Giovedì, 26 novembre 1998

        I lavori hanno inizio alle ore 9,45.

Presidenza del senatore Ottaviano DEL TURCO,
presidente della Commissione parlamentare antimafia

        PRESIDENTE. Rivolgo un saluto cordiale a tutte le autorità presenti e a tutti i convenuti. Mi rammarico di non poterli salutare direttamente e personalmente ma è proprio impossibile; qualunque elenco, per quanto completo possa apparire, rischia di provocare delle spiacevoli omissioni. Quindi, vi salutiamo con grande riconoscenza per aver accettato il nostro invito, quello della Commissione parlamentare antimafia e dell’Arma dei carabinieri che assieme a noi ha organizzato questo Convegno.           Ringrazio, anche a nome del generale Siracusa, comandante generale dell’Arma dei carabinieri, il presidente Mancino, che è qui con noi. Il Presidente del Senato ha una giornata particolarmente delicata, ma ha ugualmente voluto onorare il suo impegno nonostante che il calendario dei lavori della Assemblea di Palazzo Madama preveda, in una giornata già densa di impegni come quella di oggi, anche un voto di fiducia che, come sapete, è sempre un momento particolarmente importante nella vita parlamentare. Quindi, dopo il suo intervento ci lascerà per tornare ai suoi doveri di Presidente del Senato; lo ringraziamo veramente per questo atto di sensibilità nei confronti della Commissione parlamentare antimafia e dell’Arma dei carabinieri che ha voluto fare questa mattina con la sua presenza a Napoli.
        Ringrazio anche l’onorevole Jervolino Russo, perché le giornate di un Ministro dell’interno sono tutte delicate, ma ve ne sono alcune che lo sono particolarmente. Quindi, so bene quanto sia stato importante per il Ministro essere qui presente questa mattina, anche se ha dovuto modificare leggermente il calendario della sua presenza al Convegno; però, il suo intervento nella fase iniziale dei nostri lavori può arricchire di spunti la riflessione che saremo chiamati a fare in questi due giorni.
        La sola eccezione che faccio, tra le autorità presenti, è quella di menzionare il prefetto Masone ed il generale Mosca Moschini, che ovviamente hanno accolto volentieri il nostro invito; in particolare, il Comandante generale della Guardia di finanza ha ricambiato la presenza del generale Siracusa al Convegno di Palermo, sempre promosso dalla Commissione parlamentare antimafia, ed immagino che entrambi faranno la stessa cosa quando nel prossimo mese di marzo la Commissione terrà a Milano un Convegno internazionale sul tema delle nuove mafie.
        Debbo un ringraziamento alla stampa cittadina per il largo interesse con cui ha rappresentato questo Convegno alla città e all’opinione pubblica di Napoli. Ringrazio i corrispondenti, gli inviati speciali e gli opinionisti che seguiranno i nostri lavori.
        Ovviamente, un grazie alla città di Napoli ed anche al Sovrintendente per i beni culturali ed artistici per averci concesso l’uso di questo splendido palazzo, che è anche un elemento che ci onora perché è da molto tempo che lo stesso Sovrintendente aveva deciso di non concedere più questo teatro e gli altri servizi del palazzo per circostanze come questa.
        Ci sono già molte richieste di intervento ulteriori rispetto a quelle che avete letto sul programma; la verità è che abbiamo predisposto un programma di interventi già molto fitto, ma ci è sembrato che nessuno degli ospiti invitati potesse essere escluso da questa occasione di riflessione. In realtà, come sempre capita, ci sono delle esclusioni delle quali ci dispiace e ho notato che vi sono anche delle proteste pubbliche. Mi dispiace per questo, ma non siamo in condizione di fare diversamente, altrimenti avremmo dovuto organizzare un Convegno di quattro o cinque giorni, ma come capirete ciò non è possibile né per la Commissione parlamentare antimafia né per l’Arma dei carabinieri.
        Termino qui la parte che compete ai saluti, ma ho l’obbligo di leggervi il testo di una gradita lettera che ci è stata inviata dal Presidente della Repubblica:
        "Il Convegno di Napoli del 26 e 27 novembre 1998 su "La lotta alle mafie nel territorio" rappresenta l’impegno con cui lo Stato e la nazione tutta hanno raccolto la sfida della criminalità organizzata ed è momento importante di riflessione e confronto fra le istituzioni, i gruppi e gli operatori culturali e sociali, e tutti i cittadini che, a vario titolo e con diverse responsabilità e competenze, recano il loro contributo alla lotta contro le mafie.
        In questa circostanza, desidero far giungere a Lei, ed agli organizzatori ed ai partecipanti tutti, i sensi del mio vivo apprezzamento per questa iniziativa, unitamente al mio saluto cordiale ed ai migliori auguri di buon lavoro.

Oscar Luigi Scalfaro"

        Ringraziamo ovviamente il Presidente della Repubblica per questa cortese lettera di saluto e penso di poter concludere qui questo breve discorso introduttivo.

        Do la parola al Presidente del Senato, Nicola Mancino.

        MANCINO Nicola, presidente del Senato della Repubblica. Onorevole presidente Del Turco, signor Comandante generale dell’Arma dei carabinieri, autorità militari e civili, voglio innanzitutto porgere a tutti i partecipanti il mio saluto personale e quello dell’Assemblea del Senato, oggi impegnata in un voto di fiducia su un provvedimento che probabilmente avrebbe meritato un’attenzione diversa, piuttosto che il ricorso a questa procedura; d’altronde, la vita del Parlamento è questa e va accettata.            Presidente Del Turco, le assicuro che il mio intervento sarà breve.
        Desidero rivolgere un saluto, anche nel ricordo di una amicizia di lunga data, al ministro dell’interno, onorevole Jervolino Russo, la cui presenza qui a Napoli conferisce al Convegno odierno, organizzato dalla Commissione parlamentare antimafia, un’impronta tutta particolare di attenzione e riflessione superando il rischio di una ritualità che qualche volta si corre.
        Il problema presente nella città di Napoli, ma più in generale in Campania, è quello della camorra. Il legislatore, a causa di una presenza storica anche più penetrante, ha privilegiato la lotta alla mafia; per la specificità di questa regione è necessario sottolineare anche le diversità esistenti fra questi due fenomeni criminali in relazione all’origine, all’organizzazione e alle capacità offensive.
        Avendo partecipato anche al Convegno di Palermo, ritengo di poter dire oggi – ripeto, anche per la mia origine campana – che il contrasto sul territorio alla mafia, pur sempre difficile, è stato reso possibile nel tempo dal fatto che la stessa si è data, eccetto per quanto attiene al territorio catanese, una organizzazione piramidale. Vi sono state lotte cruente, ma il risultato è stato quello di una mafia organizzata in maniera piramidale con un vertice e con un assetto tipicamente ordinamentale.
        La camorra è un fenomeno in parte diverso; essa ha tentato di organizzarsi sul territorio, alla ricerca di un "leaderato", ma non ha conseguito questo obiettivo, anche perché verso la fine degli anni Ottanta e gli inizi degli anni Novanta l’offensiva dello Stato è stata piuttosto intensa, sorprendendo la camorra proprio nella fase organizzativa ed assicurando alla giustizia i suoi capi.
        In Campania, salvo qualche eccezione, non si registrano latitanze ventennali; questo fatto costituisce nello stesso tempo un vantaggio ed uno svantaggio. La ramificazione della camorra sul territorio sta avvenendo a macchia d’olio e sono quindi necessarie terapie appropriate per apprestare le quali coloro che di ciò si interessano – soprattutto le forze dell’ordine – devono valutare se le misure adottate, anche per quanto riguarda l’impiego di mezzi e di uomini, siano adeguate all’obiettivo di sconfiggere il fenomeno.
        Per queste ragioni, do atto alle forze dell’ordine dell’impegno profuso nell’offensiva contro la criminalità organizzata; mi rivolgo innanzitutto al generale Siracusa, essendo questo Convegno organizzato anche dall’Arma dei Carabinieri, ma lo stesso discorso vale per la Polizia di Stato, il cui capo, il prefetto Masone, è anche direttore del Dipartimento della pubblica sicurezza. Dipartimento che va visto sempre come uno strumento di coordinamento delle varie attività delle forze dell’ordine.
        Poiché è presente in sala anche il generale Mosca Moschini, comandante generale della Guardia di finanza, voglio sottolineare l’attività di quest’ultima, essenziale ai fini del depotenziamento delle capacità offensive della criminalità organizzata.
        Non so se la legislazione speciale differenziata, che pure ha suscitato molti contrasti e preoccupazioni, abbia bisogno di un ulteriore perfezionamento: questa riflessione la affido alla considerazione del Ministro dell’interno.
        Ci sono dei punti deboli nell’organizzazione della lotta alla criminalità che avrebbero bisogno di una ulteriore riflessione. È stato difficile, soprattutto per i garantisti – e io lo sono – accettare la legislazione differenziata che è alla base dei grandi successi ottenuti dal nostro Paese nella lotta contro il terrorismo. Credo che la legislazione differenziata sia servita e serva non solo per contrastare, ma anche per sgominare le tante bande presenti sul territorio. Probabilmente qualche provvedimento accessorio, oltre quello edittale, avrebbe bisogno di essere affinato, proprio per privare gli appartenenti alla mafia, alla camorra e alla ’ndrangheta di un’arma di ritorno che li fa diventare latitanti, ma allo stesso tempo controllori occulti di quella parte del territorio che sfugge al controllo dello Stato.
        Non voglio tediarvi su questioni che saranno certamente al centro delle riflessioni dei componenti autorevoli della Commissione antimafia (oltre che di coloro che operano sul territorio), ma credo che vi sarà la necessità di un coinvolgimento sempre più utile e proficuo dei collaboratori di giustizia. Oggi c’è un clima diverso che non fa discutere del rapporto tra la magistratura e le forze dell’ordine, nei confronti delle quali non esprimeremo mai sufficiente gratitudine per ciò che hanno fatto e che faranno. Nonostante le difficoltà di carattere organizzativo, anche in Campania è stato fatto molto. Tuttavia, registriamo una situazione anomala: mentre in altre aree si sono ottenuti rilevanti successi nell’azione di contrasto, in Campania, anche se l’impegno è stato portato avanti con grande professionalità, sembra irraggiungibile qualsiasi obiettivo di annientamento.
        La camorra è disseminata sul territorio e si manifesta attraverso molteplici modi. Approfitto della presenza del Prefetto di Napoli e dell’onorevole Jervolino Russo per raccontare ad alta voce una esperienza che ho fatto quando sono stato Ministro dell’interno. Dopo il terremoto del 1980, lo Stato ha destinato soprattutto per la Campania enormi risorse. Sono state ricostruite le abitazioni, sono stati ristrutturati gli edifici e sono stati realizzati, anche con carattere di modernità, una serie di uffici e di esercizi commerciali. La criminalità ha puntato sul riciclaggio e si è impadronita di questi esercizi commerciali. Durante la mia permanenza al Viminale inviai una circolare a tutti i prefetti d’Italia invitandoli ad avviare un censimento specifico per avere un quadro delle compravendite degli esercizi commerciali, al fine di colpire non solo il riciclaggio ma anche i riciclatori. Questo censimento non è mai stato mai reso pubblico (alcuni lo hanno fatto, altri no); posso dire che, ad esempio, in provincia di Avellino (una provincia ancora prevalentemente agricola, solo in parte anche industriale) – e in particolare nella città capoluogo – molti negozi sono stati acquistati per interposta persona dalla camorra. Questo è un dato, dal quale non si può prescindere, se vogliamo aggredire sul territorio non solo i movimenti del denaro sporco, ma anche l’infiltrazione occulta che avviene attraverso la costituzione di società di comodo.
        Per fortuna, la legislazione è venuta in soccorso, perché, mentre qualche anno fa non tutte le società venivano controllate, oggi anche la costituzione delle società minori deve avvenire con atto pubblico e i notai hanno l’obbligo di trasmettere i documenti e le certificazioni. Questa disposizione è importante per l’autorità di pubblica sicurezza, perché consente di svolgere le indagini necessarie per sapere chi si cela dietro l’operazione di acquisto dei negozi.
        So bene che la camorra è molto più di queste cose. La camorra penetra nel territorio e invade anche zone che un tempo ne erano immuni. Spesso ho parlato con il Capo della Polizia in merito alla situazione, ad esempio, della Valle Caudina, che soffre una escalation dell’aggressione della camorra. Resto dell’avviso che non possiamo limitare le indagini solo alla città di Napoli: Napoli è il capoluogo della regione ed ha moltiplicato i problemi delle province minori, ma quella della presenza camorristica è una questione che ormai riguarda tutti i territori della regione; immuni sono i soli territori che si trovano ad una altitudine maggiore, che hanno un clima e un assetto urbanistico particolare, che hanno una popolazione limitata intorno al campanile, dove è possibile un controllo diretto da parte degli abitanti.
        Voglio ora parlare dell’argomento "la collaborazione della gente". Presidente Del Turco, quando nel 1992 a Palermo, immediatamente dopo le due ultime grandi stragi definite "di Stato", in cui furono uccisi prima Falcone e poi Borsellino, le organizzazioni sindacali manifestarono con una presenza di centomila persone giunte da tutto il territorio nazionale, a dimostrazione che il problema della malavita organizzata non è solo siciliano ma nazionale, come Ministro dell’interno dissi: "Felice quel giorno in cui a Palermo centomila palermitani potranno scendere in piazza per condannare". Questo accadde, qualche mese dopo, per una sensibilità accresciuta o sopravvenuta in termini di collaborazione: quando la popolazione partecipa direttamente alla salvaguardia di alcuni valori, soprattutto di quello della vita, offre certamente un notevole contributo alle forze dell’ordine, le quali fanno la propria parte, ma spesso sono isolate rispetto al contesto sociale.
        Vengo alla seconda questione. Sul piano generale abbiamo un convincimento, divenuto anche legittimo: gli operatori economici non investono nel Mezzogiorno, perché hanno timore della presenza malavitosa, ed è vero. Allora, è compito delle istituzioni intensificare il contrasto, ma è anche compito dei responsabili della politica avvertire il bisogno che non si può stare all’interno di un binomio dai risvolti assai intrigati e di difficile risposta. Non si investe perché c’è la malavita e se si investe, poi si denuncia che è la malavita a prendersi i massimi vantaggi.
        Con schiettezza vorrei ricordare che, quando si è verificato il terremoto in Umbria, vi sono state giustamente grandi solidarietà, ed il giorno successivo nessuno ha parlato né di presenza malavitosa né di capitali sporchi. Immediatamente dopo l’alluvione a Sarno e a Quindici, si è parlato della presenza della camorra, ma non degli sforzi dello Stato, delle risorse pubbliche stanziate. Occorre anche la collaborazione della stampa: la camorra, dove è presente, va denunciata, ma se si è in presenza soltanto del rischio, è necessario prendere le giuste misure di contenimento, prima di parlare di presenza malavitosa. Non escludo che quelle aree siano sottoposte a grande rischio: personalmente ho sciolto due volte il Consiglio comunale di Quindici e una volta quello di Sarno, a dimostrazione della presenza della malavita in quelle zone. Abbiamo bisogno di un salto di qualità, di un salto culturale, di una maggiore attenzione. Di recente, il direttore del "Giornale di Sicilia" di Palermo per la seconda volta consecutiva, mi ha consegnato un diario di classe che viene pubblicato su quel giornale; un diario di classe degli studenti che lamentano disfunzioni, inadempienze, assenza delle istituzioni – ci sono, e questo bisogna dirlo – disagi di carattere minorile. Vorrei che questa esperienza fosse ripetuta anche in Campania per cercare di contribuire ad alleggerire la spaventosa flessione scolastica in atto: a Napoli, l’obbligo scolastico non viene certo osservato da tutti. E non diciamo che ciò dipende soltanto dalle condizioni economiche: dipende "anche" dalle condizioni economiche.
        Bene ha fatto il presidente Del Turco ad organizzare convegni di approfondimento degli strumenti di lotta contro la criminalità organizzata attraverso un itinerario che da Palermo porta a Napoli per poi proseguire a fino a Milano. La mafia – teniamolo presente – non è soltanto quella che ha le sue radici e il suo cervello nell’Italia meridionale (a Palermo la mafia, a Napoli la camorra). Dobbiamo sostenere che il riciclaggio è un fenomeno internazionale che interessa paesi che hanno avuto una loro storia ed un loro ruolo nell’immediato dopoguerra; il riciclaggio è, però, presente in tutti i territori del nostro Paese, è uno strumento di presenza della malavita organizzata che prima si impossessa dell’economia e poi porta avanti la sua offensiva in termini di criminalità anche nei confronti della popolazione.
        Ammettendo queste cose, non dobbiamo avere il timore di essere dei dissacratori; diciamole con l’intento di migliorare la nostra condizione, perché il Paese ha bisogno di una pagina – anzi di un libro – di pulizia; ci dobbiamo presentare sul piano internazionale, sapendo benissimo che il riciclaggio interessa altri paesi, anche quelli che fanno parte dell’Unione monetaria, che vivono questo stesso dramma. Essi forse sono più "nazionalisti", più riservati di quanto siamo noi: resto convinto che, dicendo queste cose e soprattutto ascoltando le forze dell’ordine e la magistratura, che sono a diretto contatto con il territorio e con la presenza della malavita, contribuiremo al miglioramento della legislazione e dell’offensiva contro questi fenomeni criminali.
        Un’ultima considerazione. L’ordinamento dell’Arma spesso non piace a qualche carabiniere prevalentemente meridionale, per via del rigore in materia di assegnazione alle stazioni territoriali; se potessimo svolgere qualche riflessione anche sulla provenienza territoriale, sulle radici dei rappresentanti delle forze dell’ordine, non sarebbe forse sbagliata una disposizione di carattere generale che prescrivesse un rigore generalizzato. Ritengo che a Napoli questa sia una questione molto avvertita anche da parte della popolazione. Chi ha radici sul territorio, una famiglia e amicizie (parlo soprattutto dei piccoli comuni), difficilmente riesce a fare la sua parte, anche se la deve fare e la fa con onestà di intenti. Presidente Del Turco, questo è un problema presente, anche se so bene che non sempre è possibile realizzare una riflessione di carattere ordinamentale, evitando di toccare questo o quel territorio.
        Mi auguro – e concludo perché devo ritornare in Senato – che questo Convegno, così come è avvenuto per quello di Palermo, serva ad approfondire i problemi legati alla presenza della criminalità organizzata. Sottolineo ancora una volta che il clima di collaborazione, sempre necessario, è lo stesso che è stato sempre registrato sul territorio e che ha contribuito ad ottenere grandi risultati nel combattere la camorra non soltanto nella città di Napoli ma in tutta la Campania (Applausi).

        PRESIDENTE. Qualcuno aveva paventato il rischio, e lo si è scritto anche su qualche giornale stamattina, che il Convegno in realtà fosse solo una parata di interventi di autorità dello Stato senza alcun rapporto con le questioni delle quali stiamo parlando da mesi in questa ed in altre città del Mezzogiorno. A me sembra che il Presidente Mancino abbia fatto la sua parte per rassicurare noi – perché è una preoccupazione anche nostra – e anche per smentire questi profeti di sventura.

        Cedo la parola al generale Siracusa, comandante generale dell’Arma dei Carabinieri.

        SIRACUSA Sergio, comandante generale dell’Arma dei Carabinieri. Rivolgo un vivissimo saluto a tutti gli intervenuti, alle alte autorità, in particolare al presidente del Senato Mancino e al ministro dell’interno Jervolino Russo. Ringrazio il presidente Del Turco per la possibilità che ha offerto all’Arma di contribuire in modo così incisivo ed efficace all’organizzazione di questo Convegno e lo ringrazio altresì per avermi concesso il privilegio di esprimere alcune considerazioni all’inizio di questo dibattito su un tema così importante come quello in discussione.  Gli argomenti che saranno trattati e la prestigiosa autorevolezza dei relatori condurranno senza alcun dubbio alla composizione di un quadro cognitivo approfondito ed aggiornato di estrema utilità per quanti, istituzioni e operatori sociali, sono oggi chiamati a realizzare quella cornice di sicurezza che è indispensabile presupposto di un reale ed ordinato sviluppo.
        In società avanzate, quale quella italiana, ove i fattori criminogeni sono molteplici, e tutti fra loro interrelati sulla base di comuni denominatori sociali ed economici, le politiche di sicurezza non possono risolversi nel solo intervento repressivo, ma devono essere integrate da iniziative armonicamente orientate a favorire il diffuso consolidamento della cultura della legalità. Non un solo soggetto, quindi, ma più soggetti devono essere coinvolti nella difesa dei valori fondamentali della società, oggi esposti all’aggressione multiforme della delinquenza.
        Una minaccia concretizzata, da un lato, dalla criminalità organizzata, attraverso i tentativi di penetrazione nei centri amministrativi, in quelli economici, con pressioni esercitate sulle attività commerciali e imprenditoriali, mediante pratiche estorsive ed usurarie, traffici illeciti internazionali di armi, di stupefacenti, di materiali radioattivi e così via e, infine, attraverso le scellerate speculazioni sui flussi migratori. Dall’altro lato, troviamo l’insidia della criminalità cosiddetta diffusa o minore, o comune, alla quale sono riconducibili reati correntemente considerati minori in relazione all’entità del danno materiale, ma che in realtà tali non sono in rapporto alla grave incidenza sulla quotidiana ordinarietà della vita sociale. Un allarmante mosaico di manifestazioni delinquenziali che, oltre a produrre l’immediato effetto dell’illecito profitto, finisce per alimentare la formazione e la condivisione di culture devianti, amplificata dalla sensazione di lontananza delle istituzioni rispetto ai problemi della comunità e dalla convinzione di non avere opportunità di elevazione sociale, tanto che l’ingresso in circuiti di acquisizione illegale del reddito appare come l’unica possibilità per migliorare la propria condizione. L’esclusione e la marginalità diventano insomma potenti volani dell’economia del crimine e spiegano il consenso talora goduto dalla delinquenza nelle aree disagiate, dove si affermano, specie fra i più giovani, aberranti spinte ad emulare modelli comportamentali negativi.
        La caratterizzazione dei fenomeni criminali si differenzia naturalmente in funzione delle diverse condizioni socioeconomiche rilevabili nelle varie aree; uno dei più importanti fattori di differenziazione è senz’altro il tasso di urbanizzazione. Nelle aree rurali, ad esempio, spesso connotate da condizioni di isolamento geografico e socioculturale, sono tradizionalmente presenti strutture criminali ad impostazione patriarcale che conoscono approfonditamente il territorio, su cui esercitano pervasive forme di dominio con un articolato sistema di controllo. A ciò consegue l’assoggettamento e quasi l’assuefazione al crimine da parte delle popolazioni locali, non di rado responsabili di comportamenti omertosi, determinati dalla necessità di tutelarsi dalla protervia criminale e dalla esemplarità di atti di prevaricazione e di violenza. Nelle periferie dei grandi centri urbani e nei comuni di media grandezza, invece, i repentini e disordinati processi di sviluppo hanno consentito alle organizzazioni delinquenziali di inserirsi proditoriamente nell’economia in crescita. La mancanza di organiche pianificazioni e la disattenzione verso gli aspetti socioculturali hanno, in sostanza, offerto ai sodalizi criminali l’opportunità di alterare i meccanismi economici e di assumere il controllo delle attività imprenditoriali con gestioni funzionali esclusivamente alle loro esigenze. Nelle aree metropolitane italiane, così come in altri grandi centri di Paesi europei ed extraeuropei, è invece frequentemente rilevabile la forte contraddizione fra quartieri modello, ad elevato indice di vivibilità, e zone degradate, definite a rischio, dove sono più evidenti il disagio sociale e la diffusione della illegalità.
        La scarsa incisività dei controlli informali, il minor senso di partecipazione solidale nelle relazioni umane, la diffusa disoccupazione ed alcune carenze di servizi sociali favoriscono insomma l’insorgere di sacche di emarginazione e di insoddisfazione, ineluttabili anticamere della devianza, che trova nel degrado ambientale un terreno di coltura pericolosamente fertile: da manifestazioni meno violente – furto di energia elettrica, occupazione abusiva di alloggi – si passa a forme via via più gravi – furti, rapine, spaccio di stupefacenti – fino a creare una dimensione di illegalità diffusa.
        La diversa incidenza del crimine in ragione delle specifiche condizioni socioeconomiche delle varie aree induce altrettanto differenziate percezioni dei fenomeni delinquenziali, direttamente correlate a variabili sociali, culturali, economiche e di età. I commercianti, per esempio, sono più sensibili a rischi di attentati alle loro proprietà; le donne possono essere più sensibili a rischi di violenza sessuale, i genitori ai rischi di spaccio di sostanze stupefacenti, e così via. Per aderire alle specifiche domande occorre quindi il concorso di molteplici risorse, il cui impiego coordinato deve condurre all’attuazione di politiche mirate per ciascun territorio e alla realizzazione di un fecondo sistema di collaborazione fra le istituzioni e le componenti sociali portatrici di forme differenziate di controllo.
        All’origine bisogna rivitalizzare i processi di formazione e di educazione dei giovani, chiamando sempre più in causa la famiglia, la scuola, la chiesa, i servizi sociali, le associazioni di volontariato, cui spetta il compito di fornire ai giovani gli strumenti culturali per conoscere le norme, per consolidare il senso civico e per orientarli all’esercizio di attività lavorative, rilevando con tempestività le anomalie comportamentali.
        Le istituzioni amministrative locali, a loro volta, sono oggi impegnate nella realizzazione di più elevati livelli di vivibilità e di più favorevoli opportunità di investimento e di occupazione, attraverso la riqualificazione delle zone degradate: il contrasto all’abusivismo, l’organizzazione di servizi pubblici, la mirata concessione di autorizzazioni amministrative, tutto ciò può attirare nuovi investimenti ed impedire la fuga delle migliori risorse umane, realizzando un mercato realmente efficiente e produttivo, in cui la pluralità dei soggetti che vi operano costituisce il più efficace antidoto all’affermarsi dei monopoli mafiosi. Parallelamente, gli enti locali sono anche indirizzati all’assunzione di un ruolo più partecipativo nella definizione delle politiche di sicurezza. Essi portano nelle sedi istituzionalmente competenti il contributo conoscitivo necessario per individuare emergenze e priorità, ed integrano con le risorse direttamente disponibili l’attività che la magistratura e le forze di polizia, quali attori primari e professionali, svolgono per il controllo del territorio e per il contrasto tanto della criminalità organizzata quanto di quella comune. Magistratura e forze di polizia sono quindi chiamate, innanzitutto, a contrastare le consorterie mafiose con strategie di intervento fondate sull’utilizzazione di avanzate tecniche investigative che, possiamo affermarlo, sono ormai consolidato patrimonio di tutte le forze in campo. Lo scopo essenziale è quello di incidere sui tradizionali punti di forza dei sodalizi criminali e sui loro interessi vitali, quali la capacità di gestire prolungate latitanze, l’accumulazione di ingenti patrimoni, l’acquisizione e la gestione di attività economiche, rimuovendo ed impedendo la permanenza di fenomeni di intimidazione e di soggezione psicologica. Con la stessa intensità di sforzi, attraverso l’attività di prevenzione, deve essere anche garantita la sicurezza del cittadino e degli operatori economici rispetto ai cosiddetti reati minori che rendono difficile la vita di tutti i giorni: scippi, furti, rapine, spaccio di stupefacenti, e così via. Il contrasto delle diverse forme di criminalità richiede dunque l’armonica integrazione dei servizi preventivi e di pronto intervento con le attività informative ed investigative che nel loro complesso realizzano l’articolato sistema di controllo del territorio. Esso si traduce, in altri termini, nella capacità di conoscere i problemi e gli eventi che caratterizzano una determinata realtà e di individuare e comprendere le relazioni esistenti fra le manifestazioni devianti e i fattori potenzialmente criminogeni, al fine di orientare efficacemente le scelte in materia di prevenzione e di impostare correttamente lo sviluppo di quelle investigative.
        Il primo elemento di questo sistema è costituito dai presidi delle forze di polizia, presenti tanto nelle grandi città quanto nei piccoli centri, per aderire pienamente alle diversificate esigenze locali. Il secondo elemento, fondamentale anch’esso, è rappresentato dai servizi esterni, cioè dalla proiezione sul territorio di pattuglie che, da un lato, esprimono la capacità di intervento tempestivo, dall’altro realizzano una presenza intelligente e orientata per raccogliere tutte le conoscenze indispensabili alla definizione di un quadro aggiornato delle dinamiche delinquenziali.
        Il terzo elemento consiste, infine, nell’acquisizione di tecnologie avanzate che potenziano l’efficacia del controllo del territorio e nell’adozione di nuovi modelli operativi, per esempio l’impiego di stazioni e uffici mobili, che conferiscono particolare flessibilità al dispositivo.
        L’attuazione dei programmi operativi, individuati per migliorare il sistema di controllo del territorio, deve necessariamente essere ricondotta alla già più volte riconosciuta esigenza di definire risposte di sicurezza mirate alle specifiche realtà territoriali e di realizzare il coinvolgimento diretto dei cittadini nella gestione dei problemi di ordine e di sicurezza, a testimonianza dell’acquisita formazione di una nuova coscienza civica e della scelta condivisa di nuovi percorsi culturali.
        Gli autorevoli relatori del Convegno non mancheranno certamente di approfondire i temi cui ho appena sommariamente accennato e di fornire nuove e più aggiornate chiavi di lettura dei fenomeni, di modo che gli operatori sociali e quelli istituzionali possano a loro volta coerentemente adeguare le strategie di intervento nell’ottica comune di ridurre la sensazione di insicurezza e consolidare la convinta adesione alla cultura della legalità. (Applausi)

        PRESIDENTE. La ringrazio, generale Siracusa, di questo suo contributo e colgo l’occasione per ringraziare, oltre a lei, l’intera Arma dei carabinieri che ha reso possibile con il proprio impegno molto importante e, come sempre, molto efficiente, l’organizzazione di questo Convegno.

        Cedo la parola al ministro dell’interno, onorevole Rosa Jervolino Russo.

        JERVOLINO RUSSO Rosa, ministro dell’interno. Signor Presidente Del Turco, signor generale Siracusa, permettetemi di rivolgervi il mio ringraziamento, non soltanto come Ministro dell’interno ma anche come parlamentare eletta nella città di Napoli, per questo incontro particolarmente importante non soltanto per il tema affrontato e per le presenze qualificate ma anche per l’impostazione data ai lavori che va al di là di un approccio, direi, classico ai temi della criminalità organizzata. La prospettiva di questo incontro non è limitata, infatti, soltanto a considerare gli aspetti, pur importantissimi e centrali, dell’attività delle forze dell’ordine, ma coinvolge una riflessione sulle risorse sociali, sul ruolo degli enti locali e sull’importanza dell’educazione, quindi della scuola, nella lotta alla criminalità organizzata.

        Ringrazio inoltre tutti i partecipanti e permettetemi anche un’annotazione particolare per esprimere la gioia di vedere tra di noi l’amico Sergio D’Antoni. Il generale Siracusa, il capo della polizia Masone ed il generale Mosca Moschini comprenderanno le ragioni di questa particolare sottolineatura: eravamo insieme a Cagliari, ad una riunione del Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica, quando ci sono giunte notizie molto preoccupanti sulla salute di Sergio D’Antoni; per la verità, prima di lasciare l’isola, queste notizie erano già fortemente ridimensionate, ma la sua presenza in questa sala, in piena attività di lavoro, è, almeno per me – ma credo anche per gli altri – il premio più bello di fronte alla preoccupazione di quel momento (Vivi applausi).
        Amici e colleghi, negli interventi che mi hanno preceduta sono stati offerti alcuni spunti estremamente interessanti. Il presidente Mancino, al quale ricambio sentimenti di profondo rispetto e di antica amicizia, ha chiesto al Ministro dell’interno se ritenesse opportuno inserire nel suo programma, ed eventualmente in quali termini, una rivisitazione della legislazione differenziata.
        Il Ministro dell’interno vi prega, con molta semplicità, di considerare le riflessioni di oggi come un primo approccio di analisi al tema. Ho sempre avuto, e desidero continuare ad avere, l’abitudine di approfondire i temi e di pensare prima di agire; alla mia riflessione, anche sui temi della legislazione differenziata, sono sicura che non mancherà il contributo essenziale di tutta la Commissione parlamentare antimafia, perché su tematiche così importanti l’impegno è sentito nella stessa misura da parte dei colleghi di maggioranza come da parte di quelli di opposizione.
        Consentitemi qualche valutazione, quindi, che vi prego di accogliere come prime riflessioni di un Ministro appena nominato.
        La profonda evoluzione socioeconomica di questi ultimi anni ha inciso in molti e svariati settori della convivenza civile, con ricadute anche sugli assetti criminali, e conseguentemente sui modelli impiegati nell’azione di contrasto alla criminalità.
        Non a caso, già nel tema di questo Convegno, ossia "La lotta alle mafie nel territorio. Legalità e sicurezza nelle grandi aree metropolitane e nelle altre zone a rischio", si rinvengono tre significativi elementi di novità rispetto alla tradizionale impostazione.
        Il richiamo al concetto di area metropolitana è indicativo dell’esigenza di un approccio più moderno e concreto alla problematica della sicurezza dei grandi aggregati urbani, che sappia anche superare i confini tradizionali degli enti locali per meglio vederli in una prospettiva, già presente, anche se non attuata, nella legge n. 142 del 1990, che ora sarà rilanciata e rafforzata nella riforma della normativa sugli enti locali in corso di esame conclusivo davanti alle Camere.
        Il secondo punto è l’inserimento delle grandi aree urbane nel novero delle zone a rischio, che sottolinea una nuova pericolosità del crimine organizzato, non più geograficamente circoscritto alle aree di tradizionale radicamento, ma incombente su ogni contesto economico, suscettibile di sfruttamento o di infiltrazione.
        Il terzo elemento di novità è costituito dall’esigenza di sicurezza, peraltro in stretto binomio con la legalità, avvertita non solo come momento primario per la lotta alla criminalità organizzata nel territorio, ma anche e soprattutto quale fattore di sviluppo economico e sociale.
        Sotto il primo profilo, invero, l’urbanesimo più recente ha superato la dimensione comunale e perfino la contiguità territoriale dei nuclei abitati. Esso ha inglobato una miriade di realtà profondamente diverse, che vivono attorno ad un unico polo economico e sociale; l’hinterland di Napoli è un esempio molto appropriato di questa verità.
        Le aree metropolitane fanno assumere rilievo a realtà territoriali complesse ove, per quanto riguarda sia il territorio che la popolazione, occorre affrontare i problemi nuovi che vanno dal pendolarismo, all’immigrazione, a quello, appunto, della coesistenza fra aree che presentano una lunga tradizione urbana ed aree che, fino a poco tempo fa, erano ancora sostanzialmente rurali.
        Ne discende l’esigenza di adeguare alla mutata realtà anche i dispositivi di sicurezza sul territorio, considerando: la crescente integrazione tra realtà diverse, ma contigue; lo sviluppo, che si manifesta sia in senso verticale (basti pensare, per esempio, ad una città che ha vari livelli, in ciascuno dei quali deve essere garantita la sicurezza, ossia alla città delle metropolitane e dei sottopassaggi), sia in maniera ancora più tradizionalmente orizzontale; la sempre maggiore presenza di strutture ed attività aperte nell’arco delle 24 ore e gli spostamenti della popolazione che ne determinano il suo effettivo concentrarsi in luoghi diversi a seconda delle ore del giorno, delle giornate festive e delle stagioni.
        Con la crescita esponenziale dei fenomeni urbani e con lo sviluppo delle megalopoli e delle aree metropolitane, appare ancora più evidente l’importanza del fattore sicurezza, indissolubilmente legato al diffondersi di una vera e sentita cultura della legalità. Tornerò nella parte finale del mio breve intervento su quest’ultimo tema, perché lo ritengo centrale.
        Del resto, anche storicamente, l’esigenza di sicurezza collettiva è sempre stata alla base delle aggregazioni urbane, originate dalla necessità di fronteggiare, con le energie dei molti, le insidie non affrontabili dalle singole persone. La città nasce e si sviluppa anche per motivi di difesa dei suoi abitanti dai pericoli esterni, come spazio di tutela dei diritti e degli interessi dei singoli, come area privilegiata di sereno sviluppo economico; eppure, moderno paradosso, al giorno d’oggi talune situazioni metropolitane presentano invece le zone a più alto pericolo criminale. L’urbanesimo selvaggio, la speculazione, l’abusivismo edilizio, la concentrazione, la marginalizzazione che deriva da un determinato tipo di intervento di edilizia popolare, il degrado sociale e l’immigrazione (non in sé, ma come immigrazione non controllata), sono alcune delle cause che contribuiscono a tali fenomeni degenerativi.
        Nella periferie urbane e negli hinterland metropolitani si è trasferita gran parte delle attività produttive e di servizio e si è insediato un gran numero di cittadini, la cui presenza si diluisce all’interno di una realtà socioeconomica sino a ieri – come ho detto poco fa – agricola ed isolata.
        Non sempre però – è questo un grande tema e fate bene ad aver sottolineato la tematica delle risorse sociali e dei servizi – questi territori sono attrezzati, non solo sul piano logistico, ma anche su quello delle strutture culturali e sociali, per adeguarsi ai rapidi cambiamenti che li hanno interessati.
        Parallelamente, anche in alcuni quartieri degli stessi centri storici, già sfavoriti dal decentramento economico e produttivo e dalla minore funzionalità e comodità delle vecchie abitazioni, vi sono ora situazioni da considerarsi a rischio. Anche in questo caso Napoli è un esempio. Basterebbe recarci alla destra del Palazzo Reale, in cui ci troviamo, per individuare tali situazioni.
        Quartieri abitati, ma non vissuti, e un forte pendolarismo lavorativo: tali circostanze finiscono con il penalizzare ancora di più le aree meno favorite dai servizi, in cui vengono a crearsi le condizioni favorevoli per uno sviluppo di fenomeni come la prostituzione (una grande e terribile piaga di riduzione di esseri umani in schiavitù, alla quale il Ministro dell’interno, di concerto con il Ministro degli affari sociali, intende dare al più presto risposte), lo spaccio della droga (altro terribile dramma), l’abbandono di rifiuti e quant’altro.
        Si innesta allora un circuito vizioso, che si avvia con la tolleranza di singoli, talora marginali, comportamenti di devianza, sviluppa in breve tempo un clima di diffusa illegalità e di mancato rispetto delle regole di convivenza civile, porta il radicamento di grandi e piccoli mercati illeciti e giunge infine alla costruzione di vere e proprie centrali dell’illecito, in cui possono trovare collocazione tanto le grandi organizzazioni criminali che operano a livello internazionale, quanto la microcriminalità, e non so se è più possibile distinguere in modo netto fra macro e microcriminalità.
        Tutto ciò provoca la fuga dei residenti tradizionali e la conseguente stabile occupazione da parte di forze criminogene. Vi sono quindi ampie porzioni di territorio che rischiano di essere sottratte alla legalità ed alla cittadinanza.
        Sotto il secondo profilo prima indicato, le più recenti dinamiche macrocriminali hanno sensibilmente ampliato il concetto ed il novero delle aree a rischio; in tale contesto, è riduttivo sostenere che l’unica emergenza è la lotta alla mafia nelle sole aree di suo insediamento storico, anche perché assistiamo ad una capacità di ramificazione territoriale che purtroppo diventa sempre più ampia.
        I sequestri di persona, la mafia, i traffici di droga e di armi, i grandi affari illeciti della criminalità organizzata, sono fenomeni da seguire con attenzione e da perseguire con metodi e strategie di contrasto incisivi ed efficaci su tutto il territorio nazionale.
        Da questo stato di cose deriva spesso un senso di insicurezza, alcune volte sommerso, altre volte esplicito, giustamente denunciato con forza da parte delle popolazioni, che hanno il diritto ed il dovere di sentire che lo Stato, con le sue istituzioni democratiche è accanto a loro.
        La politica della sicurezza, allora, non può indirizzarsi solo al grande crimine, ma deve valutare con sensibilità ed attenzione quel senso di insicurezza dei cittadini al quale ho fatto riferimento, e fornire risposte adeguate per restituire alla collettività una maggiore fiducia negli apparati istituzionali, promuovendo al contempo un’attività di sensibilizzazione sulla necessità della vigilanza e di quella che vorrei chiamare collaborazione civica, in quanto fattori essenziali nel concorrere alla tutela della legalità. Ed è un fatto centrale questo risveglio della coscienza civile dei cittadini, questa volontà di non lasciare il problema soltanto alle forze dell’ordine, ma di essere accanto a loro, accanto alle istituzioni democraticamente elette nel combattere la macro e la microcriminalità. Sicuramente tutte le metropoli, indipendentemente dalla collocazione geografica e dalla eventuale presenza di una componente atavica di tipo mafioso, costituiscono un imprescindibile punto di riferimento, e purtroppo di diffusione, lo dicevo prima, per le organizzazioni criminali. Le grandi aree urbane, infatti, per la loro dinamicità socioeconomica, finiscono con l’offrire basi operative ideali, serbatoi di manovalanza, centri di contatto per la gestione di affari, aree di mercato illecito ed occasioni di reinvestimento di profitto. Gli interessi e le manifestazioni della criminalità organizzata nel tessuto urbano presentano profili assai variegati, anche in ragione dell’estrema eterogeneità delle situazioni territoriali.
        D’altro canto, se grande deve essere l’attenzione per le aree metropolitane, anche le aree rurali all’interno del Paese, i piccoli centri, hanno una loro problematica. Anche qui faccio riferimento alla giornata di studio e di confronto che, con i comandanti generali dell’Arma dei carabinieri, della Guardia di finanza ed il Capo della polizia, nonché con il Presidente del Consiglio e della Giunta regionale della Sardegna, si è tenuto in Sardegna. In quella occasione è stata esaminata soprattutto l’area dell’alto nuorese, una zona tradizionalmente fuori dall’attenzione della grande criminalità organizzata, ma nella quale si verificano episodi ripetuti, che non mi sentirei di definire microcriminalità. Laddove, infatti, si costringono, attraverso l’intimidazione, 24 sindaci a minacciare le dimissioni – e va reso omaggio a questi sindaci che, di fronte all’assicurazione dello Stato di non lasciarli soli, hanno immediatamente ripreso il loro compito – occorre esercitare particolare attenzione, anche perché – lo ripeto – non si sa bene se quegli episodi si collegano ad una cultura locale atavica di violenza o ad una volontà di macrocriminalità più moderna che intende estendersi anche in quelle zone. Tutto il territorio nazionale va tenuto sotto monitoraggio. E sotto monitoraggio va tenuto, in particolare, certamente anche il territorio della città di Napoli. Non è questa l’occasione per parlare in modo specifico ed analitico dei problemi della città. Al Ministro dell’interno non è affatto sconosciuta la situazione di difficoltà di Napoli ed il 2 dicembre è già prevista la riunione del Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica espressamente dedicata a questi problemi, per i quali ho già riferito al Senato; in proposito, vorrei rinviare alla relazione fatta in quella sede.
        Anche per Napoli, come del resto per tutte le altre zone del territorio nazionale, è profonda convinzione del Ministro dell’interno che i problemi della sicurezza e i problemi dello sviluppo vadano affrontati insieme. Sotto questo profilo stiamo insistendo, e non mancano buoni risultati, perché in tutte le iniziative di contrattazione programmata (c’è anche un esempio in via di realizzazione per l’area nord dell’hinterland della città di Napoli) ci sia sempre una quota parte di risorse destinate ai problemi della sicurezza. Sicurezza e sviluppo, infatti, sono problemi che si intrecciano, così come si intreccia l’azione delle forze dell’ordine con la partecipazione dei cittadini, delle amministrazioni locali e delle forze di volontariato.
        Vorrei fare un’ultima considerazione sulla cultura della legalità, che è appunto l’altro grande settore prospettico sul quale bisogna operare. Presidente Del Turco, quando la Commissione parlamentare antimafia era presieduta dall’attuale presidente della Camera, Luciano Violante, ed avevo l’onore di essere al Governo come Ministro della pubblica istruzione, preparammo insieme un dossier mafia per le scuole. Fu uno strumento di lavoro (dal mio punto di vista, ma non solo) molto forte ed incisivo, perché permise ai ragazzi di tutte le scuole d’Italia di riflettere sul fenomeno della criminalità organizzata proprio come offesa ai valori della Costituzione. È mia ferma intenzione, se la Commissione parlamentare antimafia è di questo parere (ma sono sicura che i colleghi di maggioranza e di opposizione accetteranno questo invito), di riprendere questo cammino, d’accordo non soltanto con il Ministro della pubblica istruzione, ma anche con gli amministratori locali. Penso, ad esempio, alla forte possibilità di azione delle circoscrizioni sia in grandi città come Napoli che nelle amministrazioni comunali dei centri medio-piccoli, perché giovani e non giovani riflettano sulla cultura della legalità.
        Ritengo, concludendo, che fra i diritti di libertà che la Costituzione garantisce ai cittadini vi sia il diritto alla libertà dal crimine. È un diritto di libertà al quale forse i Costituenti non pensavano, ma indubbiamente, così come il cittadino deve essere libero nell’esprimere il proprio pensiero e la propria opzione politica, deve anche essere libero da costrizioni dirette o indirette da parte dell’attività malavitosa. Sono profondamente convinta che l’impegno della Repubblica ad eliminare situazioni di disparità tra i cittadini, che il secondo comma dell’articolo 3 della Costituzione pone in evidenza, riguardi anche la libertà dal crimine, perché indubbiamente vi è diseguaglianza fra chi vive e lavora in zone ed in situazioni non condizionate dalla malavita e chi vive e lavora sotto il pericolo costante e l’incubo della malavita. In quest’ottica credo, se lo riterrete opportuno, che possa esserci anche una proficua collaborazione fra il Ministero dell’interno, la Commissione antimafia e, naturalmente, le forze dell’ordine, e mi auguro veramente che queste giornate siano anche l’inizio di un lungo e fattivo percorso comune per tutelare i diritti dei cittadini. (Applausi).

        PRESIDENTE. Ringrazio il Ministro per questo prezioso intervento. Quanto all’invito che ha rivolto alla Commissione antimafia di riflettere attorno ad un’iniziativa che riguardi il mondo della scuola, devo dire al Ministro che è l’invito che ha avuto l’adesione più veloce della storia di questo Paese, nel senso che già abbiamo avviato con lo "Sportello scuola" una serie di iniziative che hanno caratterizzato largamente l’attività della Commissione. Prima di interrompere brevemente i nostri lavori, ho il dovere di salutare l’onorevole avvocato Jean Marie Bockel, sindaco di Mulhouse, vice presidente del Forum europeo per la sicurezza urbana, il dottor David Birch, Commander of the Major Crime Unit of Merseyside, il senatore avvocato Jacques Peyrat, sindaco di Nizza ed il dottor Carmine Russo, che, a dispetto di questo nome e cognome, è un dirigente dell’FBI, che sono presenti e parleranno al nostro Convegno.  Alla ripresa dei lavori, la prima parte di questo Convegno, dedicata al tema "Il disagio sociale e lo sviluppo della criminalità", sarà presieduta dall’onorevole Nichi Vendola, vice presidente della Commissione parlamentare antimafia. Parteciperanno l’onorevole Maria Fortuna Incostante, assessore al Comune di Napoli, che interverrà sul tema "Il degrado delle periferie urbane e i progetti di risanamento", il dottor Innocenzo Cipolletta, direttore generale della Confindustria, e il dottor Sergio D’Antoni, segretario generale della CISL, che interverranno sul tema "Sfruttamento della crisi economica del Mezzogiorno da parte del crimine organizzato". Come saprete è quasi impossibile chiedere ai rappresentanti delle parti sociali di attenersi al tema, per cui decideranno di intervenire anche sulle problematiche che riterranno più opportuno trattare.
        Seguirà il dottor Cataldo Motta, sostituto procuratore della Repubblica della Direzione distrettuale antimafia di Lecce, sul tema "Immigrazione clandestina e criminalità". Mai tema è stato affrontato con tanta puntualità, dal momento che anche questa mattina, come è noto, sono sbarcati sulle spiagge del Salento qualcosa come 450 emigrati provenienti da vari Paesi del Mediterraneo.
        Seguirà un intervento del dottor Marcello Maddalena, procuratore della Repubblica della Direzione distrettuale antimafia di Torino, sul tema "La prostituzione e il suo sfruttamento da parte della criminalità. Il traffico degli esseri umani", mentre alle ore 12 circa interverrà il dottor Gaetano Grasso, consulente della Commissione parlamentare antimafia, sul tema "I presupposti sociali dell’estorsione e dell’usura".
        Successivamente, presieduta dall’onorevole Argia Albanese, componente della Commissione parlamentare antimafia, si svolgerà quella parte del Convegno dedicata al tema "Le risorse sociali nella lotta alle devianze nelle aree metropolitane". Prenderanno la parola l’onorevole Rosario Olivo, componente della Commissione parlamentare antimafia e coordinatore dello Sportello scuola della stessa Commissione, sul tema "Scuola, volontariato ed enti locali nella lotta alla criminalità", don Luigi Ciotti, presidente dell’Associazione Libera, sul tema "La promozione sociale nella lotta alla criminalità nel territorio", la dottoressa Carmela Cavallo, giudice del tribunale per i minorenni di Napoli, sul tema "Il ruolo della famiglia nella prevenzione della criminalità".
        I lavori di questa mattina si concluderanno con l’intervento dell’onorevole Luciano Violante, presidente della Camera dei deputati. Prevediamo di interrompere i nostri lavori alle ore 13,30 per una colazione di lavoro che si terrà nel Salone d’Ercole di questo palazzo, per poi riprenderli intorno alle ore 15,30 sotto la presidenza del senatore Emiddio Novi, componente della Commissione parlamentare antimafia.
        Siamo lieti di salutare anche un neonato che partecipa ai nostri lavori; è la prima volta che un bambino di qualche mese è chiamato a partecipare ad un Convegno così delicato. Ringraziamo la mamma per questa sensibilità.

        I lavori, sospesi alle ore 11, riprendono alle ore 11,30.

Presidenza del deputato Nichi VENDOLA,
vice presidente della Commissione parlamentare antimafia

        PRESIDENTE. Passiamo ora alla prima parte dei lavori dell’odierno Convegno che tratterà il tema "Il disagio sociale e lo sviluppo della criminalità".

        Il primo intervento è quello dell’onorevole Maria Fortuna Incostante, assessore al Comune di Napoli, che svolgerà una relazione sul tema "Il degrado delle periferie urbane e i progetti di risanamento".
        Dal momento che siamo già in ritardo, prego tutti gli oratori di mantenere il loro intervento nei tempi previsti.

        FORTUNA INCOSTANTE Maria, assessore al Comune di Napoli. Vorrei ringraziare calorosamente, a nome del Sindaco, della Giunta e del Consiglio comunale della città di Napoli, la Commissione parlamentare antimafia e l’Arma dei carabinieri per aver voluto e organizzato questo Convegno nella nostra città. Vorrei salutare anche tutti i presenti, le autorità civili e militari, tutti gli operatori, intervenuti per riflettere su questi importanti temi all’ordine del giorno.

        Avremo momenti di approfondimento e di confronto con autorevoli interventi molto puntuali – come già è avvenuto – che ci consentiranno di approfondire il tema da più angolazioni e punti di vista, come è giusto che sia per un problema così complesso che va considerato per le sue innumerevoli connessioni sociali ed economiche e che va anche inserito in un contesto di raffronti nazionali ed internazionali. È infatti proprio in questo orizzonte che noi possiamo leggere i fenomeni della criminalità e del disagio in modo più complesso e possiamo ragionare sulle strategie da mettere in campo alla luce anche di altre esperienze e di altre azioni avvenute in altri paesi.
        Vorrei qui portare anche il saluto del Forum europeo e del Forum italiano per la sicurezza urbana; ne fanno parte numerose città, regioni e province in Italia e in Europa e la città di Napoli vi partecipa con grande interesse.
        C’è e si sviluppa sempre di più – è già stato detto anche in precedenti interventi – un dibattito sul termine "sicurezza", sul nuovo diritto di cittadinanza, sul diritto alla sicurezza e sulle politiche urbane da attivare in tal senso. Uno dei nodi centrali delle politiche di sicurezza urbana, soprattutto nell’ottica di chi amministra la città, è il tema della complessità sociale, del disordine sociale, dei processi continui di modificazioni e di trasformazioni che interessano le grandi aree e, al tempo stesso, del governo di questi processi, favorendo certamente – e credo che tutti ne siamo convinti – processi di inclusione sociale, facendo sì che il controllo, la sanzione e la repressione siano risorse efficaci ma orientate a disciplinare e ad interdire comportamenti e azioni da circoscrivere ad un campo limitato, distinguendo quindi tra politiche di sicurezza rivolte ai cittadini, alla popolazione, e politiche invece di contrasto alla criminalità e al tempo stesso cogliendo le interconnessioni che tra queste politiche possono esserci.
        È in questo quadro che si collocano le intese, che si sono avute in molte città, tra comuni e prefetture, come il contratto di sicurezza che è stato siglato a Napoli tra il sindaco e il prefetto, d’intesa con il Ministro dell’interno.
        In questa città, che come tutti sapete è interessata da fenomeni criminali e da episodi anche molto gravi avvenuti negli ultimi tempi, sono stati fatti numerosi passi in avanti; sono stati assestati anche duri colpi alla criminalità organizzata da parte delle forze dell’ordine e della magistratura ed è in atto un coordinamento operativo e di intelligence che mette in campo le migliori risorse e professionalità.
        Un ringraziamento particolare, consentitemi, va al Prefetto e ai responsabili delle forze dell’ordine di questa città, che non solo hanno saputo e voluto realizzare quello che è lo specifico dei loro compiti ma hanno fornito un importante contributo anche nel campo della prevenzione sociale, con una particolare attenzione rivolta soprattutto ai giovani, ai bambini e alle bambine della nostra città.
        Veniamo da una città che ha dovuto ricostruire una nuova classe dirigente non solo nella politica e nelle istituzioni ma in tutti i campi ed è ancora impegnata in questo sforzo. Il percorso non va interrotto, va rafforzato, va sempre tenuta molto alta la vigilanza contro l’agguato della criminalità, ma soprattutto quello che va messo in campo è un valore aggiunto, che molto spesso anche il presidente Del Turco ci ha ricordato: il valore aggiunto della cittadinanza, che ha consentito sicuramente, in una prima fase, il processo di rinascita di questa città. Questo valore aggiunto è quello della cittadinanza, è quello di far scendere in campo e rendere visibili l’esercito molto più numeroso di cittadini onesti, operatori economici e sociali, enti, istituzioni e associazioni, che possano contribuire – e lo fanno tutti i giorni – a contrastare lo sviluppo della criminalità. Questa battaglia non è mai vinta, non è mai scontata e non è mai data.
        Tutto ciò è particolarmente importante per il tema che ci riguarda – "Il degrado delle periferie urbane e i progetti di risanamento" – ma direi che è importante per tutta la nostra città.
        Quello che concerne le periferie è un tema di interesse nazionale ed internazionale delle grandi aree urbane. Non ci sono solo periferie da intendere in senso geografico, ma anche periferie da intendere come luoghi o anche come aggregati di soggetti che sono marginali, esclusi da quelli che potremmo riconoscere come contesti di attività, di centro di relazioni cittadine ed urbane.
        In questo quadro si potrebbe osservare che a Napoli le periferie hanno sviluppato una loro particolare peculiarità urbanistica e sociale a partire dagli anni Ottanta.
        La devastazione del terremoto è stata un po’ lo spartiacque che ha visto il realizzarsi congiunto di alcuni fenomeni in modo sicuramente pernicioso e in qualche modo forse anche connessi: da una parte, il salto economico ed istituzionale della criminalità organizzata, dall’altra, una strisciante e conclamata crisi delle aree industriali, un accrescersi dello stato assistenziale e clientelare, e infine uno sviluppo delle periferie che per la loro natura e per il contesto in cui sono cresciute hanno contribuito a determinare ed accrescere il disagio sociale.
        Un contesto urbano in cui l’abitare è privato di centri di relazione, in cui vi sono problemi di mancanza di identificazione, di servizi diffusi, di infrastrutture, con predominio di edilizia pubblica e quindi con una omogeneità di ceti sociali che è del tutto anomala nella storia di questa città, abituata invece a vivere quotidianamente nell’interagire e nell’agire nella complessità della stratificazione sociale.
        Gli interventi fatti per la ricostruzione e ancora fino a poco tempo fa pensati si sono limitati, dobbiamo dirlo, ad amministrare il disagio sociale, intervenendo a valle di questo fenomeno e forse perpetuando lo stesso concetto di periferia e di esclusione sociale.
        In questo quadro si colloca una nuova riflessione di azione e di ruolo del Comune di Napoli, dell’intero Consiglio comunale della città; penso a quello che è stato lo sforzo di disegno urbanistico della nostra città, delle funzioni di alcune aree importanti. Penso al ricco dibattito e alle scelte che hanno portato a ridefinire una città policentrica, con zone a specifica vocazione e destinazione e forme di connessioni urbane ed infrastrutturali.
        Questo è stato il dibattito e le scelte che il Consiglio comunale ha fatto su Bagnoli, questo è il dibattito sulla variante della zona Orientale e della zona Nord, questi sono alcuni dei progetti per Scampìa, per Pianura e per altre zone, progetti che intendono investire risorse locali e dell’Unione europea per ridare un volto ed un’identità a periferie diverse tra loro e pur nella loro complessità ed originalità.
        Come amministrazione comunale nel suo complesso, abbiamo intrapreso una nuova fase, affermando il ruolo pubblico e la potestà democratica dell’ente locale di ridefinire gli assetti della città in un confronto con i vari attori sociali e al tempo stesso lo sforzo di mettere in campo politiche di concertazione e di sviluppo delle aree urbane degradate. Infatti, anche affiancati da organismi internazionali, quali l’OCSE, abbiamo ragionato proprio nei giorni scorsi sulle strategie più efficaci per intervenire, ad esempio, su una periferia particolare quale è Scampìa.
        Non vi è dubbio, anche alla luce di esperienze nazionali ed internazionali di rivitalizzazione di aree urbane, che la strada più efficace sia quella dello sviluppo integrato, dell’azione contemporanea su più fronti (il fronte abitativo, quello infrastrutturale, dei servizi e degli attori economici e sociali). È proprio qui che si delinea un nuovo ruolo dell’ente locale, il quale, mentre afferma una politica urbanistica pubblica, favorisce ed agevola con vari strumenti l’intervento ed il contributo dei privati.
        Occorre allora pensare a misure e ad interventi economici e sociali – alcuni dei quali sono già in campo – per favorire insediamenti commerciali e produttivi e per fare emergere, dove sia possibile, un’economia sommersa, come – per esempio – stiamo cercando di fare con il progetto "Urban" per le imprese artigiane nei quartieri Spagnoli e Sanità.
        Occorre intervenire nel campo del disagio sociale, facendo una scommessa su una rete di servizi e di risorse, intrecciando al tema della cura delle persone e dei servizi per l’infanzia e per l’adolescenza il tema dello sviluppo di nuove professionalità, della creazione di un mercato sociale e anche di imprese sociali e di parte dello sviluppo occupazionale in questo settore.
        Abbiamo avviato moltissimi progetti, con una particolare attenzione al tema dell’infanzia e dell’adolescenza. Abbiamo sperimentato forme nuove, quali l’affido diurno e i tutori, e con la scuola abbiamo cercato di realizzare molti progetti innovativi, particolarmente significativi proprio per le fasce del disagio. Naturalmente – questo vorrei dirlo – non si tratta più del problema dell’obbligo scolastico, che oggi è all’ordine del giorno di questa città, in termini di cifre e di numeri, quanto di quello della dispersione soprattutto nella fascia – per esempio – della scuola superiore. Su questo argomento ci stiamo particolarmente impegnando.
        In particolare, vorrei dire che tutto questo – non elenco in questa sede i dettagli di tutta una serie di innumerevoli progetti ed interventi – sconta delle difficoltà enormi per una arretratezza di servizi strutturali e per uno sforzo complessivo che le macchine amministrative e burocratiche devono compiere. Abbiamo fatto molto, abbiamo coinvolto molti giovani, ma ancora tanto e tanto c’è da fare. Sperimenteremo la misura del reddito minimo di inserimento – misura voluta dal Parlamento – in senso attivo, facendo un vero patto di cittadinanza, che chiamiamo patto civile, che tenda a far fruire di questo contributo economico, con delle prescrizioni, i cittadini a rischio di esclusione sociale, per mettere in atto misure di fuoriuscita dal percorso dell’esclusione sociale per quanto possibile.
        Tuttavia, quello che va giocato sempre di più è in termini non retorici – ripeto – il tema della cittadinanza attiva, oggi al centro delle strategie dell’Agenda 2000-2006 dell’Unione europea, dedicata allo sviluppo locale. È quello che oggi gli economisti più attenti ormai definiscono anche come valore aggiunto da misurare in termini economici, che è il capitale umano e sociale. È il tema più innovativo di fronte ai contesti urbani e allo sviluppo delle periferie, fortemente connotate dal disagio sociale.
        Questo tema – come dicevo – non può essere declamato, ma va declinato. Occorrono in tal senso scelte, risorse, strumenti e professionalità sulle quali stiamo cercando di investire, ci stiamo impegnando. Ma siamo solo all’inizio: occorrono strategie innovative di intervento nel campo sociale, facendo agire nuovi soggetti quali l’associazionismo e il volontariato, con il quale ampiamente collaboriamo, e facendo crescere reti di relazioni solidali. Questi soggetti possono essere i primi protagonisti del superamento del disagio ed hanno la capacità di mettere in campo quello che si è definito il diritto della cittadinanza attiva, il valore aggiunto.
        È ormai noto nelle esperienze e nelle strategie innovative che queste problematiche non sono e non possono essere più considerate "figli di un Dio minore". Non viene prima l’economia, la politica, l’urbanistica e poi quello che ancora come aspetto residuale definiamo "il sociale", che siamo forse ancora abituati a leggere in termini puramente assistenziali. Se seguissimo questa strada, i nostri progetti, anche quelli più belli dal punto di vista urbanistico ed infrastrutturale, ci porterebbero ancora a delineare periferie delle periferie, ad accrescere i fenomeni del disagio, ad intervenire in modo sempre più marginale e ad essere incapaci di invertire la rotta.
        Per noi, quindi, è essenziale ripartire dal disagio, metterlo al centro delle strategie di sviluppo integrato delle nostre aree periferiche ed attivare ancora risorse e professionalità. Tutto questo ce lo consentiranno alcune leggi e voglio ringraziare la sensibilità del Parlamento e del Governo che hanno attivato strumenti a favore dell’infanzia e del disagio adolescenziale come il piano d’azione 285. È questo il valore sul quale scommettiamo per superare il disagio delle periferie, per sconfiggere la criminalità e per continuare il processo di rinascita nella nostra città.
        Sappiamo anche che questo non è un percorso lineare, ma accidentato, fatto di numerosi e possibili continui aggiustamenti. L’importante è non perdere la rotta; l’importante è essere anche noi qui in carne ed ossa, al di là anche – direi – delle nostre funzioni, a fare questa scommessa e a svolgere il nostro ruolo di cittadini attivi di questo processo della nostra città, della nostra Napoli. (Applausi).

        PRESIDENTE. Ringrazio l’onorevole Fortuna Incostante per il suo intervento e saluto cordialmente l’onorevole Luciano Violante, presidente della Camera dei deputati, per la sua partecipazione al Convegno (Applausi).

        Do ora la parola al direttore generale della Confindustria, dottor Innocenzo Cipolletta, che interverrà sul tema dello sfruttamento della crisi economica del Mezzogiorno da parte del crimine organizzato.

        CIPOLLETTA Innocenzo, direttore generale della Confindustria. Saluto tutti i presenti in sala e ringrazio la Commissione parlamentare antimafia e l’Arma dei carabinieri per avermi invitato a partecipare a questo prestigioso Convegno.  Il ruolo della Confindustria in questa sede è quello di parlarvi di quanto la criminalità incide sullo sviluppo economico. Il presidente Del Turco ha affermato che le parti sociali possono parlare di tutto e che è difficile tenerle dentro i titoli che ad esse vengono dati. Cercherò di stare dentro tali titoli, operando però in un certo senso una inversione. Non si tratta, infatti, di sapere solo quale sia lo sfruttamento della crisi economica del Mezzogiorno da parte del crimine organizzato, ma – come credo – di rilevare in particolare in che misura il crimine organizzato e l’illegalità determinano situazioni di crisi economica, quali quelle che tutti noi conosciamo, in alcune aree del nostro Paese.
        Credo che ci sia sempre un forte pudore a parlare di criminalità soprattutto nelle aree più colpite dall’illegalità e, quindi, reputo positivo lo svolgimento di questo Convegno. Bisogna tener presente che spesso, se non se ne parla, il problema non viene affrontato nella sua dimensione e, pertanto, la lotta alla criminalità finisce per diventare qualcosa di non evidente e di non sostenuto. Occorre anche tener presente l’altra faccia della medaglia: se di criminalità si parla troppo in alcune zone del Paese, si rafforza poi l’idea dell’impossibilità di venire ad investire ed operare in tali zone e, quindi, si finisce per accentuare i disagi e le crisi economiche determinate dalla presenza di una forte illegalità. Pertanto, è necessario conciliare queste due esigenze, evitando sicuramente che l’una sopravanzi l’altra.
        A mio avviso, la conciliazione di queste esigenze avviene soltanto attraverso l’azione: fare, cioè, alcune cose affinché, da una parte, l’illegalità venga stroncata e sia evidente ai cittadini il ripristino di una situazione di rispetto della legalità e, dall’altra parte, vengano svolte quelle attività necessarie per lo sviluppo economico, per far sì che le imprese tornino ad investire e che i rapporti tra le parti sociali si diano un obiettivo di sviluppo superiore anche a quello delle altre parti del Paese.
        Come dicevo prima, per lo sviluppo economico di un’area è necessario il rispetto della legalità. Se si leggono tutti i testi in materia economica, si scopre che l’economia cresce dove c’è fiducia nei rapporti reciproci e fiducia significa trasparenza, sicurezza del rispetto dei contratti e capacità di poter valere con le proprie forze e non con l’appoggio di forze oscure. Per questo motivo un’economia di mercato che vuole crescere deve basarsi sul rispetto della legalità a tutti i livelli; questo è il motivo per cui il sistema delle imprese, che in questa sede rappresento, ha fatto della lotta alla criminalità e del ripristino della legalità il primo dei punti all’ordine del giorno, per una politica di recupero delle zone a sviluppo ritardato, e in particolare del Mezzogiorno. Nel fare tutto questo ci siamo anche attirati le critiche di coloro che hanno detto che, parlando di illegalità, si finisce per impedire che gli imprenditori vengano a fare investimenti in tale zone.
        Tuttavia, anche se esiste l’idea sbagliata della presenza nel Mezzogiorno del crimine, è necessario ricordarsi che tale idea – ripeto, anche se sbagliata – comunque esiste e, quindi, va dato un forte impulso alla lotta alla criminalità nel Mezzogiorno in maniera tale che questa idea, anche se poggia su basi non completamente vere, possa essere rovesciata.
        Molti ci dicono che non è vero che la criminalità nel Mezzogiorno è superiore a quella di New York o di altre parti del mondo sviluppato. Forse ciò sarà anche vero e di fatto è confermato dalla letteratura e da una generale convinzione; è vero nell’ambito di coloro che devono prendere decisioni. Infatti, ad un imprenditore si può chiedere di rischiare tutto, tranne la propria vita e di essere vittima di fenomeni criminali. Però credo che bisogna anche avere il coraggio di riprendere quella parola che tutti pronunciano, che è la repressione della criminalità (Applausi).
        Spesso abbiamo paura di affrontare questo tema e, ogni volta che pronunciamo la parola repressione, ci affrettiamo a dire: "Sì, però bisogna fare la prevenzione, l’educazione ed intervenire su problemi di carattere sociale". Poi il "sì però" finisce, invece, per prevalere su quello che è l’atto primario: non avere, cioè, tolleranza per l’illegalità a qualsiasi livello essa si manifesti, a cominciare dai livelli di manifestazione dell’illegalità che sono i più visibili agli occhi dei cittadini (è quella che una persona incontra per strada e subisce anche come singolo). Non sono certo piccole cose.
        Quando imprese che si trovano intorno alla città di Napoli hanno non solo il problema della presenza forte della criminalità organizzata, ma anche quello di dover difendere i propri lavoratori dai furti nei parcheggi esterni delle auto e di dover costruire dei parcheggi interni per consentire loro di lavorare senza l’angoscia di dover subire il furto della propria automobile, credo che questo tipo di criminalità debba essere effettivamente eliminata. Per questo motivo è necessaria una forte presenza delle forze dell’ordine sul territorio.
        Mi rendo conto di quanto ciò sia difficile e di quanto possa essere costoso, tuttavia l’Italia dispone delle forze di polizia, dei Carabinieri, della Guardia di finanza e – lasciatemi dire – non credo che manchiamo di persone. Ritengo, invece, che dobbiamo impegnare tutte queste persone nel compito prioritario di reprimere la criminalità ove essa si manifesta. Per fare ciò abbiamo aderito pienamente al progetto per la sicurezza del Ministero dell’interno e devo dire – raramente mi cito – che proprio qui a Napoli ebbi a sottolineare la necessità di usufruire anche dei fondi comunitari per fare un progetto di sicurezza, al fine di dotare le forze dell’ordine di tutti quegli strumenti necessari per assicurare il controllo della legalità. Dissi anche che se i 3000 miliardi da incassare dalla Telecom – quando si parlava di impiegare questa cifra in ipotetiche agenzie del lavoro – fossero stati destinati alle forze dell’ordine per il ripristino della legalità, si sarebbe realizzato un investimento forte e sicuro, e un segnale importante, nei confronti di tutti gli operatori e della gente, che lo Stato non rinuncia alla lotta alla criminalità sul territorio.
        Evidentemente questo impegno non deve riguardare solo lo Stato, ma deve riguardare sia i cittadini, i quali non devono tollerare l’illegalità, che le imprese, che non devono assolutamente tollerare l’illegalità. E anche per queste ultime non ci sono scuse, non c’è l’alibi che occorre sopportare la concorrenza di chi mette in atto comportamenti illegali, per adattarsi a propria volta all’illegalità. Questa scusa per le imprese non vale. Bisogna condurre una lotta contro l’evasione fiscale anche da parte delle imprese stesse, rispettando le norme vigenti, e poi magari lamentandosi perché la pressione fiscale e contributiva è obiettivamente eccessiva; esistono le organizzazioni e c’è l’opinione pubblica per la quale bisogna lottare al fine di abbassare le imposte e i contributi in questo Stato. Ma finché vi è una legge, essa va rispettata, al pari di tutte le regole.
        Noi abbiamo cercato, insieme al sindacato, di fare delle operazioni per riportare alla legalità imprese che per altri motivi erano sommerse. Abbiamo fatto con il sindacato i contratti di emersione; dalla filosofia che è alla base di questi contratti è nato anche un provvedimento di iniziativa del Governo; contratti di emersione criticabili, come criticabile è il provvedimento del Governo nella strumentazione, credo, ma non nell’obiettivo che si prefigge. Dobbiamo renderci conto di un fatto: in alcuni casi l’emersione trova resistenze nella difficoltà a rispettare delle regole. E allora, se questo è vero, le regole, come ho detto prima, vanno sì rispettate, ma vanno anche adattate affinché possano essere rispettate, perché altrimenti finiamo per essere quel Paese che vieta tutto e finisce così per permettere tutto, perché quando si vieta in maniera eccessiva, si finisce col subire una forte illegalità. Da questo punto di vista dobbiamo procedere nell’imporre il rispetto delle regole, ma al tempo stesso discutendo se le procedure esistenti e le regole imposte non siano eccessive.
        Vengo infine all’ultima considerazione, sperando di non aver impiegato troppo tempo. L’illegalità nel campo dell’economia si coniuga con la presenza dello Stato nell’economia. Questa è un’affermazione forte, che va precisata: io non voglio dire che c’è per forza illegalità quando vi è la presenza dello Stato, ma tale presenza rompe i normali rapporti dell’economia di mercato, dove gli interessi reciproci fanno sì che i sistemi di illegalità possano essere perseguiti e isolati, e poiché nel campo della presenza statale funziona la discrezionalità, si rischia di avere una più forte presenza della criminalità. Questo significa, ovviamente, non che bisogna eliminare la presenza dello Stato, perché ciò sarebbe improponibile, ma che essa va garantita, in maniera trasparente, solo dove è necessaria: più estesa è la presenza dello Stato, più regolamentazione c’è, più autorizzazioni esistono, più c’è il rischio che si inseriscano forme di intermediazione, qualche volta legittime, talvolta illegittime. Se il cittadino comincia a perdere la possibilità di ottenere qualcosa che lo Stato gli attribuisce in virtù di un diritto e pensa di dover ricorrere all’intermediazione, fosse pure di un amico, per avere una raccomandazione, ecco che si è messo il piede in un sistema di illegalità da cui è poi difficile tornare indietro.
        Vorrei precisare che quando parlo di Stato non mi riferisco solo a quello centrale ma anche e soprattutto agli enti locali, che stanno entrando in maniera fortissima in numerose attività economiche, laddove altri Paesi stanno riducendo questa presenza: penso alla distribuzione dell’acqua, ai trasporti, a molte altre attività per le quali, in quasi tutti i Paesi, per i motivi che ho esposto, c’è un controllo da parte dello Stato e dell’ente locale, ma non più la gestione diretta.
        Ebbene, in questa maniera si può vincere la cultura della rassegnazione che in questo Paese è a volte troppo forte; una cultura terribile che, specie nel Mezzogiorno, talvolta induce a dire: "meno male che c’è il sommerso, meno male che c’è l’illegalità, perché almeno non esiste la disoccupazione"; qualche volta porta a tollerare manifestazioni indegne di persone che distruggono beni pubblici perché sono disoccupati. Ebbene, queste manifestazioni non vanno tollerate; la rassegnazione va vinta e come forze sociali noi tutti dobbiamo dare il nostro contributo e lo daremo. (Applausi).

        PRESIDENTE. Ringrazio il dottor Cipolletta e cedo la parola al dottor Sergio D’Antoni, segretario generale della CISL, che svolgerà una relazione sullo stesso tema testé trattato dal dottor Cipolletta: "Sfruttamento della crisi economica del Mezzogiorno da parte del crimine organizzato". 

        D’ANTONI Sergio, segretario generale della CISL. Ringrazio anch’io il presidente Del Turco che ha voluto invitarmi a portare un contributo a questo Convegno e un ringraziamento esprimo alla Commissione antimafia per l’iniziativa che ha assunto.  Penso che avere forte consapevolezza e forte tensione sulla questione della lotta alla criminalità e della battaglia per lo sviluppo sia assolutamente necessario e ritengo indispensabile non far cadere mai la tensione da parte di chi ha responsabilità istituzionali, come il Parlamento. Dunque apprezzo, come dicevo, questa iniziativa; spesso si dice che tanto sono sempre le solite chiacchiere, ma io credo che solo se si discute, se ci si confronta, se si tiene alta la tensione, se si mette in moto un vero processo di presa di coscienza, è possibile ottenere risultati importanti sia sul versante della repressione nella lotta alla criminalità organizzata sia sul versante, altrettanto significativo, dello sviluppo. Sono tra coloro che sono convinti che non esistano due tempi, che non vi sia una contraddizione che purtroppo spesso si verifica nei fatti, ma che non dovrebbe esservi. Il tempo è uno solo: bisogna reprimere e insieme provocare sviluppo; bisogna colpire il negativo e provocare insieme il positivo. Non c’è alcuna possibilità di separare questi due aspetti che rappresentano facce della stessa medaglia. Se noi li separiamo, ci condanniamo da una parte all’abbandono e dall’altro al rischio dell’attrazione, dell’appetibilità, della garanzia, del mito che si può offrire anche a tanti giovani, a coloro che, se non hanno certezze sul loro assetto, rischiano queste fasi di sbandamento.
        Per questa ragione è fondamentale prendere coscienza che oggi siamo in una fase totalmente nuova, nella quale è indispensabile collegare processi generali di cosiddetta globalizzazione dell’economia con processi particolari di sviluppo locale. Le due cose vanno insieme; purtroppo la globalizzazione porta conseguenze, se non corrette, di valorizzazione del territorio che finiscono per provocare effetti pesantissimi, nel senso che le aree forti diventano più forti economicamente e quelle deboli si indeboliscono ulteriormente, con il rischio che le distanze si allarghino e che la coesione sociale – che è una delle grandi forze per garantire equilibrio sociale, distribuzione equa della ricchezza, sviluppo, competizione ed equità – venga frantumata. Ci sono dati in Europa impressionanti; e trovo stupefacente il fatto che né da parte dei Governi europei, né da parte della Commissione europea si discuta di questo. In Europa dieci anni fa le dieci regioni più forti avevano una disoccupazione del 5 per cento e oggi hanno un livello di disoccupazione fermo alla medesima percentuale, cioè hanno conservato la loro condizione di primazìa. Le 10 regioni più deboli d’Europa avevano 10 anni fa una disoccupazione media del 17 per cento; oggi registrano una disoccupazione media del 22 per cento, quindi si è aggravato in maniera impressionante il divario fra regioni in Europa, mandando in crisi una delle caratteristiche fondamentali dell’Europa come unità monetaria e come costruzione di politiche economiche, dell’Europa come ipotesi di coesione sociale. Su questo l’Europa ha subito una sconfitta clamorosa, perché se si lascia che lo sviluppo proceda così come va, le conseguenze sono quelle che vi ho descritto, con una perdita impressionante anche di valori economici, umani e sociali. Non c’è niente da fare: quando si creano le condizioni, così come si sono create in Europa e in Italia, di avere contemporaneamente province con il 3 per cento di disoccupazione – noi ne abbiamo 23, un bel record – e province con il 30 per cento di disoccupazione – ne abbiamo oltre 25 – delle due l’una: o si spostano i lavoratori per andare a cercare lavoro nelle zone in cui c’è minore disoccupazione, perché a qualcuno bisogna pur darlo questo lavoro, oppure si spostano le imprese. Non c’è una terza alternativa; se si aspetta una terza soluzione il rischio è l’immobilismo, il rischio è lo sviluppo che non parte.
        E allora chiedo, in una sede così ufficiale, così forte e così istituzionale come quella di oggi: è possibile mettersi insieme e capire che come Italia e come Europa abbiamo tutti la necessità di trovare questo equilibrio sociale, questa coesione, e di esprimere con forza una politica che, puntando all’abbattimento della criminalità, organizzata e non, punti allo sviluppo e offra una cultura positiva a tante popolazioni per farle uscire da questa condizione di abbandono? Penso di sì, se tutti coloro che hanno responsabilità, il Governo, il Parlamento, le imprese, il sindacato, le comunità locali, le forze di polizia, svolgono fino in fondo il proprio compito e lo portano fino alle estreme conseguenze, assumendosi ciascuno le proprie responsabilità, compresa quella di essere coerenti, perché non si può fare un discorso a Bari e a Milano, uno a Palermo, uno a Napoli, uno a Torino e uno a Treviso. No: bisogna dire tutti insieme che c’è un interesse più alto, più forte, collettivo, che viene garantito se ci sono questa coesione e questo percorso.
        Cosa bisogna fare? Lo dico brevemente per titoli, perché non ho tempo sufficiente, per ragioni di rispetto, come qui è stato suggerito, di farlo per esteso. Bisogna fare in modo che gli investimenti siano più consistenti nelle aree a forte disoccupazione; per fare questo occorre offrire condizioni autentiche ed effettive su quattro versanti; innanzi tutto su quello fiscale. Il nostro Paese è troppo timido, non si capisce perché la Comunità europea offra un vantaggio fiscale all’Irlanda e al Galles e non al Mezzogiorno d’Italia. Ripeto: non riesco a capirlo; non c’è una sede in cui mi venga spiegato per quale ragione questo non si possa fare, perché tutte le nostre prudenze siano così particolari. Secondo: bisogna offrire da parte nostra condizioni autentiche, garantite, di flessibilità, in un patto vero che riguardi la trasparenza. Il dottor Cipolletta ha prima ricordato che noi conduciamo una battaglia contro il sommerso attraverso forme di gradualità, attraverso i contratti di emersione, attraverso forme fiscali e previdenziali previste nell’ultima legge finanziaria. Chiedo: non è meglio affrontare il problema prima che si creino le condizioni del sommerso? Non è meglio fare un ragionamento serio, di gradualità, di flessibilità, e in maniera coerente, precisa, superando ostacoli, differenze che pure ci sono anche nel sindacato? Penso di sì, altrimenti si cade, anche in questo campo, nella cultura del pentimento: se sei sommerso e hai peccato ti consento di fare l’accordo di gradualità, perché siccome ti sei pentito ti do un premio. Se invece non pecchi, non ti do il premio. Ma allora non è meglio impedire di peccare, anziché fare un condono successivo? Nella mia concezione di fede è meglio impedire di peccare che non il contrario (Applausi), perché questo mi sembra più coerente.
        La terza questione riguarda le infrastrutture materiali ed immateriali; non mi soffermo sul tema perché sarebbe necessario troppo tempo. Negli ultimi cinque anni l’Italia ha avuto una caduta sul piano infrastrutturale pari al 10 per cento in confronto agli altri Paesi, sia al Nord che al Sud (tutti soffrono) ed in particolare nelle zone più deboli.
        Trovo devastante che non ci si ponga seriamente tale questione, con le scadenze e gli opportuni inadempimenti. Si parla tanto delle ferrovie, ma non ci si pone seriamente il problema di un’infrastruttura come questa; consentitemi solo una battuta: avete notato che negli ultimi anni tutti gli incidenti ferroviari avvengono nel Centro-Nord? Per forza, come potrebbero avvenire al Sud se i treni non ci sono? (Applausi).
        La battuta è amara, ma dà l’idea di un percorso e di un’indicazione validi anche per quanto riguarda le strade, gli aeroporti, le telecomunicazioni, e tutte le altre infrastrutture. Mancano invece la consapevolezza e la forza necessarie per un recupero che dobbiamo compiere, che poi dipenderà da tante cose, ma, indicato il tema, le soluzioni possono essere trovate.
        Se parliamo di infrastrutture, facciamo riferimento a quelle materiali ed immateriali, quindi anche a piani formativi e ad essenze formidabili: come si fa a non capire l’importanza del fatto che siamo l’unico Paese in Europa a prevedere la scuola dell’obbligo fino a quattordici anni e a non riuscire a fare una riforma della scuola? Tutti questi sono processi che paghiamo a media distanza.
        La quarta questione è il controllo del territorio: bisogna uscire dalla condizione di scetticismo in cui ci troviamo. È possibile; se arrivano gli investimenti e se inizia una fase nuova, il nostro Stato ha le professionalità, il coraggio, la capacità, i magistrati, i poliziotti in grado di garantire tale controllo. Il caso di Gioia Tauro è lì a dimostrare a tutti che non è vera la formula secondo cui gli investimenti non si possono realizzare perché la mafia lo impedisce. Ciò non è vero perché se arrivano gli investimenti si scompiglia tutto il territorio e si creano condizioni positive: se c’è una zona a forte inquinamento mafioso è sicuramente Gioia Tauro, perché quindi quel porto sta vincendo? La ragione è che i cittadini del Paese stanno cambiando perché hanno visto finalmente la cultura del positivo e le forze di polizia controllano ora quel territorio.
        Allora dobbiamo raccogliere la sfida! È nata da casi come questo l’idea dei contratti d’area e dei patti territoriali, ossia dalla condizione di mobilitazione delle coscienze civili delle comunità.
        Se ognuno compie la sua parte è possibile capovolgere la situazione, ma se per realizzare i patti territoriali sono necessari due anni perché la decisione deve essere assunta a Roma e se per un contratto d’area ne servono tre, allora siamo vittime di aspetti burocratici che fanno vincere gli assetti mafiosi.
        È allora questo il problema reale e forte e mi domando: siamo in grado di poter contrastare e vincere la mafia?
        Da siciliano posso affermare che sono cresciuto in una generazione che era convinta, o che si convinceva attraverso una pubblicistica forte, che avevamo un nemico invincibile: la mafia. Abbiamo scoperto che ciò era assolutamente sbagliato: il nemico è tale, ma è assolutamente battibile. È bastato guardarlo in viso per capire che si poteva battere, che non ci sono e non c’erano ostacoli particolari che impedivano di vincere, a condizione però che lo sforzo da fare per modificare gli attuali assetti e per coordinare le forze di polizia sia che l’azione dei magistrati e la capacità di controllare il territorio si accompagnino ad una rinascita civile, ad una vera capacità d’innescare un processo positivo attraverso un patto.
        Il nuovo Governo è sfidato su questo, come credo lo sia ciascuno di noi; nessuno può avere più remore o alibi perché se tutti ci comporteremo di conseguenza sarà possibile innescare una cultura del positivo e della fiducia, una cultura della sconfitta di quel meccanismo meridionale gattopardesco devastante che ci siamo portati dietro; bisogna finirla! Non è vero che "tutto deve cambiare perché tutto resti come prima"! È una grande sciocchezza che i potenti ci hanno messo in testa perché così vincevano e gli equilibri restavano sempre gli stessi! È una grande fesseria! (Applausi). Eppure, quanti di noi sono cresciuti credendola vera!
        Apriamo questo percorso, dimostriamo alla gente che è possibile vincere. Sconfiggiamo questi muri negativi; ma quanti ve ne sono! Ci presentano questo mondo tutto in negativo, mostrando come negativi anche gli aspetti positivi, con un eccesso di quelli che io chiamo "agenti ansiogeni".
        In passato non si viveva peggio di adesso, però alla mia generazione era sempre presente un chiaro monito: "Impegnati, studia, lavora, vedrai che cambierai e le cose miglioreranno" ora l’età media si allunga – il che è una fortuna – ma il monito rivolto ai giovani è: "Sarete puniti e lavorerete fino a settant’anni", anzi a volte qualcuno aggiunge: "Non è neanche detto che poi vi pagheranno la pensione". Così i giovani pensano che dovranno lavorare fino ad ottant’anni ed allora sarà certo che non sarà necessario pagare loro la pensione!
        Se lo vogliamo è possibile sconfiggere la mafia ed a questo scopo possiamo mandare un segnale positivo al nostro Paese manifestando la volontà di unirci, di fare coesione e di assumere ciascuno le responsabilità che gli spettano, ognuno sul versante della propria competenza e del proprio impegno. Così dimostreremo che è possibile avviare una nuova fase nel nostro Paese. (Applausi).

        PRESIDENTE. Ringrazio il dottor D’Antoni e do ora la parola al dottor Cataldo Motta, sostituto procuratore della Repubblica della Direzione distrettuale antimafia di Lecce, che svolgerà una relazione sul tema: "Immigrazione clandestina e criminalità". 

        MOTTA Cataldo, sostituto procuratore della Repubblica della DDA di Lecce. Rivolgo innanzi tutto un vivo ringraziamento alla Commissione ed al suo Presidente per l’opportunità offertami di riferire qui i risultati della mia esperienza sul tema dei rapporti tra immigrazione e criminalità, privilegiata perché vissuta nel distretto giudiziario più a Est d’Italia, quello di Lecce, la cui costa adriatica dista solo quaranta miglia da quella albanese.

        Il tempo a disposizione non consente specifici approfondimenti, ma è comunque sufficiente per illustrare le peculiarità di questo attualissimo fenomeno.
        La Puglia, zona a rischio per la sua strategica posizione geografica, è da tempo crocevia dei traffici internazionali (ed in particolare di quelli di armi, droga e prostituzione dai Balcani all’Europa) e la sua criminalità è strettamente legata da anni agli interessi che derivano dalla vicinanza dell’area balcanica.
        Eguale e simmetrica posizione strategica per la fascia orientale europea ha l’Albania, divenuta oggi collettore di tutti i traffici dell’Est europeo: innanzi tutto, con la chiusura, a seguito del conflitto in Jugoslavia, della via balcanica dell’eroina destinata al Nord-Europa, essa è divenuta il terminale della nuova rotta dell’eroina turca e di quella prodotta nel Sud-Est asiatico e nel Medio Oriente, che giunge in Albania, per poi attraversare il Canale d’Otranto, dopo aver percorso Turchia, Bulgaria e Macedonia o Grecia (anche se recentemente si sono avute indicazioni di riapertura della precedente via terrestre). In secondo luogo, le due ore scarse di motoscafo che la separano dalla Puglia – cioè dall’Europa occidentale e dal libero accesso in qualsiasi Paese dell’area di Schengen – ne fanno altresì il punto di arrivo di tutti i flussi migratori dall’Est all’Europa (anche di quelli interni, dalla stessa Albania) per il successivo attraversamento clandestino del Canale d’Otranto.
        E già qui è importante un primo rilievo: gli approdi sulla costa pugliese delle imbarcazioni albanesi che, oltre ai clandestini e alle donne da avviare alla prostituzione, trasportano anche la marijuana e le armi, avvengono di norma nel tratto a Sud di Brindisi e non in quello a Nord, per non interferire con gli sbarchi di sigarette dei contrabbandieri brindisini, napoletani e baresi che utilizzano la costa tra Brindisi e Bari per gli approdi dal Montenegro, dove una moltitudine di latitanti delle rispettive organizzazioni criminali (in gran parte della sacra corona unita) ha da tempo trasferito la propria base operativa e costituito vere e proprie colonie criminali. Rotta, quella dal Montenegro alla costa brindisina e barese, percorsa in passato anche per il traffico di armi, in quel territorio disponibili in gran quantità a seguito degli eventi bellici, e destinate alla criminalità italiana (si pensi che, secondo statistiche della DIA, i quantitativi di esplosivo e munizioni sequestrati in Puglia hanno talvolta superato il cinquanta per cento del dato nazionale!).
        Il rispetto da parte degli albanesi della fascia costiera a Nord di Brindisi, evidente risultato di accordi con le organizzazioni contrabbandiere per evitare che in quel tratto si verifichino situazioni che possano far intensificare i controlli delle forze di polizia e danneggiare i traffici contrabbandieri, rappresenta una prima ed allarmante indicazione del livello criminale delle organizzazioni albanesi che dirigono il fenomeno migratorio con ruolo da protagonista e che ha portato ad un maggiore spessore delle attività delinquenziali di tali organizzazioni, alla proiezione di esse in una più ampia dimensione transnazionale e, quindi, al consolidamento delle organizzazioni criminali stesse.
        La gestione del fenomeno migratorio è stata attuata dalla criminalità albanese sia direttamente, con le proprie organizzazioni, per l’emigrazione degli stessi albanesi; sia quale sorta di agenzia di servizi, per conto delle altre organizzazioni criminali, comprese quelle (principalmente turche) che si occupano dell’emigrazione kurda. In entrambi i casi il trasporto e l’attraversamento del Canale d’Otranto avvengono con le medesime modalità operative, con l’impiego, cioè, di gommoni o altri motoscafi corredati di motori potentissimi, che, partendo dai porti più meridionali dell’Albania (fino a venti, trenta per notte), trasportano alcune decine di clandestini ciascuno, stipati a bordo ben oltre le normali capacità di carico.
        Nel primo caso, poi, le organizzazioni che si occupano dell’emigrazione albanese trafficano anche in marijuana di produzione propria: nel Meridione dell’Albania, infatti, la coltivazione della canapa indiana è diventata un fenomeno di massa, sottratta a qualsiasi forma di controllo sanzionatorio; sono state allestite serre dove la canapa indiana raggiunge una maturazione eccezionale ed un principio attivo molto elevato, più alto di quello che in passato veniva riscontrato nell’hashish marocchino o libanese; e la produzione ha raggiunto dimensioni epidemiche, per usare la terminologia delle stesse autorità albanesi. Si pensi, per avere dimensione della imponenza del traffico e del trend in forte ascesa, che nel 1996 furono sequestrate nella sola provincia di Lecce tre tonnellate di marijuana e che nel 1997 esse sono diventate tredici! Con una stima ottimistica dell’incidenza dei sequestri sul volume totale del traffico, deve ritenersi che complessivamente siano stati introdotti nel territorio dello Stato quantitativi quadrupli di quelli sequestrati: elemento che spiega, inoltre, i prezzi stracciati del mercato salentino della marijuana.
        Queste organizzazioni hanno sempre un gruppo di referenti nel Salento che curano il ricevimento e lo smistamento dei clandestini. I referenti sono sia albanesi, di solito già regolarmente residenti in Puglia sia salentini a loro collegati, che possono essere vicini ad ambienti criminali associati oppure riuniti in aggregazioni, talvolta anche occasionali o su base familiare, di modesto livello criminale. Anche nella prima ipotesi, comunque, non vi sono state indicazioni di una stabile saldatura con l’associazione di tipo mafioso, nota con la denominazione di sacra corona unita, operante nel territorio salentino (nelle province di Lecce, Brindisi e Taranto) anche a causa delle mutate capacità criminali di essa, molto ridotte a seguito dei ripetuti interventi giudiziari di contrasto.
        Non per questo, però, la pericolosità del fenomeno può essere sottovalutata. Essa, invero, non è collegata (o lo è solo in piccola parte) alla presenza nel nostro Paese di immigrati clandestini ed alla loro disponibilità o effettiva utilizzazione quale manovalanza criminale; non è corretta, infatti, e non corrisponde alla realtà perché non ha valore assoluto, un’equazione in termini generali clandestini = criminali, respinta anche dalla relazione governativa al disegno di legge sulla disciplina dell’immigrazione, poi divenuto la legge n. 40 del 1998.
        La pericolosità, ben più grave, è legata piuttosto alla creazione di nuovi rapporti in ambito criminale, nonostante l’assenza di una forte struttura criminale che controlli l’intero territorio e rappresenti un referente unico e stabile; al conseguente rischio di espansione e occupazione di spazi liberi del territorio pugliese da parte della criminalità di oltre Adriatico; al potenziamento di gruppi e aggregazioni locali in una prospettiva di alleanze che possono assumere stabilità sia con la criminalità albanese, sia con altri gruppi operanti nei mercati, nazionali ed europei, di destinazione della marijuana (si sono riscontrate ipotesi frequentissime di collegamenti con tutte le altre regioni d’Italia e con alcune nazioni del Nord-Europa); all’occasione di interesse della delinquenza locale ai nuovi traffici con lo stimolo alla ricerca di nuovi mercati di distribuzione della droga; ai collegamenti con le organizzazioni criminali tradizionali per il narcotraffico con Paesi del Nord-Europa (si sono verificati casi di marijuana destinata all’Olanda in cambio di cocaina per il mercato italiano); ed ancora, ne parlerà il dottor Marcello Maddalena, alla disponibilità di giovani donne da avviare alla prostituzione ed al loro sfruttamento in condizioni di vera e propria schiavitù, in una prospettiva, peraltro già ampiamente realizzata, di monopolizzare questo settore criminale nelle regioni del Nord-Italia e con il ruolo dell’Albania di collettore delle attività illecite di tutto l’Est, essendo stato riscontrato che il reclutamento riguarda donne non soltanto albanesi, ma di diverse nazionalità dell’Est europeo; ed infine alla disponibilità di manodopera – anche minorile – da occupare illegalmente o anche in forme illecite, anche qui in condizioni di schiavismo (sono noti i ricorrenti episodi di piccole imprese irregolari che impiegano clandestini con ritmi di lavoro massacranti, anche notturni, talvolta senza retribuzione ma solo in cambio di vitto e alloggio). D’altronde, proprio la gravità di queste due ultime ipotesi, di reclutamento di persone da destinare alla prostituzione e del loro sfruttamento e di avviamento e sfruttamento di minori da impiegare in attività illecite, ha indotto il legislatore del 1998 a prevedere specifiche aggravanti, con pene particolarmente severe, per chi favorisca con tali finalità l’ingresso irregolare di stranieri nel territorio dello Stato.
        Anche la gestione del traffico di esseri umani da parte dell’Albania quale agenzia di servizi offre motivo di gravi preoccupazioni, perché ne fa un interlocutore privilegiato di molte organizzazioni criminali, con il conseguente consolidamento di quelle albanesi, le cui attività delinquenziali, come s’è detto, vengono proiettate in una dimensione transnazionale.
        Già nel 1993, nel corso di un’indagine significativamente denominata Caronte (che riguardava l’immigrazione clandestina di cinesi, indiani, egiziani, iraniani, iracheni, pakistani, cingalesi, russi, organizzata da un’associazione per delinquere italo-albanese che si occupava di traghettarli sulle coste salentine), furono documentati collegamenti con organizzazioni mafiose cinesi (interessate all’emigrazione di cittadini cinesi verso Spagna e Francia), con la mafia turca (interessata alla gestione dell’emigrazione kurda) e con quella russa. E tali rapporti sono andati, poi, rafforzandosi, in virtù della professionalità nell’attraversamento del Canale d’Otranto raggiunta dagli albanesi, cui le altre organizzazioni si rivolgono per questo servizio. Anche in questi casi, però, l’incontro è occasione di espansione di traffici delittuosi e di nuove opportunità criminali che, come ho già detto, hanno trasformato l’Albania in vero e proprio collettore dei traffici criminali dell’Est verso l’Europa occidentale.
        Questo si verifica anche per i servigi resi alle organizzazioni che si occupano dell’emigrazione kurda e kosovara, flussi migratori differenziati nelle modalità di trasporto (in quanto i profughi, sbarcati in Italia, hanno interesse non a nascondersi, ma – al contrario – a farsi accogliere e chiedere asilo, e quindi, in genere non trasportano con sé materiale illecito) e talvolta nelle rotte (in genere più meridionali anche per i punti di approdo). In molti di tali casi, infatti, è stato verificato un collegamento delle organizzazioni albanesi con la mafia turca (che gestisce l’emigrazione kurda, come è risultato provato in più indagini); così come è stato recentemente accertato un collegamento, allarmante quanto singolare data la distanza geografica e culturale, tra la mafia turca e organizzazioni africane che, da Paesi dell’Africa occidentale, avviano i flussi migratori verso l’Italia d’intesa, appunto, con quelle turche. Infatti, in occasione del recente arrivo nella zona di Santa Maria di Leuca di una nave, la Zeynep, con duecentotrenta clandestini, cinquanta dei quali africani, si è potuto accertare che questi ultimi si erano imbarcati nei porti atlantici di origine della Guinea e della Sierra Leone su una nave diversa e, dopo un lunghissimo viaggio di due mesi che li aveva portati ad attraversare lo Stretto di Gibilterra ed a percorrere tutto il Mediterraneo meridionale, erano trasbordati al largo di Creta sulla Zeynep (nave di bandiera siriana e stranamente ridenominata con il nome di una nota spogliarellista turca) già carica di kurdi che avevano pagato ad un’organizzazione turca il trasporto terrestre da Istanbul ad Antalya ed il successivo imbarco alla volta delle coste salentine.
        In questo scenario si delinea la prospettiva, particolarmente allarmante, che l’area salentina, già periferia d’Italia ed oggi porta d’oriente dell’Europa, diventi fulcro delle attività criminali organizzate non soltanto domestiche, ma anche internazionali. Come ha detto poco fa il Ministro dell’interno, certamente l’intervento repressivo – che peraltro incontra limiti insormontabili nell’azione di contrasto ai trasporti clandestini, in mare e a terra – non rappresenta la soluzione unica del problema dell’immigrazione, che non può farsi coincidere tout court con un problema solo di ordine pubblico. Devono, piuttosto, essere ricercate, d’intesa con i Paesi interessati, soluzioni sul piano sociale mirate a rimuovere condizioni di disagio e atteggiamenti culturali di disponibilità a condotte illegali; ed è altrettanto imprescindibile ed urgente ridurre il potere delle organizzazioni criminali di oltre Adriatico e, per quel che più direttamente riguarda l’Albania, che questo Stato riacquisti il controllo delle porzioni meridionali del suo territorio, ancora saldamente in mano alla criminalità organizzata ed interessate da tutte le attività illecite (comprese le partenze dei motoscafi clandestini e le migliaia di ettari coltivati a canapa indiana), al fine di ripulire il fenomeno migratorio da tutti i traffici illeciti che ne rappresentano oggi attività accessorie gravemente pericolose. (Applausi).

        PRESIDENTE. Grazie, dottor Motta. Ha ora la parola il dottor Marcello Maddalena, procuratore della Repubblica della Direzione distrettuale antimafia di Torino, che svolgerà un intervento dal titolo "La prostituzione e il suo sfruttamento da parte della criminalità. Il traffico degli esseri umani".

        MADDALENA Marcello, procuratore della Repubblica della DDA di Torino. Cercherò di dimostrare la mia gratitudine alla Commissione parlamentare antimafia che mi ha invitato a parlare, mentre in genere i magistrati vengono invitati a tacere... (applausi)... non superando il tempo che mi è stato concesso e cercando di restare nei confini che mi sono stati assegnati dal tema. Il tema dello sfruttamento e favoreggiamento della prostituzione e del traffico di esseri umani può essere da me affrontato esclusivamente nell’ambito dell’esperienza di una grande città come Torino, che è lontana dalle realtà di Puglia, Campania, Calabria e di altre terre dove vi è un più forte, immediato afflusso di immigrazione clandestina.

        Dico questo perché dal mio osservatorio ho potuto constatare questo primo dato di fatto, che mi pare assolutamente incontestabile: i reati di sfruttamento e favoreggiamento della prostituzione sono improvvisamente, dopo anni di oblio, ritornati alla ribalta e sono venuti in luce altri reati, come quello di riduzione in schiavitù, di tratta di schiavi, che sembravano ormai ignorati e destinati all’esperienza giuridica di altri Paesi. Tant’è che nella dottrina più comune, perché gli esempi in giurisprudenza erano pochi, si sosteneva addirittura che quelli di riduzione in schiavitù o in condizione analoga erano reati che potevano essere commessi solo all’estero, in quanto riguardavano solo l’istituto giuridico della schiavitù e non i fenomeni di fatto di riduzione in schiavitù; e non essendoci in Italia la schiavitù come istituto, non si poteva neppure realizzare questo reato. È poi intervenuta, ma di recente, nel 1996, una sentenza delle sezioni unite della Cassazione che ha posto fine a questa incertezza, anche se con contrasti, e ha sancito che si fa riferimento a situazioni di fatto che, anche se non esiste l’istituto della schiavitù, sono riportabili a quei comportamenti che riducono e annientano la personalità umana fino a stabilire una sorta di proprietà di fatto, di possesso, di una persona da parte di un’altra.
        Orbene, vi è quindi uno stretto collegamento, a quello che mi è stato dato di constatare, tra il risorgere di questi fenomeni ed il fenomeno dell’immigrazione clandestina. Secondo me è impossibile anche il solo pensare di poter risolvere questi problemi esclusivamente attraverso la via giudiziaria, come in genere tutti i problemi che hanno carattere di fenomeno e non di singoli episodi non possono risolversi esclusivamente attraverso la via giudiziaria; ma, in particolare, qui c’è un problema, quello dell’immigrazione clandestina, che sta a monte dello sfruttamento, del favoreggiamento e del traffico degli esseri umani.
        Allo stato attuale non so se sia la legge che non funziona o se chi deve far funzionare la legge non riesce in questo intento; e di fronte alla vastità e complessità di questo fenomeno di immigrazione di intere masse, mi domando anche se, in realtà, ci troviamo in una di quelle fasi dell’umanità in cui assistiamo a certi fenomeni che sono difficilmente contrastabili sia per via legislativa, sia per via amministrativa, sia, a maggior ragione, per via giudiziaria.
        Dico subito che se è vero ciò che ha detto il collega Cataldo Motta, per cui non è che automaticamente sia valida l’equazione "clandestino uguale criminalità", è però indubbio che anche il fenomeno dell’immigrazione di clandestini che poi svolgono un’attività lavorativa, dato che proprio per lo stato di clandestinità la loro si risolve in un’attività lavorativa in nero, fa sorgere una situazione che, se non vogliamo definire di criminalità e di illegalità, determina evidentemente delle tensioni nel tessuto sociale, nella convivenza civile anche per le "guerre tra poveri" che si instaurano per la concorrenza sleale o comunque sicuramente irregolare soprattutto in relazione alla scarsità dei posti di lavoro. Di qui quei fenomeni di tensione che poi rischiano di sfociare in fenomeni di reazione che possono avere anche dei connotati di stampo razzista.
        Detto questo, bisogna però ricordare che proprio per la stessa essenza della clandestinità fiorisce, e qui ad opera di associazioni e gruppi italiani, anche un campo di attività e di guadagno che è dato dalla copertura e dalla protezione degli stessi immigrati clandestini. Mi riferisco al mercato dei documenti falsi, al reperimento di falsi posti di lavoro per cercare di ottenere permessi di soggiorno per lavoro e la sistemazione logistica degli stessi immigrati clandestini; abbiamo l’esperienza di personaggi appartenenti o già appartenuti ad organizzazioni criminali, anche di stampo mafioso, prettamente italiane, che hanno trovato una sufficientemente comoda forma di investimento di denaro nel procacciamento di un gran numero di alloggi da destinare alla sistemazione dei clandestini. Tutto ciò, evidentemente, rappresenta un fattore di disordine e di inquinamento del tessuto sociale che si moltiplica in progressione geometrica, quando i clandestini, per qualunque ragione, compresa anche l’insopprimibile esigenza di vita se non per inclinazione naturale o, per l’attrattiva di facili guadagni, si determinano invece ad attività criminali vere e proprie, talora ristretti all’interno delle loro comunità – penso, ad esempio, alle comunità cinesi che cercano di dare il minor fastidio possibile in tema di ordine pubblico, proprio per non essere disturbate – talora, invece, inseriti in organizzazioni operanti sul territorio in conflitto a volte tra di loro con guerre per bande o con altre comunità di clandestini o con altre organizzazioni locali, specie nel commercio degli stupefacenti.
        Dico subito che non sono in grado – e difficilmente lo si è – di poter valutare con esattezza la consistenza reale della situazione; certo è che specialmente le comunità più aggressive – parlo ovviamente per gli agglomerati urbani come può essere Torino – determinano un pericolo per l’ordine pubblico, che a sua volta produce particolare insicurezza sociale anche per il rischio di un coinvolgimento di cittadini estranei, ad esempio, in episodi di violenza che si verificano tra queste organizzazioni criminali.
        Il più visibile di questi fenomeni di delinquenza, percepibili dalla generalità dei cittadini sulla strada, sotto casa e nei luoghi pubblici, è proprio rappresentato dalla prostituzione e dal suo sfruttamento. Di qui la tendenza a combattere queste manifestazioni, perché è più facile, e la moltiplicazione di questo tipo di processi che per lo più vede, sia come protagonisti attivi che passivi, persone che appartengono alla medesima comunità clandestina; mi riferisco, in particolare, agli albanesi e ai nigeriani, quindi, in genere, ad etnie extracomunitarie, che trovano particolarmente sensibile la società civile locale, sia per il degrado dell’ambiente che provoca il fenomeno, sia per i pericoli cui ho già accennato di turbamento dell’ordine pubblico, sia per il coinvolgimento e per le conseguenze indirette che possono avere soprattutto per i propri figli – perché più che a se stessi si pensa a questi ultimi – o sulle persone più deboli ed esposte. Tralascio alcuni aspetti, a cui però la popolazione comune civile è sensibile, relativi alla salute pubblica.
        Contrariamente all’apparenza – e questo bisogna dirlo con estrema chiarezza – si tratta di processi tutt’altro che semplici da gestire, anche quando non si abbia la pretesa di andare più a fondo e di risalire a quello che, come si usa dire, c’è dietro. Le difficoltà nascono da una serie di fattori che non si riscontrano, per lo meno nella stessa misura, nei processi contro cittadini italiani. Dico questo perché il discorso sul potenziamento delle forze dell’ordine e quello relativo al fatto che queste ultime sono in grado di reprimere e controllare il territorio incontrano i loro limiti nel fatto che, troppo spesso, la gente vede una persona in giro all’indomani del suo arresto nello stesso territorio e sulla stessa via, il che significa che evidentemente c’è qualcosa che non quadra. Allora, enuncio alcune difficoltà in modo telegrafico. In primo luogo, difficoltà di comprensione della lingua e addirittura, con fenomeni più gravi, non completa affidabilità degli stessi interpreti più o meno occasionali; in secondo luogo, insicurezza sulle esatte generalità non solo degli indagati, che di regola hanno una infinità di alias, di sedicenti, eccetera, ma anche delle stesse persone offese e degli eventuali testimoni; in terzo luogo, difficile reperibilità e disponibilità di persone offese e di testimoni, i quali, appena ascoltati dalla polizia o dal magistrato, hanno la tendenza a scomparire nel nulla. Faccio un esempio: viene presentata una denuncia da parte di una ragazza albanese, viene di conseguenza inviato un fax, poniamo, alle ore 9; il sostituto procuratore comunica di portare la denunciante alle ore 9,15, ma lei non è più reperibile. Quindi, si tratta di scarsa affidabilità o di scarsa tenuta processuale di testimoni o di persone offese, sia per limiti personali, culturali e caratteriali, sia per intimidazioni e minacce talora verificatesi, o asseritamente verificatesi, nel Paese di origine in danno di familiari e di parenti.
        Un altro fattore riguarda una conseguente scarsa riscontrabilità delle stesse dichiarazioni accusatorie, specialmente per quanto riguarda le attività da svolgere all’estero spesso anche – e bisogna esser chiari – per l’inaffidabilità di molti referenti delle forze di polizia o degli organi inquirenti. Quindi, processi difficili che in più sono contrassegnati da un’estrema urgenza e da un’estrema velocità degli accertamenti da fare, e non sempre le forze esistenti possono fronteggiare un gran numero di casi del genere, tutti da trattare con immediatezza, perché il ritardo è sicuramente pregiudizievole.
        Lascio immaginare le maggiori difficoltà che si incontrano quando si tratta di processi non semplici ma complessi, cioè quando si voglia entrare a scardinare dall’interno le organizzazioni criminali; mi limito ad accennare a due questioni. La prima è che gli stessi collaboranti (ammesso che ci siano e nella misura in cui ci sono), cioè persone che si trovano all’interno di queste comunità, presentano un tasso di inaffidabilità assai maggiore di persone del posto perché, essendo clandestini, sono sempre mossi dall’interesse di cercare di ottenere un permesso di soggiorno in quanto collaboranti, il che rende le loro dichiarazioni più inaffidabili. La seconda questione si riferisce al fatto che, per combattere la criminalità organizzata, il mezzo principe di investigazione e di indagine è quello delle intercettazioni ambientali e cellulari. Ebbene, in questo periodo sono aumentate a dismisura le difficoltà in questo settore a causa di normative che hanno previsto le schede telefoniche anonime (perché non si sa chi le ritira e quindi è estremamente difficile l’intercettazione dei cellulari), a causa della distruzione della documentazione relativa al traffico telefonico dopo un certo periodo di tempo, a causa della limitatezza delle stesse linee disponibili, per cui si entra in concorrenza tra le procure per poter avere una linea disponibile, a causa, infine, di nuove difficoltà che si incontrano sui tabulati; e tralascio il resto.
        Aggiungo due cose. A mio avviso, facendo un’autocritica da parte della magistratura, anche quando si arriva con la prova e con tutto il resto alla condanna, abbiamo un risultato finale scarsamente dissuasivo. Molto spesso abbiamo dei patteggiamenti con condizionale a "prezzi stracciati", anche perché vi sono delle difficoltà di prova in sede di dibattimento. Pertanto, vi è la tendenza dei pubblici ministeri e del Gip a ricorrere al patteggiamento perché comunque si eliminano i processi e perché si anticipa l’eventuale condanna.
        Diciamo che c’è anche un generale clima di sfiducia sull’effettività della pena nel momento esecutivo e che questo rende tentennante la magistratura – a mio avviso – sul piano psicologico ad andare fino in fondo nella esperibilità di fattispecie più gravi, come quelle di cui all’articolo 602 del codice penale, o in certi casi quelle dell’articolo 630, quando il pagamento della liberazione avviene per opera della stessa vittima attraverso la sua attività lavorativa.
        Concludo il mio intervento affermando che non credo ci si possa illudere: si tratta pur sempre, ammesso che la via giudiziaria funzioni alla perfezione, di togliere acqua con un cucchiaino da un oceano. I problemi devono essere risolti in un’altra dimensione, che evidentemente è quella politica; in caso contrario, non mi resta che concludere con le parole di Demostene, il quale agli ateniesi che gli chiedevano che cosa c’era da fare rispondeva: "Voi non volete combattere personalmente. Non volete che paghiamo i mercenari, perché non volete tirare fuori i soldi, e poi mi venite a chiedere che cosa c’è da fare. Io vi rispondo con un’altra domanda: "Che cosa si ha da dire?". (Applausi).

        PRESIDENTE. Dobbiamo modificare il nostro programma ed anticipare l’intervento del presidente della Camera dei deputati, onorevole Violante, che, per improrogabili impegni di lavoro, ha necessità di intervenire a questo punto della mattinata.

        VIOLANTE Luciano, presidente della Camera dei deputati. Mentre ascoltavo anch’io affascinato la relazione del dottor Marcello Maddalena, mi sono chiesto se gli psicologi e coloro che studiano i problemi della prostituzione extracomunitaria non debbano porsi il problema della domanda comunitaria di prostituzione, che rappresenta una questione, altrimenti si ha uno scarto tra le analisi. Vorrei ringraziare la Commissione parlamentare antimafia e l’Arma dei carabinieri, nella persona del suo comandante e degli ufficiali in questa sede presenti, per questa iniziativa che avrà luogo – come credo di aver capito – in varie città d’Italia per affrontare, con le diverse forze di polizia, i diversi problemi in esame.
        Se mi permettete, vorrei segnalare un’altra preoccupazione fra le altre che sono state in precedenza segnalate. Fino al 1992, cioè fino alle stragi, si è verificato un pendolarismo tra allarme e silenzio. Dopo le stragi c’è stato l’allarme, molto intenso e forte, e sono state poste in essere leggi di particolare durezza; dopo alcuni anni, però, allontanato quel momento, è subentrato il silenzio. Dopo il 1992 ho l’impressione che si possa correre il rischio di un pendolarismo tra repressione penale e prevenzione sociale, nel senso che la prevenzione sociale ha preso il posto del silenzio del passato. Man mano che ci si allontana dal grande fatto criminale, dalla grande strage e via dicendo, non c’è il silenzio, ma comincia a nascere la domanda di intervento sociale e di prevenzione non come strumento di cooperazione in una strategia integrata di lotta contro le organizzazioni criminali, ma più spesso come elemento che non definisco alternativo ma come terreno sul quale scivola l’attenzione. Se così fosse, sarebbe naturalmente un fatto negativo.
        Il problema vero che abbiamo di fronte è di lavorare di pari passo su due binari, ossia sul binario della repressione – come è stato prima detto in questa sede, non bisogna avere timore di questa parola, perché il nostro compito è anche quello di reprimere – e su quello dell’azione sociale. Sul binario dell’azione sociale vorrei citare solo un dato specifico proprio dell’Italia, che riscontro anche in sede di incontri internazionali. È un dato che ci fa onore, sul quale bisogna lavorare sempre più intensamente e che dipende anche dal lavoro svolto dal presidente Del Turco e dalla Commissione parlamentare antimafia nel suo complesso.
        Abbiamo 620 scuole in Italia che hanno avviato progetti di educazione alla legalità; 1.000 sono i progetti avviati, 8.000 gli insegnanti e 800.000 gli studenti coinvolti. Questo è un dato assolutamente straordinario e credo che non saremo mai sufficientemente grati agli insegnanti che si prestano a questo lavoro aggiuntivo (Applausi) per poter formare i ragazzi e prevenire in tal modo l’aggancio da parte del crimine organizzato.
        Sul piano della risposta repressiva dobbiamo tener presente – siamo a Napoli e in questa città l’organizzazione criminale principe si chiama camorra – che è difficile tracciare una ferma linea di separazione tra camorra e criminalità ordinaria o quotidiana, perché c’è una integrazione o uno scambio permanente, come ben sanno gli specialisti. Mentre a Palermo questa separazione è possibile e a Reggio Calabria è largamente possibile, a Napoli o a Caserta, invece, è più difficilmente possibile o pressoché impossibile, perché c’è uno scambio permanente tra i due livelli.
        Pertanto, credo che tali questioni debbano essere affrontate in un’ottica che veda entrambi i problemi sotto il profilo della sicurezza quotidiana. Il dottor Maddalena ha accennato, nel suo intervento, ad un tema di grandissima rilevanza politica, quello della cosiddetta criminalità di strada, criminalità quotidiana o quella che un tempo si chiamava microcriminalità e che micro non è. Intendo dire che stiamo correndo il rischio della rottura della coesione sociale su un punto di questo tipo. I cittadini ci dicono che sappiamo arrestare il grande criminale o fermare tonnellate di cocaina, però ci chiedono di catturare chi ruba l’automobile, lo stereo nella propria abitazione e quelli che spacciano droga sotto casa, altrimenti non si fidano più di noi. Non so se questa sia una banalità reazionaria, però, dal momento che sono i ceti più deboli ad essere esposti a tali fenomeni, credo che bisogna occuparsi di ciò anche sotto il problema della tenuta della democrazia in Italia, perché su questo si rompe la coesione sociale ed istituzionale (Applausi).
        Le risposte penali sono misurate sul grande fatto. Siamo sprovvisti di mezzi di contrasto nei confronti della criminalità quotidiana. Il fatto di vedere in giro per il quartiere chi ha rubato la macchina due giorni prima, che potrebbe essere un fatto che ci fa sorridere, non fa invece sorridere la vittima del furto, gli altri che hanno visto la macchina rubata e quelli che si aspettano il giorno dopo il furto della propria automobile.
        Da questo punto di vista il problema della sicurezza quotidiana – ripeto – nelle case o nelle strade è, in un’area come Napoli, particolarmente importante, perché si intreccia strettamente con tutti gli altri livelli criminali. Quindi occorrono misure nei confronti della criminalità di strada (chiamiamola in questo modo, perché non mi sento più di chiamarla microcriminalità), misure che diano sicurezza e prevedano un intervento proporzionato alla gravità del fatto naturalmente – non deve per forza trattarsi di ergastolo – ma tale da rendere visibile l’attenzione delle forze istituzionali, politiche e di chi ha la responsabilità del governo delle città. Deve essere visibile l’impegno a garantire anche la sicurezza del cittadino comune nei confronti di questo tipo di fatti.
        Sotto il secondo aspetto, credo sia giunto il momento di riflettere sull’opportunità di misure che diano un maggiore spazio nel processo penale all’azione della polizia giudiziaria. Devo dire che troppo spesso vediamo l’azione della polizia giudiziaria schiacciata da quella del sostituto procuratore della Repubblica, il quale arriva – per così dire – troppo presto alla fase del giudizio. Non sono favorevole a ciò che accadeva vent’anni fa, quando dopo due mesi arrivava il rapporto sul tavolo del giudice. Non si tratta di questo: occorre necessariamente una articolazione delle forze di polizia tale da garantire tempi idonei per svolgere il proprio lavoro, dopodiché interverrà la giurisdizione.
        Quindi sono necessarie misure per un verso specificatamente dirette alla salvaguardia degli interessi fondamentali dei cittadini nei confronti della criminalità di strada e, per l’altro verso, dirette ad assicurare alle forze di polizia un ampio spazio di azione, che oggi non c’è assolutamente. Ritengo che questi due dati siano particolarmente significativi per un’azione che garantisca veramente i risultati positivi nella lotta a questo fenomeno.
        Non voglio tralasciare un altro problema, che è quello dell’avvocatura, che è strettamente connesso a questi temi. In una città dove, sommandoli, si sono svolti – credo – anni di scioperi dell’avvocatura – tuttavia, non voglio entrare nel merito e dico ciò con grande rispetto – credo che gli avvocati seri sappiano che si tratta di un problema (Applausi). Non voglio applausi; magari me li fate dopo, se il resto del mio intervento andrà bene (bisogna, però, vedere come andrà a finire il discorso). Ripeto che svolgo questo discorso con grande rispetto nei confronti dell’avvocatura, perché conosco le difficoltà di fare l’avvocato penalista in aree come questa. Questo deve essere ben chiaro. È una difficoltà di cui non si parla, ma che esiste per i giovani avvocati, per quelli più anziani, per tutti.
        Poiché l’avvocatura sta uscendo da una sua marginalità sociale in cui è stata collocata per molto tempo, mi chiedo soltanto se sia possibile avere una riflessione libera da parte della stessa avvocatura sul seguente problema: di che cosa c’è bisogno per garantire seriamente i diritti della persona accusata e quelli della parte lesa (ci sono anche quelli) in un contesto che, però, non proibisca l’accertamento della responsabilità? Se non rispondiamo a questa domanda corriamo il rischio di avere un altro pendolarismo, a seconda delle spinte del momento, delle emozioni e via dicendo. Oggi approviamo leggi che apparentemente sembrano garantiste, poi aspettiamo l’omicidio e dopodiché poniamo in essere una legge repressiva. Si può avere una riflessione costruttiva comune. Reputo particolarmente utile – credo che lei, presidente Del Turco, abbia già pensato a questo – affrontare in modo rigoroso, serio e responsabile questo tipo di problemi. Tutti gli avvocati impegnati su tale tema sanno benissimo che esso riguarda la loro libertà reale, che dobbiamo garantire in tutti i modi, altrimenti quella mediazione tra la libertà reale dell’avvocato e i diritti della persona accusata rischiamo che non sia più utile, e di questo dobbiamo farci carico tutti. I diritti della persona accusata, infatti, non possono essere tutelati soltanto da un ceto professionale: è un problema di democrazia.
        Esiste poi anche il problema di un processo che garantisca l’accertamento delle responsabilità, quando ci sono, altrimenti non si sa che processo sia. Si ha una visione puramente ludica del processo: uno schermo sul quale si gioca una partita indipendentemente dal risultato, che non interessa a nessuno. Credo che questo sia un obiettivo per tutti, anche per i costi penali, civili, economici ed umani del processo. Se fosse possibile, ritengo importante affrontare con rispetto – lo ripeto – il nodo dell’avvocatura in una strategia di lotta al crimine.
        Infine, per quanto riguarda l’ultimo dato, devo dire che questi tipi di strategie, di lotte e di interventi sociali potrebbero essere fortemente rafforzati da un sistema politico che garantisca la stabilità. Sono strategie di medio termine e non di breve termine; le strategie di breve termine sono la misura immediata, che in genere serve a poco, perché dettata dall’emozione e via dicendo. La strategia di medio termine ha bisogno di un sistema politico stabile, nel quale ciascuno possa programmare per tre o quattro anni quello che deve fare. Da questo punto di vista ritengo che vada affrontato con complessivo senso di responsabilità il problema.
        Siamo di fronte alla questione del referendum elettorale, che reputo utile – come ho già detto in altre occasioni – anche se non risolve tutti i problemi esistenti. Quel referendum non risolve i problemi di elezione del Senato; quindi, potremmo avere un sistema fortemente maggioritario – come auspico per la Camera dei deputati – ma con una forte quota proporzionale per il Senato e con maggioranze diverse, che non garantiscono naturalmente la stabilità e neanche la formazione del Governo, ma soprattutto, in base alla nostra Costituzione, quando una maggioranza scelta dagli elettori cade, è dovere di chi ha la responsabilità cercare un’altra maggioranza in Parlamento. E allora, senza una modifica costituzionale che riguardi la forma di Governo, non riusciremo a garantire alcun tipo di stabilità. Dico questo perché, come molti amici sanno, la instabilità politica è una caratteristica fondamentale, a livello regionale, delle zone ad alta densità criminale, perché nella instabilità politica hanno peso i poteri di fatto; quando i poteri legali non funzionano entrano in gioco i poteri di fatto, e la criminalità è un grande potere di fatto, che usa e abusa della instabilità politica per costruire le proprie fortune. Ha sempre fatto così, da più di 50 anni opera in questo modo.
        La stabilità, in una frontiera politico-istituzionale, è importantissima per garantire azioni produttive permanenti nei confronti del crimine organizzato. Dire che tutto si risolve soltanto con una legge elettorale significa, a mio parere, affrontare solo un pezzo di strada. Il problema è che bisogna avere il coraggio di affrontare anche l’altro pezzo. Forse non siamo in grado di mettere a punto strategie straordinarie di riforma del complesso della Costituzione – non so neanche se ce ne sia bisogno – ma se vogliamo davvero garantire le premesse costituzionali perché l’azione di cui parliamo possa svolgersi nella sicurezza dell’Arma dei carabinieri, della Polizia di Stato, della Guardia di finanza, dei magistrati, dei cittadini, di chi si occupa del sociale, dobbiamo far sì che per tre, quattro o cinque anni, per il tempo che poi stabiliremo, vi sia un Governo nazionale, della regione, della provincia, della città, stabile e con determinati programmi, con i quali ci si confronta e si costruisce un percorso di opposizione e di maggioranza. La instabilità politica invece non consente di compiere azioni che abbiano produttività e permanenza. Questo discorso sulla stabilità costruisce l’ambiente istituzionale all’interno del quale si svolgono le politiche specifiche della sicurezza sulle quali mi sono permesso di richiamare la vostra attenzione.
        Vi chiedo scusa per aver sconvolto l’ordine degli interventi previsti, ma alle 14,30 devo essere a Roma per un impegno. Ringrazio ancora il Presidente della Commissione parlamentare antimafia e il Comandante generale dell’Arma dei carabinieri per questa iniziativa che considero eccellente. (Applausi).

        PRESIDENTE. Ringrazio il presidente della Camera, onorevole Luciano Violante e cedo la parola al dottor Gaetano Grasso, consulente della Commissione parlamentare antimafia, il quale svolgerà una relazione sul tema "I presupposti sociali dell’estorsione e dell’usura". Prego anche l’onorevole Argia Albanese di prendere il mio posto sul banco della presidenza.