Presidenza del deputato Argia ALBANESE,
componente della Commissione parlamentare antimafia

        GRASSO Gaetano, consulente della Commissione parlamentare antimafia. Se ci si attesta su una definizione della mafia che non consideri solo gli aspetti criminali, ma anche quelli culturali, sarà insufficiente una iniziativa di contrasto di tipo giudiziario-repressivo, svolta solo dai soggetti istituzionali. Si può avere un risultato duraturo solo se l’iniziativa dello Stato si incontra con quella della società civile, dei soggetti non istituzionali. Se la mafia è "criminalità più omertà", l’antimafia non può che essere "Stato più coscienza". Si tratta di un decisivo problema strategico. Come si contesta alla mafia il controllo del territorio? È sufficiente garantire una adeguata presenza militare per considerare riconquistato dalla comunità civile un quartiere? L’esperienza purtroppo ci offre continui esempi di come ciò non basti. È di qualche mese addietro, ad esempio, la notizia dei commercianti palermitani che andavano loro alla ricerca del referente mafioso col quale concordare il pagamento del pizzo senza aver ricevuto alcuna esplicita richiesta. Se si pone un poliziotto davanti ad ogni negozio, l’unico probabile effetto sarà quello di scoraggiare l’accesso di clienti, con rilevante danno economico per il commerciante che, chiusa bottega, andrebbe a casa dell’estortore a consegnare la somma concordata; né si può ritenere che basti l’arresto di un numero più o meno elevato di mafiosi per considerare liberato un territorio. Anche in questo caso l’esperienza ha dimostrato come ad un mafioso in galera si sostituisca presto un nuovo criminale nella gestione di quell’interesse secondo un meccanismo da industria "fordista".
        Non si vuole qui alimentare una visione fatalistica che conduca a considerare invincibile la mafia. Più concretamente, si intende richiamare l’attenzione sulla necessità di una risposta assolutamente radicale che, oltre agli uomini, consideri gli "interessi" della mafia. Come aggredire gli interessi mafiosi? Ciò può avvenire se si riesce a spezzare quella condizione di omertà che rappresenta l’ossigeno vitale per il potere della mafia. Semplicemente, se i commercianti non pagano il pizzo verrà meno la stessa attività estorsiva e si otterrà un risultato a cui nessuna attività giudiziaria potrà giungere.
        Per corroborare questa affermazione, farò riferimento ad una concreta esperienza della società civile nel campo dell’associazionismo antimafioso che con costanza si è sviluppato a partire dall’inizio di questo decennio: l’associazionismo antiracket. L’associazione antiracket può, a ragione, essere considerata un modello della reazione antimafia della società civile. In primo luogo è la risposta più efficace contro il racket perché garantisce condizioni di sicurezza. Un tempo chi si ribellava era esposto ad altissimo rischio, adesso con una denunzia collettiva nessuna rappresaglia colpisce chi va ad esporsi nelle aule del tribunale.
        In secondo luogo non si tratta di iniziative effimere nate sull’onda dell’emotività; le associazioni hanno garantito una significativa durata e il fatto che il loro numero lentamente, ma costantemente, anche nell’indifferenza generale, cresca ogni anno, è la conferma della qualità di uno speciale legame che si instaura fra gli associati. Ma soprattutto, in maniera estremamente concreta, colpendo direttamente al cuore gli interessi e il potere mafioso, attraverso lo strumento dell’associazione antiracket si contesta a Cosa nostra il dominio sul territorio, restituendone la sovranità alla comunità civile.
        Credo sia chiaro che non vi può essere alcun contrasto a fenomeni di criminalità economica quali il racket senza un’assunzione diretta e personale, anche se in forme collettive, degli imprenditori. Ad essi nessuno può sostituirsi; si possono, anzi si devono offrire aiuti, riferimenti, sponde, ma senza perpetuare illusori meccanismi di delega. Ad esempio, il ruolo di un sindaco deve essere quello di promuovere la crescita di realtà associative antiracket, non quello di sostituirsi alle vittime dell’estorsione nella denuncia all’autorità giudiziaria.
        Ma perché questa realtà del movimento antiracket non riesce a diventare una esperienza di massa? Perché nonostante l’efficacia del modello continuano a essere una ristretta avanguardia gli imprenditori che denunciano? In questa sede eviterò considerazioni dirette sull’impegno istituzionale, preferendo cercare una risposta nell’ambito delle responsabilità della società civile. Non è solo la paura di una rappresaglia ad ostacolare le denunce delle vittime di estorsione; c’è qualcosa di più complesso e di più inquietante. L’imprenditore, che pur avverte come un’ingiustizia l’imposizione del pizzo, sente allo stesso tempo i propri interessi individuali legati al blocco di interessi riconducibili alla mafia e sente che la propria sopravvivenza economica, con le limitazioni imposte dalla mafia, è connessa al destino degli stessi interessi mafiosi, ben restando distinte dalla stessa identità mafiosa. Qual è l’elemento fondativo di questo atteggiamento? L’omertà non è altro che una forma del sentire mafioso. Leonardo Sciascia in un articolo per "l’Espresso" del marzo 1986 tentò di individuare l’origine di tale sentire con le seguenti parole: "è il non voler giudicare uomini da cui si crede di non aver ricevuto alcun danno". Un danno? Mi permetto di dire che il problema, al contrario, sono i benefici che una parte significativa di popolazione ha ricevuto e riceve dalla mafia; una parte di risorse accumulate da Cosa nostra con i traffici illeciti finisce per distribuirsi, al di là della ricchezza dei singoli uomini d’onore, e giunge anche a persone che non hanno niente a che vedere direttamente con la mafia; si tratta di risorse che confluiscono nei consumi, negli investimenti, negli stessi servizi. Le strade sono insanguinate? C’è anche una possibilità di sopravvivenza e forse anche di benessere.
        Se il bottegaio di Palermo o di Napoli denunciasse gli estortori che gli impongono una ingiusta tassazione rischierebbe di indebolire un sistema di relazioni economiche. Se venisse meno tale equilibrio, quale sarebbe l’alternativa? Qui risiede il tema della concorrenzialità dello Stato e della comunità civile rispetto al blocco degli interessi mafiosi. Così si spiega la ragione per cui in un momento in cui, di fronte ad una inedita e straordinaria risposta antimafia delle istituzioni in questi ultimi anni, in realtà come Palermo, come Napoli, sono state del tutto insignificanti le reazioni degli operatori economici.
        L’omertà non è riconducibile solo ad un elemento di intimidazione (che pure non deve essere sottovalutato) del tipo: non collaboro con la giustizia perché ho paura di una possibile rappresaglia. La forza della mafia risiede anche altrove, né vale molto l’obiezione che la mafia ostacola qualunque possibilità di sviluppo. Questo argomento è decisivo per noi osservatori esterni alle dinamiche economiche, ma non per chi è attivo sul mercato e ha già definito livelli di coesistenza con la mafia, oppure vale per chi si accinge a investire e viene scoraggiato dalla reputazione mafiosa di quel territorio.
        Tra chi si oppone alla mafia e tra chi offre un sostegno diffuso vi è la terza strada della neutralità, di chi non è con la mafia e non è con lo Stato. Quest’area, dal punto di vista culturale, per larga parte si sovrappone, anche se non coincide del tutto, con l’area culturale mafiosa. Alla conquista di quest’area deve mirare una strategia dell’antimafia, per legare l’interesse e la cultura di questa parte a un nuovo blocco sociale antimafioso per lo sviluppo. E la politica: quale deve essere il ruolo che essa deve svolgere nel promuovere, sollecitare, garantire le iniziative della società civile?
        Se l’antimafia deve essere "Stato più società civile" una coerente strategia deve assicurarsi l’attivazione di entrambi i soggetti. È evidente che la responsabilità appartiene a chi, per definizione, si è assunto un onere maggiore sottoponendosi alla verifica elettorale. È pur vero che le più significative esperienze della società civile sono state quelle che hanno avuto autonoma e spontanea nascita. Non ci si può però sottrarre al fatto che queste realtà, quando è lontano il momento del loro esplodere spontaneo (pensiamo, ad esempio, agli anni ’91-’92) come in questa fase, devono essere sollecitate. La politica non deve considerare la dialettica con la società civile nei termini di Davide contro Golia, ma in quelli di Golia che coopera con Davide; ovviamente ciò non vale per tutta la politica, ma vale per quella che considera la società civile come una straordinaria risorsa della democrazia da valorizzare, perché – e veniamo alla condizione di oggi – se si parla di "crisi dell’antimafia della società civile" si presenta un problema che deve appartenere a tutti i soggetti della democrazia. Il problema della debolezza della fionda di Davide non può essere solo un problema di Davide in una prospettiva di cooperazione; è anche un problema di Golia che quella fionda si scagli efficacemente contro il nemico comune. Oggi, sul terreno dell’impegno antimafia, per la prima volta settori decisivi delle istituzioni, a partire dalla magistratura, si trovano più avanti di settori della società civile. Valga per tutti l’esempio di Palermo e Napoli e l’attività assolutamente defilata del mondo imprenditoriale. La rottura in negativo oggi riguarda le coscienze. Gli stessi limiti dell’azione istituzionale sono allo stesso tempo causa ed effetto di questa realtà. Questa debolezza è di tutti noi e la soluzione è problema assolutamente generale.
        L’aspetto più curioso ed incomprensibile dell’esperienza del movimento antiracket, ad esempio, è che sia mancata in questi anni un’iniziativa istituzionale in grado di investire su questa realtà come modello efficace di contrasto al fenomeno estorsivo, per valorizzarla ed indicarla come un esempio da seguire ai tanti imprenditori vittime del racket.
        Al di là di tutte le discussioni, questa esperienza indica però una strada obbligata per liberare veramente i territori del nostro Paese dal controllo delle mafie: ossia "Stato più società civile" (Applausi).

        PRESIDENTE. Ringrazio il dottor Grasso per la sua relazione. Egli ci ha offerto interessanti spunti di riflessione, che sicuramente saranno utili al prosieguo dei nostri lavori.  Con l’intervento del dottor Grasso termina questa sessione del Convegno in cui, attraverso le varie relazioni, è stato approfondito il tema del disagio sociale e dello sviluppo della criminalità; i nostri lavori procedono ora con la successiva sessione, concernente il tema: "Le risorse sociali nella lotta alle devianze nelle aree metropolitane" volta a individuare le risposte che a tale disagio sociale è possibile fornire.
        Il primo oratore di questa sessione è l’onorevole Rosario Olivo, componente della Commissione parlamentare antimafia, responsabile del Comitato, istituito in seno alla Commissione stessa, per il controllo delle attività verso il mondo della scuola, del volontariato e degli enti locali.
        L’onorevole Olivo tratterà, secondo la definizione del dottor D’Antoni, il tema delle infrastrutture immateriali: forse proprio quelle oggetto dell’intervento dell’onorevole Olivo sono infatti le tre più grandi infrastrutture immateriali per la lotta alla criminalità.

        OLIVO Rosario, deputato, componente della Commissione parlamentare antimafia. Signor Presidente, da più parti e da qualche tempo è maturata la coscienza che le mafie non possono essere considerate soltanto un problema di ordine pubblico e di carattere criminale; le mafie costituiscono un problema nazionale, che riguarda tutta la società. La penetrazione delle organizzazioni mafiose in taluni gangli vitali dell’economia, i loro rapporti con settori inquinati della politica e della pubblica amministrazione, costituiscono non solo un ostacolo allo sviluppo economico, ma anche un attentato alla libertà ed alla dignità di ogni individuo, con una sospensione di fatto delle regole democratiche. Le mafie, dunque, rappresentano un pericolo perché minano le basi stesse della democrazia, del mercato e della civile convivenza. Non è pensabile sconfiggere definitivamente una criminalità organizzata sempre più internazionale e finanziaria, operando esclusivamente sul versante repressivo (che resta certo determinante, che è fondamentale, ma che non è esclusivo), delegando cioè la lotta solo alle forze dell’ordine ed alla magistratura. È necessario che la lotta contro le mafie sia portata avanti simultaneamente su più fronti e su più livelli, anche sul terreno dell’azione di promozione sociale, di educazione e crescita culturale. Si deve stimolare nelle giovani generazioni una forte coscienza critica e civile, una reazione di rigetto del fenomeno mafioso che, invece di apparire come potenziale modello di comportamento, deve essere visto nella sua radice di barbarie e di inciviltà e, come tale, respinto. Infatti, solo una coscienza civile di massa può costituire una barriera contro il dilagare di questa violenza.
        Le mafie saranno sconfitte se resteranno isolate di fronte alla coscienza dei cittadini, se la società civile saprà opporre ad esse il proprio rifiuto generalizzato e rigoroso se, alla sub-cultura mafiosa basata sulla violenza, la sopraffazione e l’omertà, si saprà contrapporre un’azione vasta e articolata di promozione e diffusione di una cultura della legalità e della solidarietà, che spinge un popolo a sentirsi unito su certi valori, al di là delle legittime diverse opinioni e concezioni politiche, culturali e religiose.
        Tenuto conto di questo, la Commissione parlamentare antimafia della XIII legislatura ha deciso di istituire, soprattutto per la convinzione del presidente Del Turco, uno "Sportello" per le scuole e il volontariato che, oltre a cercare di attivare un dialogo, rispettoso delle reciproche funzioni, tra la scuola, la società civile e le istituzioni, si propone di offrire un contributo alla promozione ed alla diffusione dell’educazione alla legalità democratica ed alla solidarietà, fornendo una serie di servizi ed attivando la collaborazione, per l’elaborazione di progetti di intervento mirati, con gli operatori e le agenzie educative esistenti.
        Lo Sportello, che si avvale della collaborazione di consulenti, fornisce informazioni e rende disponibile il materiale parlamentare concernente il fenomeno della criminalità organizzata, partecipa, di norma per il tramite dei suoi membri e dei suoi consulenti, a dibattiti promossi nelle scuole e nelle associazioni e fornisce un contributo all’elaborazione di progetti di educazione alla legalità.
        Ad oggi si sono rivolti allo Sportello oltre 200 utenti tra istituti scolastici, associazioni, provveditorati agli studi, enti locali e regionali e singoli studenti per tesi di laurea. Inoltre i membri del comitato ed i consulenti sono stati invitati dalle scuole ed hanno partecipato a manifestazioni e convegni, ove si è riscontrato particolare interesse e vivo apprezzamento, da parte degli interlocutori, per l’iniziativa della Commissione.
        Va sottolineato che l’attività dello Sportello si svolge in pieno accordo con le istituzioni che tradizionalmente si occupano del problema e che, per renderne più efficace l’azione, è stato sottoscritto nel giugno di quest’anno un Protocollo d’intesa con il Ministero della pubblica istruzione ed il Dipartimento degli affari sociali della Presidenza del Consiglio dei Ministri; un fatto di grande significato e di enorme importanza. Questo importante documento prevede la redazione di un piano operativo che, attraverso una serie di azioni specifiche, come ad esempio la formazione, la promozione a livello nazionale ed europeo di scambi e gemellaggi tra scuole, la collaborazione con il mondo universitario e la costituzione di un network operativo tra le scuole, gli enti locali, le associazioni di volontariato presenti sul territorio e le istituzioni, consenta di creare concretamente le condizioni per educare le giovani generazioni ad una cultura antimafiosa, fondata sul rispetto della persona umana, sulla tutela ed il riconoscimento dei diritti (senza perdere di vista i doveri) e sui valori della democrazia e della trasparenza.
        Al fine di contribuire ad una chiara conoscenza delle organizzazioni di tipo mafioso e delle strutture dello Stato deputate al loro contrasto, è in corso di elaborazione un piccolo manuale per le scuole, pensato come strumento di approccio e di stimolo allo studio delle stesse. Verranno spiegate cosa sono e come agiscono le mafie presenti nel nostro Paese e le mafie internazionali; si parlerà della normativa antimafia, del fenomeno dell’usura, del racket, delle estorsioni, del riciclaggio, nonché dei collaboratori di giustizia, con l’aggiunta di un glossario e di una bibliografia ragionati.
        Questo testo si propone, dunque, di offrire alle scuole ed alle associazioni di volontariato interessate, una sorta di informazione chiara, sintetica, ma completa, sugli argomenti sui quali maggiormente è stato richiesto materiale allo Sportello. La lettura di questo manualetto, che attingerà solo da documenti istituzionali, si propone, inoltre, di contribuire a far comprendere che le mafie sono organizzazioni ben definite, che agiscono sulla base di precise strategie e che, pertanto, non sono delle "piovre" invisibili e imbattibili, come purtroppo a volte vengono fatte apparire, secondo errati stereotipi, dai mass media.
        Le organizzazioni mafiose possono e devono essere sconfitte, e ciò può avvenire attraverso un’adeguata e combinata azione repressiva e preventiva, mediante la quale, oltre a garantire la dovuta sicurezza ai cittadini, si contribuisca alla costruzione di condizioni sociali, economiche e culturali che assicurino ad ognuno la garanzia dei propri diritti di cittadino, permettano di creare lavoro ed occupazione ed assicurino un corretto funzionamento delle istituzioni pubbliche.
        Concordo pienamente con quanti sostengono che la lotta alle mafie ed alla loro sub-cultura deve cominciare a scuola, non solo perché attraverso di essa, nelle fasce dell’obbligo, passano tutte le generazioni, ma soprattutto perché, tra tutte le agenzie educative, la scuola è quella che per sua natura è chiamata a formare donne e uomini liberi, rispettosi delle leggi democratiche e consci dei propri diritti e dei propri doveri, e quindi può parlare in modo persuasivo e prolungato nel tempo all’intelligenza e al cuore delle giovani generazioni.
        La scuola deve costituire il punto di partenza per una rigenerazione della società; essa ha il compito di contribuire in modo determinante a suscitare e a far crescere un movimento di massa contro le mafie, promuovendo e diffondendo sempre più la cultura della libertà, della dignità della persona, della responsabilità e della solidarietà. La scuola, quindi, deve essere luogo di pratica, e non solo di enunciazione, della democrazia, della legalità e della solidarietà. Essa non può essere, infatti, luogo di violenza, intimidazione ed omertà!
        La scuola è il luogo dove il giovane incontra per la prima volta lo Stato. Essa, soprattutto in contesti sociali particolarmente segnati da disagio sociale, come Napoli, rappresenta l’unico luogo di incontro e di aggregazione presente sul territorio. Queste cose non vanno assolutamente dimenticate ed è per questo che, avvalendoci delle competenze professionali dello Sportello, abbiamo l’intenzione di attivare una serie di studi specifici, in particolare sulla situazione dell’edilizia scolastica nell’ambito di alcuni contesti delle cosiddette "regioni a rischio" e sul cosiddetto fenomeno delle scuole "vandalizzate". Sui problemi della dispersione scolastica e della delinquenza minorile, la Commissione parlamentare antimafia sta già ponendo la sua attenzione per la realizzazione di uno specifico annuario.
        È difficile, se non controproducente, infatti, parlare ai giovani di educazione alla legalità democratica ed alla solidarietà se non si provvede a costruire ed a completare le scuole là dove sono necessarie, curando maggiormente, nello stesso tempo, la manutenzione e le condizioni igieniche e di sicurezza di quelle esistenti, e se non si fa in modo che i ragazzi vadano a scuola e non si disperdano finendo, magari, nelle organizzazioni mafiose, nella camorra che, approfittando del disagio sociale e della fragilità legata alla loro età, non esita ad adescarli promettendo loro elevati guadagni in breve tempo, una "protezione" che, ad un certo punto, non esita a trasformarsi in ritorsione e nella garanzia del riconoscimento di un "onore" e di un "rispetto" da parte del contesto sociale nel quale sono inseriti, dietro i quali in realtà si nasconde un sentimento di disprezzo per la persona umana in quanto tale.
        I dati disponibili per Napoli forniscono un quadro dell’andamento scolastico che può essere visto come sintomo di fenomeni più gravi, da indagare con speciale attenzione. Nell’anno scolastico 1996-1997 i dati medi cumulati dei respinti e degli assenti variano dal 17 per cento al 3 per cento per gli alunni della scuola media dell’obbligo, mentre per le superiori i dati corrispondenti variano dal 28 per cento all’8 per cento. In particolare, nelle scuole superiori si hanno situazioni specifiche ancora più preoccupanti: infatti, viene respinto oltre il 32 per cento degli studenti del terzo anno ed è assente più del 13 per cento dei frequentanti il primo anno.
        Sul fronte della delinquenza minorile è recente l’ultimo allarme del Ministero dell’interno e sono ricorrenti sulla stampa i casi di minori che commettono reati sempre più gravi. È particolarmente significativo, pertanto, che il Ministero dell’interno abbia dato concreto seguito alla proposta della Commissione parlamentare antimafia di dedicare speciale attenzione ai minori autori di reati; dal 16 novembre è iniziata la rilevazione da parte delle forze di polizia dei reati commessi da minori, anche non punibili, e della scolarizzazione degli autori, rendendo possibile la conoscenza approfondita della delinquenza minorile e della dispersione scolastica sia per le grandi aree geografiche che a livello di quartiere.
        Il volontariato rappresenta una risorsa estremamente importante per la promozione e la diffusione di una cultura della legalità e della solidarietà. Molti giovani, infatti, dedicano gratuitamente parte del loro tempo per aiutare gli altri, per riscattare e migliorare il territorio nel quale vivono. Il mondo del volontariato, inoltre, negli anni successivi alle stragi di Capaci e di Via d’Amelio, è cresciuto, si è organizzato, ha fatto della lotta alle mafie uno dei suoi obiettivi principali, in particolare in alcune aree del Paese.
        Proprio in Campania non dobbiamo dimenticarci di un sacerdote, che operava nello specifico a Casal di Principe, don Peppino Diana che, così come padre Puglisi a Palermo, ha pagato con la vita la sua opera volta a togliere i ragazzi dalla strada, ossia da un destino probabilmente orientato alla violenza ed alla sopraffazione, per educarli alla vita, alla libertà, alla trasparenza, alla solidarietà ed alla responsabilità.
        Occorre tenere conto di questo, occorre rafforzare il rapporto tra scuola, mondo del volontariato, enti locali ed istituzioni. In particolare è necessario fare in modo che, come previsto dalla legge n. 109 del 1996, i beni confiscati ai mafiosi vengano restituiti il più velocemente possibile alla collettività, per farne scuole, sedi di associazioni, luoghi di incontro e di confronto civile e democratico.
        Nello specifico, la Commissione parlamentare antimafia ha stabilito una serie di contatti con la Federazione italiana per il volontariato e si propone di collaborare nel futuro immediato con altre associazioni.
        Vorrei ora rivolgermi in particolare ai giovani presenti in questa sala ed in quelle adiacenti: decidendo di affrontare nella vostra attività didattica, assieme ai vostri insegnanti ed alle associazioni di volontariato, il problema delle mafie e, in particolare, della camorra, avete contribuito a superare la separazione tra scuola e società, anzi, avete realizzato una saldatura che arricchisce la scuola e fa crescere la società. Infatti una società si alimenta della coscienza dei suoi membri, e quanto più ricca, più consapevole, più criticamente matura si fa la coscienza dei suoi membri, tanto più ricca e matura si fa essa stessa. Voi siete l’esempio di una scuola che, assumendo anche il sociale come proprio campo di attività, rinnova se stessa e concorre al tempo stesso al rinnovamento della società. Per questo mi complimento ancora con voi (il presidente Violante dava delle cifre molto significative), con i vostri docenti e con tutte le altre persone e realtà che hanno collaborato con voi, perché la vostra didattica assume un preciso significato anche sul piano etico-sociale, oltre che culturale, contribuendo concretamente a lottare contro la subcultura mafiosa e camorristica che tende a distruggere nelle coscienze il senso della legge, i più semplici ed elementari diritti e sentimenti di solidarietà sociale, inducendo nella gente la convinzione che le leggi dello Stato nulla possono fare contro la violenza, la prepotenza, e che per quieto vivere convenga piegare la testa.
        Voi, cari ragazzi, rappresentate il futuro della vostra città, della nostra nazione, del mondo. Io mi auguro, e soprattutto vi auguro, che di fronte alla tentazione della rassegnazione voi sappiate trovare sempre la voglia e la forza di impegnarvi sia nello studio che nelle attività che interessano innanzi tutto il territorio nel quale vivete. Oggi vi sono offerti degli strumenti concreti per passare dalle parole ai fatti. Il primo è il citato Protocollo d’intesa, che insieme allo Sportello-scuola ed al volontariato cerca di contribuire a migliorare la vostra formazione e quella dei vostri docenti sul tema dell’educazione alla legalità e alla solidarietà. Il secondo, che rappresenta una novità istituzionale di grande rilievo, è il progetto di legge che prevede l’istituzione di un consiglio nazionale dei giovani ed altri strumenti che mirano a fornire specifici luoghi di rappresentanza in cui voi potrete far sentire la vostra voce e presentare le vostre proposte.
        Ritengo ora di dovermi soffermare ed illustrare l’attività dello Sportello enti locali, la cui realizzazione costituisce anch’essa una novità nella vita della Commissione che si era più volte occupata dei comuni, ma non aveva attivato una specifica iniziativa sistematica. L’importanza crescente del ruolo dei comuni, in termini di servizi erogati, di volumi di spesa gestita e di credibilità complessiva delle istituzioni, impone che i problemi connessi al loro funzionamento siano costantemente seguiti dalla Commissione, con una particolare attenzione a quelli sciolti per mafia, ed al complesso della realtà delle aree più a rischio. Tanto più che la nuova leva di amministratori, nata dopo la introduzione della elezione diretta dei sindaci e dopo il forte rinnovamento delle classi dirigenti locali, può essere generalmente assunta come un punto di riferimento e di sostegno per una decisa azione di contrasto verso la mafia e le altre organizzazioni criminali. La stessa drastica diminuzione del numero dei comuni sciolti per "sospetta mafiosità" ed il concentrarsi di tali casi in poche realtà, spesso oggetto di ripetuti provvedimenti di scioglimento, costituisce una importante conferma di tale dato.
        L’attività si è soprattutto incentrata, nei primi mesi, su due grandi tematiche: la sicurezza degli amministratori comunali e la valutazione delle condizioni dei comuni attualmente sciolti per sospetto di infiltrazioni mafiose.
        Lo Sportello ha sperimentato la realizzazione di un analitico questionario-relazione che i commissari governativi hanno compilato. Emerge la assoluta gracilità delle strutture amministrative di questi comuni, il fatto che versano molto spesso in condizioni di dissesto finanziario, che sono in genere scarsamente dotati di infrastrutture essenziali e che le comunità vivono drammatici problemi sociali ed economici. Dall’attività dello Sportello e dal confronto con i commissari, emerge una valutazione sostanzialmente positiva sulla legislazione che prevede l’ipotesi eccezionale dello scioglimento per "sospetta mafiosità".
        Nel 1998, lo Sportello, oltre a questi temi, sta concentrando la propria attività sull’analisi della realtà oggi esistente nei comuni sciolti in precedenza per sospetta mafiosità e sull’andamento della spesa pubblica locale, in particolare quella per gli appalti di opere pubbliche, forniture e servizi dei comuni delle aree a rischio. Sul primo tema, lo Sportello ha in corso di realizzazione una analisi specifica e mirata sui dati di spesa esistenti al fine di apprestare un quadro conoscitivo analitico su cui avviare un’attività conoscitiva.
        Concludo dicendo che sconfiggere le mafie è possibile, ma occorre l’impegno di tutti, ciascuno per la parte che gli compete. È necessario, dunque, operare perché, come fu detto in un’importante relazione sulla camorra di qualche anno fa, all’antimafia dei delitti, che consiste nella repressione penale, sia affiancata l’antimafia dei diritti, fondata sulla trasparenza, su comportamenti coerenti, sul buon comportamento della pubblica amministrazione. Occorre inoltre che famiglie, scuola, associazioni di volontariato, enti locali ed istituzioni operino nell’ambito di un progetto complessivo che utilizzi adeguatamente le risorse regionali, nazionali ed europee esistenti, che sappia leggere e rispondere con adeguati strumenti ai cambiamenti del territorio, che mobiliti tutti alla partecipazione per la costruzione di una società napoletana, italiana ed europea più civile e democratica, nella quale si sia fermamente convinti che vivere nella legalità e nella solidarietà è possibile e conveniente. (Applausi).

        PRESIDENTE. Grazie all’onorevole Olivo. Diamo adesso la parola a don Luigi Ciotti, presidente dell’Associazione "Libera", che ringraziamo per la sua presenza qui con noi a questo Convegno e che i napoletani in particolare ringraziano perché in questi giorni l’Associazione "Libera" è stata protagonista di un’iniziativa che ha coinvolto centinaia di giovani delle scuole napoletane sul tema dell’educazione alla legalità, attraverso il coinvolgimento dei giovani in un lavoro teatrale. Don Ciotti svolgerà una relazione dal titolo: "La promozione sociale nella lotta alla criminalità nel territorio".         

    CIOTTI Luigi, presidente dell’Associazione "Libera". Sono io che ringrazio voi e chiedo scusa per il tono della voce, causato da un po’ di bronchite. Voi mi insegnate soprattutto che se c’è un elemento fondamentale, che quindi non è un optional, non è un di più, ma un elemento fondamentale per vivere, per crescere, per avere delle relazioni, per comunicare, è avere un rapporto con il proprio territorio. Questo è un elemento che non può essere un di più di cui si parla, ma un elemento fondamentale. Oggi il crescere di conflitti, di paure, di insicurezze, di ansie, anche di richieste di localismi esasperati, sono in molti territori italiani il segno che in troppe realtà è venuto meno il rapporto con il territorio. Cioè, di fatto, oggi in moltissime realtà le persone non hanno questo rapporto, questo senso di appartenenza, di identità con il territorio; sono cresciuti negli ultimi tempi gli orfani di territorio, cioè le persone che nel loro territorio non trovano quegli spazi, quelle opportunità, quei riferimenti che sono fondamentali per la vita della persona.  E allora il secondo passaggio è forse scontato, ma è quello che con forza questa mattina da più parti è stato richiamato: bisogna far rivivere il tessuto sociale. Allora il grande richiamo che da più parti è stato fatto è all’impegno culturale, agli interventi sociali, ai percorsi educativi che devono inserirsi a fianco dell’opera giudiziaria, militare, di repressione (per quello che mi riguarda noi con forza diciamo che deve essere fatta senza sconti, con uomini, con strumenti, con mezzi). Di fronte ai dati portati qui questa mattina, alle testimonianze sulla tratta di schiavi, la riduzione in schiavitù, la prostituzione, le forme di violenza, diciamo che non si può assolutamente tollerare questo, nel rispetto dei percorsi di giustizia e di legalità, ma bisogna investire per far rivivere il tessuto sociale. Questi due pezzi devono con forza lavorare e saldarsi insieme.
        Io credo che legalità e solidarietà – preferisco chiamare reciprocità la solidarietà, perché è un coinvolgimento più diretto – siano le due facce di una stessa medaglia che si chiama giustizia. Dobbiamo insieme sottolinearlo con forza: non si possono distinguere, perché entrambi sono due strumenti, due modalità, due ruoli distinti ma complementari per difendere i più deboli rispetto a quei poteri forti, criminali, di sopraffazione che tutti conosciamo. C’è un bisogno, quindi, di giustizia, di giustizia sociale e di altra giustizia di cui altri hanno portato qui il loro importante contributo. Giustizia sociale in senso ampio, affermazione della legalità, ma anche garanzia di diritti sociali. Lo diciamo tutti, però bisogna verificare come questi princìpi sono concretamente ridotti. E non dobbiamo dimenticare tutto il positivo che è stato fatto, perché sforzi, interventi, iniziative locali, nazionali, non possono trascurare il positivo. Ma c’è un’abissale distanza tra quello che è il bisogno e quello che si sta facendo, nonostante il positivo che c’è. Lotta alla criminalità – voi me lo insegnate – è politica economica, ma anche risposte al dramma della disoccupazione. Anche queste sono parole stanche, ma sono parole fondamentali e necessarie. Se a questi bisogni non si risponde, si aprono le porte a lacerazioni ancor più profonde e i confini del Paese si allargano nel mondo del disagio. Allora, in questo senso, mi pare che ognuno è chiamato a fare la sua parte, e da parte di quella realtà che io in punta di piedi qui rappresento, nata nel marzo del 1995, "Libera", che oggi vede oltre 700 gruppi (lo so che non è chissà che cosa), insieme all’Azione cattolica italiana, alla Uisp, a "SOS Impresa", alle piccole realtà che lavorano da Corleone a Locri alla periferia di Napoli, da Trieste a Milano, a Torino, c’è uno sforzo per dire che la legalità, la giustizia e questo impegno di contrasto non appartengono solo a qualche zona del Paese; queste 700 realtà piccole e grandi hanno cercato in questi anni di costruire un tessuto insieme, di non lasciare sole piccole realtà che erano schiacciate in certi territori. Credetemi, non è facile mettere insieme tante realtà, non è facile coordinarci e coordinare, ma tutto ciò è un segno importante, un segno che è possibile la risposta autorganizzata del mondo dell’associazionismo, del privato sociale, di piccole e grandi realtà all’esigenza di far nascere strutture coordinate di supporto a chi, nella società civile, combatte quotidianamente la battaglia dell’antimafia sul territorio. Bisogna rompere l’isolamento in cui era relegato l’impegno di tanti cittadini nelle loro singole realtà. E questo alzare la testa in questi ultimi anni, questa voglia di lavorare insieme, di progettare, di non lasciare sole piccole realtà, mi pare un segno importante di una società civile organizzata che sente che non può essere opera di navigatori solitari tutto questo, che bisogna essere presenti nel territorio, che bisogna creare alleanze con altri, che bisogna progettare insieme, pubblico, privato, istituzioni, che ognuno è chiamato a fare la propria parte.
        Promozione sociale. Qui c’è un paradosso che ci tengo a sottolineare, che noi gridiamo con forza, che quel territorio dove molti sono orfani ha bisogno di risposte tecniche, strumenti, servizi, spazi, altrimenti dove vanno questi ragazzi? Che cosa fanno? Quali riferimenti possono avere? Ma non bastano le sole risposte tecniche, perché l’esperienza, la concretezza ci ha insegnato che si possono fare anche degli stupendi campi sportivi, creare anche degli spazi eccezionali, che sono necessari, ma ciò non serve a nulla se poi non c’è chi accompagna questi ragazzi in un cammino di crescita. Bisogna inondare il territorio, bisogna crederci, con animatori, operatori di strada, educatori, operatori sociali. Questo vuol dire scuola e extrascuola che lavorano insieme, vuol dire opportunità offerte realmente alla scuola, perché altrimenti possiamo dare ai ragazzi anche degli spazi eccezionali, ma con poco frutto; dobbiamo lavorare in questo senso, in questa direzione. Voi conoscete la solitudine che il mondo giovanile vive oggi, il disorientamento, le fatiche. Allora è necessaria una presenza: conviene al Paese, conviene anche a livello economico investire per creare figure e professionalità che nel territorio divengano chi accompagna, chi anima, chi è a fianco di un mondo di giovani.
        Allora è chiaro, anche se a volte lo diamo per scontato, che la prevenzione, come per troppi anni è stata intesa nel nostro Paese da tanti, purtroppo come difesa dalla violenza, dalla droga, dai problemi, non basta. Per troppi anni si è sentito parlare di prevenzione come difesa da qualcosa. No, la prevenzione è soprattutto prevenzione "per". E la scommessa di investire in questa direzione è una scommessa importante, è una scommessa sociale ed è soprattutto una sfida educativa. C’è un’enorme necessità che venga recuperato con più forza il bisogno all’educazione, il diritto all’educazione. Ci sono delle esperienze bellissime in questo senso. Si ricordava prima che, proprio in questi giorni, in tantissime scuole ci sono stati dei momenti, che però hanno un prima, un durante e un dopo, perché guai se educazione alla legalità diventa l’educare, se i giovani diventano un contenitore da riempire, se ci si limita a qualche iniziativa, a qualche intervento. I giovani non sono un contenitore da riempire, ma sono persone che devono essere rese protagoniste di un processo, di un progetto. Certo, molti giovani portano sulla loro pelle dei problemi, ma – non è un gioco di parole – sono una risorsa se si vuole investire in un certo modo. E qui sta un problema che io tocco con mano: l’educare ha bisogno di adulti coerenti, credibili, che ci credono. Educare ha bisogno che innanzi tutto noi adulti ci chiediamo, rispetto ai giovani, qual è il quadro di valori che noi testimoniamo, se noi ci crediamo seriamente in questo, perché i giovani non sono dei contenitori da riempire. Educare ha bisogno di un progetto educativo, e la legalità è dentro questo progetto educativo; non è l’unico aspetto, guai, non deve diventare una moda, come ci sono state altre mode in passato, per cui per qualche stagione si è parlato di alcuni problemi, vedi la droga, e poi dopo magari tutto è passato in secondo o in terzo piano. Occorre veramente un progetto educativo per educare alla salute, ai consumi, al rispetto dell’ambiente e alla legalità.
        Ora, queste iniziative che sono cresciute, lo Sportello della Commissione parlamentare antimafia, che rappresenta un segno importante in questa direzione e il lavoro che l’associazione "Libera" insieme ad altri sta realizzando per l’Italia, sono segni che nella scuola, ma non solo in essa, si deve costruire quest’attenzione e questi progetti.
        Ma vi è un altro elemento: che si fa con quei bambini la cui normalità è vivere nell’illegalità, perché i valori che sono stati trasmessi in quei territori a loro sembrano normali, a posto, legali, mentre costituiscono un respiro di illegalità? Voi mi insegnate che i tempi, i modi e gli strumenti debbono adeguarsi ai territori e ai vari contesti; certo tutto ciò è meno facile, ma non per questo può venire meno questa grande scommessa.
        Avviandomi alla conclusione, vorrei accennare ad alcune questioni per me importanti. La prima concerne la sicurezza nelle città e sul territorio. Quello della sicurezza è un tema sacrosanto e coloro che sono qui ce l’hanno ben presente: si tratta di un tema che, negli ultimi anni, ha sostituito quello della legalità in molte realtà, prendendone il posto. La sicurezza che tutti debbono avere costituisce un sacrosanto diritto, così com’è un diritto sacrosanto di tutti quello di abitare la città e di poterla vivere, ma mi sembra – do solo un titolo di riflessione senza approfondirlo – che la città sicura, che tutti giustamente ci stiamo impegnando a realizzare, è quella che accoglie, che fa emergere i problemi e che si attiva affinché quelle sacche di disagio e di marginalità abbiano dei punti di riferimento.
        La seconda questione riguarda la promozione sociale sul territorio; poco fa sono stati ricordati Peppino Diana e don Puglisi, ma penso ad altri miei amici sacerdoti minacciati, alle associazioni, ai laici e alle persone che per l’Italia si stanno concretamente spendendo sul territorio e subiscono violenze e minacce. Una società civile che si è organizzata e pezzi di realtà che si sono maggiormente mossi rispetto a ieri costituiscono allo stesso tempo un segno amaro ma anche concreto, e ciò disturba qualcuno. Questo è un segno che mi sembra importante pur nella fatica, e noi dobbiamo disturbare sempre più e lavorare sempre di più insieme sul territorio.
        Allora, vi è una parola che bisognerebbe, a mio avviso, essere recuperata con forza: continuità. Vi sono state delle risposte positive, però bisogna recuperare la continuità perché molte volte questa tensione è un po’ diminuita, mentre la criminalità e le mafie hanno avuto ed hanno tutt’oggi questa continuità. Siamo noi, umilmente ed ognuno per la propria parte, dal mondo della politica alle associazioni, che dobbiamo recuperare con forza la continuità.
        E a coloro che lavorano nel mondo della politica mi permetto di dare un suggerimento: a voi chiedo obbedienza, mi permetto di dirlo nel senso etimologico della parola, perché voi stessi mi insegnate che obbedienza vuol dire prendere in ascolto quel che dice l’altro, stare in ascolto dell’altro, avere in seria e responsabile considerazione il discorso dell’altro. Il lavoro che voi state facendo di ascoltare gli altri è un segno di obbedienza ed in questo senso rispetta quel bisogno che la società civile e i cittadini chiedono in vari contesti e in varie realtà.
        Termino il mio intervento ricordando alcune parole di una bambina di nome Anna Maria che come altri ho incontrato nelle scuole, e precisamente nella III E della scuola Moscati. Ella ha scritto un tema bellissimo, così viscerale e così autentico, e vi sono due passaggi che vorrei leggervi. Lei dice: "Io vivo nella 167, vivo in una realtà difficile, vivo in un mondo dove si cerca anche di sopravvivere, ma vivere nella 167 non è solo questo". Lei non vuole, ed ha ragione, che si parli solo delle cose negative, ed aggiunge: "Ma perché non si parla anche di noi giovani che vogliamo cambiare, dei lavori che facciamo?".
        Ella ci invita anche in quei contesti, in quei territori difficili, e rivendica quei segnali positivi che i giovani ci inviano. È in questo senso che mi sembra si possa e si debba costruire qualcosa insieme. (Applausi).

        PRESIDENTE. Ringraziamo don Luigi Ciotti per questo suo appassionato intervento che ci apre anche alla speranza.
        

I lavori, sospesi alle ore 13,10, riprendono alle ore 15,10.
        

        PRESIDENTE. Do ora la parola alla dottoressa Carmela Cavallo, giudice del tribunale per i minorenni di Napoli, che svolgerà una relazione sul tema: "Il ruolo della famiglia nella prevenzione della criminalità". 

        CAVALLO Carmela, giudice del tribunale per i minorenni di Napoli. Merita grande apprezzamento che la Commissione antimafia abbia voluto lasciare uno spazio di riflessione sul ruolo della famiglia, perché significa che è ormai chiaro quanto l’humus familiare adeguato sia fondamentale per bloccare la pervasività delle mafie; che poi questa riflessione sia stata affidata ad un giudice minorile significa che alla magistratura specializzata viene riconosciuto un ruolo significativo sia nell’analisi che nelle scelte di politica giudiziaria sul territorio.  Un grande giudice minorile, Gian Paolo Meucci, scomparso alcuni anni fa, soleva dire che si può educare nelle forme della giurisdizione; e mai questa frase trova maggior riscontro nelle terre di mafia, dove il giudice minorile emette provvedimenti soprattutto di natura prescrittiva, per orientare adulti e minori al sentimento dei valori costituzionali e al rispetto dei diritti degli altri, prima fra tutti quelli dei soggetti deboli, quali i minorenni. Così spesso il provvedimento del giudice minorile può aiutare, attraverso adeguate prescrizioni e idonei progetti di recupero, a resistere alle mille lusinghe della malavita organizzata, a rafforzare i ragazzi contro le sollecitazioni del "tutto e subito". È questa anche un’occasione per parlare in positivo della famiglia, come agenzia che investe sulla vita, fondando sulle proprie risorse e progettando responsabilmente il futuro.
        I doveri del genitore, di quello "sufficientemente buono", sono contemplati dall’articolo 30 della Costituzione: mantenere, educare, istruire. Laddove nel "mantenere" sono ricompresi l’accudimento e le cure materiali ed affettive necessarie ad un bambino appena nato per essere contenuto nel processo di crescita, con le ansie e le angosce che a quel processo sono connesse, fino a farsi adulto compiuto; nell’"educare" sono ricomprese le attività di natura cognitiva e relazionale che tendono a far emergere tutte le potenzialità esistenti nel bambino, a stimolare le sue capacità critiche; nell’"istruire" sono ricomprese quelle attività che tendono a trasmettere al minore un patrimonio culturale che possa elevarlo, permettergli di confrontarsi con gli altri e dargli in seguito opportunità congrue con le sue capacità.
        Quante famiglie nel nostro Paese sono effettivamente in grado di adempiere ai loro doveri genitoriali e di esercitare la potestà in modo corretto, tenendo conto delle capacità, della inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli, come impone l’articolo 147 del codice civile? Ce ne sono tante, tantissime; ma purtroppo sembra che il loro numero nel complesso sia in diminuzione, e che sempre più famiglie entrino in un’area, per così dire, "a rischio", cioè a rischio di uscire perdenti nell’esercizio del ruolo e di trovarsi di fronte a figli diversi da quelli desiderati.
        È interessante analizzare il perché del fallimento nella gestione del ruolo di queste famiglie apparentemente normali, dove c’è un lavoro, una casa, uno o due genitori, una rete di relazioni più o meno estesa.
        Lasciamo da parte tutta la patologia della famiglia, cioè quelle disfunzioni che da sempre hanno caratterizzato – e che perciò da tempo sono state oggetto di studio – la famiglia problematica e multiproblematica, ovvero quella famiglia che presenta un genitore o il genitore (o entrambi i genitori) alcolista, tossicodipendente, malato di mente, pregiudicato, e soffermiamoci invece sulla famiglia apparentemente normale, per riflettere su come potrebbe, anzi dovrebbe, quotidianamente agire per assolvere correttamente alla funzione genitoriale, allevando figli sani non solo nel corpo ma anche nella mente, in grado di resistere all’illegalità e agli accattivanti richiami della camorra.
        Il minore deviante, nell’accezione più diffusa, è quel ragazzino che mantiene un comportamento fuori dalle regole condivise dalla comunità, che crea problemi nella famiglia, nella scuola, nel quartiere e nella città.
        Ebbene, da un osservatorio privilegiato quale il tribunale per i minorenni di Napoli, in cui opero ormai da tanti anni, è possibile registrare che la devianza è oggi sempre più il prodotto di una famiglia apparentemente normale, ma nei fatti sempre più inconsistente; di una famiglia cioè sempre più delegante ad altre agenzie, sempre più caratterizzata da una cattiva comunicazione, sempre più assorbita da altro – sia questo altro la carriera o la lotta per la sopravvivenza – e che quindi non dà attenzione, non "si occupa" quotidianamente, ma poi, all’atto dell’esplosione del problema, "si preoccupa", cercando disperatamente di correre ai ripari; spesso però è troppo tardi.
        Lo svantaggio relazionale ha, dunque, oggi sostituito, anzi si è aggiunto a quello socio-economico che tradizionalmente eravamo abituati a registrare come una possibile concausa della devianza. Lo svantaggio relazionale taglia trasversalmente tutte le fasce sociali; perciò sempre più nel prossimo millennio la devianza sarà il prodotto di una rete familiare disfunzionale, e quindi interesserà anche la fascia sociale medio-alta.
        Cosa è mancato a questi ragazzi che, pur non essendo nati in contesti apparentemente svantaggiati né economicamente né culturalmente, hanno iniziato invece a seguire man mano una strada sbagliata?
        È mancata loro, a mio parere, la famiglia regolativa, quella famiglia che è in grado di dare, sin dalla più tenera età del bambino, anche nelle piccole cose, un limite in funzione di un obiettivo comprensibile per l’età, di conferire dei compiti al figlio, anche piccolissimo, per fargli comprendere che tutti i componenti del nucleo familiare, ognuno in funzione della età e delle proprie capacità, deve concorrere alla realizzazione di un programma familiare, portando a termine il suo specifico compito anche con piccoli sacrifici e rinunzie. È insomma necessario non solo porre il limite, la regola, dire di no, ma anche dare al figlio la motivazione di quel diniego e spiegarne la finalità in funzione dei principi educativi che presiedono alla gestione del ruolo parentale; il bambino deve capire sin dalla più tenera età la sua collocazione nel progetto di vita familiare e deve sviluppare la sua individualità in piena libertà, ma sempre nel rispetto dei ruoli e dell’autonomia degli altri componenti il nucleo. Ciò significa che il limite non deve essere l’espressione di un autoritarismo incomprensibile, ma l’espressione di una autorevolezza accettata perché ne viene reso comprensibile l’obiettivo e partecipe il figlio; la famiglia cioè dovrebbe aiutare il figlio ad adeguarsi al principio di realtà, a frenare l’istinto e a dare la giusta collocazione al principio di piacere, ponendosi come un contenitore elastico alla sua istintualità.
        Il rapporto tra il principio di realtà e quello di piacere deve essere quello che regola anche il comportamento dei genitori; solo così essi riusciranno ad essere il modello di riferimento. Insomma, io padre tu figlio rispettiamo una stessa regola, ognuno nella dimensione propria del ruolo e dell’età! Il padre non è il depositario della regola, bensì la trasmette osservandola.
        La violazione della regola va sempre stigmatizzata con una punizione immediata ma proporzionata, contenuta, equilibrata, giusta. La punizione infatti è connaturata al processo educativo; ma sarà accompagnata da atteggiamento consolatorio quando il bambino comprende di avere sbagliato e se ne duole.
        Ma quando e come i genitori sanno punire oggi? Puniscono poco e male. Spesso passano da un disinteresse marcato ad reazione incontrollata e dispotica, quando la trasgressione è molto evidente, con ciò generando una contestazione ancora più aperta; spesso questi genitori inconsistenti arrivano in tribunale, quasi chiedendo una sorta di investitura e di legittimazione all’esercizio della potestà, oppure vengono in tribunale per dare l’"ultima delega" e definitivamente tirarsi fuori dalla vita del figlio; ma – essi affermano – "per salvarlo", naturalmente!
        Un ragazzo che non ha introitato in famiglia il valore regolativo della norma molto difficilmente potrà introitarlo nell’ambito scolastico, anche perché troppo spesso, in particolare nei territori del Sud, mette piede in classe troppo tardi, a sei anni compiuti. E questo perché le scuole dell’infanzia continuano ad essere quasi inesistenti nei contesti svantaggiati, e le scuole dell’obbligo hanno una presenza di alunni per classe così alta da non permettere né percorsi personalizzati, né didattica differenziata; e l’extra-scuola non funziona dovunque. La scuola, per avere successo nel trasmettere la regola, deve arrivare il più presto possibile, e trattenere ed interessare il bambino il più possibile, obiettivi questi realizzabili soltanto se per ogni classe il numero di alunni non superi le quindici unità e se l’extra-scuola continua nel perseguimento degli obiettivi. Queste linee di indirizzo dovrebbero valere per tutti i territori; ma, tenuto conto dei vincoli finanziari, logistici ed operativi, esse dovrebbero trovare attuazione almeno in quelle aree di cui all’articolo 1, comma n. 2, della legge n. 285 del 28 agosto 1997.
        Ma chiudiamo questa digressione sul ruolo della scuola, per tornare al tema che qui interessa. I genitori incapaci di segnare confini sono spesso permissivi, tolleranti, protesi a essere "amici" dei propri figli, generando così confusione nel rapporto e confermando in essi insicurezza; si pongono ora come controllori (spesso il padre), ora come complici (spesso la madre), sbagliando comunque, perché i figli non hanno bisogno né degli uni né degli altri! I bambini hanno bisogno di genitori in grado di porsi come riferimento autorevole, coerente e rassicurante, tale da offrire loro sicurezza, fiducia e stima; vanno perciò evitati atteggiamenti denigratori, tipici del padre che proietta sul figlio le "sue parti fallite". Infatti, solo un ragazzo che ha stima di sé può portare avanti, fuori della famiglia, i valori che quella famiglia gli ha trasmesso. I genitori dovrebbero, invece, attivare forti competenze di ascolto, dare al figlio il modo e il tempo per esprimere le sue esigenze, i suoi sogni; solo così potranno conoscerlo come altro da sé. Dovrebbero, stando insieme, stimolare la fantasia e l’immaginazione del bambino, ridurre il consumo a volte deleterio della TV a vantaggio dello spirito di avventura, distoglierli dalla sala-gioco, spesso veri e propri covi di microdelinquenza, a vantaggio di un tuffo nella natura.
        Le storie familiari che noi quotidianamente leggiamo nei nostri fascicoli e ascoltiamo dai nostri ragazzi ci rivelano questi nodi e ci mandano le immagini di adulti bambini e di bambini adultizzati; ma soprattutto di bambini sofferenti, avvolti e pervasi da un malessere diffuso, di cui essi stessi non sanno individuare la causa.
        Il ragazzo che entra nell’area penale è, insomma, sempre un ragazzo la cui famiglia non ha tenuto, o perché attraversata da patologie tradizionali, cui abbiamo fatto riferimento, o perché inconsistente, cioè estremamente fragile e delegante rispetto al progetto educativo a favore delle altre agenzie di socializzazione, prima fra tutte la scuola (genitori carrieristi e disattenti), o perché assorbita dai problemi della sopravvivenza quotidiana e delegante soprattutto alla strada e alla TV (genitori disoccupati destinati ad arrangiare), o perché assorbita nella conflittualità coniugale, in pendenza o non di un giudizio di separazione. È quest’ultima infatti, oggi, un esempio tipico di famiglia che viene meno al suo ruolo educativo, perché è talmente assorbita dalla lotta giudiziaria che vi profonde ogni sua risorsa personale, e spesso anche economica, utilizzando i figli di volta in volta come ostaggi, come corrieri di ingiurie gravi, come investigatori..., dimenticando ogni dovere nei loro confronti. È notorio, infatti, che non sempre i coniugi o gli ex conviventi riescono a conservare responsabilmente la genitorialità.
        Così pure va registrata la mancata tenuta della famiglia in cui il padre perde il lavoro, perché questi facilmente cade in depressione: frustrato e disperato spesso cede all’alcol e ne diventa dipendente, con tutte le inevitabili conseguenze di perdita di interesse per la famiglia ed i figli.
        In generale, sempre più frequentemente notiamo che il ragazzino violento, aggressivo, esplosivo perché pieno di rabbia e di sofferenza è un minore senza nessun riferimento nella figura maschile, è un figlio senza padre.
        È allora evidente che la figura del padre è fondamentale perché il bambino introiti la regola ed il rispetto della stessa; in una società sempre più caratterizzata dall’assenza del padre, o perché questi non c’è, o perché l’autorità giudiziaria lo relega e lo confina al ruolo di intrattenitore domenicale, diventa fondamentale recuperarne la figura.
        I genitori, anche se divisi, dovrebbero rimanere entrambi presenti nel processo di crescita del figlio e dovrebbero veicolare nel figlio i valori della società democratica. Infatti il legame sociale debole, interrotto, rifiutato affonda radici nella famiglia che non è stata in grado di trasmetterli, o perché essa stessa manca del tessuto culturale in cui quei valori si alimentano, o perché è mancata la relazione genitori-figli.
        Ma quali sono i valori che la famiglia deve condividere e trasmettere con i propri comportamenti? Quelli fondamentali, cioè i valori consacrati nella Costituzione: il rispetto dell’altro come persona, e così può passare il concetto di libertà individuale e sociale ed il concetto che la propria libertà trova il limite nella libertà dell’altro; i valori di uguaglianza e solidarietà, che la famiglia deve vivere nel quotidiano nei suoi rapporti con il mondo esterno, con i diversi e con i deboli, evitando stigmatizzazioni e giudizi frettolosi e persecutori; così il valore della giustizia, che la famiglia deve vivere già nel suo ambito, facendo attenzione ad evitare preferenze e discriminazioni tra i componenti stessi del nucleo familiare allargato, riconoscendo ad ogni membro la possibilità di esprimersi e di dare la propria versione dei fatti per i quali si discute.
        La famiglia dovrebbe educare alla lealtà, alla legalità e alla verità prima di tutto con la sua condotta di vita, con l’esempio, mantenendo coerenza estrema tra il dire ed il fare, tra la parola ed il comportamento. Come dobbiamo considerare quei genitori che predicano la legalità mentre acquistano sigarette e gas auto di contrabbando, alterano il contatore Enel, si astengono dal lavoro non per malattia, ma per svogliatezza, andando al mare o ai monti? Di esempi se ne possono fare all’infinito...
        La famiglia dovrebbe generare l’attaccamento ai valori trasmettendoli in uno con le cure materiali ed affettive; la famiglia dovrebbe essere capace di trasmettere la cultura dell’essere e non dell’apparire, né tantomeno dell’avere. Il dare valore eccessivo all’abbigliamento, ai beni materiali che oggi definiscono lo status sposta inevitabilmente l’attenzione verso elementi del tutto marginali e riduttivi che, passando dalla periferia al centro, provocano distorsioni nel comportamento.
        Il ragazzo legato affettivamente alla sua famiglia, che ha introitato i valori condivisi dalla società democratica che altro non sono se non i valori costituzionali, che è stato rafforzato, reso resiliente alle stimolazioni negative dell’ambiente attraverso la valorizzazione e il potenziamento della sue risorse, che ha disegnato in prima persona, aiutato a comprendere e valorizzare le sue capacità, il suo progetto di vita, ponendosi degli obiettivi che lo porteranno a collocarsi nella società con il suo impegno personale e sociale; ebbene quel ragazzo non farà mai ingresso nell’area penale, e pur entrando eventualmente nell’area cosiddetta "a rischio", saprà uscirne indenne, perché la sua struttura di personalità è forte, ha dei riferimenti, dei legami, un’identità positiva costruita negli anni attraverso l’identificazione con modelli positivi.
        I genitori che saranno stati in grado di fornire al figlio questo humus familiare e culturale lo avranno messo in grado di esercitare una capacità critica, lo avranno reso capace di effettuare delle scelte e lo avranno sottratto così al rischio di cadere nei facili trascinamenti di chi è invece attratto da pseudovalori oggi prevaricanti: potere e danaro (non importa come ottenuto, basta possederlo) lusingano i ragazzi, facendo loro apparire tutto possibile ed ottenibile ed aizzando alla competizione sfrenata, a cominciare dall’abbigliamento firmato per finire alle spericolate corse in moto sull’asfalto, al consumo di droghe e di alcol, tutte cose per le quali servono soldi, molti soldi...
        Oggi la famiglia non può certo pensare di trattenere il figlio tra le pareti domestiche; già i ragazzini della scuola elementare sciamano in gruppi da una piazza all’altra, da un muretto all’altro. Si tratta allora di fortificarli al più presto, nei primi anni di vita, per evitare di renderli degli insicuri e degli ansiosi; perché fuori si troveranno inevitabilmente a contatto con tutto quanto c’è di peggio; non potremo evitarlo. Si gioca dunque qui la sfida della famiglia sana e responsabile, che lascia andare il suo ragazzo fuori dal suo ambito, che ogni giorno tremerà pure pensando chi incontrerà e cosa gli sarà proposto; ma che a sera saprà ascoltarlo e rasserenarlo. È un rischio che bisogna correre, e che verrà superato nella misura in cui la famiglia resta riferimento affettivo e valoriale.
        Il ragazzo di oggi è fragile e inconsistente come la sua famiglia, difficilmente ha un progetto di vita disegnato nella mente e nel cuore, è ansioso, insicuro e ha spesso paure incontrollabili; perciò si rifugia ben presto nel gruppo, alla ricerca di un’identità, di quella relazione, di quella regola, di quel contenimento che in famiglia non ha avuto. Spesso è il gruppo sbagliato: ci sono ragazzi più grandi di lui già inseriti come manovalanza spicciola del boss del quartiere. Il fenomeno del gruppo, tipico delle fasce giovanili e in cui la fisiologica fragilità adolescenziale cerca riparo, è, infatti, oggi molto più fortemente caratterizzato da una maggiore fragilità dei suoi componenti, da una maggiore aggressività e violenza, da una maggiore insicurezza e oscillazione umorale. Tanto è vero che perfino nella commissione dei reati registriamo un concorso di persone sempre più esteso: il gruppo rafforza la volontà fragile del singolo e divide la responsabilità. Il reato commesso dal ragazzo rappresenta sempre più oggi il grido di aiuto, la richiesta di contenimento, l’espressione della sofferenza per la disattenzione dell’adulto; questo reato si connota sempre più di violenza, anche gratuita, perché rappresenta l’esplosione massima della rabbia giovanile, di una rabbia incontenibile e pervasiva che affonda le sue radici nella mancanza di relazione e di fiducia tra le generazioni.
        Un monitoraggio sui reperti dei tribunali per i minorenni permetterebbe di osservare come i ragazzi oggi sono passati dal furto alla rapina, dalla ricettazione all’estorsione, dallo spaccio di hashish a quello di eroina, e soprattutto che tra di loro circolano molte armi, anche quelle più pericolose.
        Allora, cosa fare per aiutare questi genitori che non sono cattivi, ma sono mancanti? Che non sono in grado di essere genitori sufficientemente buoni perché non hanno né capacità né competenze per gestire il ruolo parentale?
        Abbiamo osservato che la devianza dei figli nasce da una mancanza dei genitori. Bisogna dunque aiutare questi genitori sin dal momento della nascita dei figli, sostenendoli psicologicamente e, quando necessario, economicamente; ma soprattutto elevandoli culturalmente. Se la rete sociale esiste, e si attiva, il genitore, adeguatamente rinforzato e sostenuto, sarà in grado di portare avanti efficacemente il processo educativo; la devianza dei figli nasce da una mancanza sociale della rete di aiuto alla famiglia in difficoltà e ai ragazzi stessi. I territori presidiati dalla criminalità organizzata sono, infatti, caratterizzati dalla mancanza di una scuola attrezzata, mancanza o carenza dei servizi, mancanza di solidarietà sociale. La criminalità organizzata dà risposta ad entrambe le mancanze: colmando quella familiare con il vincolo di appartenenza al clan, sostitutivo di quello di consanguineità, e dà un modello, sia pure perverso, conferendo così un’identità, anche se negativa, dando una collocazione lavorativa ben retribuita. La protezione diventa dunque il surrogato dell’affettività familiare; colmando quella sociale con il vincolo di solidarietà tra le famiglie dello stesso clan, cementato dall’omertà come perversione del sentimento dell’onore e dall’obbedienza cieca al clan come distorto senso di lealtà. In tal modo una cultura di morte prende il posto della cultura della vita.
        La devianza è prodotta, dunque, da una doppia mancanza.
        E bisogna convincersi che i ragazzi che non riusciamo a recuperare oggi saranno i boss di domani! Negli anni Settanta-Ottanta solo una minima parte della devianza minorile passava nella delinquenza adulta; oggi invece recuperiamo molto poco. Direi che la proporzione si è invertita: quel 20 per cento circa dei minorenni che un tempo strutturava una personalità radicata nel reato costituisce oggi approssimativamente la quota di recupero della devianza giovanile. Perciò la fascia giovanile è quella sulla quale si deve appuntare la maggiore attenzione, e la famiglia è sicuramente il canale privilegiato per una prevenzione corretta e capillare.
        Va registrato con soddisfazione che il Governo ne ha preso atto ed ha attivato le forze sociali attraverso progetti mirati a supportare queste realtà familiari e sociali così carenti: molte opportunità sono state offerte alle aree più svantaggiate dalla legge n. 285 del 1997 e dalla legge n. 216 del 1991 per l’articolazione di progetti di bonifica del territorio.
        Saranno incentivati gli affidi familiare, anche part-time, e tutte le forme di tutoraggio, di educazione di strada e di aggregazione giovanile; ma è anche tempo di sperimentare strade nuove, come mettere i ragazzi difficili a confronto con realtà di sofferenza, con la natura. Ma soprattutto è necessario, più che disegnare strutture, formare persone in grado di relazionare e contenere. In Italia esiste un rapporto tra popolazione e operatori sociali dell’ordine delle migliaia, e un rapporto tra cittadini e rappresentanti delle forze dell’ordine dell’ordine delle decine; basterebbe riequilibrare questo divario con operatori qualificati e formati, e forse già le cose andrebbero meglio.
        E per chiudere vorrei richiamare un concetto che mi è caro: in un’epoca in cui il rapporto di sangue unisce un numero sempre minore di persone, perché la famiglia patriarcale ha lasciato il posto a quella nucleare, è il vincolo della solidarietà e il principio della reciprocità che si deve sostituire a quello della consanguineità. Solo questo risveglio e rafforzamento di solidarietà sociale può renderci adulti responsabili di ascolto e protezione verso tutti i bambini, non solo nei confronti dei nostri figli. Nella misura in cui recepiremo questo messaggio, avremo salvato i nostri figli e i figli degli altri. Avremo fatto in modo che le città ridiventino comunità e perdano l’aspetto di città blindate e militarizzate; perché città sicura non è quella presidiata dalle forze dell’ordine, ma quella amata da tutti suoi cittadini. Il cammino della prevenzione è lungo, le politiche sociali non pagano in tempi brevi; ma se ancora si perdono colpi, sarà davvero troppo tardi, e raggiungeremo in breve il clima esplosivo che vivono oggi altri Paesi. (Applausi).

        PRESIDENTE. Ringrazio la dottoressa Cavallo per la sua analisi approfondita ed appassionata sulle forme di solidarismo deviato e di familismo criminale, che sono molto diffuse soprattutto nel Mezzogiorno.

        Passiamo pertanto alla successiva fase del Convegno, riguardante le "Aree a rischio esterne alle grandi realtà metropolitane".

Presidenza del senatore Emiddio Novi,
componente della Commissione parlamentare antimafia

        PRESIDENTE. In questa sessione interverranno l’avvocato Franco Gallo, sindaco di Gela; il dottor Enzo Ciconte, consulente della Commissione parlamentare antimafia; il dottor Enrico Carofiglio, sostituto procuratore della Repubblica di Bari e l’onorevole Michele Saponara, componente della Commissione parlamentare antimafia.  Il primo intervento sul tema delle aree a rischio esterne alle grandi realtà metropolitane è dell’avvocato Gallo, sindaco di Gela, e tratterà in particolare: "Il caso Gela: le contraddizioni sociali ed economiche della crescita urbanistica incontrollata".

        GALLO Franco, sindaco di Gela. Debbo innanzi tutto ringraziare il presidente Del Turco e la Commissione parlamentare antimafia nel suo complesso per due motivi: non solo per avermi invitato a partecipare a questa prestigiosa occasione di lavoro, ma anche per avermi assegnato il tema: "Aree a rischio esterne alle grandi realtà metropolitane", che mi consentirà – come è dovere di ogni sindaco – di parlare della mia città e, quindi, di approfondirne alcuni specifici aspetti.  Tuttavia, prima di passare all’illustrazione delle contraddizioni sociali ed economiche generate dallo sviluppo urbanistico incontrollato, ho l’obbligo di delineare ai partecipanti al Convegno un brevissimo quadro di riferimento riguardante la messa a fuoco della situazione nel suo contesto storico.
        All’origine della crescita urbanistica incontrollata nella città di Gela vi è un fatto: l’installazione di un impianto petrolchimico che, nei cinque anni della sua costruzione, diede lavoro e salario a circa 8.000 persone in una città che originariamente contava 40.000 abitanti. Di conseguenza la città beneficiò dell’apporto monetario di una ingente massa salariale. Se li rapportate alla poverissima economia locale (agricoltura estensiva a grano e cotone), si trattava di flussi finanziari ingenti mai visti prima. Accadde, quindi, di registrare consistenti flussi finanziari e flussi demografici in entrata dei quadri e degli operai specializzati, provenienti da altre regioni e dal resto della Sicilia, nello stabilimento petrolchimico.
        L’effetto combinato di questi due fattori generò gran parte dell’abusivismo edilizio in un contesto in cui l’enorme domanda di case (con la conseguente anomala impennata dei fitti e del prezzo delle abitazioni) si coniugava con l’atavica propensione ad investire nel più tradizionale dei beni rifugio, ossia il mattone. Il resto dell’economia cittadina era poverissimo, se rapportato al drogato mercato immobiliare e quindi all’effetto anomalo derivante dall’immissione monetaria. Infima, comunque, era la mentalità imprenditoriale, perché non c’era una propensione all’investimento produttivo. Fu così che i proprietari fondiari riuscirono a lottizzare tutti i terreni attorno al tradizionale centro storico, con l’unico obiettivo di massimizzare il profitto edificatorio.
        La speculazione fu così vorace e l’assenza di istituzioni così clamorosa che ancora oggi il comune di Gela è convenuto in giudizi civili da proprietari (lottizzatori e lottizzati) che pretendono il pagamento dell’indennità di esproprio perfino per i risicati lembi di terreno che erano costretti a lasciare inedificati per consentire l’accesso alle abitazioni (hanno lasciato gli spazi e per essi chiedono addirittura il risarcimento, adducendo l’occupazione acquisitiva; quindi, siamo al paradosso del paradosso).
        Paradossalmente, dunque, all’origine del fenomeno c’è certamente l’assenza di qualsiasi pianificazione sugli inevitabili effetti della costruzione del polo petrolchimico, e questo è ancora più grave se solo si pensa che una massiccia e concentrata azione di sviluppo non è stata in alcun modo pianificata quanto ai prevedibili effetti collaterali. I migliori modelli scientifici di pianificazione economica sono stati studiati e sperimentati nelle azioni di sviluppo dei paesi sottosviluppati (America latina ed Africa); nel caso della mia città, un caso che è tutto italiano per improvvisazione, non ci fu nessuna attenzione in merito agli inevitabili effetti collaterali di quel massiccio intervento di cui prima parlavo. Il paradosso del "caso Gela" consiste nel fatto che l’edificazione abusiva non nasce dagli spontanei, tumultuosi e per questo imprevedibili sviluppi dell’economia privata, ma da un intervento massiccio della finanza pubblica, colpevolmente privo di qualsiasi sforzo di pianificazione come le più elementari teorie economiche impongono che si faccia negli interventi programmati di sviluppo.
        Questa, pertanto, è la causa fondamentale dell’espansione incontrollata delle periferie, dell’edificazione che con eufemismo potremmo anche definire come spontanea, ma che più semplicemente è abusiva.
        Ci furono poi delle concause. Una di queste fu sicuramente l’impreparazione culturale e la rapacità della classe dirigente locale, sia di quella economica che di quella politica, la quale, invece di sfruttare razionalmente il fenomeno espansivo, gestì la situazione con i tradizionali metodi di governo di un piccolo comune agricolo. Sarebbero bastati in quel contesto anche solo i piani di lottizzazione e lo scempio sarebbe stato in parte evitato, ma non furono fatti neppure quelli. I proprietari e gli speculatori fondiari, in quel momento largamente rappresentati al governo della città, poterono e vollero sfruttare al massimo questa diffusa ansia di costruire, anche perché i modelli di confronto sulla qualità dell’abitare erano estremamente poveri, quindi qualsiasi realizzazione nuova, quale che fosse, era migliorativa dell’assetto esistente.
        Detto questo rapidissimamente per inquadrare il fenomeno, passo a trattare delle contraddizioni, nelle loro varie articolazioni, che tutto questo ha generato. La prima contraddizione – che sottolineo nuovamente, perché davvero sta nel nocciolo del caso Gela – forse quella più appariscente, è che un intervento per lo sviluppo, il polo petrolchimico, diventa, paradossalmente, causa di sottosviluppo, almeno per gli effetti collaterali, che sono talmente diffusi ed ampi da determinare quasi un ripensamento globale sulla strategia di questo intervento. La mancata pianificazione degli effetti dell’insediamento petrolchimico di Gela diventa un triste capitolo di una colonizzazione interna della nostra epoca e nel nostro stesso Paese. Sono parole pesanti, che però in un giudizio storico a posteriori sono scientificamente dimostrabili come assolutamente vere e fondate. Questa è stata – ripeto – la contraddizione fondamentale; passo poi ad esaminare le altre contraddizioni, almeno quelle più appariscenti, riferibili al caso Gela.
        Contraddizioni economiche: per l’economia dei privati, di coloro che hanno costruito abusivamente, si è trattato di un pessimo affare. Dal punto di vista dell’economia cittadina, vi è stato un effetto drogato di alcuni anni di apparente benessere, perché nel settore edile nei dieci- quindici anni del boom della edificazione spontanea si fecero affari d’oro. Questa edificazione spontanea assorbì il contraccolpo della fine dei lavori di costruzione dello stabilimento petrolchimico, stabilimento che registrò una vera "fiammata" dell’occupazione nell’arco di quattro-cinque anni, coincidenti con la costruzione dell’impianto, e subito dopo questa droga continuò nell’edificazione abusiva nel settore privato. Ma in cosa è davvero consistito questo fenomeno dal punto di vista economico? Si trattò in gran parte di lavoro sommerso, di lavoro nero, e una delle ragioni per cui si preferiva l’edificazione abusiva era l’agire in esenzione dallo Stato, senza progetti, senza contributi ai lavoratori, senza alcuna imposta: si costruiva nella illegalità più assoluta, non solo dei parametri urbanistici, ma di qualsiasi norma vigente, comprese quelle tributarie. Prosperò per un decennio un fiorente mercato nero di tutti i tipi di materiale edile. Questo per quanto attiene agli effetti sulla economia privata.
        Andando ancora nel dettaglio, i lottizzatori realizzarono affari d’oro nella speculazione selvaggia; per i poveri acquirenti dei lotti fu in generale un pessimo affare. Alla periferia nord della città gran parte dei manufatti edilizi sono rimasti vuoti, scheletri che nessuno ha più convenienza a rifinire e che valgono molto meno del costo del solo cemento armato che è stato necessario per realizzarli. È uno scenario raccapricciante: scheletri vuoti che gridano vendetta. Una buona parte dovrà essere demolita, anche solo a causa del mancato rispetto delle norme antisismiche.
        Per quanto attiene invece agli effetti sulla finanza pubblica, il danno secondo me è stato enorme, difficile da calcolare e da risarcire. Il danno consiste nella compromissione delle risorse ambientali, l’inquinamento, e soprattutto l’insostenibile costo dell’urbanizzazione a posteriori, nel dover portare le opere di urbanizzazione dopo che si è realizzato l’edificato. Portare i servizi di rete in mezzo alle case costruite senza criterio e spesso senza alcuna logica geometrica costa molto di più che urbanizzare preventivamente, e comunque i risultati sono del tutto insoddisfacenti. Dato l’enorme deprezzamento dei manufatti esistenti, non sarà facile ricucire gli ampi spazi vuoti della edificazione spontanea e queste aree rimaste libere, in mezzo alle case abusive, non sono neanche gradite per l’edificazione economica e popolare. Questo è il contesto degli effetti economici nei vari ambiti.
        Passando a trattare delle contraddizioni sociali, come il tema mi impone, debbo subito riferire un fatto che sembrerà ovvio, ma che merita di essere affrontato. Le costruzioni abusive, le periferie spontanee rappresentano la negazione fisica dell’idea di organizzazione ed esprimono una perversa gerarchia dei valori. Ci sono case costruite nel bel mezzo delle strade; case costruite nell’alveo dei torrenti, case edificate su improbabili piazze, sopra i cavi fognari e le condotte idriche. È diffusa una tipologia di edifici, all’esterno orrendi e senza un minimo di prospetto architettonico, conci di tufo o mattoni a vista, mentre all’interno hanno rifiniture di gran lusso. Badate: un esterno degradato e interni con rifiniture pregevolissime sono la negazione stessa di qualsiasi corretta e logica gerarchia di valori.
        In questo paesaggio è sommo il dispregio dei valori della dimensione sociale e collettiva, nell’assenza di strade ordinate e diritte, nell’assenza di spazi pubblici, nella mancanza di qualsiasi allineamento regolare e financo nella totale incuria, come dicevo, dei prospetti. È il trionfo della cultura della illegalità e della prevaricazione, con esiti estremamente deludenti per tutti. La mafia, intesa come organizzazione criminale e di vertice, non ha avuto alcun particolare ruolo in questa vicenda perché l’utenza era discretamente diffusa e gli abusi edilizi, per un motivo o per l’altro, hanno coinvolto gran parte della popolazione; gli speculatori operavano apertamente sul mercato drogato senza necessità di intermediazione criminale.
        La mafia ha prosperato nel mercato nero dei materiali edili, e in generale sull’indotto economico di un fenomeno che aveva origini diverse e proprie. In una accezione più estesa del termine "mafia", anzi "mafie" – e il plurale che viene usato nel titolo del Convegno comincia ad essere messo a fuoco – il fenomeno che sto descrivendo è tutto mafioso, nel senso che è nato e cresciuto in barba ai più elementari interessi collettivi, nell’illegalità, nella collusione diffusa, e più in generale in una organica separazione fra istituzioni e società civile. Quindi, se non è mafia nel senso di organizzazione criminale verticistica, è mafia in quanto a cultura, è mafia in quanto a fenomeno di massa, in quanto a separazione e negazione totale dell’esistenza delle strutture di una logica di valorizzazione o quanto meno di attenzione dei valori e del bene collettivi. Questo quadro è desolante. Ma mi corre l’obbligo di lasciare il discorso a questo punto e di passare a trattare delle politiche, delle speranze, di quello che stiamo cercando di fare.
        Finora non è stata eseguita alcuna demolizione d’autorità in un panorama così squallido – anche questo è un dato che è giusto sottolineare – sia perché ci sono stati ritardi nella istruzione delle pratiche, e anche perché in Sicilia i casi disperati sono stati soccorsi dalla cosiddetta legge Buttore, che è stata integrativa della legislazione nazionale, che consente di dare agli abusivi il diritto di uso, restando la proprietà in capo al Comune.
        Due mesi orsono la Giunta municipale ha deciso di affidare le prime demolizioni, in esecuzione di una recente convenzione fra l’ANCI e il Ministero della difesa, allo stesso Ministero della difesa, in applicazione di questa circolare. Si sta cercando di accelerare l’iter delle domande di autorizzazione; si sono realizzati dei piani di recupero. Stanno per essere spesi 25 miliardi per lavori, che sono stati già appaltati, di opere di urbanizzazione che però, anche quando saranno completate, non copriranno se non il 20 per cento.
        Altro punto importantissimo: il comune di Gela si è autorevolmente candidato a stipulare i contratti di quartiere insieme al Governo nazionale. I contratti di quartiere sono un modello di recupero integrato, sociale, urbanistico, da tutti i punti di vista. Il recupero sociale nelle zone abusive è operato prevalentemente dalle parrocchie, che rappresentano un punto di riferimento in una zona di disgregazione. La prima chiesa che si sta costruendo in un quartiere, Settefarine, con il suo campanile svettante sembra annunciare e promettere speranza di riaggregazione sociale. Si sta cercando di realizzare luoghi di aggregazione in questo contesto di grande squallore, ma qualsiasi operazione – e concludo – non può prescindere da una semplice considerazione, che vorrei consegnare agli atti di questo Convegno: la riqualificazione urbana, nel momento in cui precostituisce la condizione di base di un corretto vivere civile, è l’obiettivo che va perseguito al fine di determinare situazioni di riaggregazione culturale più complessiva. Per questo dico che, dopo l’impianto non programmato dello stabilimento, non soccorrere la mia città in questo tentativo di risanamento sarebbe un secondo fatale errore, perché comunque i costi sociali del degrado permanente sarebbero più alti di quelli del possibile recupero.
        A chi contestasse l’equità dell’intervento in termini di distribuzione delle risorse sul piano dei bisogni di tutto il Paese, rispondo semplicemente con un calcolo: a Gela nel ventennio d’oro, quello della edificazione spontanea, anni Sessanta e Settanta, la spesa pro capite della finanza pubblica allargata – Stato, regione, comune, Cassa per il Mezzogiorno e altre agenzie pubbliche – è stata complessivamente, in tutta la fase storica dei venti anni, inferiore alla media non solo nazionale ma anche regionale. Mi pare evidente che da questo dato emerge che vi sono le premesse per cercare di riparare, tutti insieme, ad un errore, ad un torto, nell’interesse di tutti. L’appello che voglio fare stasera, poiché la Commissione antimafia mi ha consentito di parlare della mia città per dare un contributo nel contesto generale, è che la riqualificazione urbana, come ben centrato nel tema, è un obiettivo fondamentale perché senza un assetto non dico gradevole, ma normale, non c’è alcuna opera di recupero possibile. A Gela non sono in grado di operare con le risorse proprie del Comune; lancio perciò un appello, e lo faccio valutando che questa opera di recupero è nell’interesse non solo dei miei cittadini ma di tutti. (Applausi).

        PRESIDENTE. Ringrazio l’avvocato Gallo, sindaco di Gela, e cedo la parola al dottor Ciconte, consulente della Commissione parlamentare antimafia, che svolgerà un intervento sul tema "La Locride e il Nuorese. Realtà rurali e dimensione internazionale del crimine".  Anche in Campania abbiamo realtà rurali che si sono trasformate in veri e propri epicentri del crimine organizzato: basti pensare all’Agro Aversano.

        CICONTE Enzo, consulente della Commissione parlamentare antimafia. Parlerò della Locride e del Nuorese che, come sapete, sono due zone della Calabria e della Sardegna, molto distanti tra loro, separate da un lungo tratto di mare. Eppure Locride e Nuorese, nell’immaginario collettivo, sono accomunate da un elemento, che è il sequestro di persona, un fenomeno antico che si perde negli anfratti di un lontanissimo passato e che ha contraddistinto la storia e la cronaca degli ultimi decenni, prolungandosi fino ai giorni nostri. Perché il sequestro di persona in queste due zone? Quali sono i tratti comuni, quali le diversità?         A metà degli anni Sessanta i sequestri di persona subirono una forte impennata sia in Sardegna che in Calabria. Nell’isola essi si accompagnarono a numerosi omicidi, a rapine, ad estorsioni. Il sequestro di persona sostituiva le antiche forme della criminalità sarda che si basavano sull’abigeato, sui furti di animali, in particolare greggi di pecore. Diminuivano i furti delle greggi di pecore e aumentavano i sequestri di persona. Perché? Perché era più facile sequestrare il proprietario delle greggi che le greggi stesse. C’è un antico detto sardo che spiega la convenienza di questo fatto: "Gli uomini, al contrario delle pecore, non belano". Era anche più conveniente dal punto di vista economico, perché rendeva di più il riscatto per la liberazione del proprietario che non quello per le pecore.
        Nello stesso periodo il fenomeno esplodeva anche in Calabria e ben presto dalla Calabria sarebbe stato esportato nelle regioni ricche del Nord, in particolare in Lombardia, che con i suoi 156 casi detiene il record delle persone sequestrate in Italia.
        In quegli anni si notavano delle differenze tra i due fenomeni: nel sequestro sardo operavano bande che poi generalmente si scioglievano a sequestro avvenuto ed i proventi dei sequestri erano immobilizzati nell’acquisto di bar, di case o di ovili.
        Nel sequestro calabrese, invece, operavano organizzazioni mafiose della ’ndrangheta – molte delle quali provenienti dalla Locride – ed i proventi del sequestro alimentavano un nuovo mercato criminale perché venivano impegnati nel traffico degli stupefacenti.
        In Sardegna faceva da supporto al fenomeno dei sequestri l’adesione ad una cultura peculiare dell’isola, la cultura barbaricina. Secondo un certo modo di ragionare, non c’era distinzione dal punto di vista etico tra rubare un gregge di pecore e tenere sequestrata una persona.
        Accanto a ciò vi era il fenomeno, anch’esso peculiare, dei latitanti sardi, che per un lungo periodo godettero di popolarità, di sostegno, di simpatia e di forme di consenso molto ampio. Tandeddu, Mesina, Succu, Mele diventarono figure leggendarie perché riuscirono ad interpretare forme di ribellismo e di antagonismo nei confronti di tutte le autorità – presenti e passate – che, a loro parere, non avevano governato, ma dominato l’isola. Diventarono gli alfieri e il simbolo di un altro mondo dove erano in vigore altre leggi, ben diverse da quelle statuali, la principale delle quali era che l’uomo era in grado di difendersi da solo, la cosiddetta balentìa.
        In Calabria era invece operante una cultura mafiosa alle cui origini c’era un accentuato antistatalismo, a partire da una critica per il modo come si era realizzata l’unità d’Italia. Accanto a ciò vi era il dato storico che la ’ndrangheta (unica organizzazione mafiosa da questo punto di vista), soprattutto nell’area dell’Aspromonte, si era presentata come la sola organizzazione in grado di operare anche quando quelle ufficiali, partiti e sindacati, erano state sciolte dal fascismo.
        A metà degli anni Settanta, all’interno della ’ndrangheta si aprì una discussione sul sequestro di persona, perché non tutti i capibastone erano dell’idea che bisognasse realizzare i sequestri. Era sicuramente contrario un uomo potente e di notevole prestigio come don Antonio Macrì di Siderno, la cui organizzazione era presente, sin dagli anni Trenta, in Australia, in Canada e negli Stati Uniti d’America.
        Don Antonio Macrì fu ucciso nel gennaio del 1975 e la sua morte segnò una brusca inversione di rotta nella storia della ’ndrangheta, in particolare della Locride.
        Questo mutamento fu messo in luce esattamente 20 anni fa, nel novembre del 1979, da un rapporto firmato dal tenente colonnello Franco Morelli, del gruppo dei carabinieri di Reggio Calabria. Si tratta di un lunghissimo rapporto, di 435 pagine, con un titolo significativo: "Associazione a delinquere a sfondo mafioso di 101 persone operanti nel versante ionico della provincia di Reggio Calabria ed in altre del Nord e del Centro Italia".
        Si noti che era scritto: associazione a delinquere di stampo mafioso; e ciò prima dell’entrata in vigore della legge Rognoni-La Torre e mentre una parte della dottrina penalistica italiana riteneva che la mafia non realizzasse nemmeno gli estremi del delitto previsto dall’articolo 416 del codice penale.
        Per lo storico, naturalmente, quel rapporto è un gioiello, una miniera di notizie e di informazioni anche su personaggi che erano protagonisti già allora e che erano destinati ad occupare la cronaca dei sequestri fino ai nostri giorni. Già il riferimento nel titolo al Centro ed al Nord Italia indicava, inoltre, i rapporti della Locride con il resto del Paese.
        Tanto nel Nuorese che nella Locride circolavano due convinzioni che di fatto giustificavano il ricorso alla pratica dei sequestri di persona: la prima indicava la causa del fenomeno nella miseria e nello stato di abbandono di quelle zone; la seconda interpretava i sequestri come una sorta di riequilibrio sociale, come una più equa ripartizione delle ricchezze, essendo le vittime delle persone ricche che potevano pagare i riscatti ed i cui beni si poteva presumere che non fossero frutto solo del sudore della loro fronte.
        In realtà non c’è mai stato un rapporto diretto ed automatico tra miseria e sequestro. Questa equazione – che pure ha una certa vitalità ancora oggi – nascondeva una realtà ben diversa: nel Nuorese i sequestratori non erano "poveracci" o sbandati, ed i sequestri segnavano un salto di qualità rispetto alla vecchia criminalità, dal momento che essi manifestavano una ossessiva frenesia di arricchirsi, trovando forme più rapide per accumulare grandi quantità di denaro; nella Locride i sequestratori erano mafiosi che investivano i soldi dei riscatti in parte nella costruzione di palazzi – a Bovalino esiste ancora oggi un quartiere denominato "Paul Getty", dal nome del noto sequestrato, ed è così anche in tante altre cittadine calabresi – e nella maggior parte nel traffico di droga, aumentando in modo esponenziale il capitale investito.
        Il sequestro non era una risposta alla fame, ma una forma di arricchimento, di promozione sociale, di accumulazione del capitale.
        Bisogna poi tenere conto di un altro dato: nella lunga storia dei sequestri sono stati catturati e condannati numerosi sequestratori, custodi o organizzatori, ma sono state recuperate cifre irrisorie dei riscatti pagati.
        Nel mondo dei sequestratori hanno sempre operato personaggi che non appartenevano al mondo pastorale del Nuorese o della Locride: erano uomini in grado di riciclare il denaro, di investirlo, di operare la magia per cui il denaro "segnato" si potesse trasformare, come per incanto, in denaro che era possibile possedere e spendere senza correre alcun rischio.
        La questione del denaro ci porta a vedere come sia profondamente mutato il fenomeno rispetto agli anni Cinquanta e Sessanta.
        Si è verificata una strana inversione tra la Locride ed il Nuorese. Se una volta i sardi investivano in Sardegna, nella loro terra, mentre i calabresi per gran parte all’estero per l’acquisto di droga, ora la situazione è radicalmente mutata.
        In Calabria l’area dei sequestri si è andata via via restringendo, al punto che nell’ultimo periodo hanno operato le cosche di soli tre comuni dell’Aspromonte; nel 1991 queste cosche decisero di concludere la stagione dei sequestri, con perfetto tempismo perché proprio in quell’anno venne approvata la famosa legge sul cosiddetto blocco dei beni. È questo l’anno in cui la curva del numero dei sequestri, che era già discendente, cadde a picco.
        Quello che è successo tra il 1992 ed il 1993 non ha nulla a che fare con la ’ndrangheta storica e l’ultimo sequestro, quello della signora Sgarella, ha caratteristiche peculiari che, per quanto risulta dagli accertamenti in corso, allo stato non sembrerebbero mettere in discussione quella scelta del 1991.
        Anche in Sardegna l’area dei sequestri si è ristretta e nello stesso tempo si assiste all’ingresso della criminalità sarda nell’ambito del crimine internazionale. Le tracce dei soldi pagati per liberare le vittime dei sequestri compiuti dai sardi ci portano in Svizzera, in Venezuela, in Colombia o in Australia, come ha dimostrato il sequestro Soffiantini.
        In Sardegna, inoltre, i soldi dei riscatti cominciano ad alimentare altri mercati criminali, e, come avveniva nella Locride tanti anni prima, iniziano ad essere utilizzati per l’acquisto di armi e di droga, come dimostra la storia di Mario Moro, anch’egli implicato nel sequestro Soffiantini.
        Alcuni latitanti sardi vengono catturati all’estero; l’esempio più noto – ma non è il solo – è quello di Giovanni Farina, arrestato nel 1982 a Caracas e oggi in Australia.
        La novità più rilevante è però quella descritta nella recente Relazione sui sequestri di persona della Commissione antimafia, approvata nell’ottobre di quest’anno: è l’individuazione di una "zona grigia", di una rete di mediatori, di informatori, di determinati professionisti affiliati alla massoneria che si mettevano in moto e operavano ad ogni sequestro di persona.
        Siamo cioè ad una trasformazione radicale del sequestro di persona sardo: sullo sfondo rimangono pastori e latitanti, alla ribalta, in primo piano, ci sono altri e ben diversi protagonisti, alcuni proiettati nel traffico di droga, altri nel condizionamento politico-affaristico dell’isola, altri ancora nella ricerca di una pubblicità gratuita per le proprie fortune elettorali, non calcolando che azioni sconsiderate possono mettere in pericolo la stessa vita degli ostaggi.
        Tutti questi personaggi sembrano muoversi nella convinzione di poter agire in totale libertà e chiedono allo Stato di farsi da parte, di non interferire, quasi che si trattasse di una partita a due: da una parte i familiari delle vittime, dall’altra i sequestratori ed in mezzo i mediatori, a cavallo degli uni e degli altri.
        Questa è una delle ragioni per cui la Relazione della Commissione antimafia ha avanzato precise proposte al Parlamento per rafforzare la legge sul blocco dei beni chiedendo di non liquidare uno strumento che, come tutti gli inquirenti sanno, è stato utile per le indagini e per la cattura dei sequestratori ed oggi lo è anche per il recupero delle somme pagate per i riscatti, come dimostra la notizia di ieri secondo cui i soldi che erano nella disponibilità di Cubeddu – altro latitante del sequestro Soffiantini – sono stati recuperati in Svizzera.
        Nessuna legge, da sola e di per sé, può risolvere il problema dei sequestri di persona, ma una legge che ha funzionato va migliorata, non peggiorata, né tanto meno cancellata. Con questo spirito ha lavorato la Commissione parlamentare antimafia. (Applausi).

        PRESIDENTE. Dopo l’intervento del dottor Ciconte lascio la parola al dottor Enrico Carofiglio, sostituto procuratore della Repubblica di Bari, che svolgerà un intervento sul tema: "La mafia in Capitanata: il caso di Cerignola"; se non sbaglio, si fa riferimento ad eventi accaduti all’inizio degli anni Ottanta, quando la nuova camorra tentò di irrompere in quell’area.

        CAROFIGLIO Enrico, sostituto procuratore della Repubblica di Bari. Si impone per me in primo luogo di rivolgere un ringraziamento, non convenzionale, alla Commissione parlamentare antimafia ed al Comando generale dell’Arma dei carabinieri per avermi fornito l’occasione di parlare di argomenti gravi e completamente sconosciuti, come preciserò fra breve.  Le forme del crimine organizzato in Puglia, infatti, oggi un po’ meno che in passato, ma comunque ancora in modo massiccio, vengono troppo spesso confuse sotto l’etichetta equivoca di sacra corona unita, comprendendo con questa espressione fenomeni criminali fra loro molto diversi, che in realtà spesso non hanno nulla a che fare con la sacra corona unita intesa in senso stretto.
        Questo equivoco non riguarda soltanto l’uomo della strada o il lettore di giornali che, pur interessandosi di questi temi, non è uno specialista, ma coinvolge anche gli studiosi di questi fenomeni: ad esempio, ancora oggi, in testi di alta specializzazione, come gli Annali della Storia d’Italia dell’Einaudi dedicati alla criminalità, o in un’opera recentissima sulle mafie pugliesi, vengono definiti, in modo indiscriminato e sostanzialmente scorretto, tutti i fenomeni mafiosi pugliesi con la denominazione di sacra corona unita.
        In realtà, questa espressione costituisce la forma ed il nome che si sono dati il fenomeno mafioso del Salento, ma non ha alcuna efficacia esplicativa nel momento in cui si parla delle zone a nord di esso, ossia, per intenderci, della provincia di Bari e soprattutto di quella di Foggia.
        Nella provincia di Bari operano sodalizi mafiosi i cui modi di agire, per la verità, somigliano più alle forme del gangsterismo urbano che alla mafia nel senso più stretto del termine, ma comunque essi sono stati repressi ed in buona misura anche studiati.
        Invece, le forme del crimine organizzato nella provincia di Foggia, in terra di Capitanata, costituiscono – ripeto – un vero e proprio oggetto misterioso, non solo per chi non sia addetto ai lavori, ma anche per gli stessi specialisti, e sostanzialmente sono conosciute solo da un numero ristrettissimo di operatori pratici, per intenderci da pochissimi magistrati ed appartenenti alle forze dell’ordine.
        La stessa Commissione parlamentare antimafia, che in passato si è pure occupata del fenomeno mafioso in quella zona, probabilmente anche per una forma forse eccessivamente burocratica di acquisizione delle informazioni, nelle sue relazioni dimostra sostanzialmente di non aver centrato l’essenza del fenomeno. Cercherò quindi di inquadrarlo in modo molto rapido, con riferimento a tutta la terra di Capitanata, per poi cogliere le peculiarità del fenomeno specifico della mafia di Cerignola.
        Il territorio di Foggia, la Capitanata, in realtà ha le caratteristiche di un vero e proprio laboratorio criminale, in cui si rinvengono tre tipologie di crimine organizzato, tra loro diversissime e molto significative, che coesistono in uno spazio territoriale circoscritto.
        Esiste in primo luogo una criminalità di tipo mafioso classico, ossia ritualizzata, vicina alla ’ndrangheta calabrese dal punto di vista sia dei rituali, delle forme di affiliazione e di appartenenza, sia delle alleanze vere e proprie: è stata infatti accertata dalle indagini l’esistenza di alleanze organiche con la ’ndrangheta, con scambio di omicidi e traffico di stupefacenti.
        Questa mafia si è caratterizzata per una eccezionale impermeabilità. Infatti ad oggi, dopo due maxi processi, che pure hanno colpito duramente il sodalizio autodenominatosi "la società", per quanto riguarda la cosca foggiana non esiste un solo collaboratore di giustizia. Credo si tratti di un fenomeno assolutamente unico.
        La seconda tipologia è quella di una criminalità di tipo rurale che opera sul Gargano, ha origine pastorale ed è protagonista della faida più tremenda e più dimenticata di tutto il Mezzogiorno, la faida Libergolis-Primosa, che dal 1972 ad oggi ha registrato 29 omicidi, 26 tentati omicidi, 2 lupare bianche, una serie infinita di attentati. La risposta giudiziaria è consistita in un processo definito con sentenza passata in giudicato per un omicidio e un imputato e un processo definito con sentenza passata in giudicato per un tentato omicidio. Il controllo del territorio da parte di questi signori è assoluto. La ricerca di latitanti in quelle zone del Gargano impone alle forze dell’ordine di agire letteralmente come forze militari paracadutate dietro le linee nemiche. È un fenomeno ignorato sostanzialmente da tutti. Sulle zone montuose del Gargano, come in Aspromonte, come sui monti della Sardegna, semplicemente lo Stato non esiste.
        Vi è infine, e arriviamo al tema specifico di questo mio contributo, la criminalità cerignolana, che è una criminalità mafiosa di tipo assolutamente peculiare, caratterizzata, a mio modo di vedere, dai tratti di più inquietante originalità e modernità. Faccio brevemente la storia dell’epilogo, perlomeno di una parte, di questa mafia. Il 10 marzo del 1994, nel pieno centro di Cerignola, un commando armato eliminava un piccolo spacciatore e rapinatore a colpi di kalashnikov, fucile a pompa e armi semiautomatiche. Nell’ambito di questo omicidio veniva anche gravemente ferito un bambino di dieci anni. Questo era l’ultimo episodio di una serie impressionante, anch’essa sostanzialmente sconosciuta, di delitti di ogni genere: omicidi, attentati dinamitardi, sequestri di persona. Fu l’ultimo episodio di questa incredibile sequenza, che portò sostanzialmente all’implosione della mafia cerignolana. È bene evidenziare che in quel periodo il controllo del territorio sfuggiva completamente alle forze di polizia: bande armate di armi da guerra si fronteggiavano nel centro di Cerignola, pattugliandolo con macchine militarizzate, senza sostanzialmente che si riuscisse a contrastare questo fenomeno. Fu l’epilogo di questa storia di sangue, di una guerra scatenatasi all’interno di questa organizzazione, di cui brevemente definiremo i tratti essenziali, perché sostanzialmente la frangia perdente, che era fuoriuscita dall’organizzazione, resasi conto di essere condannata a morte, decise di collaborare con la giustizia. Ne seguirono indagini frenetiche che in pochi mesi consentirono di decifrare un fenomeno fino ad allora letteralmente occulto e misterioso.
        Ora vorrei dare qualche connotazione di tipo geografico e sociologico per intendere meglio la peculiarità del fenomeno di cui ci occupiamo. Cerignola è un paese che si trova nel centro del Tavoliere delle Puglie, ha circa 60.000 abitanti e costituisce per molti aspetti un fenomeno sociologico e criminale di assoluta originalità, comunque non studiato. Infatti, a fronte di una tradizione di lotte bracciantili, sindacali, di impegno civile, constatiamo l’esistenza di una microcriminalità straordinariamente aggressiva, operante entro i rigidi confini delineati dalla macrocriminalità di tipo peculiarmente mafioso, di cui ci accingiamo a parlare. Ed è essenzialmente nella coesistenza, micidiale dal punto di vista del senso di sicurezza pubblica, fra microcriminalità e macrocriminalità tutta la peculiarità e la gravità di questo fenomeno. Noi tutti sappiamo come in molte zone caratterizzate dall’esistenza di macrocriminalità potente non esista il piccolo reato. Le macchine in molti paesi della Sicilia e della Calabria vengono lasciate aperte, perché nessuno le ruba. A Cerignola coesistono, in parte coesistevano, entrambi i fenomeni nell’ambito di un vero e proprio regolamento criminale.
        E vediamo dunque quali sono le caratteristiche peculiari di questa mafia cerignolana. La prima cosa da evidenziare, la più significativa dal punto di vista criminologico, è che si tratta di una mafia completamente non ritualizzata. La mafia cerignolana non pratica affiliazioni, non conosce i gradi tipici della ’ndrangheta e della sacra corona unita, ed anzi li disprezza. In una realtà mafiosa, quella pugliese, che è tutta intrisa di una ritualità di importazione, esibita come una sorta di segno di emancipazione criminale, i mafiosi di Cerignola disprezzano il rituale e lo evitano. Esso, infatti, è considerato come un inutile e dannoso fattore di rischio per l’eventuale identificazione del sodalizio. Il primo pentito della mafia cerignolana, interrogato specificamente sul punto, cioè sull’esistenza o meno di rituali, risponde: "I battesimi sono pagliacciate. Che li facevamo a fare? Sono buoni per farsi scoprire. Il sangue, il taglio, la favella: pagliacciate! Se uno è capace di fare l’omicidio, va e lo fa". E infatti l’iniziazione mafiosa di questo signore, un signore che un altro soggetto che di omicidi se ne intendeva, Salvatore Annacondia, ebbe a definire "ottimo killer", si svolse proprio con la commissione di un omicidio particolarmente efferato. E richiesto dal pubblico ministero se per questo omicidio avesse ricevuto un compenso, quasi sdegnato rispose di no. Anche qui è interessante riportare una parte del verbale. Il pubblico ministero chiede: "Lei è stato pagato per questo omicidio?" "No, se ti pagano sei solo un killer". "Che vuol dire? Perché avete fatto questo omicidio?" Erano persone che non appartenevano all’associazione prima di uccidere. Dopo una riflessione questo signore, che si chiama Ricciardi, risponde: "Volevamo elevarci, volevamo essere qualcuno, volevamo appartenere". È tutto in questo "appartenere", un verbo lasciato sospeso e senza il complemento, che cogliamo un dato di interesse straordinario per capire il senso in generale dei fenomeni mafiosi e in particolare di questo; in questo bisogno di appartenenza che in una società rurale, come quella di Cerignola e di altri posti, assoggettata ad un impatto con la modernità che non è stato possibile reggere, cogliamo il senso di quel bisogno che porta molti giovani, non tutti di provenienza povera, all’affiliazione, non nel senso formale che si è detto, e alla partecipazione ad un sodalizio che dà un senso di identità e appartenenza, appunto.
        In ogni caso, l’assenza di rituali ha indotto, nell’ambito del maxiprocesso che ha riguardato la mafia cerignolana, molti difensori a sostenere che non di mafia si trattasse, ma semplicemente al massimo di bande dedite al traffico di stupefacenti. Allora credo che sia opportuno cogliere, rapidamente, i caratteri tipici della mafiosità di questo sodalizio, affermata da una sentenza di primo grado, e ora anche da una sentenza di appello, che ha irrogato 15 ergastoli e circa 900 anni di carcere. I capi supremi della mafia di Cerignola sono i fratelli Piarulli, due signori che, pur originari di Cerignola, governavano, e in parte lo fanno ancora dal carcere, il territorio di Cerignola, quando erano in libertà da Milano. A Milano trattavano da pari a pari, come ci è stato detto da più pentiti, con alte gerarchie della ’ndrangheta e, in misura minore, di Cosa nostra. Un pentito, un appartenente di altissimo rilievo alla ’ndrangheta, operante al Nord d’Italia, spiega come soggetti come i Piarulli, che sono pochissimi su tutto il territorio nazionale, vengono definiti dai mafiosi ritualizzati, dai mafiosi delle mafie classiche; la definizione è: "contrasti onorati". Contrasti onorati sono quei pochissimi soggetti che, pur non appartenendo ad un’associazione di tipo rituale, vengono trattati con il rispetto che si deve a capi potenti e ad affidabili soci di imprese criminali. Il modello del governo del territorio di Cerignola da parte di questi signori è quello organizzativo tipico del colonialismo classico, cioè a mezzo di un ristretto gruppo di plenipotenziari locali che operavano per l’appunto sul territorio. Ma a parte queste pochissime, cinque o sei, posizioni di sovraordinazione – e qui vi è un altro dato di straordinario interesse secondo me – la massa degli appartenenti, centinaia di persone, è collocata, almeno formalmente, su un piano di parità. La forma di governo dell’associazione è la democrazia assembleare. Questa non è una elucubrazione sociologica di un magistrato che ha tempo da perdere, ma è il risultato delle carte processuali del dibattimento: tutte le decisioni importanti per la vita del sodalizio venivano prese nell’ambito di vere e proprie assemblee in cui nei casi più importanti – fra poco ne vedremo uno – partecipavano anche i vertici milanesi. E dunque vediamo le regole che governavano l’associazione ma – io dico – governavano la città di Cerignola. Punto primo: lo stupefacente spacciato a Cerignola e zone limitrofe doveva provenire esclusivamente da Milano, fornito appunto dai vertici. Fu proprio una violazione di questo obbligo di esclusiva che scatenò la guerra che generò poi l’implosione e in qualche modo la fine, o comunque il grave indebolimento, di questo sodalizio. Punto secondo: l’organizzazione era divisa in sottogruppi, definiti squadre, cui era rigidamente assegnata la gestione di un pezzo del territorio ed il traffico di un tipo di stupefacente. Qui vi è un altro dato di grande interesse: ogni squadra gestiva una sua rete di spacciatori, circa 200 uomini operativi. Qui si viene ad un punto di grande interesse: il prezzo al minuto per lo spaccio dell’hashish e della cocaina era fissato dall’alto; la deroga a questo prezzo imposto costituiva grave violazione. Punto quarto: in Cerignola era vietato, e lo è tuttora, spacciare eroina. La regola era rispettata in modo rigidissimo. Infatti a Cerignola – qualsiasi statistica può dimostrarlo – città di circa 60.000 abitanti, è quasi inesistente il fenomeno della tossicodipendenza da eroina; i pochissimi tossicodipendenti da eroina si approvvigionano nei paesi vicini. Attenzione, l’organizzazione mafiosa cerignolana non disprezzava il traffico dell’eroina. Semplicemente la vendita era autorizzata nei comuni limitrofi: San Ferdinando, Ortanova, Andria, Trinitapoli. La ragione del divieto di spaccio è ovvia: l’inaffidabilità dei tossicodipendenti e il rischio che costoro possano in un modo o nell’altro collaborare con le forze di polizia.
        La commissione dei reati contro il patrimonio era libera, ma con una importantissima eccezione: le estorsioni. Fino al 1989 le estorsioni erano libere. In quell’anno vi fu una recrudescenza gravissima del fenomeno e dati confidenziali, perché le denunce furono pochissime, indicarono nell’ordine delle centinaia le estorsioni in corso. Il controllo delle forze dell’ordine si accentuò; l’intera sezione della squadra mobile di Foggia si trasferì su Cerignola e la possibilità di lavorare in altri campi divenne molto più circoscritta. In particolare era compromessa la libertà dei traffici, la libertà di arrivo di grossi carichi di stupefacente che settimanalmente da Milano giungevano a Cerignola. Nel corso di una di quelle assemblee di cui dicevo i capi milanesi scesero a Cerignola e vietarono da quel momento in poi le estorsioni, che cessarono letteralmente da un giorno all’altro. Viene alla mente naturalmente l’esempio tratto dall’esperienza siciliana del divieto di sequestri di persona in territorio siciliano per tutto quell’indotto di controllo del territorio che essi implicavano.
        Queste sono sostanzialmente, nella sintesi imposta dai tempi brevi, le regole, direi quasi la Costituzione materiale dell’antistato mafioso cerignolano. Ma alcuni altri indicatori sono interessanti, proprio per avviarci velocissimamente verso la fine di questo intervento. Il controllo del territorio cittadino era pressoché totale, non solo prima dell’intervento giudiziario che ha portato poi ai processi, uno in particolare, e prima ancora agli arresti, ma anche dopo. Dopo oltre 80 arresti dei soggetti più pericolosi si era alla ricerca di uno dei capi, uno dei plenipotenziari di cui parlavo prima, il quale, pur latitante, è sempre rimasto nel territorio di Cerignola. Il personale della DIA, sconosciuto ai malavitosi locali, che circolava in Cerignola (che non è certo un paese di 5.000 abitanti), per compiere l’attività logistica necessaria alla localizzazione di questo signore, veniva sistematicamente intercettato, fermato da una sorta di polizia territoriale mafiosa, richiesto della ragione della sua presenza in quel centro. A due ufficiali della DIA che circolavano per l’appunto nel centro di Cerignola, richiesti di che cosa stessero facendo lì e avendo dato la risposta che erano rappresentanti di enciclopedie, fu detto in modo secco che potevano andar via perché lì le enciclopedie non le comprava nessuno.
        Un altro dato? I parenti, anche lontani, dei collaboratori di giustizia, quelli che non sono andati via da Cerignola fino ad oggi, non hanno mai più potuto lavorare; la sentenza del maxi processo è del febbraio 1997. Chi lavorava ha perso il posto e chi non lavorava è stato costretto ad emigrare non per motivi di sicurezza e di incolumità fisica, bensì di sussistenza.
        Dopo le operazioni che portarono alla cattura (il cosiddetto blitz di cui ho parlato risale ad oltre 4 anni fa), durante tutto il processo ed anche oggi non è stato commesso alcun omicidio, non solo e non tanto perché alcuni dei più pericolosi killer erano stati arrestati, ma perché era giunto l’ordine tassativo – anche questo è un dato processuale – di evitare ogni situazione che potesse danneggiare per i capi in carcere, anche sotto il profilo del condizionamento psicologico, l’esito del processo. Che poi questa strategia non abbia sortito alcun effetto in un processo che, devo dire, è stato celebrato in tempo di record, che non ha registrato una sola scarcerazione e che si è concluso con la condanna di oltre il 90 per cento degli imputati, è naturalmente un’altra questione relativa a mezzi, modi e tecniche più adeguati per il contrasto giudiziario di questi fenomeni. Ritengo che in un’altra occasione potrà essere interessante parlarne. (Applausi).

        PRESIDENTE. Passiamo ora all’intervento dell’onorevole Michele Saponara, componente della Commissione parlamentare antimafia, sul tema "La criminalità organizzata nelle zone non tradizionalmente interessate dall’attività mafiosa".

        SAPONARA Michele, deputato, componente della Commissione parlamentare antimafia. Signor Presidente, da tempo la Commissione, pur concentrando il massimo dell’attenzione sui problemi della lotta alle varie forme di criminalità organizzata nelle quattro regioni di insediamento tradizionale (la Sicilia per la mafia, la Calabria per la ’ndrangheta, la Campania per la camorra e la Puglia per la sacra corona unita), ha ritenuto di dover prestare la sua attenzione anche ad altre zone, ad evitare che si pensasse che la difesa dello Stato fosse concentrata unicamente su alcune aree dove le organizzazioni di tipo tradizionale puntano al controllo del territorio avvalendosi dei tradizionali sistemi di violenza, ricatto e omertà.  Alla Commissione infatti risultava che vari elementi, personaggi mafiosi, camorristi e della ’ndrangheta si erano infiltrati in zone del Centro-Nord, cioè in zone ricche ed appetibili. Si è cercato di approfondire il fenomeno e le indagini, che prima avevano avuto un andamento episodico, cominciarono ad assumere un carattere più organico e sistematico.
        E così la Commissione, che in un primo momento si era accontentata di usare materiale giudiziario, in particolare le relazioni dei procuratori generali, ha ritenuto poi necessario effettuare dei sopralluoghi, traendone elementi e notizie molto importanti, che poi ha tenuto presenti nelle proposte trasmesse al Parlamento, e sottolineando soprattutto la presenza dello Stato in queste zone a rischio.
        Nell’attuale legislatura la Commissione ha ripreso il percorso delle precedenti istituendo addirittura un Comitato, presieduto dal sottoscritto, con il compito di verificare il livello di insediamento e di infiltrazioni in aree non tradizionali di personaggi legati ad organizzazioni come la mafia, la ’ndrangheta, la camorra e la sacra corona unita, nonché di organizzazioni direttamente o indirettamente collegate con quelle specifiche forme di criminalità organizzata o comunque ispirate a quello che viene comunemente denominato modello mafioso.
        Si tratta di una ricerca complessa, in quanto le forme di criminalità organizzata sono varie. Nelle aree non tradizionali, invece, può registrarsi la presenza di una organizzazione "tipica", in quanto ci sono varie e distinte tipologie, mutamenti abbastanza rapidi, di successione, di sostituzione e di supremazia, accanto a fenomeni di convivenza talora cruenta ma assai più spesso ispirata ad una sorta di pax mafiosa.
        Il fenomeno dunque è assai complesso. E un’ulteriore complessità deriva dal fatto che, mentre nelle aree tradizionali ciò che ricorre con ovvia frequenza è l’insediamento stabile, semmai con un’espansione nelle zone vicine tanto da costituire addirittura un vero e proprio controllo del territorio, nelle altre zone invece si parla soltanto di infiltrazione. I connotati di stabilità sono di livello inferiore per la mancanza di condizioni obiettive o anche e soprattutto perché vi è una maggior resistenza da parte degli ambienti sociale, politico e civile che si oppongono a qualsiasi forma di predominio.
        E sono diversi anche i metodi. Nelle aree tradizionali la mafia, la ’ndrangheta, la camorra e la sacra corona unita ricorrono alla violenza, mentre nelle altre zone operano con metodi più insinuanti; e proprio per questo è giusto parlare di infiltrazione. La ricerca del consenso è meno perentoria e indiretta; qui si cerca addirittura la pace per poter attirare meno l’attenzione e svolgere più tranquillamente i propri affari.
        Alla luce di questi chiarimenti, va detto che l’indagine svolta dalla Commissione, sia nel passato sia nel presente, conduce al convincimento dell’esistenza di una vastissima ramificazione di varie forme di criminalità organizzata di tipo mafioso praticamente in tutte le regioni d’Italia o almeno in quelle che hanno formato oggetto di attenzione da parte della Commissione.
        È chiaro che vi sono varie forme peculiari proprie dell’una o dell’altra criminalità organizzata, ma un fatto è certo: non si può più affermare che in Italia vi sono delle isole felici. Occorre prendere atto di un dato assai importante, e precisamente che questa presenza diffusa non si esprime, in genere, nella forma del controllo del territorio, in quanto vi è la resistenza di un tessuto economico-sociale e il rigetto di gran parte della società italiana dei metodi tradizionali mafiosi, e soprattutto c’è l’esistenza di un tessuto democratico capillarmente diffuso e meno facilmente permeabile all’infiltrazione di soggetti dediti alla criminalità. Certo, vi sono pochi casi di controllo del territorio da parte di organizzazioni di tipo mafioso anche nel Nord Italia, ad esempio in Lombardia, specialmente da parte della ’ndrangheta.
        In una delle audizioni svoltesi a Milano dalla Commissione, il procuratore Borrelli, a proposito della Lombardia – un argomento su cui tornerò in seguito –, ha detto: "Vorrei dire in primo luogo che in questi sei anni, da quando è stata istituita la DDA, il passo in avanti che s’è fatto nella lotta alla criminalità organizzata è stato notevolissimo. Ci si potrà domandare come mai fino al 1991 il fenomeno della mafia in Lombardia fosse rimasto in realtà insufficientemente esplorato; forse, più che andare a ricercare le cause o le ragioni per cui si era determinata tale situazione è il caso di sottolineare l’impulso che invece è stato dato grazie alla creazione di una forza d’urto specifica, la DDA, che ha consentito una concentrazione di talenti," – questo è importante – "una progressiva stratificazione di conoscenze e una specializzazione nel settore, oltre che l’allestimento di supporti di polizia come la DIA, che si sono dedicati a tempo pieno a questo fenomeno".
        Cosa si è scoperto a Milano? Il procuratore Borrelli, sempre in quella audizione, ha affermato: "Le scoperte che sono state fatte sono notevolissime. Si è accertata, infatti, la presenza in Lombardia di tutte le mafie storiche: da Cosa nostra alla camorra, alla ’ndrangheta, alla sacra corona unita sino alla stidda.... Ma la forma di associazione mafiosa recentemente più diffusa è la ’ndrangheta, che fa capo alla organizzazione calabrese".
        La ’ndrangheta ha impegnato l’attività giudiziaria di Milano in una decina di maxi processi con centinaia di imputati, processi che hanno scompaginato l’assetto delle associazioni mafiose e che si sono conclusi con la condanna di centinaia di imputati a centinaia e centinaia di anni di carcere.
        Ma a Milano non c’è solo la ’ndrangheta, vi sono le mafie straniere, vi sono le mafie nordafricane, c’è la mafia cinese e c’è la mafia albanese, che si dedica soprattutto allo sfruttamento della prostituzione nonché al traffico degli stupefacenti.
        Lo sfruttamento della prostituzione, di cui ha parlato anche il dottor Maddalena, è un gravissimo problema; esiste la tratta delle prostitute e il loro sfruttamento da parte degli albanesi e degli slavi.
        Poi, vi è la mafia cinese, detta anche "mano nera", che a Milano è stata individuata e sottoposta ad un processo che ha avuto un certo esito. I cinesi insediati a Milano fanno parte di una comunità molto laboriosa e assai silenziosa che cerca di non ostentare e di non estendere i propri affari e i propri poteri verso altre comunità. Però, fra tanti cittadini laboriosi vi sono anche dei criminali che hanno introdotto addirittura l’estorsione cinese, tant’è che si chiama "pizzo al cinese", che hanno commesso reati di sequestro di persona e addirittura di riduzione in schiavitù, tenendo degli operai impegnati 20 ore su 24 a fare lavori di pelletteria o altro.
        A Milano è stato celebrato un grande processo che però non ha avuto la fortuna, secondo i pubblici ministeri e quindi secondo l’accusa, di veder affermata la mafiosità di quest’associazione. Infatti, 40 imputati sono stati condannati per associazione a delinquere; pur silente, si tratta di una mafia molto pericolosa che è tenuta sotto controllo.
        Ma Milano è un importante crocevia: è contemporaneamente collegato con l’Oriente, con i paesi dell’Africa e con quelli dell’America Latina ed è uno dei maggiori centri del grande traffico degli stupefacenti. È stata fatta una stima ed anche dei conti approssimativi per la redditività e i profitti delle grandi operazioni del traffico degli stupefacenti: si tratta sempre di cifre sbalorditive.
        Tutte queste attività perseguono due obiettivi non sempre facilmente distinguibili: da un lato, realizzare profitti o vantaggi e, dall’altro, impiegare, reinvestire e ripulire le enormi quantità di denaro illegalmente acquisito e che occorre, in qualunque modo, reimpiegare.
        Ci sono diverse modalità di infiltrazione e ciò dipende da area ad area. Ci sono delle infiltrazioni in Romagna, in Versilia e in Liguria; altre addirittura in zone turistiche, come a Montegrotto e ad Abano, e poi in quelle zone dove sono collocate le case da gioco, come Saint Vincent e Sanremo.
        Non ci sono "isole felici" – come dicevo – perché perfino la Sardegna, refrattaria in sé alle classiche forme di insediamento mafioso, non può considerarsi immune da tali infiltrazioni. Lo stesso va detto per la zona del bresciano, che in passato non fu degnata di sufficiente attenzione. La Commissione parlamentare antimafia lasciò sempre inesplorata la fascia orientale della Lombardia, nella diffusa convinzione che Milano esercitasse una forza attrattiva così pregnante per i criminali mafiosi da rendere praticamente esente da infiltrazioni tutto il resto della regione. Si delinea, quindi, un quadro davvero allarmante: la presenza di mafiosi, di criminali specialmente meridionali (quindi, calabresi, siciliani, pugliesi e napoletani) e, quindi, camorra, mafia, ’ndrangheta e sacra corona unita infiltrate e insediate al Nord. Pertanto, bisogna subito porsi la seguente domanda: quali sono le cause della presenza di criminali del Sud nel Nord del Paese?
        Tante sono le cause ed occorre individuarle per cercare di intervenire su di esse. Innanzi tutto vi è stato un utilizzo incauto e improvvido dell’istituto del soggiorno obbligato. Questa misura, cui si è ricorso frequentemente e senza adeguate garanzie di controllo, ha praticamente disseminato in tutto il Centro e nel Nord del Paese numerosi soggetti di chiara origine mafiosa e li ha radicati in zone che altrimenti sarebbero rimaste immuni. Inevitabilmente questi personaggi si sono gradualmente insediati, vi hanno portato le loro famiglie ed hanno creato un humus favorevole per la loro attività. Si è trattato, indubbiamente, di un vero e proprio processo di inquinamento del territorio nazionale, che è stato determinato da una evidente sottovalutazione del fenomeno criminoso.
        Altre cause di tali spostamenti di soggetti mafiosi sono state rappresentate dalla fuga dalle zone di origine o per sottrarsi a vendette di famiglie o cosche rivali o per necessità di evitare controlli rigorosi da parte delle autorità. Si sono registrati dei grandi flussi migratori in particolare dagli anni Cinquanta, prevalentemente dal Sud verso il Nord, nel momento in cui grandi aziende avevano bisogno e richiedevano manodopera. Purtroppo, assieme a tantissimi onesti lavoratori immigrati, che si sono fatti onore nel Nord ed hanno portato l’impegno e la forza sia delle braccia che della mente, sono arrivati anche soggetti più disponibili ad altri tipi di attività (forse non riuscivano a trovare lavoro), che hanno rappresentato un punto di riferimento come manovalanza o basi sicure per la criminalità che intendeva insediarsi nel Nord.
        Un’ultima causa, infine, è rappresentata dall’appetibilità delle zone di destinazione. È chiaro che i mafiosi e gli altri criminali cercavano le zone che offrivano più ricchezza e possibilità di riciclare il denaro sporco e di guadagnare attraverso il traffico di stupefacenti, delle armi e attraverso la prostituzione. Guardavano a Milano quando questa città rappresentava il massimo dello sviluppo e della ricchezza della società e poi tentavano di infiltrarsi in qualsiasi altra zona che, in un certo momento, potesse essere appetibile ed avere prospettive di sviluppo. Così hanno cercato anche di inserirsi in Basilicata quando si è insediato il grande complesso della Fiat nella zona di Melfi (con tutte le logiche prospettive non solo per l’occupazione, ma anche per l’indotto nella fase di operatività).
        Per quanto riguarda i rapporti instaurati tra le varie mafie e criminalità organizzate, cito come esempio un elemento fortemente indiziante, rappresentato dal fenomeno dell’autoparco di Milano, che per molti anni ha prosperato. C’è stato un intreccio di mafia in cui sono confluiti criminali di diverse origini.
        Un altro episodio significativo è quello dei sequestri di persona, ideati ed organizzati nel Sud e poi eseguiti in Lombardia o in zone adiacenti. Un caso tipico è quello del sequestro, purtroppo tragicamente concluso, di Cristina Mazzotti, effettuato nel 1975 in Brianza. Lo spunto organizzativo è partito dalla Calabria, regione nella quale furono dirette le operazioni, usando intermediari inviati sul posto, ma utilizzando per la cattura e la custodia una squadra di malviventi locale, in parte ex contrabbandieri convinti di poter fare il salto di qualità.
        Per quanto riguarda le armi, devo dire che queste venivano fornite dalle organizzazioni delle zone tradizionali. La vicenda dell’autoparco di Milano ha evidenziato collegamenti strettissimi tra le varie mafie. Si è accennato anche alla "mafia del Brenta", che ha instaurato un robusto controllo su un intero territorio, sulla base di un’alleanza di ferro tra soggetti diversi (cioè una mafia locale che si è, in un certo senso, organizzata allo stesso modo di quelle tradizionali).
        I fenomeni criminali che hanno attecchito nel Nord del Paese sono quelli tradizionali. Il traffico di stupefacenti esiste in ogni regione, ma in alcune zone si accentuano gli aspetti distributivi. Comunque, non c’è dubbio che, se tutte le regioni sono in varia forma centrali di acquisizione e di smistamento, Milano appare come uno dei centri più importanti, proprio perché collegata direttamente con tutti i luoghi di produzione (il dottor Carofiglio, nel corso del suo intervento, ha detto che determinati stupefacenti sono stati forniti soltanto dalla piazza di Milano).
        Per quanto riguarda gli appalti e le opere pubbliche, si riscontra qualche differenza tra una zona e l’altra perché, non potendosi in genere far valere l’uso della forza e l’impiego diretto dell’intimidazione come in altre parti del Paese, qui occorre operare con metodi più insinuanti.
        Sull’argomento dell’intreccio tra mafia e politica si è sempre parlato. Si è parlato della "Duomo connection" a Milano come della prova che la mafia aveva conquistato la città, ma fortunatamente il tutto si è sgonfiato e il relativo processo si è concluso con la condanna di un funzionario per il reato di abuso d’ufficio. Vorrei, a questo punto, spendere qualche minuto sull’argomento del gioco d’azzardo, perché è molto praticato e desta vivo interesse specialmente nella camorra, la quale riesce addirittura ad usare delle bische a cielo aperto. Poi vorrei soffermare l’attenzione sulle altre zone che abbiamo visitato.
        Abbiamo detto che la Procura della Repubblica di Milano è molto agguerrita e che la società civile è altrettanto agguerrita e sensibile. Il sindaco Albertini, a proposito dell’interesse che desta la criminalità organizzata in Lombardia, ha detto una verità. Ha detto che si prende atto dell’esistenza di una criminalità organizzata e che come sindaco si deve interessare anche di ciò che la popolazione vive sulla sua pelle ed affronta, ossia la microcriminalità. Addirittura voleva impostare in Italia il modello Giuliani di New York. Il presidente Formigoni, al riguardo altrettanto sensibile, ha avuto addirittura il coraggio, in un momento particolare per la città, di ipotizzare la presenza inquinante della mafia, della criminalità organizzata nel campo della moda. Purtroppo questa affermazione coincideva con importanti sfilate di moda e provocò feroci e comprensibili reazioni negli operatori del settore.
        In altre zone esiste l’ecomafia; mi riferisco alla raccolta dei rifiuti: addirittura si ipotizza il carico di molti rifiuti su navi che vengono poi fatte affondare (nella migliore delle ipotesi i rifiuti vengono portati a destinazione).
        Esiste poi la situazione delle Marche, che abbiamo visitato, che non rappresenta più quell’isola felice di un tempo. Vi ricordo il piccolo contrasto sorto tra il procuratore generale – dottor Poggi – che escludeva assolutamente un inquinamento della regione, ed un procuratore della Repubblica – dottor Angelucci – che, subìto un attentato, lo ha contraddetto. In ogni caso, devo dire che la zona è a rischio, perché scorre un grande fiume di denaro. C’è un porto in cui sbarcano centinaia di TIR (si ipotizza il trasporto di droga) senza che vi possa essere un adeguato controllo; c’è un aeroporto in cui sbarcano migliaia di turisti russi (molte prostitute russe o ucraine) che investono fiumi di denaro nell’acquisto di scarpe, argenteria e pare che guardino anche ad aziende decotte e ad alberghi.
        Nelle altre zone d’Italia si riscontra poi l’usura, l’estorsione e via dicendo. Pertanto, la situazione deve essere necessariamente posta sotto controllo. Le forze dell’ordine e la magistratura si stanno attrezzando e, quindi, sono in grado di opporre una volontà ed una tecnologia che può stare dietro alle sofisticazioni molto avanzate del riciclaggio. Dunque, occorre essere vigili e soprattutto che la lotta alla criminalità organizzata sia condotta con uguale impegno in tutta l’Italia. (Applausi).

Presidenza del deputato Filippo Mancuso,
vice presidente della Commissione parlamentare antimafia

        PRESIDENTE. Ricordo ai presenti che questa parte del Convegno è dedicata alla "Conoscenza, investigazione e contrasto alla criminalità organizzata per il controllo del territorio".  Senza ulteriori preamboli, do la parola al dottor Piero Luigi Vigna, procuratore nazionale antimafia.

        VIGNA Piero Luigi, procuratore nazionale antimafia. La ringrazio, signor Presidente, e il ringraziamento si estende al presidente Del Turco, alla Commissione parlamentare antimafia e al Comandante generale dell’Arma dei carabinieri per questo invito.  Mi propongo di svolgere alcune sintetiche riflessioni, come sono imposte dai tempi che ci sono assegnati, sul tema di questa tornata di lavori: "Conoscenza, investigazione e contrasto alla criminalità organizzata per il controllo del territorio".
        Il concetto di controllo di territorio può essere colto in un duplice significato: controllo fisico o militare del territorio oppure controllo conoscitivo del territorio. Io ritengo che si debba privilegiare il controllo conoscitivo del territorio; è questo e solo questo che penetra nel tessuto del territorio; l’altro tipo di controllo, per così dire, lo sorvola.
        È il controllo conoscitivo che innesca le investigazioni; quello fisico assolve esclusivamente o quasi ad una funzione di prevenzione generale, che poi spesso, in particolari zone – mi riferisco a Napoli e all’hinterland – non riesce neppure sempre a sortire i suoi effetti perché fatti gravissimi avvengono nonostante il controllo fisico del territorio.
        Il controllo conoscitivo da privilegiare deve avere, a mio avviso, la caratteristica di essere relazionale, e ciò con riferimento ad almeno tre parametri. Il primo parametro è quello della sua localizzazione. Il territorio – dico cose risapute – va frazionato secondo opportuni criteri, per esempio in relazione all’esistenza di insediamenti economici o all’esistenza di aree di particolare disagio, anche sociale. La istituzione di un commissariato nel quartiere Scampìa è una dimostrazione di questo. Il territorio va frazionato per quartieri; ogni quartiere ha i suoi problemi.
        Il secondo parametro di relazione del controllo conoscitivo è il suo affidamento per un tempo sufficientemente ampio al medesimo personale, che ovviamente ha bisogno di una professionalità del tutto specifica e diversa da quella che richiede il controllo fisico o militare.
        Il terzo parametro di relazione è che si deve instaurare una serie di rapporti fra il personale adibito al controllo conoscitivo di una certa frazione del territorio con le realtà sane espresse dalla società civile in quel determinato spazio, in modo da determinare e realizzare una conoscenza costruita insieme.
        In questa visione una particolare attenzione, a mio parere, e un particolare impegno di conoscenza devono essere rivolti alle realtà economiche che operano nel territorio, a cominciare dalla apertura a volte inspiegabile di negozi lussuosi che non sono frequentati da alcun cliente apparente, dal rilievo di merci vendute a prezzi inferiori a quelli praticati usualmente sul mercato, al monitoraggio delle licenze o dei trasferimenti di licenze di esercizi commerciali che avvengono in quel determinato territorio, fino ad arrivare a quello che, probabilmente, nell’aggressione generale che dobbiamo compiere all’economia criminale è il punto cruciale: gli appalti. Questo è il grande problema del nostro momento. Noi assistiamo a ribassi sui prezzi iscritti nei bandi di gara che vanno dal 35 al 40, al 45 per cento. Notiamo che nei cosiddetti consorzi d’impresa compare un’impresa sana attorniata da imprese satellitari che tali non sembrano essere. È questo che può spiegare la altrimenti inspiegabile dinamica di questi ribassi anomali.
        Non c’è bisogno di ricorrere al credito bancario, il denaro affluisce probabilmente dalle imprese satelliti. L’altra dinamica è che chiunque vince un appalto in certe zone subisce o estorsioni dirette per una certa percentuale dei lavori che si è aggiudicato o è costretto a cedere in subappalto a imprese infiltrate dalla economia criminale.
        Anche il Presidente della Commissione antimafia ha sottolineato che migliaia di miliardi dovranno affluire al Sud e questo ci conferma che le organizzazioni criminali vanno dove vi è effervescenza economica e si impadroniscono degli snodi della economia, per esempio l’appalto, per rivolgere questa effervescenza a proprio favore, impedendo che si trasformi in sviluppo sociale. Direi che è poi nella fase della investigazione di polizia e nella fase della indagine del pubblico ministero che queste conoscenze frazionate, che ci derivano dal controllo conoscitivo-relazionale che ho cercato di illustrare brevemente, debbono essere ricondotte ad unità, e lo strumento per ricondurle ad unità è il coordinamento.
        Il coordinamento, come si sa, sta a significare che più autorità sono tutte competenti in determinate materie, che queste materie hanno momenti di collegamento fra loro, per cui il tutto deve essere coordinato al medesimo fine. E allora provvidenzialmente già nel 1991, la legge n. 203, all’articolo 12, comma 1, prevedeva che, per assicurare il collegamento delle attività investigative relative alla criminalità organizzata, le amministrazioni interessate provvedono a costituire i servizi centrali e interprovinciali, e, ancora, nel comma 3 dello stesso articolo, stabiliva che questi servizi si coordinano fra di loro e con gli altri organi di polizia. Ma, superata la fase della investigazione di polizia, ecco che il coordinamento deve essere fatto dal magistrato; è il magistrato – stabilisce sempre questa norma – che deve impartire le direttive (lo prevede il comma 5 dell’articolo 12) per attivare l’effettivo coordinamento investigativo fra i diversi organismi di polizia giudiziaria. Ma non basta: i magistrati si debbono coordinare fra loro.
        È così che il frazionamento di conoscenze viene ridotto ad unità per l’ottimale e completo svolgimento delle indagini. È appunto l’organo che dirigo che ha la funzione di coordinare le indagini in tema di delitti di mafia, così come sono i procuratori generali che debbono coordinare quelle in tema di criminalità comune ed eversiva.
        Ma, signori, ogni nostro discorso sul controllo e sull’efficacia dell’azione repressiva – questa parola è tornata più volte stamani – delle forze di polizia non avrà sufficienti esiti e, come diceva il presidente Violante con riferimento alla criminalità diffusa, urbana, predatoria – vedete quanti nomi –, alla microcriminalità, determina lo stacco della fiducia dei cittadini da noi, se la macchina della giustizia non funzionerà.
        Una macchina della giustizia che non funziona è produttiva di non legalità. Il creditore che per riscuotere il proprio credito deve aspettare decine di anni sarà costretto a far ricorso a persone che ottengono il pagamento con mezzi bruschi o agli usurai. Il poliziotto che vede la persona arrestata una, due, tre, quattro, cinque, sei o sette volte (siamo arrivati, mi pare, a questo record), nel giro di due o tre mesi, ricomparire sulla strada a commettere i medesimi reati, se non è un santo, sarà demotivato.
        E allora come fare? Non si può certo tornare indietro su un modello processuale quale è stato scelto nel 1989, ma si può sicuramente sfoltire il numero dei reati. Si possono pensare forme di mediazione sociale, come sono ipotizzate in iniziative parlamentari, e per diminuire il carico dei processi si può ampliare la perseguibilità a querela, ma sicuramente si dovrà anche aumentare il numero dei giudici.
        I magistrati italiani, infatti, per una singolare interpretazione corporativa del loro ruolo, si sono sempre dimostrati non disponibili ad aumenti del loro organico; mi sembra invece che sia giunto il momento, anche comparando i nostri parametri con quelli di altri paesi europei, di compiere una meditazione su questo punto. Quando sono stato a Francoforte e ho chiesto al procuratore quanti sostituti avesse, lui mi ha risposto: "140" e di fronte alla mia sorpresa ha replicato: "Sa, noi facciamo le indagini", perché, domando, in Italia il pubblico ministero sta forse a guardare?
        Quello relativo al numero dei giudici è soprattutto un nodo molto importante; perché le indagini proseguono sempre: il pubblico ministero non è mai solo ed anche ad organici ridotti può dare le opportune direttive alla polizia giudiziaria. Lo stesso non si può dire però per il giudice per le indagini preliminari e per il tribunale: a quel livello tutto finisce e svanisce.
        Ha forse allora ragione il Ministro tedesco della giustizia quando sostiene che è necessario cercare di colpire la microcriminalità (dato che il processo penale ha i suoi tempi lunghi e in attesa che divengano più brevi) con sanzioni che colpiscano immediatamente l’interesse del soggetto, del microcriminale, comminate in via amministrativa. Non sono mai state sollevate questioni, infatti, riguardo al potere del prefetto di ritirare la patente dopo un incidente stradale o alla possibilità del questore, in caso di violenze compiute nel corso di manifestazioni sportive, di proibire l’accesso ai luoghi dove si pratica lo sport invitando il soggetto nei propri uffici.
        Penso che, probabilmente – ma il discorso ha bisogno di meditazione – certi soggetti sono molto più sensibili a questo tipo di sanzioni piuttosto che ad una sanzione molto rimandata. Speriamo comunque che i tempi del processo penale si abbrevino. (Applausi).

        PRESIDENTE. Questa geometrica relazione merita, con il suo consenso dottor Vigna, una duplice notazione. Spero che lei, avendo detto che una giustizia che mal funziona non è tale, voglia arricchire il concetto includendovi anche quello di una giustizia che non proceda attraverso abusi.        

        VIGNA. Certo, questo è il presupposto!         

        PRESIDENTE. Inoltre, per quanto riguarda l’arricchimento dei ruoli, prima di provvedere a ciò, che è questione controvertibile, bisogna riformare il sistema di reclutamento dei magistrati che, allo stato delle cose, può garantire l’afflusso ma non la qualità degli stessi. Ciò detto mi complimento con il dottor Vigna e lo saluto.  Invito ora il dottor Cordova a svolgere la sua relazione.

        CORDOVA Agostino, procuratore della Repubblica della DDA di Napoli. Signor Presidente, saluto innanzi tutto l’uditorio ed entro subito nel tema che sono stato invitato a trattare, ossia: "Conoscenza, investigazione e contrasto alla criminalità organizzata per il controllo del territorio". Potrei iniziare e concludere subito il mio intervento con la semplice considerazione, o meglio osservazione, se non constatazione, che non vedo come si possa assicurare il controllo del territorio laddove per ragioni nel cui merito non spetta a me entrare, non è possibile neppure il controllo dell’immigrazione clandestina, come dimostrato dagli sbarchi quotidiani, o meglio, da quelli che vengono accertati. Eppure tale controllo sarebbe in astratto di estrema facilità: dal momento dell’invasione, infatti, la presenza materiale degli immigrati ricade sotto gli occhi di tutti.

        Nonostante le frequenti dichiarazioni giornalistiche, a parte il ripetuto mito della necessità di non creare allarmismi e di non sopravvalutare il fenomeno, ritengo che ciò costituisca un dato di fatto inconfutabile. Per un verso, infatti, il fenomeno dell’immigrazione era in passato limitato alla ben organizzata "spedizione", all’accoglimento ed allo smistamento dei clandestini nella loro utilizzazione nel lavoro nero e nella prostituzione; seguirono poi gli inserimenti degli immigrati anche nella manovalanza delle organizzazioni camorristiche e successivamente si ebbe anche la nascita di qualche organizzazione autonoma. Per altro verso, come è a tutti noto, negli ultimi tempi al trasporto dei clandestini si è abbinata l’importazione di droga e di armi da guerra.
        Tuttavia ciò mi dà lo spunto per proseguire, atteso che detto fenomeno è dovuto non solo ad eventuali insufficienze nel controllo del territorio, bensì soprattutto alla normativa in materia, che rende impossibile o effimero il controllo. Intendo dire che basterebbe una normativa penale che consentisse l’arresto in flagranza di chi venga colto in situazione di clandestinità e la sua immediata espulsione alla fine del periodo di detenzione carceraria per sconsigliare l’immigrazione clandestina in Italia. Ripeto, a me sembra del tutto ovvio, ma per motivi che come magistrato non mi interessano, è fuori da ogni previsione.
        Ritornando al tema di cui sono stato invitato a discutere, per il vero invertirei i termini con cui è stato formulato, ossia "Conoscenza, investigazione e contrasto alla criminalità organizzata per il controllo del territorio", perché la conoscenza è di norma il frutto dell’investigazione ed in astratto proprio il controllo del territorio dovrebbe servire per contrastare la criminalità organizzata.
        Se investigazione e conoscenza fossero strumentali al controllo della criminalità e quindi a quello del territorio, che sarebbe il risultato finale, il discorso apparirebbe limitativo, in quanto si assumerebbe che dal contrasto alla criminalità organizzata conseguirebbe automaticamente non solo e non tanto il controllo del territorio, quanto la neutralizzazione delle attività delittuose.
        Per confutare ciò basterebbe la testimonianza dei fatti: il fenomeno del pentitismo e le conseguenti indagini hanno non solo contrastato la criminalità camorristica sul territorio, ma hanno addirittura causato lo sconvolgimento dell’assetto camorristico, eppure non hanno prodotto il controllo del territorio, che è rimasto o ai vecchi clan, in persona dei loro capi detenuti o latitanti, oppure delle nuove leve, o viceversa ai clan che hanno assunto il predominio approfittando del temporaneo indebolimento degli altri, maggiormente colpiti dai provvedimenti giudiziari.
        La conseguenza è che lo Stato non è riuscito a riappropriarsi del territorio, perdendo così un’occasione storica. Le cause di tale fallimento vanno ravvisate, in primo luogo, nella mancanza di un piano organico unitario e generale a medio e lungo termine per la riappropriazione del territorio ed in secondo luogo nell’assoluta inadeguatezza di uomini e di mezzi. Bisogna, infatti, superare le consuete affermazioni di rito sul fatto che a Napoli esiste il maggior numero di magistrati e di forze dell’ordine rispetto a tutte le altre città d’Italia, perché si insiste nel raffrontare gli organici con la popolazione residente e non con la popolazione delinquente, con il numero dei procedimenti pendenti e non con il numero degli indagati per ciascun provvedimento per cui, ad esempio, il procedimento sul caso Stano, che conta oltre 1.300 inquisiti, dal punto di vista statistico vale per uno.
        Tornando al controllo del territorio, esso andrebbe inteso come un sistema ordinato di vigilanza e di presidio, che valga sia a prevenire sia ad impedire i fatti criminosi, o, quanto meno, alla fine, ad individuarne gli autori.
        Mi sembra però che ciò valga unicamente per i crimini comuni che si commettono palesemente, e non per quella serie infinita di reati e per le attività socialmente pericolose che vengono realizzati in maniera diversa, quasi sempre non palese (sia essa oculata, o mascherata, o addirittura legalizzata) e che consentono alle organizzazioni criminose di controllare il territorio, con il potere che esercitano e con il timore che ingenerano, costituendo esse l’autorità che si sostituisce a quella dello Stato, e le cui regole sono ferree e le sanzioni immediate, inappellabili, non patteggiabili, né prescrivibili, né amnistiabili o depenalizzabili.
        A parte ciò, il controllo del territorio nel senso anzidetto presuppone la materiale controllabilità di esso, cosa possibile solo nelle aree in cui non insistano grandi centri urbani ed in cui i residenti siano in genere conosciuti o facilmente controllabili dalle forze dell’ordine e non in territori vastissimi e ad altissima densità come quelli partenopei.
        La riprova di ciò è costituita da tutta la serie di reati che quotidianamente vengono commessi sotto gli occhi di tutti, dagli omicidi nelle pubbliche vie, talvolta con coinvolgimento di innocenti passanti, agli scippi, alle rapine, alla vendita di tabacchi di contrabbando.
        In realtà, in zone come quella napoletana, più che con il controllo, la sicurezza del territorio si crea ripristinando la legalità, sgominando le organizzazioni criminali e, soprattutto, sconfiggendo quella che un tempo era definita "l’alta camorra", da cui dipendono o sono controllate la "bassa camorra" e la criminalità comune.
        Infatti, la camorra non deve essere identificata solo con la sua parte armata: essa non impone soltanto tangenti e non gestisce solo il contrabbando, l’usura e il lotto clandestino, ma, come è noto a tutti, o quasi, monopolizza interi settori dell’imprenditoria, crea investimenti, assicura lavoro ad una propria clientela e procaccia voti, ma di questo non si parla più.
        La camorra si è inserita, con i suoi molteplici interessi, attraverso la sua rete capillare, nei rapporti economici, finanziari, amministrativi ed anche politici, con infiltrazioni, inquinamenti e condizionamenti in tutti i settori da cui può trarre direttamente o indirettamente fonti di lucro.
        In conclusione, per sgominare l’alta camorra occorrono uomini e mezzi, che invece sono notoriamente del tutto inadeguati e che non vengono mai adeguati. Non è il caso, al riguardo, di ricordare come la parte del bilancio dello Stato destinata alla giustizia si aggiri intorno al 2 per cento.

        PRESIDENTE. Lievemente di meno.
        CORDOVA Agostino, procuratore della Repubblica della DDA di Napoli. Non solo, ma al dilagare dei fenomeni criminosi corrisponde il progressivo abbassamento degli argini della normativa penale – non entro nel merito, anche qui faccio una semplice constatazione – e ciò in contrasto con i più comuni princìpi di diritto per cui più gravi sono i fenomeni criminosi, più severa deve essere la reazione dell’ordinamento. Non avvenendo, mi pare che si assista ad un progressivo abbassamento di livello di gravità. Aggiungasi la virtualità del sistema penale dovuto alla paralisi della giustizia, talché la pena è diventata ormai un evento aleatorio, improbabile, remoto, eventuale, amnistiabile; in conseguenza di tale paralisi, la maggior parte dei reati è destinata alla prescrizione, alla scadenza dei termini di custodia cautelare: è un evento facilmente prevedibile, e vi è la mancanza di qualsiasi funzione preventiva della sanzione penale, non avendo più la pena alcun effetto deterrente.

        Quello che dovrebbe far riflettere di più è la generale minimizzazione dei fenomeni criminali, come un fatto su cui – ignoro perché – non è opportuno attirare l’attenzione. E quando ciò non sia possibile per la loro eclatanza, si assiste, ma per poco tempo, ad una serie di ignote reazioni: viene giustamente sollecitata la massima concentrazione investigativa, dopo di che tutto ritorna come prima. E non è il caso di ricordare come le pur sacrosante indignazioni generali causate dall’uccisione di Silvia Ruotolo non si siano ripetute per altri eventi simili. E lascio agli intenditori spiegarne il perché.
        Oltre alla minimizzazione dei fenomeni criminali, va aggiunto che poi in tempo di "pace", pace fra virgolette, "pace" camorristica, chi osi incautamente ricordare l’esistenza di tali fenomeni va incontro a tutta una serie di reazioni. Nella migliore della ipotesi viene tacciato di esagerare, gli si chiedono i nomi, le prove, come è avvenuto quando si è parlato dell’esistenza della camorra a Bagnoli, dei relativi patti. Addirittura qualcuno disse che si facevano chiacchiere da bar dello sport. Poi quando, come avviene normalmente, si forniscono le prove, allora si capovolge la situazione, magari da parte di coloro che poco tempo prima avevano sostenuto il contrario, e si addebita la colpa di tale situazione proprio a chi l’aveva eventualmente prevista, segnalata, ed aveva fatto di tutto per evitarla, assai ben oltre i limiti degli esigui mezzi messigli a disposizione. Queste relazioni obiettivamente hanno effetto delegittimante, hanno conseguenze delegittimanti, così come in altre occasioni a chi lamentava la situazione di Bagnoli si disse che sembrava un inviato dell’ONU a Napoli, un delegato internazionale dei diritti dell’uomo. Chi sollecitava per questi motivi gli adeguamenti degli organici fu definito "piagnone". Se così stanno le cose, mi sembra che manchino tutti i presupposti per cui si possa parlare costruttivamente del tema odierno del Convegno, cioè del contrasto alla criminalità e del controllo del territorio. A mio avviso, proseguendo su tale via, sarà la camorra a controllare sempre più il territorio, sarà la camorra, attraverso la sua ultima generazione pulita, che prima o poi tenterà legalmente la scalata al potere, a meno che non si adottino soluzioni di emergenza, non vengano eliminati i fattori ostativi che ho sommariamente indicato e non si ripudi la cultura dell’apparenza, che mi ricorda la teoria di quel personaggio del "Candido" di Voltaire, il filosofo Pangloss, secondo cui tutto procede nel migliore dei modi possibile e nel migliore dei mondi possibili. Si dirà naturalmente che sono pessimista; credo invece, sia pure poco diplomaticamente, di essere realista. Comunque è inutile discutere, sul punto a suo tempo parleranno i fatti. (Applausi).

        PRESIDENTE. Il severo intervento del procuratore Cordova voleva sembrare prodotto dell’osservazione della realtà che egli tratta ogni giorno, quella locale, quella meridionale. In realtà è un punto di vista che ha un valore generale e per questo va maggiormente apprezzato. Una mente ordinata, naturalmente, fa il suo accenno contro l’invasione dei nostri territori da parte di torme di sventurati, ma non si consente un discorso più ampio. Cioè, nel deprecare questi arrivi di sventurati, noi tralasciamo proprio oggi il tema di coloro che entrano nel nostro territorio non dai flutti e tra gli scogli, ma essendo ricevuti come dame inguantate al soglio di una reggia. (Applausi).   Do ora la parola al generale dei carabinieri Claudio Blasi, comandante della terza Divisione dei carabinieri "Ogaden".

        BLASI Claudio, comandante della terza Divisione dell’Arma dei carabinieri. Signore e signori, anzitutto un saluto fervido e cordiale a tutti gli intervenuti ed un ringraziamento al Comandante generale dell’Arma dei carabinieri per l’opportunità offertami di prendere la parola in un consesso così qualificato.  Passando subito al tema dell’odierna sessione, premetto che la mia relazione trarrà spunto dalla conoscenza quale momento essenziale del controllo del territorio, e ciò per due motivi: il primo perché delle investigazioni e del contrasto alla criminalità organizzata altri hanno già trattato o tratteranno, ed il secondo perché, come diceva poco fa il procuratore Vigna, l’efficacia dell’attività di prevenzione è imprescindibilmente correlata alla preliminare cognizione di fatti e circostanze. Controllare il territorio, a mio avviso, non significa soltanto presidiare un’area, ma soprattutto conoscerne dettagliatamente le caratteristiche socio-ambientali e viverla a stretto contatto con la comunità, sentendosi parte integrante della stessa e riscuotendone la fiducia. Se facciamo un attimo mente locale, non passa giorno senza che studiosi, opinionisti e tecnici dell’informazione dibattano sul fenomeno della micro e della macrocriminalità, ne analizzino le cause, ne propongano i rimedi, in una specie di rituale che poi raggiunge il diapason nel momento in cui più alto si fa l’allarme sociale per il verificarsi di gravi episodi delittuosi.
        Ed è sotto l’emotività di tali eventi che si chiede come rimedio il potenziamento delle forze dell’ordine, l’istituzione di nuovi presidi, l’invio dell’esercito per consentire a carabinieri e polizia di dirottare le proprie unità dalla vigilanza di obiettivi fissi a compiti più dinamici e remunerativi. Tali soluzioni, certamente condivisibili, anzi auspicabili, non sempre però sono compatibili con le risorse disponibili, ma soprattutto, come l’esperienza insegna, non sempre producono effetti risolutivi. È di tutta evidenza, infatti, che i servizi di vigilanza, non orientati da una sottostante adeguata conoscenza della situazione, non sono in grado di sviluppare una efficace prevenzione, specie se la si contrappone alla ricorrente imprevedibilità dell’azione delittuosa. E non occorre qui ricordare gli omicidi, i ferimenti o altre violenze attuati in prossimità di obiettivi cosiddetti protetti.
        È pur vero che un tempo tale modalità di controllo fisico del territorio da parte delle forze dell’ordine aveva una maggiore efficacia perché la comunità era statica, e soprattutto meno individualistica, e quindi in grado di opporre delle istintive ancorché elementari difese. La società moderna invece, caratterizzata da un forte dinamismo di relazioni e da uno spiccato soggettivismo, induce quasi naturalmente ad una nuova concezione della risposta dello Stato, specie nelle grandi città. In tale contesto si sta sviluppando un salto culturale che vede il cittadino appropriarsi del diritto alla sua sicurezza ed alla pacifica convivenza, affidando al nucleo sociale, sia come entità singola (quartiere, rione, strada) che come referente delle sue varie categorie, la responsabilità di assumersi l’autocoscienza della propria difesa.
        Va da sé che questa nuova visione non incide sul ruolo primario delle forze dell’ordine, anzi ne sollecita l’efficienza e la puntuale aderenza alle dinamiche sociali. Mi rendo però conto che il passaggio è delicato e non vorrei essere frainteso. Per questo chiarisco che non intendo certo ipotizzare una società armata, che si fa giustizia da sé, né teorizzare il proliferare di agenzie di sicurezza private, o di più polizie a diversa competenza territoriale, come l’esperienza americana potrebbe suggerirci; mi riferisco invece ad una comunità attenta e partecipe, capace di trovare in se stessa indirizzi organizzativi per resistere al meglio all’attacco del crimine. Più essa sarà solidale e determinata, maggiori saranno le possibilità di ricondurre ad un fenomeno fisiologico quell’aggressività e quella violenza nelle sue varie forme e manifestazioni, che sempre hanno caratterizzato l’uomo, ma che oggi si presentano con forme più accentuatamente patologiche. Non a caso ricorre con sempre maggiore frequenza l’invito di autorità, politici ed operatori della giustizia ad una più partecipe e convinta collaborazione dei cittadini, ed in concreto si ha notizia dell’istituzione di telefoni, più o meno colorati, cui rivolgersi per segnalazioni, se necessario anche anonime, di associazioni pro vittime di questo o quel reato, di iniziative varie per risvegliare e mobilitare le coscienze. In proposito l’appassionata relazione di don Ciotti di questa mattina mi sembra particolarmente significativa.
        In questo modo nuovo di affrontare le problematiche criminali tre, a mio avviso, sono le linee guida da perseguire. La prima, una autentica cultura di valori civili, l’educazione alla legalità, che non è fatta però di sole parole, ma di esempi quotidiani da parte di tutti, che presuppone la riscoperta in primo luogo della famiglia e della scuola come strutture essenziali per la crescita dei giovani, la cui formazione, accanto ai diritti, non dovrebbe mancare di sottolineare i doveri.
        Forse avremo meno creatività, ma di certo ci sarebbe una più diffusa consapevolezza che per vivere in comunità si deve avere un maggiore rispetto delle regole e dei ruoli. Non per niente i recenti sondaggi sul disagio giovanile ci parlano di "generazione invisibile", di giovani alla ricerca di punti di riferimento certi e di maestri di vita; questo probabilmente perché genitori/amici e insegnanti/burocrati non sempre hanno considerato appieno la centralità del momento formativo.
        In questo campo molte sono le aspettative per quanto potrà essere realizzato in attuazione del Protocollo d’intesa, siglato pochi mesi fa dai Ministri della pubblica istruzione e della solidarietà sociale nonché dal Presidente della Commissione parlamentare antimafia e già sperimentato, come ci ha ricordato questa mattina l’allora Ministro della pubblica istruzione ed oggi Ministro dell’interno, onorevole Jervolino Russo. L’Arma dei carabinieri è ben lieta di confermare la sua totale disponibilità a collaborare, come peraltro fa da anni, in stretta intesa con i Provveditorati agli studi dai quali sono pervenute parole di piena soddisfazione. Per la cronaca, nel decorso anno scolastico i nostri militari hanno tenuto ben 1.372 colloqui/incontri in 1.052 scuole medie e superiori.
        La seconda linea guida che mi permetto di indicare riguarda l’azione sinergica dei pubblici poteri, sì da rendere non più pagante la scelta del crimine: mi riferisco, fra l’altro, all’esigenza primaria di dare effettiva certezza alla pena – oggi pressoché vanificata dai tempi del giudizio definitivo, come è stato ricordato poco fa, e dalle misure alternative – e di ricorrere con maggiore frequenza ed in tempi possibilmente contenuti al sequestro ed alla confisca dei beni illecitamente accumulati dalle organizzazioni criminali, per poi procedere alla loro concessione per uso pubblico.
        Mi riferisco anche all’opportunità – da più parti e da tempo auspicata – di restituire alla polizia giudiziaria una maggiore autonomia tecnica con il duplice vantaggio di motivare, e quindi stimolare, la migliore qualificazione dei singoli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria e di rendere più veloce la fase delle indagini. Ma intendo riferirmi soprattutto all’esigenza di armonizzare la risposta preventiva e repressiva dello Stato con quella sociale ed amministrativa degli enti locali, volta a creare nei quartieri e nelle periferie urbane occasioni di lavoro e formazione, a rendere più attrezzate e vivibili queste particolari e talvolta difficili realtà.
        Non per niente si vanno facendo strada anche nel nostro Paese forme di cooperazione tra le istituzioni statali responsabili della sicurezza e governi locali, tendenti, da un lato, a combattere le condotte devianti attraverso il controllo del territorio e l’azione repressiva e, dall’altro, ad incoraggiare lo sviluppo di condizioni e norme sociali produttrici esse stesse di maggiore sicurezza. E la firma di specifici protocolli d’intesa tra i prefetti e talune amministrazioni comunali va in questa direzione: è uno dei possibili modi di concepire la sicurezza metropolitana come servizio da garantire congiuntamente nella sinergia delle responsabilità e delle reciproche competenze.
        Questo approccio comune alla problematica della sicurezza ha infatti il vantaggio di ampliare al tempo stesso sia la conoscenza delle situazioni sia la valutazione delle esigenze globali di un territorio vasto e complesso.
        A questo punto viene naturale il riferimento alla terza linea guida, vale a dire un’attività preventiva adeguata ai tempi e che quindi più direttamente riguarda noi forze dell’ordine.
        Dicevo all’inizio che per controllare il territorio bisogna conoscere, ma che conoscere è oggi sempre più difficile o quanto meno presuppone un aggiornamento delle modalità.
        Anche in omaggio alla città che ospita questo Convegno vorrei citare l’esperienza di Napoli che, grazie al Piano coordinato per il controllo del territorio metropolitano e al Piano sicurezza delle zone industriali, sta dando un contributo significativo alla ricerca di soluzioni al problema, pur nella difficoltà di una peculiare situazione della sicurezza pubblica notoriamente delicata e complessa.
        In estrema sintesi ricordo che il primo ha lo scopo di meglio razionalizzare e rendere più remunerativi soprattutto i servizi preventivi svolti dalle unità radiomobili, istituzionalmente destinate a rispondere alle esigenze di pronto intervento. La pianificazione prevede infatti la ripartizione della giurisdizione in aree di base, coincidenti in linea di massima con il territorio di competenza di una stazione carabinieri, e l’individuazione, per ciascuna area, di itinerari e di obiettivi da riportare su schede. L’alternanza dei controlli nelle stesse aree tra l’Arma dei carabinieri, la Polizia di Stato e, per taluni aspetti istituzionali, la Guardia di finanza consente di evitare duplicazioni a vantaggio di una più diffusa visibilità e di garantire la più intensa ed incisiva presenza sugli obiettivi preselezionati.
        Ma il Piano ottiene un secondo risultato che, a mio avviso, qualifica l’iniziativa: un più stretto contatto con i cittadini – siano essi commercianti, professionisti o altri – con la conseguenza di far scattare una sorta di solidarietà che induce i singoli – o almeno dovrebbe indurli – ad avvertire una maggiore partecipazione ai problemi comuni.
        I riscontri sostanzialmente positivi ottenuti dal Piano nel contesto metropolitano ne hanno suggerito l’estensione alle aree di sviluppo industriale della provincia.
        In questo caso la pianificazione (mediante la presenza di pattuglie negli orari sensibili, quali l’entrata e l’uscita dalle fabbriche, nonché il contatto con gli operatori del settore) ha consentito di elevare il coefficiente di sicurezza in zone particolarmente vitali sotto il profilo economico e, conseguentemente, di ridurre lo specifico rischio, elemento di rilievo nella valutazione dei fattori d’impresa.
        È di tutta evidenza che tale Piano, che come ho detto sta dando concreta prova di validità, va integrato con sistemi di difesa passiva e di sorveglianza interna che ciascuna azienda dovrebbe attivare e correlare con le forze dell’ordine, e trova un naturale implemento nell’applicazione di tecnologie avanzate nei settori delle telecomunicazioni e dell’informatica prevista dal Progetto sicurezza per lo sviluppo del Mezzogiorno, finanziato con fondi europei ed in via di realizzazione da parte del Ministero dell’interno sulla base di un’articolata programmazione esecutiva messa a punto con il contributo delle forze di polizia.
        Nel concludere questo intervento mi è gradito richiamare l’idea del contatto fra cittadino e tutore dell’ordine, che poco fa ho indicato quale elemento significativo delle citate pianificazioni e che, in stretta sintesi, si riconduce al tradizionale essere sociale dell’Arma dei carabinieri.
        E soprattutto ai fini della conoscenza, tale collaborazione è determinante in una società interattiva e solidale. Di qui la necessità di proseguire nell’impegno e perfezionare la qualità degli interventi per consolidare il clima di profondo e reciproco rispetto tra forze dell’ordine e cittadini.
        A noi forze dell’ordine l’onere di guadagnarci, giorno dopo giorno, la fiducia della popolazione, manifestando la capacità di dare risposte concrete e credibili alle sempre più pressanti richieste di sicurezza in un quadro di piena integrazione con la collettività in tutte le sue componenti sociali ed etniche. Ai cittadini la richiesta di affidarsi con disponibilità e soprattutto con l’intimo convincimento che nulla sarà lasciato di intentato nelle piccole e nelle grandi cose, nelle zone più calde come nelle isole felici – anche se poco fa abbiamo sentito che queste ultime non esistono più – per essere all’altezza delle aspettative e delle esigenze odierne. (Applausi).

        PRESIDENTE. Ecco un esempio di come il nostro ceto militare sia colto e sensibile nella stessa misura delle grandi esigenze del Paese.  Il generale Blasi ha così ben delineato la situazione in quelle sue tre linee guida, che a me paiono rappresentare il desiderio di un Paese che forse non è il nostro in questo momento.
        Un’unica e rispettosa osservazione al nostro oratore a proposito – se non ho compreso male – della sua diffidenza circa le misure alternative alla pena. No, questo non è un istituto che depotenzia il magistero punitivo dello Stato, ma lo adegua alle sue funzioni rieducative, emendative e umanitarie. Noi, oltretutto, ci accingiamo a condurre una battaglia contro l’ergastolo.
        Segue ora l’intervento del generale Carlo Alfiero, direttore della Direzione investigativa antimafia.

        ALFIERO Carlo, direttore della DIA. Ringrazio la Commissione parlamentare antimafia per l’onore che mi ha fatto invitandomi a questo Convegno e rivolgo un saluto cordiale all’uditorio.   In tema di criminalità organizzata siamo in presenza di una fase evolutiva di straordinaria importanza. Gli stessi concetti fondamentali che finora ci hanno guidato vengono messi in discussione dall’esplosione tecnologica, dall’informatizzazione e dal progresso socio-economico. Lo stesso concetto di territorio sta subendo una profonda mutazione: alla concezione fisica si va aggiungendo una concezione funzionale del territorio. Per essere più chiari, si passa da concetti come quartieri, paesi e regioni, ad altri come banche, finanziarie e mondo giovanile, con un’estensione che ci proietta da singole località al mondo intero.
        In passato la criminalità organizzata, ed in particolare quella di stampo mafioso, ha utilizzato lo strumento della signorìa sul territorio fisico per raggiungere l’obiettivo dell’accumulazione primaria dei capitali, ed in parte questo vale ancora: si pensi agli appalti e, per esempio, al pericolo del controllo della politica attraverso i voti e gli eletti.
        Ora la criminalità organizzata, soprattutto per effetto del traffico di sostanze stupefacenti che è la risorsa di maggiore potenzialità di questo settore, dà seguito al problema dell’accumulazione primaria verso due direzioni: l’immissione nell’economia legale degli ingenti capitali illecitamente accumulati, in modo da renderli spendibili, e l’investimento produttivo di tali somme in aziende, attività ed imprese in grado di garantire a loro volta ricchezza.
        Il territorio allora non è più soltanto l’ambito fisico che produce ricchezza, ma anche il contesto funzionale che tale ricchezza gestisce in modo produttivo. Il riciclaggio da mezzo per pulire i capitali illeciti diventa il processo fondamentale per reinvestire il denaro divenuto "lecito". Il binomio riciclaggio-reinvestimento costituisce il più importante moltiplicatore di ricchezza (quando di essa parliamo, ci riferiamo ad una ricchezza che attualmente può essere anche lecita, ma che ha avuto un processo di formazione illegale).
        Si passa, come si può rilevare, ad una nuova e più completa visione del problema della criminalità organizzata, senza vincoli a stereotipi strettamente connessi al concetto di territorio in senso geografico. Ora, davanti all’evoluzione di questi concetti, quale può essere la risposta delle istituzioni? La risposta si delinea sotto due profili. Il primo profilo è la riappropriazione del territorio fisico, attraverso la famosa, tradizionale ed efficace azione di contrasto punto su punto, la disarticolazione dei vari sodalizi mafiosi ed il controllo effettivo di aree urbane degradate. Il secondo profilo, invece, consiste nell’azione di contrasto che deve svilupparsi in quello che abbiamo definito territorio "funzionale", attraverso una maggiore collaborazione delle istituzioni con gli organismi finanziari deputati ad azioni di controllo. Sto pensando in questo momento all’attività sulle operazioni sospette, alla responsabilizzazione di singoli operatori finanziari – per esempio – anche attraverso un’applicazione concreta – se necessaria – di sanzioni già previste in tema di omessa segnalazione, ma soprattutto attraverso l’acquisizione di una professionalità specifica da parte degli operatori di polizia, che sia in grado di garantire, nello specifico settore, profili avanzati nell’azione di contrasto. Inoltre, si tratta di anticipare i fenomeni piuttosto che reprimere le condotte delittuose; da qui nasce il passaggio da un campo repressivo ad uno sempre più preventivo.
        Come si pone la Direzione investigativa antimafia, che ho l’onore di dirigere, davanti a questi problemi? La DIA nasce da una felicissima intuizione del legislatore – ricordo che ha solo sette anni e, quindi, è uno strumento già moderno nel momento stesso della sua concezione – con alcune caratteristiche, quali la sua proiezione internazionale, la visione globale del fenomeno da fronteggiare ed una posizione di centralità in tema di indagini preventive, anche se ovviamente delimitata al campo di sua specifica competenza, ossia alla lotta alla criminalità organizzata.
        Oggi la DIA assicura in concreto un’azione di contrasto di alto profilo, attraverso una capacità di analisi e di elaborazione delle strategie di contrasto. Offre una professionalità di livello, attraverso l’integrazione di tre professionalità specifiche che si sono rivelate tra loro ampiamente compatibili. Cerca sempre un maggior coinvolgimento di tutte le forze impegnate sul territorio fisico, affinché i risultati da queste acquisiti possano essere proiettati sul territorio che abbiamo definito "funzionale".
        L’elemento centrale di tutta questa costruzione, su cui si deve basare l’intero sistema, è l’informazione, che in buona parte è patrimonio delle forze che operano sul territorio fisico (è inutile che mi dilunghi su questo argomento, dal momento che gli oratori che mi hanno preceduto ne hanno a lungo parlato). Queste informazioni, dopo essere state acquisite, vagliate e selezionate dagli organismi territoriali, vengono poi trasmesse alla DIA affinché possano essere adeguatamente sviluppate, sia a livello nazionale che internazionale, e soprattutto rielaborate e possano essere successivamente ritrasmesse alle strutture che le avevano originariamente acquisite, affinché vengano congiuntamente finalizzate.
        La DIA è in grado così di dare una proiezione a notizie che, diversamente, resterebbero racchiuse nell’alveo di conoscenza di singoli organismi territoriali, senza trovare gli sbocchi che invece con tale sistema di raccordo e sviluppo potrebbero fornire. In questo caso l’elemento territoriale diventa addirittura una causa limitativa dell’azione di contrasto. Siamo così di fronte – come si vede – ad una circuitazione informativa evoluta, laddove alla funzione di cooperazione si aggiunge anche quella di elaborazione specifica e finalizzata. Cambiano gli scenari di manovra, si allargano i confini e si va ad incidere sul fronte della accumulazione e della gestione della ricchezza, che costituisce la linfa vitale della criminalità organizzata.
        Accanto a questa prevalente funzione strumentale al fianco delle altre forze di polizia, alla DIA può essere riconosciuto anche un compito del tutto peculiare, di spettro più ampio ed in linea con le tendenze evolutive manifestate dalla criminalità organizzata. Si tratta della ricostruzione dei flussi nazionali ed internazionali di interscambio di servizi e prestazioni di ogni tipo, da parte delle diverse organizzazioni criminali presenti su scala europea e addirittura mondiale; prestazioni e servizi non immediatamente correlati alla commissione di specifici reati e delitti di rilevanza penale. L’attività in questione, definibile come tipicamente analitico-preventiva, mira ad individuare i collegamenti che legano le cosiddette piattaforme intelligenti del crimine organizzato; sto pensando all’alta finanza, ai Governi di paesi esteri sensibili a forme di collusione e, infine, agli investimenti produttivi. Si tratta di una ipotesi di lavoro sicuramente vasta ed impegnativa su scenari di valenza internazionale ed in linea con una costante globalizzazione dei mercati. (Applausi).

        PRESIDENTE. Il generale Alfiero ci ha illustrato una parte del meccanismo del Servizio che dirige ed ha, in tal modo, delineato un quadro, sia pure in linea approssimativa, degli ingranaggi per coloro che non ne erano a conoscenza.  Ho l’impressione che talune tematiche sottolineate dal generale Alfiero si integreranno con quelle che sta per evidenziare il generale Mosca Moschini, comandante generale della Guardia di finanza, che invito a prendere la parola.

        MOSCA MOSCHINI Rolando, comandante generale della Guardia di finanza. Porgo il mio più cordiale saluto al Presidente della Commissione parlamentare antimafia, al Comandante generale dell’Arma dei carabinieri, alle Autorità e a tutti gli intervenuti. Sono molto lieto di poter partecipare ad un così qualificato uditorio le mie valutazioni e l’impegno della Guardia di finanza nella lotta alla criminalità organizzata nel territorio. Il tutto inserito negli aspetti di fondo già ampiamente emersi durante le esposizioni che mi hanno preceduto.  Il controllo del territorio rappresenta un’esigenza vitale per le organizzazioni criminali. Esso, infatti, consente a queste di avviare, e via via consolidare, i propri affari illeciti.
        Il primo tempo del controllo del territorio, la "presa" dell’area geografica di interesse, è certamente la fase che maggiormente incide sull’ordine e la sicurezza pubblica, essendo proiettata – attraverso l’intimidazione, il sopruso e l’atto violento – al controllo delle più remunerative attività delinquenziali.
        L’esperienza maturata dimostra che è questa la fase in cui la criminalità si appropria, in delimitate aree territoriali, dello spaccio di sostanze stupefacenti, della minuta vendita di tabacchi lavorati esteri, della piccola estorsione e dell’usura. Essa impiega mano d’opera reclutata approfittando di quegli enormi disagi sociali che, in particolare nel meridione del Paese, rappresentano l’humus ideale per la crescita delle organizzazioni criminali.
        L’appropriazione territoriale si sviluppa, poi, attraverso una serie di atti corruttivi rivolti agli apparati locali della pubblica amministrazione, innescando un subdolo ed efficacissimo scambio di favori. L’interesse della criminalità ad inserirsi nelle procedure di aggiudicazione di forniture e servizi dell’amministrazione rappresenta l’ulteriore salto di qualità delle strutture malavitose. Tale penetrazione, infatti, tende alla gestione di appalti finanziariamente rilevanti ed alla conseguente disponibilità di mezzi, tecnologie e professionalità via via crescenti, fino a giungere alla costituzione di società ad hoc o ad ottenere il controllo di quelle già presenti sul mercato, specializzate nei diversi settori economici.
        Naturale, quindi, la vocazione delle organizzazioni criminali territorializzate a trasformarsi, in tempi contenuti, in strutture di livello superiore ovvero ad entrare negli organigrammi di sodalizi più importanti, sia per capacità imprenditoriali sia per ampiezza e rilevanza degli obiettivi. Il rapporto che si crea è molto simile a quello che lega l’azienda madre alle diverse filiali periferiche e, in tale momento, cominciano a fare la loro comparsa consulenti esterni di elevata professionalità soprattutto in campo finanziario.
        È questo il livello criminale che produce una progressiva internazionalizzazione dell’organizzazione e nel quale l’interesse illecito si proietta verso l’investimento degli ingenti capitali accumulati, frutto dei reati compiuti. Siamo qui nella fase del riciclaggio del denaro sporco nella quale notevolissime somme di denaro, ripulite, si immettono nei circuiti nazionali ed internazionali in cui si muove il grande capitale, assicurando così all’organizzazione criminale nuova e legale remuneratività che consente ad essa di poter assorbire anche settori economici strategici.
        Ricordo, al riguardo, il preciso riferimento a questo aspetto, fatto – in apertura dei lavori – dal presidente Mancino e, oggi pomeriggio, dal procuratore Vigna.
        A fronte dei diversi livelli organizzativi che le associazioni criminali possono avere o raggiungere, la Guardia di finanza è impegnata operativamente con intensità differenti ogni qualvolta gli aspetti investigativi emergenti dalle indagini avviate riguardino o siano riconducibili ai suoi compiti istituzionali.
        Infatti, anche nel settore del contrasto alla criminalità organizzata ed in linea con le direttive del Ministro delle finanze, gli obiettivi che il Corpo costantemente persegue, per tendere alla massima razionalizzazione delle risorse ed alla valorizzazione delle professionalità disponibili, sono quelli di mantenere i propri interventi nell’alveo dei settori maggiormente connessi all’attività primaria di polizia economico-finanziaria nonché di calibrare le risorse professionali al livello di complessità del fenomeno da contrastare.
        Ecco, quindi, che l’azione per fronteggiare l’attività criminale nella prima fase di acquisizione del controllo del territorio vede la Guardia di finanza, da un lato, partecipare ai piani coordinati a livello interforze e, dall’altro, svolgere i più tradizionali servizi di vigilanza sul trasporto delle merci su strada e nei principali scali aeroportuali e ferroviari. Nei piani coordinati a livello provinciale viene impiegata, tranne eventi di particolare gravità, soltanto l’aliquota di personale qualificato per il "pronto impiego"; negli altri servizi si tende ad utilizzare il personale in forza ai reparti territoriali minori.
        Quale impegno di seconda fascia, possiamo invece annoverare l’esecuzione di quelle indagini di polizia giudiziaria – derivanti dall’intensa attività svolta nel settore della vigilanza doganale e, soprattutto, dall’ordinaria attività di ispezione tributaria – mirate proprio ad acquisire elementi probanti di traffici illeciti posti in essere da organizzazioni radicate sul territorio e, sempre più spesso, strettamente collegate alla criminalità internazionale.
        Tra i traffici illeciti appena citati, il contrabbando di tabacchi lavorati esteri è certamente quello che rappresenta una delle più rilevanti frodi al bilancio nazionale e comunitario ed impegna più tradizionalmente il Corpo. Ho già avuto modo, in precedenti occasioni, di segnalare la pericolosità sociale e la remuneratività per la criminalità di questo fenomeno. Esso, infatti, costituisce uno dei principali illeciti presupposti del riciclaggio quanto ad entità dei capitali che rende disponibili. Senza ribadire considerazioni che ritengo siano ormai convinzioni di tutti noi, mi preme qui segnalare soltanto la crescente efferatezza che in questi ultimi tempi dimostrano i sodalizi contrabbandieri e la raffinata tecnologia di cui si sono impossessati.
        Sono purtroppo diventati quotidiani gli episodi che vedono pattuglie del Corpo aggredite con mezzi blindati da gruppi criminali specializzati nelle scorte ai carichi di sigarette. In due recenti episodi, verificatisi nell’hinterland barese, i contrabbandieri hanno accerchiato alcuni automezzi in servizio e li hanno più volte speronati provocando il ferimento di militari ed ingenti danni materiali. Complessivamente, dall’inizio dell’anno, si sono verificati 54 incidenti di questo tipo con il ferimento, anche grave, di 43 militari.
        Inoltre, le organizzazioni hanno pesantemente investito in strumenti altamente tecnologici, impensabili fino a qualche tempo fa. L’estate scorsa sono state scoperte una centrale radar capace di monitorare il traffico marittimo tra il Montenegro, l’Albania e la Puglia ed una sofisticata postazione dotata di potentissime telecamere, di microfoni ad alta sensibilità e di computer in grado di tenere sotto controllo i movimenti di pattuglie e mezzi del Corpo.
        Tornando, invece, all’ordinaria attività di ispezione tributaria, quale importante fonte di innesco di indagini volte alla scoperta di associazioni criminali, evidenzio ancora una volta come la verifica fiscale – classica metodologia operativa della Guardia di finanza – sia uno strumento particolarmente utile soprattutto per far emergere infiltrazioni malavitose nell’imprenditoria sana.
        Se, come detto, l’occupazione dell’economia legale da parte dei capitali illeciti è l’indice più sensibile della presenza della criminalità organizzata e del suo stadio di evoluzione, è evidente quanto sia importante individuare quelle infiltrazioni ed i meccanismi attraverso i quali si è reso possibile tale inquinamento. In questo senso, l’ispezione amministrativo-contabile delle persone fisiche e giuridiche costituisce uno strumento particolarmente penetrante e consente, ad esempio, di accertare l’esistenza di riserve occulte o di finanziamenti ottenuti al di fuori dei normali circuiti creditizi che potrebbero rivelare richieste estorsive ovvero atti corruttivi o l’immissione di denaro sporco nell’attività o, anche, la presenza di fenomeni usurari.
        Le potestà riconosciute ai militari del Corpo in materia fiscale, che consentono anche di estendere l’azione ispettiva alle movimentazioni dei flussi finanziari, abbinate ai poteri tipici di una polizia giudiziaria, permettono di cogliere aspetti della presenza di fenomeni criminali anche se ben occultati tra le pieghe di complesse contabilità. Inoltre, l’abitudine e l’attitudine ad analizzare transazioni economiche e movimentazioni finanziarie consentono alla Guardia di finanza di poter individuare i tortuosi percorsi fatti compiere ai capitali illeciti nell’operazione di lavaggio e di immissione nei circuiti legali.
        Queste investigazioni particolarmente complesse – che potremmo definire di terza fascia – sono normalmente affidate alle competenti articolazioni dei nuclei regionali di polizia tributaria, nell’ambito dei quali oggi sono ricompresi i gruppi di investigazione sulla criminalità organizzata (GICO), ed al nucleo speciale di polizia valutaria. Si tratta dei reparti che esprimono la massima professionalità nell’ambito del Corpo.
        Ovviamente, l’apporto di dette articolazioni e dei richiamati reparti non si limita soltanto all’intervento "visibile", ossia al controllo fiscale o all’attività di polizia giudiziaria specializzata in materia finanziaria, ma si sostanzia anche in una qualificata azione informativa di supporto ed investigativa tesa, in modo particolare, alla conoscenza di patrimoni espressione di illeciti arricchimenti.
        Accanto al quadro operativo, ritengo necessario svolgere anche qualche considerazione sul piano propositivo, con particolare riferimento a quelle iniziative utili o necessarie per migliorare e rendere più efficace l’azione di contrasto alla criminalità organizzata.
        Sul piano interno resta decisiva una cooperazione sempre più stretta tra le diverse forze di polizia impegnate sul territorio, nel rispetto delle specifiche professionalità di ciascuna di esse, al fine di evitare sovrapposizioni e sprechi di risorse. Questo è il principio ispiratore di tutti gli sforzi in atto nel settore dell’ordine e della sicurezza pubblica.
        In tale ottica, e con riferimento ad esempio al contrabbando di tabacchi lavorati esteri, reputo sempre più indispensabile che le altre forze di polizia comunichino tempestivamente alla Guardia di finanza tutte le notizie acquisite nel corso di interventi o di indagini autonomamente eseguiti, anche in tema di minuta vendita o in flagranza di reato, al fine di dare sviluppo alle indagini successive, soprattutto rivolte al controllo dei flussi finanziari illeciti.
        Parimenti, con riguardo al controllo dei capitali ai fini del contrasto al riciclaggio, si rende necessario un rafforzamento dei rapporti tra autorità di vigilanza del sistema creditizio ed organismi investigativi del settore economico-finanziario e, anche, una maggiore collaborazione in termini di intelligence tra questi ultimi ed i Servizi di informazione e sicurezza.
        L’intelligence economica dei citati Servizi – che, fino a tempi recenti, è stata prevalentemente orientata verso il controspionaggio economico-industriale – deve, a mio giudizio, procedere ad una profonda trasformazione che, da un lato, tenga in debito conto il fenomeno di globalizzazione dei mercati finanziari e la crescente infiltrazione di capitali stranieri di illecita provenienza, e, dall’altro, tenda ad un migliore coordinamento con le attività dei predetti organi specialistici in materia finanziaria.
        Sempre sul piano nazionale, poi, appare irrinunciabile il perfezionamento di alcune legislazioni di settore. Richiamando la disciplina sul contrabbando di tabacchi, sono già stati portati a conoscenza dell’autorità politica gli interventi normativi – frutto di un serrato confronto tra tutte le istituzioni interessate – che si ritengono opportuni ed urgenti. Mi riferisco, ad esempio, alla consegna controllata ed al sequestro preventivo dei beni dell’inquisito.
        In punto di normativa che in qualche modo si ricollega più direttamente al riciclaggio, mi limito a segnalare la necessità di dare concreta attuazione dell’articolo 20, comma 4, della legge n. 413 del 1991, che prevede, com’è noto, la realizzazione dell’anagrafe dei conti e dei depositi.
        Attraverso l’anagrafe potrebbero essere agevolmente localizzati – in tempi ridottissimi – i conti dei soggetti indagati, senza dover interpellare l’intero sistema creditizio. Mi conforta rilevare una concreta volontà (politica) di risolvere definitivamente questo importante problema, ovviamente nell’assoluto rispetto dei diritti dei cittadini.
        Sul piano internazionale, poi, ritengo che gli interventi da operare debbano riguardare la omogeneizzazione delle normative dei Paesi maggiormente coinvolti nei citati fenomeni criminali e, in secondo luogo – corollario operativo di quanto appena detto – la sempre maggiore cooperazione tra gli organismi giudiziari e di polizia dei diversi Stati.
        Con il primo degli auspicati interventi sarà possibile, da un lato, definire in modo univoco le fattispecie illecite e, dall’altro, stabilire uniformi strumenti operativi a disposizione degli organismi di controllo. Sono fermamente convinto che soltanto l’adozione di un comune linguaggio legislativo ed operativo consentirà di attuare un’efficace azione di contrasto.
        Il compito non è e non sarà semplice, perché quella da avviare dovrà essere un’azione connotata da costante dinamismo in modo da poter cogliere, via via, le repentine trasformazioni dell’attività criminale e le carenze dell’attività di contrasto, al fine di adottare tempestivamente le necessarie contromisure. Tutto ciò presuppone la realizzazione di una perfetta sintonia tra Parlamenti, Governi, autorità giudiziarie e forze di polizia dei singoli Stati.
        L’efficace cooperazione investigativa ed informativa rappresenta, poi, il fattore decisivo per la concreta attuazione di qualunque iniziativa assunta sul piano legislativo e regolamentare. A tal fine, auspico fortemente che convenzioni come quella Europol e gli accordi derivanti da Schengen possano favorire concretamente la cooperazione in tutti i campi operativi. Sotto questo aspetto, il Corpo da sempre si è fatto attivo interprete, anche mediante la stipula di accordi bilaterali con le Polizie di altri Stati, comunitari e terzi.
        Con queste mie osservazioni, e concludo, ho voluto soprattutto mettere in risalto i diversi e crescenti livelli di controllo del territorio perseguiti dalla criminalità organizzata sul piano della penetrazione e con sempre maggiore sofisticazione; il corrispondente, mirato e calibrato contrasto operativo esercitato dalla Guardia di finanza sui piani quantitativo, qualitativo e delle procedure; i provvedimenti legislativi, normativi e operativi auspicabili per meglio neutralizzare il fenomeno, per velocizzare e per snellire il contrasto delle istituzioni.
        L’auspicio è che le proposte, tutte quelle che stanno emergendo da questo nostro incontro, possono essere accolte.
        Ricordiamo, infatti, che la criminalità organizzata si muove con grande scioltezza, opera senza tener conto di vincoli o limiti legislativi o normativi. (Applausi).

        PRESIDENTE. La relazione del generale Mosca Moschini rende superfluo qualsiasi commento.  Do ora la parola al prefetto Fernando Masone, capo della Polizia e direttore generale della pubblica sicurezza. Questa volta faccio una premessa: desidero, nella persona del Capo della Polizia, rappresentare all’istituzione cui egli sovrintende la più intensa e convinta stima della nostra Commissione. (Applausi)

        MASONE Fernando, capo della Polizia e direttore generale della pubblica sicurezza. Signor Presidente, la ringrazio per un duplice motivo. Innanzi tutto attraverso lei ringrazio la Commissione antimafia per avermi invitato a questo Convegno e la ringrazio altresì per le espressioni che ha voluto riservarmi. Ringrazio il Comandante generale dell’Arma, che ha collaborato in maniera così incisiva e precisa alla buona riuscita di questa iniziativa.   La recrudescenza, la costanza di azioni criminali poste in essere con spavalda aggressività dalle cosche lascia trasparire l’esistenza di un’area di consenso e di protezione, in fasce certo minoritarie, ma non trascurabili, della popolazione. I recenti fatti di Napoli – siamo a Napoli e quindi cito questi – come le reazioni conseguenti all’arresto di alcuni delinquenti nelle regioni meridionali sono espressioni sintomatiche di un tentativo dei clan di riappropriarsi sempre di più degli spazi di territorio, e questo è un tentativo che deve essere analizzato con la dovuta attenzione e contrastato con grande fermezza. Come? È già stato detto che la conoscenza del territorio è indispensabile per indirizzare un’azione valida di contrasto. Conoscenza ed intervento sono quindi i due passaggi da cui non possiamo prescindere, pena il doverci rassegnare alle solite speculazioni, tanto eleganti quanto improduttive, ovvero ad interventi di tipo emergenziale.
        Si tratta di seguire una logica chiara, alla quale ricondurre rigorosamente tutte le strategie che siamo in grado di sviluppare sul piano organizzativo, operativo e, se del caso, normativo.
        Così definito l’approccio, il controllo del territorio – come è stato già detto autorevolmente – trascende, in qualche modo, la portata attribuitagli di obiettivo finale dei nostri sforzi, per prospettarsi, al contempo, quale condizione del loro successo.
        L’azione di polizia assume pertanto una sua ideale circolarità: dal controllo del territorio alle informazioni, alimento delle investigazioni, a loro volta produttive di ulteriori conoscenze, funzionali alla migliore salvaguardia della legalità e della civile convivenza.
        Il controllo di cui parlo va rivalutato e soprattutto realizzato nella sua accezione più piena, quella concepita dal legislatore con la locuzione di pubblica sicurezza, laddove l’opera di prevenzione è stata non a caso definita e disciplinata come generale, affidata al coordinamento delle autorità di pubblica sicurezza.
        Il primo passo è naturalmente il presidio – pianificato, armonico ed organizzato – attuato dalle forze di polizia ad ordinamento generale e, in tal senso, va letta la tendenza a diversificare progressivamente gli ambiti di gravitazione per evitare sovrapposizioni.
        È una tendenza costante, ulteriormente consolidatasi nel marzo di quest’anno, quando le direttive ministeriali hanno disposto che, per i potenziamenti delle dotazioni organiche, la Polizia di Stato deve farsi carico delle esigenze dei capoluoghi di provincia e l’Arma dei carabinieri di quelle degli altri comuni.
        Coerentemente con tale impostazione, è stato già avviato e continua a procedere il riassetto organizzativo e funzionale dei commissariati di pubblica sicurezza, progetto che, già positivamente sperimentato in diverse realtà metropolitane del Mezzogiorno, dà vita ad un nuovo ufficio che assicuri in via pressoché esclusiva l’espletamento proprio dei servizi di informazione, prevenzione generale e controllo del territorio.
        Così a Napoli, per esempio, la riorganizzazione dei presidi ha permesso di liberare nuove energie da destinare ad impieghi strettamente operativi e, inoltre, di istituire nuovi uffici o di potenziare quelli già esistenti nelle zone periferiche ad elevato indice di criminalità e di degrado – quali Scampìa, Chiaiano, Pianura e Secondigliano – nel quadro di un disegno che si completerà con il previsto riequilibrio degli organici della Questura.
        Del pari i compiti di polizia amministrativa, altrettanto fondamentali quali momenti di conoscenza e quindi di controllo della realtà, sono stati concentrati presso alcuni commissariati, definiti coordinatori, che, opportunamente rafforzati, possono svolgerli nell’autentica prospettiva indicata dalla legge, quella di prevenzione e di informazione.
        Questa è l’ulteriore positività della riorganizzazione, che ha consentito di realizzare sia maggiore proiezione esterna, sia più penetrante azione di polizia amministrativa, esaltando la capacità di controllo che promana da entrambi i settori di attività.
        D’altra parte, non ci siamo accontentati di adeguare alle mutate ed accresciute esigenze la nostra struttura, ma abbiamo anche percorso vie nuove, ovvero innovato la concezione di talune già esistenti.
        Mi riferisco alla riorganizzazione dei reparti anticrimine, e penso, ancora, alla valorizzazione dei comparti specialistici delle forze di polizia, il cui coordinato apporto è stato ripensato e potenziato per offrire risposte specializzate e differenziate alle domande di sicurezza che promanano da un territorio tanto complesso da indurre a parlare di "territori", laddove abbiamo il mondo rurale, la rete viaria e ferroviaria, l’assetto idrogeologico, il patrimonio ambientale e culturale, così come gli spazi immateriali delle reti di comunicazione informatiche e satellitari.
        Sembrano quindi poste le premesse per consolidare – nel circuito ideale conoscenza, intervento – la sintesi tra prevenzione e repressione, nell’ambito di una pianificazione complessiva delle risorse.
        La recente riorganizzazione dei servizi investigativi, con l’inserimento delle strutture interprovinciali nell’ambito degli uffici territoriali, recepisce proprio questa nuova filosofia operativa, perseguendo la migliore integrazione dei diversi comparti investigativi ed operativi e favorendo, attraverso la concentrazione e la circuitazione delle conoscenze e delle esperienze, una più moderna ed efficiente risposta al crimine organizzato.
        Si tratta di una risposta organica e di ampio respiro che trova nel dipartimento della pubblica sicurezza la naturale sede di pianificazione generale delle attività e di individuazione degli obiettivi di rilievo strategico.
        Ecco così delinearsi un’azione di controllo del territorio programmata, dinamica e flessibile, che si alimenta attraverso le risultanze informative ed investigative, selezionando di volta in volta obiettivi e priorità di intervento e che costituisce essa stessa presupposto per l’avvio di mirati interventi repressivi, da svilupparsi nell’auspicato maggiore equilibrio tra iniziativa della polizia giudiziaria e poteri peculiari della magistratura. È un concetto che è stato espresso più volte nel corso della giornata.
        Tuttavia la presenza delle forze di polizia – pur ottimamente organizzata, oltre che, naturalmente, sostenuta dalle tecnologie più avanzate e da professionalità sempre migliori – rischia di essere sì necessaria, ma non sufficiente per il raggiungimento dell’obiettivo principale, costituito dall’affermazione della legalità e dalla salvaguardia della sicurezza pubblica.
        Mi ero ripromesso di non appesantire il mio intervento con i dati sull’andamento della criminalità e dell’azione delle forze dell’ordine. Mi limiterò pertanto, anche perché le cifre sono pubbliche, a sottoporre all’attenzione generale pochi spunti di riflessione la cui solo apparente contraddittorietà merita un approfondimento.
        Gli indici di delittuosità, a livello nazionale, sono sostanzialmente stabili, ma registriamo flessioni, proprio nelle regioni a rischio, per quanto riguarda reati gravissimi, quali omicidi e sequestri di persona; il numero delle denunzie e degli arresti è in costante aumento; le catture di latitanti, anche pericolosissimi, si susseguono ininterrotte, in Italia come all’estero, grazie ad una salda rete di cooperazione internazionale; gli autori di reati efferati, anche qui a Napoli, vengono assicurati alla giustizia a conclusione di indagini tanto rapide quanto efficaci e la lotta ai patrimoni illeciti fa registrare grandi successi in termini di sequestri di beni, cui fa eco un’attività altrettanto incisiva sul fronte delle misure di prevenzione personali.
        Tutto ciò sta a significare che le forze di polizia lavorano, lavorano duro, ma, quel che più importa, lavorano con risultati, di intesa e in collaborazione con l’autorità giudiziaria.
        Eppure è altrettanto vero, e questo Convegno lo sta rammentando ancora una volta, che la gente non si sente sicura e che, a dispetto dei nostri sforzi, la minaccia dell’illegalità, del sopruso, della violenza è avvertita dai consociati come incombente.
        La capillarità e la paventata endemicità del fenomeno criminale risalgono in larga misura alla fortissima attenuazione della deterrenza penale; anche questo concetto è stato espresso più volte.
        Non pare quindi fuori luogo auspicare il supporto di un efficace sistema normativo che ridisegni, aggiornandola, la funzione della polizia di sicurezza anche attraverso l’individuazione di un insieme di poteri e facoltà il cui esercizio consenta all’azione preventiva di esplicare appieno il suo primario effetto dissuasivo.
        Credo sia giunto il momento per avviare una serena e non rituale riflessione sul tema della deterrenza, per valutare se la stessa debba essere assicurata in modo esclusivo dalla fattispecie penale o se debba piuttosto essere affiancata ed integrata da un sistema di disposizioni amministrative al passo con i tempi, che consenta immediati interventi nelle situazioni, oggettive e soggettive, pericolose per la sicurezza pubblica. Un nuovo impegno per la sicurezza, dunque, che deve necessariamente coinvolgere una molteplicità di soggetti istituzionali e sociali, primi fra tutti i sindaci, oggi diretta espressione della volontà popolare e quindi immediatamente partecipi delle istanze di sicurezza delle rispettive comunità.
        In tale quadro, occorre procedere secondo linee di indirizzo ben più ampie di quelle tradizionalmente proprie delle forze di polizia, dedicando particolare attenzione alla salvaguardia dei parametri di sviluppo ed investendo quindi nella sicurezza, intesa come fattore dinamico destinato ad accompagnare nel tempo i processi di crescita economica e civile, sino a costituirne parte integrante.
        Seguendo questa logica, il Dipartimento della pubblica sicurezza ha ricercato nuove strategie operative adeguate alla complessità dei problemi da affrontare.
        Un significativo esempio è rappresentato dal programma operativo "Sicurezza per lo sviluppo nel Mezzogiorno d’Italia", cui ha fatto cenno anche il generale Blasi, cofinanziato dalla Commissione europea, attraverso il quale ci si è impegnati ad innescare un circolo virtuoso, favorendo la dialettica tra l’area della legalità, l’iniziativa economica e la rivitalizzazione sociale di quei territori che registrano elevati indici di criminalità in un rinnovato rapporto con le comunità residenti, il mondo dell’imprenditoria e del lavoro e le associazioni operanti sul territorio.
        Se il superamento della parcellizzazione degli interventi costituisce effettivamente una grande conquista degli ultimi anni, è allora maturo il tempo per dichiarare che il controllo del territorio coincide con l’affermazione della legalità statuale ovunque, senza discontinuità spaziali o temporali.
        In conclusione, mi pare che da questo mio intervento emergano tre direttrici principali per il nostro impegno: continuare sulla via, già seguita con tanti successi, di costante affinamento dei dispositivi preventivi e repressivi, con le forze di polizia sempre pronte a discutere i propri moduli organizzativi ed operativi per migliorarli nell’interesse del Paese; trovare un valido complemento al sistema dissuasivo, nel convincimento dell’ormai ridotta deterrenza penale; consolidare nei fatti la costante mobilitazione di tutti affinché ciascuno, nel proprio ambito di competenza, possa collaborare efficacemente allo sforzo generale contro la criminalità ed il malaffare. (Applausi).

        PRESIDENTE. Come era da attendersi, il prefetto Masone ci ha fornito una sintesi e al tempo stesso una proiezione problematica del lavoro del Dipartimento. Lo ringrazio e lascio la parola all’onorevole Alfredo Mantovano per concludere i lavori, dal momento che mi si avvisa che l’onorevole Pietro Folena non interverrà.

        MANTOVANO Alfredo, deputato, componente della Commissione parlamentare antimafia. Signori presidenti Del Turco e Mancuso, signor Comandante generale dell’Arma dei carabinieri, signori, mi è difficile trarre le conclusioni di una sessione di lavoro tanto ricca di spunti e di sollecitazioni. Tale difficoltà è accentuata dall’ora tarda, che mi impone di essere brevissimo per lasciare in tutti un buon ricordo, per lo meno da questo punto di vista.  I termini "conoscenza, investigazione e contrasto alla criminalità organizzata" presuppongono l’esame dell’estensione e della concreta riorganizzazione di altri tre temi fondamentali, come emerso dal corso dei lavori: la prevenzione, il coordinamento e la cultura dell’investigazione.
        Parto per cenni dalla prevenzione (tema trattato, fra gli altri, dal generale Blasi e dal prefetto Masone), per constatare che rappresenta un settore trascurato, sia che si intenda il termine in senso lato, sia che lo si limiti alla promozione ed alle indagini riguardanti le misure di prevenzione. È necessario chiedersi con molta franchezza – in attesa dei risultati concreti e delle direttive cui ha fatto riferimento il Capo della Polizia – quanto incidano su questa trascuratezza valutazioni di ordine politico, dal momento che le statistiche compilate periodicamente dalle forze dell’ordine continuano – lo abbiamo ascoltato – ad assumere quali indici delle attività svolte soltanto i numeri relativi alle persone denunciate ed arrestate: la prevenzione non viene perseguita come dovrebbe perché non paga sul piano dell’immagine o, per adoperare un termine di moda, della visibilità.
        Ora, è certamente importante per le forze dell’ordine lanciare messaggi rassicuranti alla popolazione, coincidenti con la cattura di questo o di quel gruppo criminale, ma ciò non può far trascurare che i cittadini traggono maggiori e più sostanziali motivi di sicurezza da condizioni oggettive più tranquille, come ha fatto presente questa mattina il presidente Violante, allorché ha incentrato la sua riflessione sulla cosiddetta criminalità di strada. Mi auguro che le forze politiche, se condividono quanto ha detto il presidente Violante, adottino dei comportamenti coerenti sul piano normativo, il che significa rimeditare la funzione della pena – anche questo è un aspetto che è stato più volte trattato – così come oggi viene in concreto applicata, ossia con il concorso di tante misure che di fatto ne limitano la portata.
        E a proposito della certezza della pena non posso non condividere, in ordine alle preoccupazioni sulla sua concreta vanificazione, quello che qualcuno, non in questa sede, ha detto a proposito di quella tappa significativa che è stata ricordata prima dal presidente Mancuso, e cioè l’abolizione dell’ergastolo, approvata già al Senato e in attesa di esame alla Camera. Vorrei solo far presente che non si tratta di affrontare una guerra ideologica, ma di aver presente che l’abolizione dell’ergastolo comporta l’applicazione alla nuova pena della reclusione speciale di una serie di istituti, in primis il rito abbreviato, che oggi, anche in funzione della giurisprudenza della Corte costituzionale, sono preclusi per i delitti più gravi. Questo significa che se un delitto viene punito con la reclusione speciale di 30 anni, con il rito abbreviato si scende a 20 anni, con le generiche si scende a 13 anni e 4 mesi (se non osta quanto previsto dall’articolo 4-bis dell’ordinamento penitenziario) e così il condannato va in semilibertà dopo 6 anni e 8 mesi e in permesso premio dopo 4 anni e 4 mesi. Senza le attenuanti generiche, perché mi si potrebbe obiettare che con quelle non si dà l’ergastolo, e quindi in presenza di una condotta che avrebbe certamente meritato l’ergastolo, il discorso cambia nei seguenti termini: 20 anni con il rito abbreviato, semilibertà dopo 10 anni, permessi premio dopo 5 anni.
        Ma torno al discorso della prevenzione. La legislazione in tema di misure di prevenzione offre notevoli possibilità di intervento nell’opera di contrasto al crimine, che tuttavia non vengono sfruttate adeguatamente a causa delle differenti modalità e della differente intensità di applicazione che le misure stesse conoscono nelle diverse zone del territorio nazionale. La riforma del 1988, con la parallela deresponsabilizzazione del questore e giurisdizionalizzazione delle misure, ha dilatato i tempi necessari per l’applicazione e ha sottratto all’autorità di polizia quei poteri di controllo che consentivano di limitare l’azione dei soggetti più pericolosi. Ma non è questo l’elemento realmente decisivo ai fini della sottovalutazione di fatto di questo strumento di contrasto del crimine. Un’indagine finalizzata all’applicazione di una misura di prevenzione esige competenza e professionalità e costa tempo, uomini, risorse, soprattutto se mira all’individuazione dei patrimoni di origine illecita. E allora il virus della statistica che aleggia in alcuni uffici delle forze dell’ordine fa indirizzare le energie verso ciò che appare con maggiore evidenza. Troppe procure della Repubblica ritengono più urgente – ma spesso è una situazione di necessità – occuparsi dei reati appena commessi piuttosto che della sottrazione delle possibilità operative a coloro che sono in procinto di commetterne altri. In questo modo il baricentro dell’azione di controllo del territorio viene spostato in misura prevalente sul contrasto repressivo del crimine. Le forze dell’ordine si trovano confinate in un gioco di rimessa che, in assenza di una organica azione di prevenzione, subisce il verificarsi dei delitti e cerca di scoprirne gli autori a posteriori.
        Anche la politica è chiamata ad una seria riflessione ed ha l’occasione immediata per dimostrare attenzione al problema, anzitutto varando nei tempi più celeri il minuscolo provvedimento, tuttavia ancora pendente, che riconosce al Procuratore nazionale antimafia poteri di iniziativa per le misure di prevenzione. Quindi valutando seriamente l’intero complesso della materia, il cui primo caso significativo potrebbe essere costituito dallo svincolare l’applicazione delle misure di prevenzione e patrimoniali dal presupposto, ancora oggi necessario, dell’applicazione di una misura di prevenzione personale. Occorre la prevenzione, ma anche la preparazione. Ci sono organizzazioni criminose che organizzano anche il sapere e le informazioni, e le organizzano così bene da conoscere nel dettaglio i turni di uscita delle pattuglie, i turni delle volanti, i turni dei funzionari. Non sempre avviene altrettanto per l’organizzazione del sapere da parte delle forze di polizia. E allora la lotta alle mafie nel territorio esige che il personale di polizia sia dotato di capacità culturali e professionali sempre più elevate, per competere alla pari con quei professionisti, a cui faceva riferimento il generale Mosca Moschini, che affiancano le organizzazioni criminali in una operazione di consulenza preziosa per le organizzazioni, ed anche per essere in grado di sostenere i risultati delle indagini fino all’esaurimento del giudizio dibattimentale, in tal modo reggendo al contraddittorio promosso nella logica del processo dai difensori degli accusati.
        È accaduto di recente, e mi sembra opportuno ricordarlo, in una importante città ad alto tasso di criminalità mafiosa, che il questore ha ripristinato la presenza costante del funzionario di polizia nella sala operativa della questura, avendo constatato l’impossibilità di pretendere dagli ispettori il corretto funzionamento di mansioni che pure sono loro affidate dalla legge e dai regolamenti. È un segnale, a mio avviso, non solo della incapacità di prendere provvedimenti verso ispettori che mostrano di non essere all’altezza dei compiti loro istituzionalmente affidati, ma anche dei risultati della politica di dequalificazione culturale e operativa dei ruoli perseguita negli ultimi anni, e in particolare dal riordino delle carriere del 1995, la cui bontà oggi è disconosciuta perfino da quegli stessi sindacati che fino a ieri lo avevano fortemente sollecitato. Dico questo non per amore di polemica, ma per evitare ulteriori errori di valutazione. L’atto Senato 2793-ter introduce nuove modalità di accesso alle qualifiche direttive, da vice commissario a vice questore, secondo modelli di selezione certamente meno rigorosi rispetto a quelli attuali. È un vero e proprio salto all’indietro dal momento che, per fare un esempio tra i tanti, viene eliminato il requisito della cultura universitaria per entrare nella carriera dei funzionari di polizia. Quando poi il Procuratore nazionale antimafia giustamente sottolinea la necessità di seguire la criminalità economica sul fronte delle licenze commerciali, degli appalti, e così via, ci si chiede se tutto ciò sia possibile attraverso strumenti normativi di questo tipo. Non servono ulteriori riforme demagogiche; il riscatto culturale degli operatori delle forze dell’ordine passa da un riassetto di funzioni e di compiti che anzitutto individui dal centro alla periferia i responsabili effettivi ai quali attribuire i poteri e i riconoscimenti in funzione delle reali responsabilità; in secondo luogo accresca la professionalità con un addestramento frequente e con la mobilità dei ruoli; in terzo luogo preveda con altrettanta frequenza l’impiego attivo degli uffici ispettivi: quegli uffici che, se avessero funzionato, avrebbero impedito il sorgere e l’incancrenirsi di recenti spiacevoli esperienze.
        Infine, a proposito del coordinamento, di cui già tanto si è discusso, vorrei aggiungere che è necessaria flessibilità anche nella dislocazione delle forze di polizia sul territorio. Flessibilità vuol dire distribuire le forze dell’ordine sul territorio in relazione agli indici criminali e alla popolazione residente – diceva qualcosa in proposito il procuratore Cordova – secondo criteri di costante adeguatezza: criteri sempre enunciati, ma mai del tutto rispettati. In tal senso giocano un ruolo fondamentale le stazioni dei carabinieri poste nei paesi satelliti dei più grandi agglomerati urbani; dovrebbero essere adeguatamente potenziate per assicurare un controllo preventivo effettivo sulle attività criminali, che finiscono per interessare le periferie degli agglomerati più grandi. Parallelamente va ripensato l’impiego del personale della polizia di Stato nelle grandi città; non può proseguire lo spreco e l’esposizione a inutile pericolo di migliaia di uomini e di risorse ingenti in scorte e in vigilanze, quando la garanzia di persone e di obiettivi a rischio può essere assicurata, oltre che con una razionalizzazione del personale, anche con una più diffusa e meno costosa utilizzazione di tecnologie avanzate. Razionalizzare vuol dire anche utilizzare per tutte le forze dell’ordine personale civile di supporto che sia messo in mobilità da amministrazioni che lo abbiano in eccedenza (in particolare dalle amministrazioni più interessate: interno, difesa, finanze), o che sia assunto per pubblico concorso. Potrebbe anzi istituirsi un ruolo amministrativo di personale civile e di supporto, che esiste già per le forze armate, che consenta l’impiego sul territorio del personale delle forze dell’ordine che oggi lavora negli uffici.
        Le conclusioni di questa sessione sono nella direzione di passare dalle parole ai fatti, e i fatti; per chi è impegnato in Parlamento, sono quegli interventi normativi che tutti hanno reclamato come indilazionabili. (Applausi).

        PRESIDENTE. La giovinezza matura del collega Mantovano conclude degnamente questa prima giornata del nostro Convegno. Quanto al problema dell’ergastolo, fondamentale per la nostra civiltà penale, ne riparleremo, onorevole Mantovano, alla Camera dei deputati. Intanto gli argomenti ostativi opposti non sono in effetti risolti dal testo del Senato. Questo non esclude che lo possano essere presso la Camera dei deputati. E tuttavia l’ultima parola la voglio dire per ringraziare il nostro presidente Del Turco che mi sta convincendo, anche contro una mia diffidenza di principio per una certa "convegnistica", che le cose fatte bene, con sincerità di intenti e intelligente programmazione, come sta accadendo oggi, possono giovare al compito istituzionale della Commissione. (Applausi).
        I lavori terminano alle ore 19,15.