni criminali si comportino come vere e proprie holding del crimine. Per brevità di tempo, evito di ripetere quelle tematiche che sono state affrontate anche oggi nel corso dei precedenti interventi e che sicuramente trovano ormai tutti concordi. Mi riferisco alla necessità di proseguire sulla strada dell’armonizzazione tra le legislazioni nazionali, cosa ormai ovvia; forse si dovrebbe seguire maggiormente un’attività premiale: spingere le varie nazioni a seguire queste convenzioni – non solo a firmarle ma anche a rispettarle –; realizzare un universo giuridico comune per non vanificare gli sforzi dei singoli Stati; sviluppare sempre più un’effettiva cooperazione internazionale non soltanto sul piano investigativo e giudiziario ma anche su quello amministrativo e soprattutto della prevenzione; approfondire l’analisi dei sistemi finanziari, soprattutto caratterizzati da rilevantissimi flussi monetari che poi si confondono fra loro. A questo proposito, il capitale sporco si confonde enormemente con i megatrends dell’economia mondiale, rappresentati dal mercato del dollaro, dalla speculazione finanziaria e dal commercio internazionale.
        Questi sono traguardi certamente ineludibili ma di difficile realizzazione pratica, almeno sino a quando continueranno a permanere delle nazioni sparse per il globo che costituiscono dei veri e propri "buchi neri" e che difficilmente possono essere "trapassati".
        A tale proposito, ben venga la convenzione – richiamata anche oggi dal Presidente del Senato, senatore Mancino – che è stata proposta in occasione del recentissimo Convegno svoltosi presso il Senato della Repubblica dal senatore Arlacchi. Tale convenzione si propone di creare uno standard di giustizia comune a tutti i paesi aderenti alle Nazioni Unite nella lotta al riciclaggio, al contrasto in genere della droga e a tutte le forme di criminalità che operano a livello internazionale. Questo è certamente un progetto ambizioso e meritorio che sarà portato all’approvazione dell’Assemblea generale dell’ONU entro il prossimo anno.
        Comunque, devo rispettare il contenuto del mio intervento, che riguarda il riciclaggio del denaro sporco nella sua dimensione internazionale. Di conseguenza, devo soffermarmi sulle principali linee di tendenza, in particolare su quelle più attuali a livello mondiale; consentitemi, però, anche di concludere, per dare un apporto di maggiore concretezza al mio intervento, con una problematica che concerne un vuoto normativo interno – per la verità avrei voluto citare due vuoti normativi, ma uno per brevità lo oblitero – che deve essere assolutamente colmato al più presto per non offrire ai sodalizi criminali la possibilità di riciclare ingenti capitali.
        Infatti, è noto che non si può fare la lotta alla criminalità organizzata a livello internazionale se prima ogni Stato non predispone al proprio interno gli strumenti più idonei a contrastare lo stesso riciclaggio.
        La caduta delle barriere che limitavano la libera circolazione dei capitali da un lato e l’introduzione di nuove tecnologie per il trasferimento dei fondi o l’esecuzione dei pagamenti dall’altro hanno agevolato all’interno delle organizzazioni criminali lo sviluppo di logiche di gestione di tipo economico basate su un’attenta pianificazione a livello mondiale dell’impiego di capitali, per molti versi non dissimile da quella attuata dalle ordinarie imprese che operano nel settore del lecito.
        Infatti, come un imprenditore legale ricerca la migliore allocazione delle sue risorse finanziarie, soprattutto per limitare il peso dell’imposizione fiscale, così il soggetto criminale, sulla base di un’analisi costi-benefici, programma l’impiego delle proprie risorse finanziarie, tenendo in considerazione le opportunità esistenti nel vasto panorama internazionale ormai facilmente percorribile, attesa la presenza dell’apertura dei cambi.
        Secondo la nostra esperienza operativa, le più recenti linee di tendenza sono rappresentate, da una parte, da una sempre maggiore diffusione del commercio elettronico, che aumenta notevolmente la possibilità di aggirare gli ordinari sistemi di controllo. A tale proposito va precisato che almeno per ora mancano delle stime precise per quanto riguarda le potenziali utilizzazioni; si possono fare solo valutazioni teoriche. Resta il fatto che se non verranno tempestivamente congegnati adeguati sistemi di controllo, le nuove tecnologie, già ben radicate, come le smart card e le bank on line, saranno facilmente utilizzabili per attività di riciclaggio.
        L’altra linea di tendenza di riciclaggio è quella tramite indebitamento, vale a dire la possibilità di finanziare nuove attività imprenditoriali mediante il ricorso all’indebitamento presso intermediari nazionali garantiti da soggetti che si trovano nei paradisi fiscali o "buchi neri". Da qui la necessità di focalizzare l’attenzione non solo sul movimento dei fondi, ma anche su quello di altri strumenti come, appunto, le garanzie. Mi riferisco, in particolar modo, all’utilizzo delle PBG’S o titoli simili. I capitali sporchi, in effetti, che sono soggetti, o meglio esposti, al rischio del monitoraggio non si muovono, restano fissi nel paese "paradiso fiscale", quel che invece si muove sono le garanzie. Come avviene? Si ricorre alle PBG’S quando una banca commerciale garantisce una linea di credito concessa da un’altra banca ad un imprenditore, un beneficiario, accollandosi il rischio di pagamento nel caso in cui il beneficiario in effetti non restituisca il prestito. Il titolo finanziario che ne viene fuori costituisce una specie di assegno circolare che può essere negoziato sul mercato, a condizioni che sono decise dalla domanda e dall’offerta.
        Ma c’è di più: la stessa Banca d’Italia continua a dire che queste transazioni di PBG’S avvengono in un segmento di mercato internazionale di capitali che non è regolamentato, pressoché in totale assenza di controlli, che sono resi oltremodo difficili dalla presenza di società che sono ubicate in paradisi fiscali.
        Siamo venuti a conoscenza di tali meccanismi perché lo SCICO ha condotto un’operazione che ha consentito di disvelare un giro di affari di circa 2000 miliardi di lire che erano stati movimentati dal noto clan Cannizzo-Santapaola.
        Comunque le PBG’S non sono l’unica novità nel settore dei grandi capitali illeciti. Nel giro degli intermediari pseudocriminali si parla oggi di investimenti nei cosiddetti prodotti derivati, nelle swap, nelle option che sono utilizzati per costituire fondi neri o per il lavaggio di denaro di provenienza illecita. Tutto ciò è agevolato dalla presenza di questi paesi off-shore che possono essere considerati come i forzieri delle organizzazioni criminali. In alcuni paesi è addirittura possibile costituire società anonime che svolgono attività finanziaria.
        È evidente dunque la difficoltà propria di questo tipo di accertamenti in ordine ai quali solo una concreta e concertata cooperazione internazionale potrà sortire effetti positivi.
        E vengo ora alla problematica di carattere interno, al vuoto normativo. Sono infatti convinto che il contrasto al riciclaggio a livello internazionale sarà produttivo di effetti se tutti gli Stati nel loro ambito fanno la propria parte per non lasciare spazio alla criminalità. Occorrono in sostanza fatti, non parole o meglio occorre che le parole – come è stato detto in un recente Convegno tenutosi presso la Confcommercio – siano riempite dai fatti.
        Come propugnava il giudice Falcone, l’esperienza italiana ci porta ad indicare che la strada per il contrasto al crimine organizzato deve avvenire sul versante economico e non solo su quello delle tradizionali tecniche di polizia. È facilmente intuibile come l’abolizione del segreto bancario (in Italia infatti, il segreto bancario, come è a tutti noto, non esiste più; io sento ancora parlare di segreto bancario quando ormai per la legge fiscale, per quella penale, per le varie leggi tese al contrasto della criminalità organizzata questo segreto – ripeto – non esiste più) abbia costituito una leva straordinaria, al di là dell’introduzione dell’obbligo delle cosiddette segnalazioni per le operazioni sospette.
        È appena il caso di rilevare, però, che per svolgere gli accertamenti bancari è necessario preliminarmente conoscere con quale istituto di credito la persona sottoposta ad indagini abbia o abbia avuto determinati rapporti di conto corrente o di deposito. È evidente che in mancanza di dati centralizzati il rilevamento debba avvenire su tutto il territorio nazionale. Vi faccio un solo esempio: una ricerca a tappeto comporta l’invio di una richiesta di informazioni a circa 1.300 istituti di credito e a circa 20.000 società finanziarie.
        Proprio per snellire questo tipo di indagini, nel 1991 il nostro legislatore, con la legge 30 dicembre 1991, ossia con il collegato alla finanziaria per l’anno 1992, aveva previsto all’articolo 20 la costituzione dell’archivio dei conti correnti e dei depositi. Per rendere operativo il sistema, occorreva che fosse emanato entro sessanta giorni un decreto attuativo del Ministro del tesoro, di concerto con il Ministro dell’interno e con il Ministro delle finanze, che doveva dettare le modalità attuative. Sono passati otto anni e questo decreto non ha mai visto la luce, sebbene la Guardia di finanza, nella persona del suo Comandante generale – da ultimo in un recentissimo Convegno per l’inaugurazione dell’anno di studi della Scuola di polizia tributaria, alla presenza del Capo dello Stato – ne avesse più volte sollecitata l’emanazione.
        Ma ancora più singolare è che il nostro legislatore continui a legiferare come se questo archivio fosse già esistente. Infatti, una legge del 1997, che ha modificato l’iter delle segnalazioni per le operazioni sospette, ha dato la possibilità all’Ufficio italiano dei cambi di utilizzare questo archivio quando in realtà esso non ha mai visto la luce.
        Quando il Ministro delle finanze alla fine dello scorso anno ha annunziato la sua promulgazione vi è stata soltanto una levata di scudi. Non voglio essere polemico, riporto quello che ho appreso dai mass media: chi ha parlato di controllo politico che avrebbe nascosto una stangata fiscale, chi di violazione della privacy economica delle famiglie italiane, chi ha ritenuto che fosse inquietante, chi inutile, chi inopportuno, chi restava persuaso che il Governo stesse realizzando un controllo incrociato sulla vita pubblica e privata dei cittadini. Nessuno, però, ha mai interpellato gli addetti ai lavori, che avrebbero chiaramente fatto comprendere che in effetti non si trattava di un allargamento delle indagini, né si aumentavano i poteri degli organi di controllo. Si dava soltanto la possibilità di svolgere delle indagini in modo molto più celere perché questo archivio è composto soltanto dall’indicazione di un nome, compreso il codice fiscale, e della banca con la quale ha avuto rapporti. Ovviamente poi le indagini bancarie verranno indirizzate nei confronti di quell’istituto di credito con il quale il soggetto ha avuto determinati rapporti.
        Nella mia esperienza di comandante dello SCICO, ho individuato, inoltre, un altro vuoto normativo e in questa sede reclamo che venga colmato: è una mancanza di coordinamento tra la legge fallimentare del 1930 e le misure di prevenzione, che risalgono ad anni recenti, che consente alle organizzazioni criminali di tornare in possesso delle imprese che sono state sequestrate attraverso il fallimento. Comunque, di questo ho già informato il Procuratore nazionale antimafia.
        Ho voluto sinteticamente accennare a questa tematica perché sono convinto che, al di là dei buoni propositi e delle buone intenzioni, contino i fatti. È inutile che a parole si sia tutti convinti quando poi i comportamenti dimostrano esattamente il contrario. Diceva oggi il dottor Cofferati che un paese si può considerare civile se al suo interno si realizzano i principi dell’efficienza, della legalità e della trasparenza. Occorre a mio avviso, in altre parole, optare per una società della chiarezza anziché per quella del segreto, non frapporre ostacoli al movimento dei capitali, non limitare la costituzione del risparmio ma è necessario che il movimento dei capitali lasci una traccia che sia univoca e facilmente accessibile agli organi di controllo. Chi è onesto non avrà nulla da temere: legalità, efficienza e trasparenza sono sinonimi di onestà, soprattutto mentale. Solo in tal modo, ritengo, potranno dissolversi certezze di impunità sulle quali hanno confidato, confidano e credo continueranno a confidare ancora pericolose organizzazioni criminali. (Applausi)
        
        PRESIDENTE. Ringrazio il generale Macchia per il suo intervento propositivo. Dalla sua relazione e da quelle che l’hanno preceduta si evidenzia a chiare lettere la necessità di una seria riflessione sulla operatività dei trattati di cooperazione e dei sistemi di controllo interni ai soggetti economici, in particolare pubblici, che è indispensabile concorrano, ciascuno nel proprio ambito, a quel circolo virtuoso utile a combattere la criminalità organizzata.
        Concludiamo questa sessione con gli interventi dei graditi ospiti stranieri. Prego il signor Vladimir Alferov, primo vice capo del Comitato investigativo russo, di prendere la parola per svolgere la sua relazione su: "L’espansione della criminalità russa verso l’Europa occidentale".

        ALFEROV Vladimir, primo vice capo del Comitato investigativo russo. Onorevole Presidente, signore e signori, innanzitutto ringrazio gli organizzatori per avermi invitato a partecipare alla discussione sui problemi che sono oggetto di studio del presente Convegno e saluto i partecipanti convenuti a discutere gli aspetti importanti dell’azione contro la criminalità transnazionale. Ovviamente per noi è difficile giudicare direttamente la penetrazione della criminalità organizzata russa nei paesi occidentali perché riceviamo normalmente queste informazioni da una serie di cause penali, e di altre informazioni operative veniamo a conoscenza grazie ai nostri colleghi occidentali. Sotto il profilo storico possiamo dire che i nostri gruppi sono ancora in fase embrionale. Tuttavia seguiamo queste loro azioni perché sono particolarmente pericolose per il processo politico e sociale di sviluppo della Russia. I risultati delle nostre ricerche consentono di evidenziare una serie di tendenze negli ambienti criminali russi. I gruppi criminali organizzati manifestano interesse non solo alle strutture criminali dei paesi europei ma anche ai soggetti economici che operano legalmente. Aumentano le dimensioni delle operazioni di esportazioni illegali, soprattutto di fonti energetiche e in particolare del petrolio, di materie prime strategiche che portano danni agli interessi russi, e in questo concorrono non solo le nostre organizzazioni nazionali ma anche i loro partner esteri. Notiamo che il rafforzamento della loro base si verifica anche grazie all’ampliamento dei loro contatti internazionali. In tutto il territorio russo sta crescendo l’attività delle formazioni criminali etniche che hanno i loro contatti non solo nei paesi esteri e nei paesi della ex Unione Sovietica e non solo nella sfera del narcobusiness, ma cresce la loro organizzazione ed interazione con le strutture analoghe all’estero (il contrabbando di armi e munizioni, la fuga dalle regioni dei conflitti armati) e spesso anche con gli obiettivi militari e con le fabbriche produttrici. Sempre più spesso le armi di produzione occidentale arrivano in Russia attraverso le vie del contrabbando. Insieme alla penetrazione di determinati gruppi criminali russi in Europa occidentale ha luogo anche il processo inverso, ovvero il rafforzamento delle organizzazioni mafiose straniere in territorio russo, sia nelle attività criminali tradizionali, sia nella sfera dell’economia legale. Questi gruppi stranieri innanzitutto lavorano con i loro omologhi russi nella vendita nei territori dell’ex Unione Sovietica di macchine rubate, di armi, droga, beni storici e culturali e usano il territorio russo per la migrazione illegale, la vendita di merce e di materie strategiche. In questo senso voglio sottolineare che la lotta a queste organizzazioni spesso non dipende dalla loro differenziazione, tenuto conto che nel territorio dell’ex Unione Sovietica esistono ora 15 Stati sovrani. Tutto questo ha radici non solo nazionali, ma anche internazionali. Lo smercio di metalli ferrosi, di droga, le importazioni illegali di armi, lo sviluppo del sistema bancario, la debole legislazione di lotta alla criminalità ovviamente sono fattori molto attraenti per la criminalità russa per penetrare nell’Europa occidentale. I nostri esperti ritengono che i traffici di origine criminale rappresentino dal 45 al 50 per cento del volume complessivo dei soldi russi portati all’estero. Questi soldi poi vengono utilizzati per il business legale: immobili, agenzie turistiche, eccetera. Fra gli indirizzi pericolosi nell’utilizzazione dei soldi di origine criminale vi è il loro reinvestimento attraverso l’accaparramento di azioni in società di lavorazione di beni strategici e militari: diamanti, petrolio, eccetera. Il risultato di ciò è che queste azioni possono poi tranquillamente soggiacere alle influenze delle strutture criminali sia russe che estere. Molti esperti ritengono che negli ultimi cinque anni dalla Russia verso i centri finanziari internazionali sono passati illegalmente circa 60 miliardi di dollari. Per far passare questi dollari vengono utilizzate persone fisiche che attraversano le frontiere, fino a complicatissimi schemi di operazioni finanziarie di import-export. A sua volta la Russia rappresenta una grande opportunità per il riciclaggio di denaro sporco da parte delle organizzazioni criminali internazionali.
        Su richiesta del Ministero della giustizia italiana, con una operazione dell’Interpol è stato trattenuto un cittadino americano che nel solo 1997 è riuscito a legalizzare nelle banche russe 10 miliardi di dollari circa. Negli ultimi cinque anni nella Federazione russa si registra un aumento del contrabbando di armi e munizioni. Gli specialisti ritengono che i conflitti armati in vari punti del globo sarebbero impossibili senza una rete internazionale di produttori e fornitori di armi. Qui un ruolo fondamentale viene svolto dalle strutture criminali e internazionali che si sono specializzate nel business di armi e che collaborano con le corrispettive strutture degli ambienti criminali russi.
        Un fenomeno relativamente nuovo è quello del trasferimento illegale attraverso il territorio russo di cittadini asiatici e africani verso i paesi dell’Europa centrale e orientale, con contraffazione di documenti. Tale trasporto non sarebbe possibile senza l’esistenza di determinate strutture e di contatti sia all’estero, sia all’interno della Russia. Un altro grave problema nazionale è quello dell’uscita, ovviamente illegale, di beni storici e culturali. Ci sono circa 40 gruppi di contrabbandieri in Europa occidentale che si sono specializzati proprio nell’esportazione di beni storici e culturali dalla Russia. Il volume di queste operazioni attualmente raggiunge oltre gli 8 miliardi di dollari all’anno e aumenta esponenzialmente. Occorre inoltre tener presente che i nostri colleghi occidentali riescono ad intercettare non più del 10 per cento degli oggetti portati fuori dalla Russia, ma persino in questi rari casi talvolta non funziona il meccanismo di restituzione dei beni e delle merci rubate. Ad esempio, 45 icone che sono state requisite nel settembre del 1994 nell’aeroporto romano di Fiumicino, identificate come merce rubata precedentemente in diverse regioni della Russia, al giorno d’oggi non possono ancora varcare il confine italiano e tornare in Russia ai proprietari legittimi. Noi riteniamo che la ragione di ciò consista nel fatto che simili casi non sono regolamentati tra i nostri Stati con un apposito accordo.
        Riteniamo che il problema dell’integrazione della criminalità russa ed estera nello svolgimento di operazioni illegali con le macchine vada sottolineato in modo particolare. Infatti gli studi mostrano che i gruppi criminali che si occupano appunto di operazioni illegali di traffico di automobili agiscono con i loro corrispondenti dei paesi baltici: Germania, Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia. Ci sono enormi investimenti con rischi minimi in questo campo e quindi è diventato molto attraente per le organizzazioni criminali organizzate ed una delle fonti principali delle loro rendite.
        Parlando di tendenze e previsioni circa il fenomeno della criminalità russa, riteniamo che il processo di integrazione degli organizzatori e dei leader delle strutture criminali che agiscono nelle sfere economiche criminali a breve termine continuerà con il consolidamento di questi raggruppamenti e può portare al controllo di interi comparti dei trasporti legati al business di grandi e piccole dimensioni. Occorre anche sottolineare la tendenza di questi leader criminali che hanno accumulato grossi capitali ad entrare in politica, quindi a comprare i vari funzionari, scegliere i deputati, e addirittura entrare direttamente negli organi di potere statali. Gli organi di pubblica sicurezza agiscono in maniera molto attiva e lottano contro questi gruppi; questo certo concorre alla creazione di una base legislativa di lotta alla criminalità.
        Due anni fa è entrato in vigore il nuovo codice penale della Federazione russa che per la prima volta ha stabilito una responsabilità penale per tutta una serie di attività tra cui, ad esempio, alcune azioni nella sfera economica, la legalizzazione di beni ottenuti illegalmente, informazioni ottenute dai computers, eccetera. Il Parlamento ha approvato anche una legge per la lotta contro il narcobusiness, traffico di armi, eccetera e per la lotta alla corruzione e la protezione dei testimoni e di altri soggetti nei processi; esiste anche un progetto di nuovo codice penale processuale, che riteniamo il mezzo principale di lotta alla criminalità. Questo progetto è adesso al vaglio di esperti dell’Unione Europea e crediamo che i consigli e le raccomandazioni del Consiglio Europeo potranno essere utilizzati dai nostri parlamentari per avvicinare le procedure di coinvolgimento alle responsabilità dei criminali. È stato anche organizzato un programma per quanto riguarda le società per azioni, per quanto riguarda l’estrazione dei minerali, per combattere i reati legati alla produzione illegale di alcolici, l’esportazione illegale di mezzi valutari e di altri beni fuori dal paese. Esiste poi un progetto anticorruzione ed il Ministero dell’interno della Russia, insieme alla procura generale, ha rafforzato il controllo e la reazione rispetto alle denuncie che vengono presentate. Il risultato è che l’anno scorso è stato possibile accertare i responsabili di almeno un milione e mezzo di reati: è un dato almeno del 10 per cento superiore a quello dell’anno precedente. Sono stati identificati i responsabili di reati particolarmente gravi come gli omicidi, eccetera.
        Per quanto riguarda il rafforzamento della lotta alla criminalità organizzata ed ai funzionari corrotti, ci piace molto quello che stanno facendo i paesi occidentali nella loro lotta contro le forme più pericolose di criminalità organizzata economicamente, innanzitutto contro le forme del riciclaggio di proventi derivanti da attività illegali, commercio di uomini, immigrazione clandestina e lotta alla droga. Purtroppo occorre registrare che spesso e volentieri questi criminali si organizzano molto più velocemente di quanto non si organizzino gli organi di contrasto alla lotta alla criminalità transnazionale. Fa piacere sottolineare che l’interazione degli organi di sicurezza tra la Russia e l’Europa occidentale si rafforza e si amplia continuamente. Vi sono molti esempi, come quello della collaborazione dei vari comitati russi con i corrispondenti organi della Svizzera, che ha permesso al nostro Stato di requisire vari beni che erano stati depositati a Zurigo (più di 2 milioni di franchi svizzeri). Con un’azione congiunta dell’Interpol e delle autorità della Svizzera è stato consegnato alla Russia un commerciante accusato di aver commesso reati valutari. Occorre tener presente che questa collaborazione si basa su una certa legislazione che riguarda l’interazione tra il Ministero della giustizia della Federazione russa ed il dipartimento della polizia della Confederazione elvetica, nonché su un memorandum di collaborazione. Se a questi documenti aggiungiamo i rapporti bilaterali tra il Ministero dell’interno della Russia con i Ministeri dell’interno dell’Austria, dell’Italia e della Francia, credo che con questo elenco abbiamo esaurito il novero degli accordi esistenti tra gli organi russi e i loro colleghi in Europa occidentale. Quando occorre, ad esempio, ottenere informazioni dall’Inghilterra, dalla Germania o dall’Olanda dobbiamo semplicemente basarci sui rapporti di cortesia internazionali e sui principi internazionali di lotta alla criminalità. Certo, in questo caso non si riesce sempre ad ottenere dei successi, come invece è accaduto l’anno scorso con l’Austria quando è stato riportato in Russia un cittadino russo capo di un raggruppamento criminale organizzato che aveva commesso reati valutari.
        Ritengo che questo nostro incontro debba portare i partecipanti a pensare che è necessario lottare e non ci si può basare solamente sulla buona volontà reciproca. Occorre organizzare una base interstatuale sicura; dobbiamo aiutarci reciprocamente, e sono già due anni e mezzo che noi invitiamo a questo. Purtroppo la ratifica dei vari documenti nel nostro Parlamento è andata per le lunghe, ma speriamo che avvenga nei prossimi mesi. Abbiamo questa speranza.
        A quel punto ci rivolgeremo ai nostri colleghi occidentali, basandoci su accordi multinazionali che siano stati sperimentati già da alcuni anni. Crediamo che la collaborazione nella lotta contro la criminalità internazionale debba basarsi sullo scambio di informazioni tra gli organi di sicurezza, riguardanti le persone facenti parte delle organizzazioni criminali, allo scopo di recidere le formazioni criminali transnazionali e di creare dei gruppi operativi temporanei nei vari Servizi dei singoli paesi, capaci di realizzare una documentazione congiunta ed una neutralizzazione di tali organizzazioni nella loro fase embrionale.
        Con la creazione di una base giuridica internazionale dei paesi coinvolti non si avrebbe, a quel punto, alcuna difficoltà nello svolgere le ricerche quando i capitali sporchi si trovano in altri paesi. Se le frontiere sono così facilmente aperte per i criminali, perché devono essere così difficilmente aperte per gli organi che li perseguono? La lotta alla criminalità transnazionale è possibile solo se vi partecipa tutta la comunità internazionale: non dobbiamo farci sfuggire nessuna possibilità.
        In base alla legislazione nazionale siamo intenti a rafforzare la lotta ai gruppi nazionali criminali, in strettissima collaborazione con gli organi competenti di tutti i paesi e, innanzitutto, con gli organi della Repubblica italiana.
        Vi ringrazio per l’attenzione. (Applausi).
        
        PRESIDENTE. Ringrazio il signor Alferov per il suo interessante intervento.
        Interverrà ora il dottor Storbeck, direttore dell’Unità Europol, che illustrerà il seguente tema: "Le contromisure predisposte dall’Europol contro la criminalità esterna all’Unione Europea".

        STORBECK Jürgen, direttore dell’Unità Europol. Vorrei innanzitutto ringraziare la Commissione parlamentare antimafia e la Polizia italiana per avermi invitato ad un Convegno così importante. Sono molto onorato di parteciparvi, perché l’Italia ha fornito il maggiore sostegno alla creazione dell’Europol rispetto a tanti altri paesi. Esprimo, quindi, tutta la mia gratitudine alle varie autorità italiane, al prefetto Monaco e al prefetto Masone presenti in sala, e a tutti gli altri organismi ed enti che hanno lavorato insieme a noi. Devo ammettere che è difficile parlare alla fine di un Convegno, dopo gli interessanti interventi di esperti italiani o di altri paesi, come l’esperto della Federazione russa. Pertanto, devo modificare leggermente il mio discorso, che comunque è strutturato nel seguente modo: innanzitutto, vi esporrò alcuni commenti sulla attuale situazione delle attività criminali nell’Unione Europea, visti dal punto di vista dell’Europol; in secondo luogo, menzionerò alcuni problemi incontrati dalle autorità preposte all’applicazione della legge e dalle forze di polizia dei vari paesi; in terzo luogo, descriverò l’impostazione dell’Europol per quanto riguarda l’Unione Europea. Non mi dilungherò molto sull’armonizzazione delle legislazioni, dal momento che se ne è già parlato. Pertanto, vorrei iniziare il mio intervento descrivendo innanzitutto la situazione dell’attività criminale in base ad alcuni commenti generali.
        L’Unione Europea ha un popolazione di circa 350 milioni di abitanti ed è un’area comune per l’economia, gli scambi e la vita sociale. Purtroppo, però, è anche un’area comune per le attività criminali, con circa 350 milioni di vittime potenziali. La criminalità organizzata si è sviluppata in Europa in modo allarmante. Durante gli ultimi decenni, infatti, le organizzazioni criminali a livello mondiale si sono espanse ed hanno dei budget probabilmente maggiori di alcuni dei minori Stati europei.
        Varie circostanze hanno portato alla crescita e ai cambiamenti della scena della criminalità organizzata nell’Unione Europea. L’apertura dei confini attraverso l’Europa, il grande aumento degli scambi e della mobilità sociale, il miglioramento dei sistemi di trasporto e delle comunicazioni (non parlo delle opportunità offerte da Internet e dai sistemi bancari elettronici, perché sono stati già menzionati) giocano un ruolo importante non solo nell’internazionalizzazione degli scambi e delle economie, ma anche e purtroppo nel campo della criminalità.
        Milioni di container, che arrivano – attraverso il confine di Rotterdam – in Europa, non possono essere controllati efficacemente e per questo motivo si deve lavorare insieme per poter superare questo problema e per rendere i nostri paesi meno attraenti per le attività delle organizzazioni criminali di Stati non facenti parte dell’Unione Europea, i quali possono contare su sistemi e tecniche sempre più sofisticati. I grandi profitti generati illecitamente da tali organizzazioni permettono, addirittura, di acquisire e controllare varie aziende e di avere influenza anche sulla pubblica amministrazione.
        Tre sono le caratteristiche generali delle organizzazioni criminali esterne all’Unione Europea. La prima caratteristica è che questi gruppi criminali, di solito, si concentrano in punti nei quali sono presenti comunità della stessa nazionalità. Spesso portano avanti la propria attività all’interno di tali comunità, per cui alcune aree dell’Unione Europea sono state e continuano ad essere particolarmente vulnerabili alla loro diffusione (ad esempio, troviamo la criminalità organizzata russa nella ex Germania dell’Est, le triadi cinesi nel Regno Unito e in Olanda e via dicendo).
        La seconda caratteristica è la violenza di alcune organizzazioni criminali asiatiche, sudamericane o dell’Europa orientale (ricordo che ad Amburgo vi sono stati degli scontri particolarmente violenti). Purtroppo questa seconda caratteristica ha portato ad una proliferazione degli omicidi; non siamo abituati a questo tipo di violenza così efferata e, quindi, siamo molto preoccupati.
        La terza caratteristica è la creazione di monopoli da parte di gruppi criminali che non cooperano con la criminalità locale. Ciò rende le operazioni di polizia e la raccolta di informazioni ancora più difficili (pensiamo ai gruppi cinesi nel Regno Unito o nei Paesi Bassi). Quindi, i metodi di polizia tradizionali sono diventati, in pratica, inefficienti.
        Il traffico di droga è ancora l’attività principale della criminalità organizzata esterna all’Unione Europea ed è probabile che non perda questa forza. Continuiamo a prevedere ulteriori aumenti nella quantità e nella frequenza delle operazioni di traffico di droga – ciò è particolarmente vero per alcuni tipi di droga, come quelle sintetiche – e nelle coltivazioni di droga nelle grandi aree produttive del mondo.
        Il traffico di esseri umani e l’immigrazione illegale sono le altre attività criminali che pongono in essere questi gruppi, attività che richiedono un’azione sempre più concertata. La violenza (in essa sono compresi i rapimenti) e la minaccia di violenza fanno sempre parte dell’attività criminale. Nei vari Stati membri dell’Unione Europea sono state preparate forme di partecipazione e di collaborazione criminale: talvolta, dei cittadini iugoslavi, albanesi, russi o ceceni sono stati assunti da criminali locali o da gruppi turchi per portare avanti le loro attività violente. A volte alcune aziende vengono utilizzate come società di copertura per attività illegali (le organizzazioni criminali gestiscono aziende nel campo dei trasporti, nell’industria sessuale e nella ristorazione; costituiscono società di import-export e tutto questo, naturalmente, facilita le loro attività criminali). Un numero crescente di società nell’Unione Europea è sospettato di aver legami con la criminalità organizzata dell’Europa orientale (ad esempio, sotto forma di società di copertura per il riciclaggio di proventi di attività criminali dell’Europa dell’est). Questo è il quadro attuale – non sono sceso nei dettagli – dell’attività criminale.
        A questo punto vorrei menzionare quali sono i problemi delle forze di polizia. Continuiamo a combattere il crimine in modo tradizionale e ciò significa che tendiamo a reagire dopo l’evento, ad agire cioè dopo che un certo reato è stato commesso. Tuttavia, per poter combattere la criminalità organizzata che proviene dall’esterno dell’Unione Europea attraverso i suoi metodi sofisticati, dobbiamo adottare una impostazione progressiva più attiva e dobbiamo anche migliorare i nostri sistemi di scambio di informazioni. Dobbiamo essere in grado di prevedere i modelli futuri e le future evoluzioni della criminalità organizzata, in modo da poter adottare delle misure strategiche.
        Devo dire, purtroppo, che non esiste una consapevolezza sufficiente su questo tipo di criminalità, sulla sua scala o sulle minacce che essa pone, e quindi si ha un numero insufficiente di modelli di prevenzione. Le informazioni sulla criminalità organizzata, disponibili alla polizia, alle autorità di dogana e via dicendo, vengono raccolte ed analizzate a livello nazionale soltanto in un esiguo numero di Stati europei. La polizia italiana e la DIA costituiscono delle eccezioni alla situazione globale, dal momento che i Servizi italiani fanno sempre maggiore uso del lavoro di raccolta e di studio delle informazioni. A livello internazionale non esistono istituzioni che riescano ad effettuare una raccolta efficace di informazioni che possa aiutare a combattere la criminalità organizzata.
        Devo aggiungere che le indagini sulla criminalità organizzata sono sempre sottoposte a procedure burocratiche che rallentano il lavoro. Inoltre, lavorando in lingue diverse, spesso la traduzione può ritardare ulteriormente questo lavoro. Una risposta ad una richiesta di informazioni richiede giorni di lavoro e, talvolta, addirittura settimane; se riguarda poi, ad esempio, informazioni su conti bancari, possono essere addirittura necessari mesi e talvolta più anni. Abbiamo, quindi, bisogno di indagini internazionali congiunte.
        I metodi di polizia di ricerca tradizionale si concentrano soltanto sui reati commessi in aree ristrette (ad esempio a Monaco, a Milano e a Bordeaux), cioè nelle aree di competenza delle autorità di polizia locale. Questo tipo di approccio normalmente fallisce quando è applicato ad operazioni o ad indagini internazionali riguardanti organizzazioni criminali internazionali (non possiamo lottare contro la criminalità organizzata combattendo soltanto a livello locale).
        Per quanto riguarda l’Europol, devo dire che la sua creazione rappresenta una chiave di volta nella storia degli sforzi diretti a rafforzare la cooperazione in un’Europa senza frontiere. Dal 1º ottobre 1998 è in vigore la Convenzione Europol. A seconda dei tempi nei quali gli Stati membri aderiranno alla Convenzione o procederanno alla ratifica del protocollo, l’Europol inizierà a svolgere la sua attività. L’Italia è uno dei paesi che non ha ancora ratificato uno degli importanti protocolli e, quindi, vi sollecito a farlo nell’interesse della lotta alla criminalità organizzata ed anche nell’interesse dei diritti umani. Pertanto, vi invito a procedere alla ratifica.
        Comunque, abbiamo iniziato la nostra attività nel 1994, cioè cinque anni fa, lavorando sulla base di un quadro giuridico provvisorio. Abbiamo già raccolto un certo numero di esperienze e abbiamo anche riscosso successi nella lotta contro la criminalità organizzata.
        L’Europol ha fra le proprie competenze la lotta contro la criminalità legata alla droga, al traffico di sostanze nucleari e radioattive, all’immigrazione clandestina, al traffico di esseri umani soprattutto per quanto riguarda lo sfruttamento sessuale, al traffico di veicoli rubati, alle attività associate al riciclaggio del denaro e dall’estate del 1999 in poi, cioè dopo la ratifica dei protocolli, combatterà anche contro la pornografia infantile, il terrorismo e la contraffazione di denaro e di altri metodi di pagamento, nonché la contraffazione di valuta, che sarà una dei nostri compiti futuri, considerando anche l’introduzione dell’Euro. Le nostre competenze saranno quindi estese alle varie forme di criminalità organizzata che sono menzionate nella nostra Convenzione.
        L’Europol è un ente europeo di polizia ed ha anche le competenze di autorità doganali e di altri tipi di autorità circa l’applicazione della legge; penso, ad esempio, alla Gendarmerie o all’Arma dei carabinieri o alla Guardia di finanza.
        L’Europol sostiene gli Stati membri nelle loro attività di polizia senza però poter contare su poteri esecutivi propri. Infatti, non abbiamo la competenza e la possibilità di eseguire una perquisizione o di effettuare un arresto in Austria o in Italia. Quindi, le capacità di azione nel campo delle indagini penali sono piuttosto limitate, però l’Europol si prefigge in futuro di aumentare le proprie competenze.
        Abbiamo cercato di ampliare i nostri campi e le nostre tecniche, di adottare metodi sempre più aggiornati in modo da poter soddisfare le necessità delle polizie che si occupano della lotta contro la criminalità organizzata a livello mondiale. Ci troviamo naturalmente in una fase di espansione; stiamo cercando di orientarci verso un tipo di lavoro personalizzato e quindi ogni futura azione dovrà essere coordinata con le autorità centrali degli Stati membri.
        Sulla base di quest’analisi noi offriamo determinati servizi: innanzi tutto la raccolta di informazioni e il coordinamento delle indagini. Per un’efficace lotta contro la criminalità organizzata le autorità investigative nazionali hanno bisogno di informazioni su persone sospettate, su aziende e banche, su oggetti e modi operandi e così via nel giro di poche ore o giorni e non certamente di mesi o di anni.
        L’Europol fornisce dati che vengono dai servizi informatici, dalle polizie di frontiera, dalla gendarmeria, dalle autorità doganali e, più limitatamente, anche da parte delle autorità amministrative degli Stati membri, di paesi terzi, di organizzazioni internazionali e di altre fonti. Degli oltre 190 membri dello staff dell’Europol provenienti dai 15 Stati membri, 45 sono funzionari di collegamento di polizia di frontiera, polizia doganale, e così via. In Italia vi è la Polizia di Stato, la Guardia di finanza e l’Arma dei carabinieri. I funzionari di collegamento che lavorano con l’Europol hanno accesso diretto ad una serie di sistemi informativi nazionali a disposizione della polizia per l’applicazione della legge. Possono avere accesso a 40 sistemi informativi della polizia e delle dogane e anche ai file amministrativi ed elettronici, agli archivi, eccetera. Naturalmente questi file facilitano la ricerca e possono fornire dati su persone o su gruppi sospettati di reato e possono fornire indirizzi, numeri di telefono e notizie di vario genere. Alcune di queste informazioni sono chiamate soft information, sono cioè informazioni che non sono state corroborate da prove.
        Dal nostro quartiere generale che è a L’Aia cerchiamo di coordinare questi lavori a livello internazionale. Inoltre, i nostri funzionari di collegamento possono anche invitare i propri paesi a portare avanti indagini di polizia, ad esempio a condurre maggiori investigazioni su sospettati sulla base delle varie richieste, o anche possono analizzare e preparare dati per lo scambio di informazioni nell’ambito di indagini nazionali. Le informazioni ricevute dagli Stati membri sono di solito analizzate dai nostri funzionari attraverso ricerche sui sistemi informativi elettronici degli Stati membri prima che vengano sottoposte a scambi. Quindi, ciò che noi forniamo quando riceviamo richieste di informazioni sul modus operandi o sull’attività di un gruppo criminale concerne un quadro complessivo e non una singola informazione. Inoltre, il nostro servizio è attivo 24 ore su 24, collaboriamo con i servizi nazionali nelle 11 lingue di lavoro dell’Unione Europea e possiamo essere raggiunti per via elettronica così come per via tradizionale.
        Sulla base dello scambio di informazioni fra gli Stati membri e attraverso l’Europol le polizie dei vari Stati possono iniziare indagini contro un certo gruppo criminale. Le indagini in atto in diversi Stati, ad esempio la ricerca di un’attività di una organizzazione criminale, possono essere integrate da altre informazioni e aiutate dal coordinamento che viene effettuato dai nostri funzionari di collegamento Europol.
        In questo senso l’Europol fornisce un sostegno nell’effettuare operazioni di polizia transfrontaliere, cioè di carattere internazionale, come ad esempio quelle di controllo di spedizioni di merci illegali. Nel 1998 l’Europol ha dato il proprio contributo a indagini contro criminali internazionali e contro organizzazioni criminali. Nello stesso anno l’Europol ha coordinato il controllo su oltre 40 spedizioni di droga e di altre merci illegali che sono transitate attraverso due o tre Stati ed ha fornito assistenza nell’ambito di altre indagini anche in Italia, il che ha portato all’arresto di molte persone, non soltanto cittadini dell’Unione Europea ma anche di altri paesi quali la Slovacchia, la Bulgaria e la Romania. In totale abbiamo dato il nostro sostegno a 2.300 indagini contro gruppi criminali.
        Un altro nostro compito è la raccolta e l’analisi di informazioni. A tale riguardo l’Europol usa moderni sistemi per mettere allo scoperto le attività, le strutture e i procedimenti utilizzati da gruppi criminali internazionali. I risultati di queste analisi vengono trattati in modo tale che le indagini riescono spesso a raggiungere una conclusione soddisfacente. Nel campo strategico l’Europol descrive il fenomeno della criminalità organizzata con tutte le sue tendenze, i suoi modi operandi, le sue caratteristiche, e fornisce anche suggerimenti per combattere tali attività. Noi utilizziamo anche analisi strategiche, espletiamo delle indagini congiunte insieme agli Stati membri e ciò viene effettuato in tre diverse fasi.
        Nella prima fase prepariamo un’analisi generale che riguarda le minacce poste da un certo tipo di criminalità: ad esempio quella legata alla droga. Nella fase successiva analizziamo una parte assai pericolosa di questa minaccia: ad esempio la distribuzione di droga sintetica. Nella terza fase cerchiamo di portare l’attenzione sulle maggiori organizzazioni criminali, sul loro tipo di business e sul loro modus operandi.
        In seguito, sulla base di questi dati invitiamo le autorità dei vari paesi a condurre indagini parallele. Dall’inizio di quest’anno abbiamo messo in atto un sistema di analisi e il nuovo sistema informativo dell’Europol sarà disponibile tra circa due anni.
        Inoltre, abbiamo cercato di sviluppare nuovi metodi e nuove tecnologie. Stiamo partecipando alla ricerca su un sistema analitico multilaterale che possa analizzare testi non soltanto nelle lingue degli Stati membri ma, ad esempio, anche in arabo, in russo o in cinese. Questo è un lavoro di ricerca che viene condotto nel nostro quartier generale e che è volto ad aiutare le forze di polizia di vari Stati.
        Abbiamo questa specializzazione che ci permette anche di inviare esperti nei vari paesi per prestare aiuto in loco (a volte c’è bisogno di esperti specializzati nel risolvere problemi legati, ad esempio, ad attività terroristiche del PKK, quindi soggetti che si occupano di campi molto specifici) e tutto ciò ci consente di contribuire alla lotta contro la criminalità organizzata internazionale e in particolare alla criminalità che proviene dall’esterno dell’Unione Europea.
        Qual è il futuro dell’Europol? Il Trattato di Amsterdam ha portato delle idee nuove ed ha stabilito che noi dobbiamo assistere le autorità degli altri paesi nelle loro indagini. Tra breve saremo in grado di inviare i nostri esperti in loco anche per periodi piuttosto lunghi per sostenere gli Stati membri nelle loro indagini. Inoltre, contribuiamo al coordinamento delle indagini tra i vari paesi e abbiamo deciso di costituire delle squadre, delle specie di task force che collaboreranno con le autorità dei vari Stati membri per combattere contro gruppi particolari (nigeriani, albanesi e così via), in modo che queste squadre possano lavorare insieme per anni e portare avanti delle indagini che siano condotte non soltanto dalle autorità nazionali ma anche in sinergia con le agenzie e le autorità di altri paesi, affinché i risultati e gli sforzi possano essere comuni e quindi più efficaci.
        Non siamo una specie di FBI europea, bensì un’unità di sostegno, un ente che coordina gli sforzi, che aiuta gli Stati membri ad ottenere tutte le informazioni di cui hanno bisogno per condurre le proprie indagini.
        Per quanto riguarda la criminalità esterna all’Unione Europea, si tratta di una preoccupazione per gli Stati membri, per l’Europa intera e per il mondo. La storia ci ha insegnato che una politica forte e coerente può funzionare quando vi sono risorse comuni, quando ci concentriamo veramente sulla distruzione delle strutture di controllo e di comando delle organizzazioni criminali, eliminando il clima di corruzione e di intimidazione che permette a queste organizzazioni di prosperare.
        Uno sforzo di polizia volto all’applicazione della legge nei confronti delle strutture di controllo e di comando di tali gruppi criminali può neutralizzare la loro capacità di commettere reati. Nei prossimi decenni sarà importante che le nazioni assumano un impegno veramente notevole per mettere in comune tutti gli strumenti disponibili per combattere le organizzazioni criminali internazionali. È inoltre importante che noi possiamo contare su una flessibilità e su risorse sufficienti. Dovremo utilizzare tutte le tecnologie e tutti gli strumenti a nostra disposizione per far fronte a tale sfida. Ringrazio i presenti per l’attenzione. (Applausi).

        PRESIDENTE. Con l’intervento del dottor Storbeck si conclude il primo giorno di questo Convegno. Ringrazio tutti i presenti e vi do appuntamento a domani mattina.
        I lavori terminano alle ore 20.

 

Grafico N. 1

REGIONE PUGLIA

CANNABIS SEQUESTRATA

 

1998 1997 1996 1995 1994

 

18.222 18.441 3.861 68 238
CHILOGRAMMI PER ANNO

Fonte: Ministero dell’Interno. Direzione Centrale per i Servizi Antidroga.


Grafico N. 2

REGIONE PUGLIA

EROINA SEQUESTRATA

 

1998 1997 1996 1995 1994
108,089 18,878 85,835 32,242 25,592
CHILOGRAMMI PER ANNO

Fonte: Ministero dell’Interno. Direzione Centrale per i Servizi Antidroga.


Grafico N. 3

I T A L I A

GUARDIA COSTIERA

Consuntivo dell’attività antimmigrazione clandestina
intercettazione in mare

 

1998 1997 1996 1995 1994 1993 1992
6.620 5.464 1.655 872 1.602 218 37

NUMERO DI PERSONE FERMATE